WWW.BLOGLOBAL.NET NUMERO 18/2013, 19 - 25
B l o Gl o b a l
MAGGIO
2013
We e k l y
RASSEGNA DI BLOGLOBAL OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
BloGlobal Weekly N°18/2013 - Panorama
MONDO - Focus CINA/INDIA - Dopo lo sconfinamento di alcuni militari cinesi avvenuto a Depsang nel Ladakh nordoccidentale lo scorso 23 aprile lungo la LAC (Line of Actual Control), un territorio di confine tra il Karakorum e l’Himalaya di oltre 4.000 km incontrollato e senza una precisa linea di demarcazione, Cina e India sono ritornate a dialogare in occasione della visita di Stato del Premier cinese Li Keqiang a New Delhi dove ha incontrato la controparte locale Manmohan Singh. L’incontro avvenuto lo scorso 20 maggio ha puntato a stabilire una rinnovata fiducia tra le parti con l’obiettivo di impostare una strategia comune di lungo termine che porti i due Paesi a rafforzare le proprie relazioni politiche ed economiche al fine di salvaguardare la stabilità regionale ed internazionale. Come sottolineato da Li, “Cina e India devono impegnarsi a rafforzare la fiducia reciproca, a intensificare la cooperazione e ad affrontare il futuro insieme”, aggiungendo che ciò apporterebbe sviluppo sia per Pechino sia per New Delhi, © BloGlobal.net 2013
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nonché costituirebbe “una benedizione per l’Asia e per il mondo”. Il summit è stato molto proficuo in quanto ha portato alla firma di un documento congiunto articolato in 8 protocolli e che permette di stabilire e raggiungere obiettivi concreti nel breve e medio periodo: affrontare con minor belligeranza le dispute territoriali, intensificare il commercio e gli investimenti bilaterali ed, infine, creare, anche all’interno dei BRICS, un asse sino-indiano in funzione anti-statunitense. In merito al primo punto, sebbene permangano criticità relative ai confini dello Jammu e Kashmir, della regione contesa dell’Aksai Chin e della partnership strategica sino-pakistana, Pechino e New Delhi si sono concretamente impegnate a garantire maggiori facilitazioni nel passaggio e nel pellegrinaggio di devoti indiani ad alcuni templi tibetani. Rispetto all’economia e ai rapporti commerciali – cuore principale della recente intesa –, i due governi si sono impegnati a raggiungere entro il 2015 un interscambio pari a 100 mld $ (oggi pari a 66 mld $ e con un surplus commerciale favorevole a Pechino di ben 28 miliardi). Cina e India hanno firmato anche degli accordi sull’agricoltura, sullo sfruttamento delle risorse idriche (sebbene occorra specificare che qui permangono ancora incertezze in virtù della volontà cinese di costruire tre nuove dighe per alcune centrali idroelettriche in Tibet sul fiume Brahmaputra - noto ai Cinesi come Yarlung Tsangpo - con il rischio di causare variazioni svantaggiose per gli Indiani alla portata del fiume), sullo sviluppo di zone industriali e sulla costruzione di infrastrutture, come quello riguardante la possibilità di creare un corridoio commerciale attraverso Bangladesh e Myanmar. Proprio questo punto scopre uno dei nervi tra i due Paesi, ossia la competizione per la messa in sicurezza delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano e nel Pacifico sud-orientale. Da tempo, infatti, i due governi si stanno contendendo uno strategico e vitale blocco commerciale che riguarda i porti di Chittagong e Sittwe, nei due Paesi sopracitati. Per i Cinesi l’area è vitale in quanto collegamento naturale tra l’Oceano e lo Yunnan, provincia del Sud, nonchè sito deputato a ricevere merci ed energia provenienti dai mercati mediorientali, africani e asiatici. Per gli Indiani, l’area tra Chittagong e Sittwe è strategica per creare, all’interno dei protocolli dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nation), una Zona Economica Speciale e un hub commerciale e industriale necessario, da un lato, a contrastare il soft power cinese e, dall’altro, ad affermarsi come sub potenza regionale. Infine, l’incontro tra Singh e Li è stata l’occasione per discutere della possibilità di creare un asse politico ed economico, anche all’interno dei BRICS, in grado di contrastare e indebolire la leadership globale degli Stati Uniti nelle principali questioni internazionali. Tutto ciò tralasciato, volutamente o meno, una delle questioni di maggiore attrito: la presenza e l’asilo politico concesso da New Delhi al Dalai Lama. GUATEMALA - Lo scorso 21 maggio la Corte Costituzionale del Guatemala ha annullato per vizio di procedura la condanna – pronunciata solo 10 giorni prima – contro l’ex dittatore Efrain Rios Montt a 80 anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità durante gli anni della guerra civile (1960-1996) e che ha provocato oltre 200 mila vittime. Il processo iniziato nel 2006 tra mille difficoltà rischia oggi di dissolversi in una bolla di sapone in quanto non è chiaro quando e come dovrebbe ripartire il procedimento contro l'ex dittatore guatemalteco che al momento si trova ricoverato in un ospedale militare della capitale. L’unica certezza è che lo stato del processo riprenderà, qualora dovesse mai succedere, dalla situazione del 19 aprile scorso quando una controversia tra due magistrati del collegio giudicante ha fatto in modo che la Corte del Guatemala abbia deciso di accogliere il ricorso degli avvocati di Rios Montt. La sentenza della Corte ha tuttavia annullato anche l'assoluzione dell'altro imputato, l'ex capo dei servizi segreti e braccio destro dell’ex Presidente, il generale José Mauricio Rodriguez Sanchez, a giudizio con gli stessi capi d'imputazione. Rios Montt era stato il primo dittatore latino-americano a essere riconosciuto colpevole di genocidio nel corso della sua presidenza (1982-83) in quanto responsabile dei 15 piani militari che hanno portato al massacro di 1.771 indios maya di etnia Ixiles. Sebbene anche la Commissione per la verità storica delle Nazioni Unite abbia riconosciuto l’esistenza di un vero e proprio genocidio perpetrato dai militari ai danni degli indigeni, nel Paese centro-americano sia il potente esercito, sia l’altrettanto influente lobby degli imprenditori e latifondisti del Comité Coordinador de Asociaciones Comerciales, Industriales y Financieras (CACIF) hanno esercitato grosse pressioni e minacce contro le autorità giudiziarie guatemalteche per bloccare il processo e negare qualsiasi esistenza di genocidio nei confronti degli Ixiles. Già eletto Presidente nel 1974 con la piattaforma Democrazia Cristiana e subito deposto dai militari, il generale Ríos Montt salì al potere in Guatemala con un golpe il 23 marzo 1982, deponendo il Presidente democraticamente eletto Fernando Romeo Lucas García, ed é stato a sua volta deposto da un altro colpo di Stato l’8 agosto 1983 da parte del suo Ministro della Difesa, Oscar Humberto Mejìa Victores. Pur avendo governato il Paese per soli
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16 mesi, di fatto l’ex dittatore guatemalteco ha svolto un ruolo politico fino all’anno scorso essendo stato ininterrottamente deputato al Parlamento nazionale dal 1994 al 2012 con il partito di estrema destra Frente Republicano Guatemalteco (FRG). Il caudillo si è sempre difeso ricusando la Corte Costituzionale di essere parziale ed equiparando il suo processo ad uno “show politico internazionale che ferisce l'anima e il cuore dei guatemaltechi”. STATI UNITI - Il 24 maggio il Presidente Barack Obama ha tenuto un atteso discorso alla National Defense Univerity di Washington in cui ha delineato il nuovo orientamento della strategia di sicurezza nazionale e anti-terrorismo, in linea con i principi di giustizia e libertà della Costituzione degli Stati Uniti e del diritto internazionale. Il Commander in Chief ha parlato di droni e di targeted killings (omicidi mirati), della situazione in Siria e della chiusura della base di Guantanamo Bay a Cuba. La parte più attesa era naturalmente quella sui droni in quanto da diversi mesi stampa – vedi il caso delle basi segrete in Arabia Saudita da dove partivano gli attacchi in Yemen contro i membri di AQAP – e opinione pubblica chiedevano conto ad Obama del loro uso sempre più crescente come strumento di lotta anti-terrorismo. Il Presidente ha spiegato che l’utilizzo di tali velivoli, pur sollevando “questioni di ordine legale e morale” è stato utile a combattere ed eliminare “i nemici dell’America”, promettendo tuttavia una loro ridefinizione strategica: non saranno più consentiti i signature strikes, gli attacchi condotti in base all’attività che un individuo sta svolgendo, ma saranno colpiti solo ed esclusivamente tutti coloro che rappresentano una “imminente e continua minaccia per i cittadini americani” e saranno diretti nei confronti di persone che “è impossibile catturare”. Risultano tuttavia essere poco chiari quali saranno i criteri di decisione di un attacco o meno, con il rischio di lasciare piuttosto la materia fumosa e all’arbitrario giudizio del mandante. Obama ha comunque rivendicato gli ottimi risultati ottenuti in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia, dove grazie a queste tecnologie sono stati sventati complotti contro la sicurezza americana e, soprattutto, sono stati indeboliti i nemici qaedisti. A tal proposito, un recente studio del Bureau of Investigative Journalism ha rivelato che tra il 2004 e il 2013, gli USA hanno compiuto più di 300 attacchi con droni in Pakistan e, dal 2002, tra i 46 e i 56 attacchi in Yemen, provocando oltre 3500 vittime; la maggioranza di queste missioni sono avvenute durante i mandati di Obama. Inoltre, il Presidente ha detto di voler trasferire gradualmente il potere decisionale sugli omicidi mirati dalla CIA all’esercito. Questa decisione riguarda le operazioni in Pakistan, che sono gestite dai servizi segreti, mentre quelle in Yemen e in Somalia sono sotto il controllo del Comando congiunto delle operazioni speciali (l’esercito). Il discorso di Obama è poi proseguito sulla Siria e sull’ammissione ufficiale sull’utilizzo da parte di Assad di armi chimiche contro la popolazione civile. Infine una puntualizzazione sulla questione della base di Guantanamo Bay a Cuba: dal gennaio 2011 durava un blocco sui trasferimenti all'estero dei detenuti giudicati di “basso livello” e “pericolosità limitata”, in particolare quelli di nazionalità yemenita, che sarebbero potuti essere riconsegnati alle autorità locali. Degli attuali 166 inquilini del carcere di massima sicurezza, 86 sono stati finalmente giudicati pronti per il trasferimento, 56 dei quali proprio appartenenti al Paese mediorientale. SVEZIA - Per il quinto giorno consecutivo, la città di Stoccolma è stata al centro di scontri e violenze tra masse di giovani disoccupati, immigrati regolari e clandestini e forze dell'ordine. Sebbene in questi giorni le violenze si siano allargate anche a Malmö, città svedese del Sud a forte immigrazione clandestina, e nonostante i richiami del Premier conservatore Fredrik Reinfeldt ad una “maggiore cooperazione e alla calma”, la situazione non sembra rientrare, lasciando trasparire piuttosto una certa impotenza e incapacità delle autorità svedesi nel riportare l’ordine nella capitale e nelle sue periferie povere. Secondo le ricostruzioni della tv pubblica svedese, la rivolta è sorta la sera del 19 maggio a Husby, periferia sud di Stoccolma, dopo che la polizia aveva ucciso un sessantanovenne armato che aveva minacciato gli agenti con un machete, scatenando così la rabbia dei giovani del posto e a cui si è immediatamente aggiunta anche la protesta degli immigrati (per lo più turchi, libanesi, siriani, iracheni, afghani e somali) per le difficili condizioni di vita della zona e per quello che da loro viene definito “razzismo strutturale”. Le zone più colpite dalle violenze sono state Ionata, Rinkeby, Norsborg, Alvsjö, Tensta, Kista e Sodertalje, periferie nord e sud della capitale svedese, che hanno visto il diffondersi di gravi episodi contro i simboli dell’integrazione dello Stato, come gli incendi a scuole e ad asili. Le violenze di questi giorni in Svezia sono figlie del sempre più evidente disagio sociale che cova da circa vent’anni complice anche un sistema di welfare in crisi, un meccanismo di sussidi ormai insostenibile, una disoccupazione forte – che equivale
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al 16% per i cittadini non svedesi, mentre è pari al 6% per gli autoctoni – e, infine, delle ondate migratorie che hanno messo in ginocchio il sistema di asilo e di accoglienza del Paese scandinavo. Con il 15% della popolazione di origine extraeuropea, la Svezia è stata negli ultimi anni il quarto Paese più desiderato al mondo tra i richiedenti asilo (nel 2012 ben 44 mila richieste, +50% rispetto all’anno precedente). Solo due mesi fa il Ministro dell'Immigrazione, Tobias Billström, aveva affermato che “la Svezia ha bisogno di rafforzare le leggi per i richiedenti asilo e altri potenziali immigrati, al fine di ridurre il numero di persone che arrivano nel Paese”, poiché tale situazione “non è più sostenibile”. Secondo l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), infatti, la Svezia è il Paese, tra tutti gli Stati aderenti, dove negli ultimi 25 anni è maggiormente cresciuta la disuguaglianza e, in particolare, quella tra gli immigrati. Questa inquietudine sociale ovviamente ha prodotto dei risvolti anche dal punto di vista politico, in quanto ha favorito l’emergere e il radicarsi di fenomeni di razzismo violento e xenofobo e l’istituzionalizzazione di partiti di estrema destra come Sweden Democrats che, nel tempo, sono diventati la terza forza politica del Paese e che si ritiene che nelle prossime elezioni generali del 2014 accrescano ulteriormente la rappresentanza parlamentare cavalcando, appunto, la retorica nazionalista e anti-immigrazione che la Svezia sta tragicamente vivendo.
MONDO - Brevi IRAN, 21 maggio – Il Consiglio dei Guardiani, l’organo preposto alla valutazione delle candidature pervenute per le elezioni del prossimo 14 giugno e fedele alla Guida Suprema Khamenei, ha annunciato l’esclusione dalla corsa elettorale dell’ex Presidente Akbar Hashemi Rafsanjani e di Esfandiar Rahim Mashaei, consuocero e uomo di fiducia dell’uscente Mahmud Ahmadinejad. Se per il primo la motivazione ufficiale addotta è stata l’età (79 anni), per il secondo non è stato emesso alcun parere, anche se la bocciatura di entrambi si spiega evidentemente alla luce dei motivi di attrito con lo stesso Ayatollah: Rafsanjani, che guidò il Paese dal 1989 al 1997 facendolo uscire dall’isolamento internazionale grazie anche ad un’apertura all’economia di mercato, e che anche in questo caso sembrava potesse essere la persona che avrebbe potuto mettere d’accordo le istanze riformiste e moderate, era stato già criticato dalla Guida Suprema per aver simpatizzato per l’Onda Verde del 1999; Meshaei, invece, già accusato di mettere in discussione il ruolo del clero, sarebbe visto come uno tra gli artefici del progressivo allontanamento tra lo stesso Khamenei e Ahmadinejad. Dei 680 che hanno presentato la propria candidatura, dunque, concorreranno solo in 8: il favorito sembra essere Sayyid Jalili, capo negoziatore per il nucleare e figura molto vicina a Khamenei, seguito dal sindaco di Teheran Mohammed Baqer Qalibaf e dall'ex Ministro degli Esteri Ali Akbar Velayati. In corsa, infine, anche Hassan Rohani (un religioso rafsanjaniano), Mohsen Rezaei (formalmente indipendente ma consigliere di Khamenei ed ex capo dei Pasdaran) e Mohammad Reza Aref (ex vicepresidente dell’area riformista marginalizzata dopo la repressione del 2009). LIBIA, 22 maggio – Il Ministro degli Interni in carica dallo scorso dicembre, ed ex capo della polizia a Bengasi, Ashour Shuail, ha rassegnato le proprie dimissioni: ufficialmente motivata dal portavoce del dicastero, Majdi al Ourfi, per motivi personali, tale decisione sarebbe stata dettata non solo dal fallimento del contenimento delle formazioni terroristiche che agiscono nel Paese, ma anche dal generale clima di instabilità acuitosi all’indomani dell’approvazione della controversa legge sull’isolamento politico. Al suo posto il Primo Ministro Ali Zeidan ha nominato Mohamed Khalifa Cheikh, già consigliere del Congresso Generale Nazionale per le questioni di sicurezza. Intanto, mentre proprio il clima di insicurezza sta spingendo numerosi investitori ad abbandonare il Paese (dopo la notizia del ritiro parziale del personale diplomatico britannico è giunta la notizia che il colosso petrolifero BP ha iniziato a lasciare alcuni uffici della capitale), l’Unione Europea ha dato il via libera alla missione “EUBAM-Libia”: con un mandato biennale, un budget di 30 milioni di euro e - secondo quanto dichiarato da Catherine Ashton - approvato sulla base delle dirette richieste di aiuto da parte del governo libico, il programma si prefigge di aiutare il Paese nel controllo dei 4300 Km di confine. MYANMAR, 20 maggio – Il Presidente Thien Sein si è recato in visita negli Stati Uniti: si è trattato della prima volta dopo quasi cinquant’anni di un capo di Stato birmano a Washington (l’ultimo fu Ne Win nel 1966). Con l’occasione Barack Obama non solo ha ricordato come lo stesso Sein si stia impegnando nel miglioramento dei rapporti bilaterali appianando le “significative tensioni” intercorse tra i due Paesi nel corso dell’ultimo mezzo secolo, ma ha anche confermato il sostegno statunitense al cammino delle
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riforme intrapreso dal Paese asiatico (negli ultimi due anni sono stati liberati molti prigionieri politici - alcuni dei quali proprio un paio di giorni prima dell’incontro -, reintegrati poi nella vita politica, ad iniziare da Aung San Suu Kyi), sebbene da questo punto di vista restino ancora numerosi i passi da fare: in particolare l’arresto dell’ondata di violenze nei confronti della minoranza musulmana Rohingya. Ad ogni modo, il riconosciuto impegno sulla strada della democratizzazione ha fatto sì che gli USA abbiano rimosso gran parte delle sanzioni economiche e commerciali, cosa che tuttavia è costata diverse critiche ad Obama: secondo diverse associazioni, questi non avrebbe fatto realmente luce sulle violenze ancora in atto nel Paese concentrandosi solo sui vantaggi economici che un Paese emergente come il Myanmar potrebbe rappresentare per gli USA. NIGER, 23 maggio – Due autobombe sono esplose nel nord del Niger, nei pressi della base militare di Agadez e davanti al sito di Arlit della multinazionale francese Areva provocando almeno 23 morti - di cui soprattutto militari - e una cinquantina di feriti. Secondo il portavoce del Katiba dei Mulathamin’ (Brigata dei firmatari col sangue), El-Hassen Ould Khalil, l’aggressione sarebbe stata orchestrata congiuntamente con il Movimento per l’unità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) - gruppo islamista legato ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) - e direttamente coordinato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, autore dell’attentato al sito gasifero di In Amenas dello scorso gennaio (ed erroneamente ritenuto ucciso in marzo) ufficialmente per rivendicare l’uccisione di Abu Zeid, uno dei leader di AQMI ucciso in un raid nel nord del Mali in febbraio. In realtà, proprio le modalità di esecuzione dell’attentato e la stessa tipologia di obiettivo rispetto all’attacco di gennaio, lasciano pensare ad una nuova ramificazione in atto dei gruppi terroristici - come aveva preventivato il Presidente francese Hollande a causa della presenza di vasti giacimenti di uranio nel territorio in questione - oltre i confini maliani e diretta a colpire le economie dei Paesi africani coinvolti, nonché della stessa Parigi direttamente impegnata in Africa Occidentale. Come confermato dal Ministro della Difesa nigerino, Karidjo Mahamadou, il rapido riposizionamento delle forze francesi ha permesso di catturare combattenti nascosti nella caserma di Agadez riportando la situazione sotto controllo. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO, 20 maggio – Con un attacco nei confronti delle forze armate governative nel villaggio di Mutaho, a nord di Goma (capitale del Nord Kivu), in cui sarebbero rimaste uccise almeno 20 persone, sono ripresi gli scontri tra i ribelli del Movimento 23 Marzo (M23) e le forze militari di Kinshasa (FARDC), rompendo di fatto la tregua raggiunta alla fine dello scorso mese di novembre. Se da un lato il portavoce dell’esercito congolese, Oliver Hamuli, ha dichiarato che i ribelli avrebbero attaccato per primi le postazioni delle forze di sicurezza del governo centrale con l’obiettivo di raggiungere Mugunga - principale porta di accesso alla città di Goma - tagliando di fatto le vie di rifornimento per l’esercito, dall’altro Bertrand Basimwa, capo politico del M23, ha accusato le FARDC di aver unilateralmente bombardato le loro posizioni. Tutto ciò è avvenuto a poche dall’arrivo del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, che una volta lì ha annunciato una possibile accelerazione del dispiegamento della Brigata d’intervento ONU approvata dal Consiglio di Sicurezza lo scorso 28 marzo, composta da 3069 uomini provenienti da Malawi, Tanzania e Sudafrica con lo scopo di sostenere (militarmente) la missione ONU di peacekeeping già presente sul territorio (MONUSCO). Si spiegherebbe così l’attacco da parte dell’M23, che avrebbe voluto “bruciare sul tempo” il posizionamento delle nuove forze di sicurezza, occupando la città di Goma e acquistando un vantaggio strategico. SERBIA/KOSOVO, 21 maggio – Dopo lo storico accordo raggiunto il 19 aprile, Serbia e Kosovo sono tornati a sedersi al tavolo delle trattative per trovare una nuova intesa per la concreta attuazione dei 15 punti di cooperazione individuati il mese scorso. Il Capo della Diplomazia europea, Catherine Ashton, incaricata di mediare questa importante partita politica, ha annunciato che i dettagli del nuovo accordo saranno definiti e resi noti entro i primi giorni di giugno. Il punto più caldo ha riguardato l’implementazione del parziale smantellamento delle strutture di polizia serbe nel nord del Kosovo, che dovrebbero confluire in quelle kosovare, pur restando a Belgrado la prerogativa di nominare il comandante dei distretti a maggioranza serba. La stessa cosa avverrà per i tribunali, anche se in tal caso verrà costituita una speciale Corte che valuterà i reati commessi dagli stessi Serbi. Si tratta, insomma, del più grande grado di autonomia che una minoranza (quella serba nel nord del Kosovo) avrebbe in Europa. Entro il 15 giugno, inoltre, Belgrado e Pristina dovranno mettersi d’accordo su temi quali l’energia e le telecomunicazioni. Entrambi i Paesi, tuttavia, si trovano a dover far fronte alle resistenze interne contrarie a qualsiasi tipo di accordo e, in particolare, a quelle degli stessi abitanti delle zone di confine che hanno chiesto un referendum. Con Belgrado, peraltro, con un occhio sempre attento alle spinte indipendentiste sempre più forti anche in Voivodina.
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SIRIA, 22 maggio – Si è svolto ad Amman, in Giordania, il nuovo vertice Amici della Siria, in cui i Paesi sostenitori dell’opposizione siriana hanno non solo ribadito che non c’è un futuro della Siria con “Assad, il suo regime e i suoi sodali”, ma hanno anche discusso circa la convocazione di una Conferenza internazionale a guida ONU come proposto dal Segretario americano Kerry e dal Ministro degli Esteri russo Lavrov. Proprio la Russia ha nelle ultime ore annunciato che Damasco sarebbe disponibile in linea di principio a partecipare a “Ginevra 2”, anche se lo stesso Assad - in risposta alla proposta della Coalizione Nazionale Siriana circa una fase preliminare di transizione - ha escluso la possibilità di lasciare la guida del Paese prima delle elezioni del 2014. Proprio la CNS, che peraltro per la prima volta dall’inizio del conflitto non è stata invitata a partecipare al summit a causa della complessità della sua composizione, si trova sempre più divisa, come conferma la proposta del suo Presidente uscente Moaz al-Khatib di garantire un salvacondotto ad Assad in cambio della cessione del potere al vicepresidente Faruk al Shara o al Premier Wael al Halki. E mentre la prossima settimana USA e Russia continueranno a lavorare sulla strada della Conferenza discutendo anche della possibile partecipazione dell’Iran, continuano le battaglie sul campo e, in particolare, intorno alla città di Qusayr, dove si fronteggiano i ribelli e le forze lealiste sostenute dal movimento libanese di Hezbollah. Proprio nelle aree settentrionali del Libano il conflitto si sta allargando a macchia d’olio: nella città di Tripoli proseguono da giorni gli scontri tra miliziani sunniti e alawiti. TUNISIA, 19 maggio – È di almeno un morto e 15 feriti il bilancio degli scontri scoppiati a Ettadhamen, alla periferia di Tunisi, tra gruppi salafiti e forze di sicurezza tunisine intervenute per disperdere un assembramento dello stesso movimento sceso in strada per manifestare dopo la decisione da parte del governo centrale di vietare al movimento radicale di Ansar al-Sharia, accusato di sostenere apertamente al-Qaeda, di tenere il congresso annuale nella città di Kairouan, poiché costituirebbe una minaccia per l’ordine pubblico. Scontri si sono segnalati anche a Douar Hicher (dove i salafiti conterebbero ora su più di qualche centinaia di uomini), a Ben Arous e all'Ariana. Il Primo Ministro Ali Larayedh, subentrato alla fine di febbraio al dimissionario Hamadi Jebali dopo l’instabilità scatenata dopo l’assassinio di Chokri Belaid, ha dichiarato che le forze di sicurezza hanno arrestato circa 200 persone, tra cui il portavoce del movimento, Seifeddine Rais, e che il governo sarà inflessibile nel punire qualsiasi corrente estremista.
ANALISI E COMMENTI IL DESTINO DEL GIAPPONE ALL’OMBRE DEGLI EQUILIBRI IN ESTREMO ORIENTE di Maria Serra – 21 maggio 2013 Facendo proprie le teorie del “sea power” – e più in generale talassocratiche – del contrammiraglio Alfred Mahan, all’inizio del Novecento il senatore americano Albert Beveridge affermava che “chi domina il Pacifico domina il mondo”: un’affermazione quanto mai attuale se si considera non solo il progressivo sganciamento degli stessi Stati Uniti dal Medio Oriente operato sotto l’Amministrazione Obama in favore del cosiddetto “Pivot to Asia”, ma anche e soprattutto la corrente crisi nordcoreana, lo stato dei rapporti tra le potenze che si affacciano sul grande Oceano e – in maniera più ampia – le ambizioni e la coscienza territoriale che ciascuno di questi attori nutre oltre i confini già tracciati. Ambizioni che d’altra parte vengono alimentate dalla necessità sia di trovare una collocazione “favorevole” a livello regionale (e dunque internazionale), sia di far fronte ad istanze – di natura anzitutto economica – interne. È solo in questa prospettiva di ampio respiro che – prendendo in considerazione uno Stato che resta sempre piuttosto riparato dai “clamori” che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’Estremo Oriente – si può comprendere a pieno il “cipiglio nazionalista” con cui il neo-Primo Ministro giapponese Shinzo Abe si è presentato di fronte al proprio popolo e alla comunità internazionale lo scorso dicembre: “ricostruiremo l’economia, ricostruiremo il Giappone”, una frase non troppo diversa da quella pronunciata dall’ex Premier Ryutaro Hashimoto all’indomani del G7 di Tokyo del 1998 nel pieno della crisi economica asiatica della fine del Secolo, o da quella di Naoto Kan pochi giorni dopo lo tsunami del 2011 che tagliò le ali ai piani di rilancio del Giappone (anche in senso militare – era di fresca approvazione il nuovo Programma di Difesa Nazionale) nell’Asia-Pacifico. [continua a leggere sul sito]
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LA POLITICAL ISOLATION LAW: UN AUTOGOL PER LA LIBIA? di Marta Ciranda – 23 maggio 2013 I Libici, si sa, adorano il calcio: e ammirano in particolare quello nostrano. I caroselli di auto abbondano, a Tripoli, per festeggiare l’ultimo successo dell’una o dell’altra squadra, in questo o in quel campionato. Nelle scorse settimane, però, il paesaggio urbano si è un po’ modificato: niente automobili in festa, ma pick up – a bordo giovani thuwwar, spesso armati di fucile – ad assediare i Ministeri. Si trattava, in ogni caso, di un’importantissima partita: in palio, il futuro non di una squadra, ma di una nazione intera. Una partita che – col senno di poi – appare più zeppa che mai di autogol. Perché tanto movimento per le strade? Perché tante armi in giro, perché tanta tensione? I “rivoluzionari” – ma chi può dire chi di loro ha combattuto davvero e chi si è, solo in seguito, gettato nella mischia? – sono scesi per le strade, sotto i luoghi del potere, a chiedere una sola cosa: l’approvazione della tanto discussa, tanto criticata, e da loro, forse, idealizzata Political Isolation Law, da parte del GNC – General National Congress. Almeno in teoria, l’obiettivo della Political Isolation Law – approvata, infine, a grandissima maggioranza, il 5 maggio – è più che nobile: creare una Libia nuova, libera davvero da ogni legame con un passato scomodo, allontanando dalle cariche pubbliche presenti e future tutti coloro i quali abbiano avuto incarichi nel corso dei quarant’anni di regime del Colonnello Gheddafi, o che, pur non avendone rivestiti, si siano macchiati di crimini di corruzione o contro i diritti umani. [continua a leggere sul sito]
LE VIGNETTE DI BLOGLOBAL di Luigi Porceddu
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