ISSN: 2284-1024 NUMERO 2/2014, 19-25 GENNAIO 2014 WWW.BLOGLOBAL.NET
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RASSEGNA DI BLOGLOBAL OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
BloGlobal Weekly N°2/2014 - Panorama
MONDO - Focus EGITTO – Una serie di attentati hanno insanguinato il terzo anniversario della caduta del regime trentennale di Hosni Mubarak. Gli attacchi, rivendicati poche ore dopo dai gruppi jihadisti attivi nel Sinai di Ansar Beyt al-Maqdis e da Ansar Jerusalem, hanno provocato la morte di diciannove persone e circa un centinaio sono rimaste ferite. Gli attentati – in tutto sei – sono avvenuti nelle giornate del 23, 24 e 25 gennaio colpendo Il Cairo e i suoi immediati dintorni (Bani Suef e Giza). Obiettivi degli attacchi sono stati sia i simboli del potere (le caserme della polizia e il quartier generale delle forze di sicurezza), sia i punti di ritrovo molto affollati (cinema e metropolitane). Oltre a far scattare l'allerta sicurezza, immediata è stata a risposta di ferma condanna sia da parte del governo, sia da parte della popolazione che è subito scesa in piazza per inneggiare al generale Abdel Fattah al-Sisi, “l’unico uomo in grado di salvare l’Egitto dal caos”. Nonostante l’endorsement popolare e politico – infatti © BloGlobal.net 2014
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oltre a Mansour e Beblawi nelle ultime ore è giunta l’investitura ufficiale anche da parte di Amr’ Moussa, il Presidente della Commissione dei 50 saggi –, il Ministro della Difesa non ha ancora chiarito se concorrerà o meno alle prossime elezioni presidenziali. Manifestazioni e proteste che già poche ore dopo gli attentati sono state dirette contro i Fratelli Musulmani, ormai ritenuti, dopo la loro messa al bando come organizzazione terroristica (25 dicembre scorso), la principale causa di instabilità nel Paese. Puntuale anche la risposta dei pro-Mursi e della variegata costellazione di forze anti-governative, non solo islamiste, che sono scesi nelle strade di tutto il Paese. I diversi cortei organizzati nella capitale, Alessandria, Fayyum, Damietta, Minya, Suez, Giza, Bani Suef e Port Said sono venuti a contatto tra di loro provocando violenti scontri con le forze armate: secondo i dati ufficiosi diffusi dal Ministero della Salute, e confermati anche dal Dicastero dell’Intero, nella sola giornata del 25 gennaio ci sono stati 49 morti e oltre 170 feriti, anche se il numero è probabilmente destinato a salire. Fonti di sicurezza, inoltre, hanno affermato che nelle ultime 48 ore sono state arrestate circa 750 persone. La Comunità internazionale ha condannato gli atti di terrorismo mettendo in allerta gli stranieri presenti nel Paese, invitandoli alla massima prudenza e ad evitare luoghi affollati, come metropolitane e zone ad alto rischio. Jay Carney e Jen Psaki, portavoce di Casa Bianca e Dipartimento di Stato USA, hanno invitato gli Egiziani a mettere “fine alle violenze di queste ore e a esercitare moderazione in occasione del terzo anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir”. Intanto il Sinai è sempre più nel caos. Quattro soldati egiziani sono stati uccisi e nove altri risultano feriti in una serie di attacchi contro l'esercito nel nord della penisola. Secondo France Press, che ha riportato le testimonianze di alcuni uomini che avrebbero assistito all’attacco, gli assalitori indossavano divise simili a quelli dei militanti di Ansar Beit al-Maqdis. Altri militanti di al-Qaeda hanno rivendicato inoltre l'abbattimento di un elicottero delle Forze Armate egiziane che aveva provocato la morte di 5 soldati. Così a una settimana dal referendum sulla Costituzione che ha visto, di fatto, un sì plebiscitario (ma con una bassa partecipazione), il Paese sembra ripiombare nella stagione degli attentati degli anni Ottanta e Novanta. PANAMA – Alcuni avvenimenti stanno riportando in auge una questione che sembrava chiusa ormai centinaia di anni fa: il Canale di Panama. La vicenda che riguarda il Canale più famoso al mondo comincia alcuni anni fa, precisamente nel 2009, quando il consorzio GUPC (Grupo Unidos Por el Canal), cui partecipa anche l’italiana Impregilo con una quota del 38%, si aggiudica l’appalto per l’ampliamento del Canale di Panama: il progetto prevede di raddoppiare la capacità di traffico del canale, e di conseguenza anche le entrate fiscali dello stato panamense. Il consorzio si aggiudica la commessa presentando un’offerta pari a 3,2 miliardi di dollari, più bassa di 1 miliardo circa dell’offerta seconda qualificata, quella dell’americana Bechtel, la cui richiesta superava i 4 miliardi. Ora, a lavori ormai avviati, l’amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, ha comunicato all’ACP (Autoridad del Canal de Panama) che, per concludere l’opera sarà necessario rivedere il prezzo finale, che dovrebbe aumentare di 1,6 miliardi di dollari. L’aumento delle pretese contrattuali è dovuto agli errati rilevamenti geologici forniti dall’ACP relativi al terreno e alle specifiche tecniche dei materiali, secondo quanto spiegato dai tecnici di Impregilo. Non si è fatta attendere la reazione del numero uno dell’ACP, Jorge Quiliano, che ha accusato il GUPC di scarsi controlli di qualità e dichiarato le pretese fuori dallo schema contrattuale e quindi impossibili da accettare, minacciando addirittura di riprendere il controllo del progetto. Lo stesso Presidente panamense Ricardo Martinelli, durante il World Economic Forum di Davos, ha cercato di tranquillizzare gli investitori internazionale affermando che Panama porterà a termine il progetto, senza ritardarne ulteriormente il completamento. Per tutta risposta, Pietro Salini ha minacciato di sospendere i lavori e ricorrere all’arbitrato internazionale, se non verranno riconosciuti i costi aggiuntivi. Al momento il clima di tensione e di attesa sembra essere confermato dall’atteggiamento della Sacyr Vallehermoso, alla guida del consorzio GUPC: la società spagnola, infatti, pur avendo perso, all’indomani del match tra Salini e Quijano, quasi il 9% del suo valore alla Borsa di Madrid, è rimasta in silenzio. La soluzione potrebbe venire da una proposta fatta dalla compagnia svizzera Zurich, che detiene le garanzie bancarie sull’opera: Zurich ha proposto di trasformare la fideiussione di 600 milioni di dollari in un prestito a favore di GUPC, mentre l’ACP, che finora ha sborsato circa 2,7 miliardi di dollari, dovrebbe sbloccare i rimanenti 500 milioni per permettere la ripresa dei lavori. Con la proposta di Zurich e GUPC riceverebbe circa 1,1 miliardi dollari che le permetterebbero di portare avanti l’opera, in attesa che si risolva il contrasto con le autorità del Canale. Proprio attorno a questa proposta, dal 23 gennaio ACP e GUPC, cui partecipano oltre all’italiana Impregilo e alla spagnola Sacyr anche la belga Jan de Nul e la panamense CUSA, stanno discutendo un protocollo di negoziazione che si riunirà fino
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al 1° febbraio per trovare la soluzione di lungo termine adatta ed evitare di bloccare ulteriormente i lavori di espansione del Canale di Panama. La data stimata per il completamento dei lavori, prevista per giugno 2015, sembra però allontanarsi proprio quando manca poco più di un anno al raggiungimento del traguardo. Il Canale di Panama è il choke-point più famoso al mondo: costruito tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo rappresenta uno snodo commerciale importante per il commercio mondiale, permettendo alle navi che vanno dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico e viceversa di evitare di circumnavigare l’America del Sud. Il Canale è attraversato da migliaia di navi all’anno e permette il passaggio di circa 200 milioni di tonnellate di cargo: inutile dire che il pedaggio dovuto per la navigazione rappresenta la principale fonte dell’economia panamense. SIRIA – La Conferenza di Ginevra 2 sulla Siria si è infine aperta il 22 gennaio senza la partecipazione dell’Iran. Inizialmente il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, aveva annunciato che Teheran avrebbe presenziato al tavolo delle trattative. In realtà, è stato poi costretto a ritirare l’invito dietro pressioni degli Stati Uniti e di altri Paesi (in particolare Arabia Saudita, Francia e Regno Unito). Infatti, la presenza iraniana era subordinata alla sua accettazione degli accordi di Ginevra 1, siglati nel 2012. Ban Ki-moon così dichiarava che “ho chiesto a Teheran di partecipare. Anche loro concordano sul fatto che lo scopo del negoziato è d’instaurare a Damasco un governo di transizione”. Sembrava che su queste basi un’intesa tra Washington e Teheran fosse stata raggiunta. L’Iran, incassato l’invito dell’ONU, ha però fatto retromarcia, affermando di non volere accettare condizioni preliminari. L’opposizione siriana ha così avuto buon gioco ad affermare che, con questo scenario, “se si presentano gli iraniani, non ci presentiamo noi”. Gli Stati Uniti, spalleggiati da Francia, Arabia Saudita e Regno Unito, hanno spinto Ban Ki-moon, che si è detto “costernato” e “deluso” per il dietrofront iraniano, a ritirare l’invito. D’altro canto, il Segretario di Stato John Kerry era riuscito a convincere l’opposizione siriana a partecipare alla Conferenza proprio garantendo loro che ogni soluzione, se e quando raggiunta, “non comprende Assad. Se pensa di far parte del futuro, deve sapere che non succederà”. Gli uomini del regime di Damasco si sono presentati a Ginevra non certo disposti ad abbandonare il loro uomo forte, sostenuto a gran voce dai russi; semmai al centro delle discussioni auspicavano vi fossero più semplici (e meno impegnative) questioni umanitarie. La Conferenza sin dalle prime battute ha mostrato profonde crepe tra i delegati del regime e quelli dell’opposizione, che si sono scambiati dure accuse. Il Ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallem accusava l’opposizione di essere composta da “macellai”, mentre questi replicavano definendosi “liberatori” e indicando in Assad il “magnate del terrorismo”. È intervenuto in funzione di mediatore l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Lakhdar Brahimi, che ha incontrato separatamente le due fazioni con lo scopo di siglare tregue parziali e di aprire corridoi umanitari. Al termine dell’incontro preliminare, in cui Brahimi ha spiegato le ragioni della sua azione diplomatica, opposizione e regime hanno accettato di sedersi al tavolo per colloqui diretti per la prima volta dall’inizio della guerra civile con il fine di dialogare sull’apertura di possibili corridoi umanitari nella città martire di Homs e nelle aree del nord del Paese dove scorre il fiume Yarmouk. I colloqui sono quindi iniziati sabato 25 gennaio e, pur senza raggiungere significativi risultati, potrebbe essere un buon viatico per proseguire le trattative diplomatiche con obiettivi più ambiziosi. Nel frattempo, Kerry ha nuovamente ribadito che gli Stati Uniti ritengono il regime di Assad colpevole di “aver usato armi chimiche” e, nonostante l’accordo mediato dalla Russia sulla distruzioni di tali armamenti, ha affermato che “l’opzione militare resta sul tavolo”. Muallem, con il sostegno di Mosca, ha risposto, pur senza far nomi, che a Ginevra “sono presenti Stati che hanno le mani sporche di sangue. Nessuno ha il diritto di conferire o ritirare la legittimità di un presidente o di una costituzione, ad eccezione dei siriani stessi”. In questo clima generale, non certamente disteso, la Conferenza proseguirà nei prossimi giorni. Benché obiettivi ambiziosi difficilmente verranno raggiunti, i diplomatici occidentali hanno auspicato di poter raggiungere un cessate-il-fuoco per continuare poi, con armi silenti, il dialogo tra le due fazioni in lotta. UCRAINA – Dopo l'ondata di proteste di dicembre seguite alla mancata firma dell'Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l'Unione Europea, a Kiev si è tornato nuovamente a manifestare contro Victor Yanukovich. A scatenare le proteste è stata l'approvazione di un pacchetto di leggi contro le manifestazioni: 10 anni di carcere per chi occupa gli edifici pubblici, pene severe per chi organizza presidi in strada e per chi protesta a volto coperto. Si tratta di un "passo verso la dittatura" secondo il leader dell'opposizione, ancora in carcere, Yulia Timoshenko, un "pericoloso ritorno al passato" secondo Stati Uniti e UE: mentre
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Washington ha annunciato di aver ritirato i visti ai responsabili delle violenze, Bruxelles starebbe prendendo in considerazione l'adozione di sanzioni se non verrà disinnescata l'escalation di tensioni. A spingere verso il pugno duro sarebbero soprattutto Svezia e Lituania, mentre l'Ambasciatore russo presso l'UE Vladimir Chizhoz ha invitato Bruxelles a non prendere decisioni affrettate e di aspettare, semmai, il risultato delle indagini sulle morti avvenute durante gli scontri di piazza tra manifestanti e forze di sicurezza. Sono salite a 6 le vittime dopo l'uccisione di un poliziotto che tornava in un dormitorio delle Forze Speciali "Berkut". Francia e Germania, dal canto loro, hanno convocato i rispettivi Ambasciatori ucraini; il Sottosegretario agli Esteri italiano Marta Dassù dovrebbe incontrare l'Ambasciatore Peleregyn. Malgrado l'apparente dietrofront delle ultime ore del Presidente Yanukovich - che dopo un incontro con il Commissario all'Allargamento Štefan Füle ha dichiarato di essere disposto a rivedere la legge anti-proteste, ad operare un significativo rimpasto di governo del Premier Mykola Azarov e a concedere un'amnistia per tutti coloro che nel corso dell'ultima settimana abbiano commesso reati non gravi - a Piazza Maidan continuano i sit-in e le manifestazioni. Rotta la breve tregua che durava dal 23 gennaio dopo la scadenza dell'ultimatum posto da Vitali Klitschko, uno dei leader della protesta, e rifiutata la proposta di un governo di coalizione a guida delle opposizioni, i cortei si sono ora allargati anche ad altre aree del Paese: oltre alle regioni orientali russofone, su cui Mosca riesce ad esercitare un certo grado di influenza, i manifestanti hanno preso d'assalto i Palazzi regionali di 5 province occidentali e centrali (Leopoli, Rivne, Ternopil, Khmelnytsky e Cherkassy) filo-occidentali. Una situazione, questa, che mette in evidenza come il popolo ucraino non solo stia chiedendo un significativo cambiamento di rotta del proprio governo, ma anche che stia provando a giocare al rialzo con Bruxelles, incitandola in qualche modo ad alzare il livello degli aiuti e dei vantaggi che potrebbero provenire da un'integrazione nello spazio comunitario. Azarov da Davos, ha parlato di "tentativo di colpo di Stato" da parte di un "gruppo ristretto di estremisti", scongiurando, per il momento, l'adozione dello stato di emergenza. Resta comunque alta l'allerta nelle zone strategiche del Paese e in particolar modo intorno alle centrali energetiche e ai Ministeri chiave, come quello dell'Agricoltura e dell’Energia, presi d'assalto nella giornata del 24 gennaio.
MONDO - Brevi AF-PAK, 22 gennaio – Non accennano a diminuire le difficoltà politico-militari per gli occidentali nell’area dell’Af-Pak. Il governo di Kabul ha recentemente pubblicato un dossier che condanna i “crimini” compiuti dalle forze ISAF, in particolare quelli commessi dagli Stati Uniti, verso la popolazione civile. Il Rapporto, destinato ad avere importanti risvolti politici, mostra crudamente edifici distrutti e corpi martoriati e sanguinolenti (senza prova di autenticità) accreditando le responsabilità ai raid statunitensi. Il New York Times ha rivelato che lo stesso materiale, con evidenti fini di propaganda, era già stato pubblicato dai talebani sul proprio sito web. Lo scopo del dossier è quello di giustificare il ritardo da parte del Presidente Hamid Karzai nel firmare l’accordo di sicurezza strategico con Washington, che prevede un ruolo di lotta al terrorismo per gli Stati Uniti nell’Afghanistan post-2014. Il governo ha recentemente pubblicato comunicati in cui si fa trapelare che la colpa della guerra nel Paese sia interamente responsabilità degli USA. I diplomatici europei ed occidentali hanno interpretato tali segnali come ulteriori prove che Karzai non ha alcuna intenzione di giungere ad un accordo di sicurezza con l’Occidente. Nel frattempo, in Pakistan proseguono i tentativi di dialogo tra i talebani del gruppo Teherek-e-Taliban e il governo di Islamabad: a seguito di un comunicato dei primi in cui si invitava ai negoziati, i governativi hanno risposto con cautela, aprendo al dialogo pur mantenendosi scettici. Sul fronte internazionale, il Primo Ministro Sharif, a seguito di un vertice con il viceministro della Difesa saudita, ha auspicato l’intensificazione dei rapporti con l’Arabia Saudita nella lotta al terrorismo, elogiando gli sforzi già intrapresi da quest’ultima. ISRAELE, 22 gennaio – I servizi israeliani avrebbero scoperto e sgominato una cellula presumibilmente legata ad al-Qaeda, composta da tre palestinesi e stanziata nella Striscia di Gaza, che si presume stesse organizzando attacchi suicidi all'Ambasciata statunitense a Tel Aviv, ad un centro congressi di Gerusalemme Est e all'insediamento ebraico di Maaleh Adumim in Cisgiordania. Il 22 gennaio l'aviazione israeliana aveva peraltro effettuato un raid su Gaza, uccidendo due militanti appartenenti alle Brigate al-Quds, braccio armato della Jihad Islamica. L'operazione è stata una risposta ad una serie di razzi (almeno 13) che dall'inizio di gennaio sono partiti dalla stessa Striscia verso i territori meridionali dello Stato ebraico. Intanto prosegue lo scontro diploma-
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tico con l'Unione Europea a seguito della decisione del governo di Benjamin Netanyahu di continuare nella costruzione di nuovi insediamenti: sarebbero almeno 1800 le nuove case nei territori cisgiordani, considerati illegittimi anche dal Segretario di Stato USA John Kerry. Il portavoce del capo della Diplomazia europea Catherine Ashton, Maja Kocijancic, ha ricordato che gli insediamenti sono illegali per il diritto internazionale e che mettono seriamente a rischio l'attuale sforzo di concludere positivamente i colloqui di pace. Netanyahu ha replicato etichettando l'atteggiamento europeo come “ipocrita” e ha convocato i rappresentanti di Italia, Francia, Regno Unito, Spagna e Germania per sottolineare l'inaccettabilità della loro posizione a favore dei Palestinesi. Sembrerebbe che ora l'atteggiamento europeo sia rivolto a condizionare economicamente Tel Aviv: il governo tedesco ha annunciato di voler continuare a mantenere rapporti con le aziende high-tech, di strategica rilevanza per Israele, a condizione che sia prevista in queste intese “una clausola territoriale” che escluda gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dall'accesso ai finanziamenti. ITALIA-INDIA, 21 gennaio – A circa due anni di distanza dallo scoppio del "caso marò", i due fucilieri italiani in servizio antipirateria accusati di aver ucciso due pescatori indiani a largo di Kochi, la Corte Suprema indiana ha chiesto al governo di New Delhi di trovare entro due settimane una soluzione allo stallo del processo, rinviando l'udienza al 3 febbraio. Ad influire nel ritardo del procedimento è la confusione tra i dicasteri indiani: mentre il Ministero degli Esteri sembra orientato a mantenere un atteggiamento di equità che tenga conto delle assicurazioni fatte al governo italiano circa la pena dei due ufficiali, il Ministero degli Interni (secondo quanto riportato dai media nazionali) avrebbe dato via libera alla National Intelligence Agency (NIA), l'organismo che conduce le indagini sul caso, per un'incriminazione secondo il Sua Act, la legge antiterrorismo che include anche i reati di pirateria e che prevede la pena di morte. A pesare sulla diversità di vedute sarebbero infatti da un lato la valutazione delle possibili conseguenze a livello internazionale, dall'altro il timore di contraccolpi domestici in piena campagna elettorale (tra aprile e maggio si svolgeranno le elezioni legislative nazionali). L'Italia, che afferma la giurisdizione del caso sostenendo che l'incidente si è svolto in acque internazionali, si è detta pronta a pretendere il rientro dei marò in patria qualora il PM indiano non fosse in grado di chiarire la questione e i capi di accusa entro il 3 febbraio. LIBIA, 21 gennaio – Dopo mesi di tensioni e minacce, i Ministri del partito Giustizia e Costruzione (PGC), braccio politico dei Fratelli Musulmani libici, hanno abbandonato il governo sempre più instabile del Premier Alì Zeidan. La decisione è stata resa nota dopo che nei giorni scorsi non era passata per pochi voti una mozione di sfiducia nei confronti dell’esecutivo proposta dallo stesso PGC. In una nota diffusa dopo lo scrutinio, 99 deputati hanno accusato il governo di non essere riuscito a garantire la sicurezza, di non aver favorito la necessaria decentralizzazione e di essere incapace di porre fine al blocco dei terminal petroliferi imposto dalle milizie irregolari in Cirenaica. Nizar Kawan, leader del partito islamista al Congresso Nazionale Generale, ha così ordinato ai suoi cinque Ministri (Petrolio, Abitazioni e Servizi, Gioventù e Sport, Economia, Elettricità) di ritirarsi dall’esecutivo sancendo in maniera inequivocabile lo strappo con il Premier in carica. Da parte sua Zeidan, forte anche dell’appoggio dei liberali dell’Alleanza delle Forze Nazionali, ha già ribadito di non avere alcuna intenzione di rassegnare le dimissioni e ha comunicato che i Ministri dimissionari saranno sostituiti con il prossimo rimpasto di governo. Intanto sul versante sicurezza cresce la polemica politica tra Libia ed Egitto: sono stati rapiti a Tripoli il 24 e il 25 gennaio l’attaché amministrativo e quattro membri dello staff diplomatico egiziano da un gruppo armato non meglio precisato. Secondo la ricostruzione del quotidiano locale Libya Herald, l’azione sarebbe una ritorsione contro il Cairo per l’arresto di Shaaban Masoud Khalifa, noto anche come Abu Obaida al-Zawy, leader del Libyan Revolutionaries Operation Room (LROR). Data la crescente instabilità, l’Ambasciatore egiziano a Tripoli Hesham Abdel-Wahab ha ammesso la possibilità di un ritiro del corpo diplomatico dal Paese. Intanto nel sud della Libia, nel Fezzan, sarebbe di almeno 88 morti e 130 feriti il bilancio degli scontri avvenuti nelle ultime due settimane tra clan e tribù avversarie a Sebha. Lo hanno reso noto funzionari e medici dell'ospedale della località, aggiungendo che nei combattimenti sono coinvolti uomini fedeli al regime di Muammar Gheddafi, rovesciato e ucciso alla fine del 2011. REPUBBLICA CENTRAFRICANA, 20 gennaio – Il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea ha approvato il dispiegamento di una missione militare in Repubblica Centrafricana. I Ventotto hanno dato luce verde all’intervento di un contingente di 500 soldati che, tuttavia, dovrà ottenere il mandato ONU per essere pienamente operativo. La durata prevista dell’operazione dovrebbe essere di circa sei mesi e, nonostante non sia chiaro chi parteciperà all’eventuale missione, Italia, Regno Unito e Germania hanno
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già detto che non invieranno alcun contingente. Le truppe europee si aggiungeranno ai 1.600 soldati francesi e agli oltre 4.000 soldati dei Paesi ECCAS/CEEAC (Economic Community of Central African States/Communauté Économique des États de l'Afrique Centrale) già presenti sul territorio centrafricano e avranno quale compito preminente quello di preservare la pace, permettendo il libero movimento delle persone. Mentre l’UE prendeva questa importante decisione, il Consiglio Nazionale Transitorio eleggeva Catherine Samba-Panza quale Presidente ad interim delle Repubblica Centrafricana, dopo le dimissioni dell’ex leader Michel Djotodia, forzato dalla comunità internazionale a lasciare il proprio incarico. L’ex sindaco di Bangui è stata eletta alla presidenza prevalendo su otto candidati, che avevano dovuto dimostrare di non aver alcun collegamento né con i ribelli musulmani Seleka, né con le milizie cristiane anti-Balaka. Catherine Samba-Panza ha fatto immediatamente appello alle due fazioni in lotta, i Seleka e gli anti-Balaka, affinché abbandonino le armi e permettano presto il ritorno alla normalità. Il nuovo Presidente avrà il difficile compito di riportare la tranquillità in uno dei Paesi più poveri al mondo – nonostante le sue importanti ricchezze minerarie – e di condurlo alle elezioni programmate nel febbraio 2015. L’elezione di Samba-Panza è stata accolta positivamente dalla popolazione: è la prima volta nella storia del Paese che una donna ricopre una carica istituzionale così elevata. Nonostante la nomina di uno nuovo Presidente, le violenze non si sono fermate: nuovi scontri e saccheggi sono avvenuti a Bangui, nel quartiere a maggioranza musulmana Miskine, provocando nove morti, tra i quali anche Joseph Kalite, ex Ministro di Djotodia, ucciso a colpi di machete. SVIZZERA, 24 gennaio – Come ogni anno, si è tenuto a Davos il World Economic Forum, che ha riunito i vertici del mondo politico ed economico. Le due preoccupazioni al centro del dibattito erano la disoccupazione e il debito pubblico; problemi, questi, che soprattutto nell’Occidente post-crisi economica occupano la scena. Tre sono stati i protagonisti dell’evento. Anzitutto il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe, che nella prima giornata del Vertice ha lodato il proprio modello, ribattezzato Abenomics, e ha invitato i partecipanti a perseguire “tre frecce”: la prima, “una coraggiosa politica monetaria” fatta di iniezioni di liquidità per sottrarre il sistema alla deflazione; la seconda, “una politica fiscale flessibile” con un massiccio intervento del settore pubblico; la terza, “promozione degli investimenti privati e rafforzamento della partecipazione delle donne alla forza lavoro”. Sottolineando le differenze con l’interventismo statale, è entrato poi in scena David Cameron che, forte delle proiezioni di crescita della Gran Bretagna, ha invece sostenuto la supremazia del modello liberista composto da un lato dai tagli alla spesa pubblica e dall’altro da sgravi fiscali alle imprese; ha poi però sottolineato che lo Stato deve avere un ruolo, in particolare nell’istruzione, nella costruzione di infrastrutture e, criticando velatamente altri Paesi europei, nella ricerca e produzione dello shale gas. Il terzo protagonista, contrapponendosi a Cameron, è stata la “Presidenta” del Brasile, Dilma Rousseff, che, citando tutta una serie di interventi pubblici (soprattutto nelle infrastrutture), ha posto in evidenza come lo Stato debba riappropriarsi delle scelte strategiche in politica economica, riducendo i ruoli dei privati e decidendo su quali settori puntare, e come debba allocare le risorse al fine di incrementare il tasso di occupazione. SUD SUDAN, 23 gennaio – Il governo del Sud Sudan e i ribelli fedeli all’ex vicepresidente Riek Machar hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, dopo giorni di intense trattative tenutesi nel lussuoso hotel Sheraton di Addis Abeba, sotto la supervisione dell’IGAD, l’Intergovernmental Authority on Development, ponendo così fine ad un conflitto che durava dal 15 dicembre. Lo slancio definitivo alla conclusione delle trattative è stato fornito dalla riconquista, da parte delle truppe governative, della città di Bor, capitale dello Stato di Jonglei e caposaldo delle truppe ribelli. Secondo l’accordo, entrambi gli schieramenti deporranno le armi, anche se si tratterà di una misura provvisoria in attesa di un accordo formale di pace, e dovranno evitare ogni tipo di azione che potrebbe riaccendere le ostilità. Resta ancora da risolvere il problema degli 11 ribelli, sostenitori di Machar, arrestati nelle prime fasi del conflitto, che saranno oggetto del prossimo round di negoziati che partirà il 7 febbraio. L’accordo non ha portato immediatamente tranquillità: il giorno dopo la firma, il leader dell’opposizione ha affermato che le truppe governative hanno attaccato alcune loro posizioni negli Stati di Unity e Upper Nile, violando così l’accordo di cessate il fuoco. Il governo sud sudanese ha invece negato che le truppe governative abbiano ingaggiato alcun tipo di scontro con i ribelli: secondo Michael Makuei Lueth, portavoce del governo centrale, il comunicato di Machar, confermato anche da esponenti dell’UNMISS, rappresenta il tentativo dei ribelli di screditare l’accordo di cessate il fuoco che concedeva una finestra temporale di 24 ore per la sua implementazione.
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YEMEN, 21 gennaio – Non conosce fine il caos politico-sociale che ha colpito da tre anni a questa parte l’unica Repubblica della Penisola arabica. Un doppio attentato, non rivendicato, ha colpito la capitale Sana’a uccidendo esponenti di primo piano del dialogo nazionale yemenita, ufficialmente iniziato il 25 gennaio. Nel primo attacco un'autobomba ha ucciso Abdelwahab al-Ansi, Segretario Generale del partito islamista sunnita al-Islah, causando il ferimento anche del figlio Omar. Nel secondo è stato assassinato Ahmed Sharafeddin, docente di Diritto e delegato della comunità zaydita-sciita degli Houthi, un movimento armato in lotta contro le autorità centrali e presente soprattutto nel Nord del Paese, al confine con l’Arabia Saudita. Sharafeddin è il secondo rappresentante Houthi ad essere stato ucciso dopo il parlamentare Abdulkarim Jadban, morto in circostanze simili lo scorso novembre. Il progetto di dialogo nazionale rientra nel piano di transizione per lo Yemen, sostenuto da Stati Uniti e dalle monarchie del Golfo (in particolare dall’influente vicino saudita), che nel 2012 portò alle dimissioni del Presidente Ali Abdallah Saleh dopo 33 anni di potere e che comprende una molteplicità di rivendicazioni etniche, tribali e separatiste che costituiscono il variegato tessuto sociale locale. L'accordo mira a garantire una nuova Costituzione e a preparare il Paese alle elezioni per sostituire il Presidente ad interim Abd Rabbuh Mansur Hadi.
ANALISI E COMMENTI THAILANDIA, TRA DIVISIONI INTERNE E ISTANZE DI DEMOCRAZIA di Vincenza Lofino – 20 gennaio 2014 [leggi sul sito] MENO GENERALI, MENO AMMIRAGLI, PIÙ OPERATIVITÀ E TECNOLOGIA: COSI SI MODELLA LA NUOVA DIFESA ITALIANA di Denise Serangelo – 22 gennaio 2014 [leggi sul sito] SCENARI ENERGETICI NEL NUOVO “GREEN” MENA di Arianna Barilaro – 24 gennaio 2014 [leggi sul sito]
Questa opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione — Non commerciale — Non opere derivate 3.0 Italia. BloGlobal Weekly N° 2/2014 è a cura di Maria Serra, Giuseppe Dentice, Davide Borsani e Danilo Giordano