BloGlobal Weekly N°34 2013

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WWW.BLOGLOBAL.NET NUMERO 34/2013, 8-21 DICEMBRE 2013

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RASSEGNA DI BLOGLOBAL OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE

BloGlobal Weekly N°34/2013 - Panorama

MONDO - Focus ESTREMO ORIENTE – Non tendono a placarsi le tensioni Asia Orientale dopo l’imposizione unilaterale da parte cinese di una zona di difesa ed identificazione area nel Mar Cinese orientale, che ha suscitato le proteste di Giappone e Corea del Sud. Protagoniste, questa volta, sono state le Marine di Stati Uniti e Cina. Due unità delle rispettive flotte hanno infatti sfiorato una collisione, che seppur accidentale avrebbe avuto notevoli conseguenze diplomatiche. È accaduto in acque internazionali nell’area compresa tra Singapore, il Golfo di Taiwan ed il Golfo di Malacca. Secondo le prime ricostruzioni, l’incrociatore americano USS Cowpens, incaricato di seguire la portaerei di Pechino Liaoning, è stato costretto ad una manovra di emergenza per evitare una nave cinese che, intimando l’alt, ne avrebbe ostacolato volontariamente la rotta . Il Dipartimento di Stato americano ha ufficialmente protestato nei confronti di Pechino, mentre un funzionario della US Navy ha spiegato che “l'incidente sottolinea l'estrema necessità di © BloGlobal.net 2013


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standard di sicurezza per mitigare il rischio di incidenti”, in particolare in quell’area dell’Oceano Pacifico soggetta ad episodi di simile fattura anche a causa di un aumento dell’assertività della potenza cinese. Proprio per far fronte a tali rischi potenziali, il Giappone, il competitor diretto del Dragone, ha annunciato un aumento della spesa militare nei prossimi cinque anni pari a circa 175 miliardi di dollari, che potenzierà tutti i settori delle Forze Armate. Il Primo Ministro Shinzo Abe ha poi annunciato che è sua intenzione creare un reparto anfibio specializzato che avrà come unico compito la difesa della sovranità giapponese sulle isole Senkaku, contese proprio da Pechino. Il rafforzamento del Giappone procede anche sul piano diplomatico. Al termine del recente vertice dell’ASEAN, il comunicato finale, pur senza far riferimento esplicito alla Cina, ha ribadito l’importanza della “libertà di navigazione e dello spazio aereo” sottolineando tra i firmatari la necessità di “rafforzare e approfondire la cooperazione sui legami navali ed aerei” regionali. In un’ottica di conseguimento della leadership regionale, Abe ha promesso agli altri Paesi membri dell’ASEAN circa 14 miliardi di dollari di aiuti. Il Primo Ministro giapponese pare inoltre rafforzato anche sul fronte interno, dato che il Paese, soggetto alla cura dell’Abenomics, è tornato a crescere ad un ritmo dell’1,4%. Nel frattempo, in Corea del Nord prosegue il tentativo di consolidamento del potere del giovane dittatore Kim Jong-un, che ha ordinato l’esecuzione capitale del proprio zio-tutore Jang Song Thek, etichettato pubblicamente come “traditore” e che secondo varie fonti costituiva di fatto la sfida principale alla leadership del nipote. Jang era infatti il vicepresidente della Commissione Nazionale di Difesa, ovvero l’organo con maggior potere nella struttura centralizzat a e militarizzata della Corea del Nord. STATI UNITI – Il Partito Democratico e quello Repubblicano, dopo due anni di liti sui tagli alla spesa pubblica e la sospensione temporanea delle attività amministrative in ottobre, hanno infine trovato un accordo bipartisan sul budget federale senza particolari tensioni. Pur non essendo un “ grand bargain” onnicomprensivo, l’intesa è di natura biennale e servirà a scongiurare episodi come quello dello shutdown che era parso in grado di minare la fiducia nella ripresa economica del Paese. L’accordo prevede l’aumento complessivo e momentaneo della spesa pubblica per un valore di circa 60 miliardi di dollari e un limitato aumento della tassazione indiretta con ulteriori risparmi sul fronte pensionistico. Nel più lungo periodo, ovvero nei prossimi dieci anni, è stato previsto il taglio della spesa per oltre 80 miliardi di dollari. Sempre nell’ambito economico, notizie positive giungono dalla crescita e dalla riduzione del tasso di disoccupazione. Nel terzo trimestre, infatti, il PIL ha visto un balzo in avanti di oltre il 4%, una percentuale record in Occidente che negli Stati Uniti non si vedeva da prima della crisi. In prospettiva, comunque, il tasso di crescita dovrebbe assestarsi intorno al 2/2,5% su base annuale. Anche la disoccupazione procede un trend parallelo, raggiungendo quota 7% della forza lavoro e, secondo gli analisti, verso un’ulteriore riduzione nell’immediato futuro intorno al 6,5%. Confortata da questi dati, la FED ha infine annunciato l’avvio del cosiddetto “tapering”, che ridurrà la portata del “quantitative easing” iniettando meno liquidità nel mercato ed alzando i tassi di interesse. Anche le Borse statunitensi hanno festeggiato con euforia le nuove statistiche, raggiungendo a ripetizione segni positivi. Sul fronte della politica estera, è la questione del nucleare iraniano che attira maggiore attenzione entro i confini statunitensi. Dopo il raggiungimento dell’accordo di fine novembre con Teheran, Washington non ha abbandonato il suo atteggiamento fermo, mostrando però qualche consistente discrepanza tra la Casa Bianca e il Congresso. Obama, infatti, dietro una forte spinta dei lawmakers, da un lato ha allungato la lista delle aziende sanzionabili che hanno fatto affari con l’Iran nel corso degli ultimi due anni, dall’altro si oppone a varare un nuovo round di sanzioni economiche che suonerebbero sinistramente per il “rapprochement”. In segno di protesta per l’allungamento della “lista nera”, Teheran aveva sospeso temporaneamente i colloqui di medio livello a Vienna proprio con i diplomatici occidentali. Da segnalare, infine, la stretta di mano tra Obama e Raul Castro, Capo di Stato di Cuba, ai funerali di Nelson Mandela, che ha suscitato un intenso dibattito a Washington tra chi, come John McCain, vede in L’Avana ancora un nemico verso cui mantenere un isolamento politico-economico e chi, invece, vorrebbe favorire una distensione. Secondo The Daily Beast, il saluto informale tra i due Presidenti avrebbe suggellato un dialogo sotterraneo che prosegue ormai dall’inizio del primo mandato di Obama. SUD SUDAN – Sembra non esserci mai pace per il Paese africano. Lo Stato più giovane della comunità internazionale, nato dalla separazione dal Sudan nel luglio del 2011 sta attraverso un susseguirsi continuo di crisi. Dopo il contestato referendum nella regione di Abiey, promosso autonomamente dal gruppo tribale degli Ngok Dinka, le tensioni si sono spostate a nord di Juba, attorno


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alla città di Bor, capitale dello Stato di Jonglei. Il 16 dicembre il Presidente sud sudanese Salva Kiir è apparso dinanzi agli schermi della televisione nazionale, in uniforme militare, rivelando che nella notte di domenica era stato sventato un tentativo di golpe orchestrato dal suo ex Vice Presidente Riek Machar. Le tensioni sono cominciate nella giornata di sabato, quando un incontro tra i due leader, che avrebbe dovuto riavvicinare le loro visioni divergenti, è sfociato in un mandato di arresto a carico di Machar. Il rifiuto di eseguire l’arresto da parte di esponenti della guardia presidenziale sostenitori dell’ex Vice Presidente ha dato vita a scontri tra soldati all’interno di una caserma di Juba: i contrasti si sono poi estesi ad altre caserme della città e soldati dei due schieramenti hanno dato inizio ad una battaglia campale per le strade, utilizzando anche fuoco di mortai e mitragliatrici. Mentre l’esercito del Sud Sudan si è affrettato ad affermare di avere il pieno controllo della capitale, il Presidente Kiir ha imposto il coprifuoco, dalle sei del pomeriggio alle sei della mattina. Dalla capitale Juba, gli scontri si sono spostati nello Stato rurale di Jonglei, dove un potente comandante militare, Peter Gadet Yak, si è ribellato al potere centrale, dopo che alcuni elementi della sua etnia erano stati uccisi nei combattimenti di Juba tra elementi della guardia presidenziale. I soldati di Gadet, che agirebbe su ordine di Machar, hanno preso la città di Bor, capitale dello Jonglei, dove da mercoledì si stanno sviluppando le battaglie più aspre. I combattimenti hanno provocato la morte di più di 500 persone e più di 20.000 persone in fuga dagli scontri si sono rifugiate nelle basi delle Nazioni Unite sparse per il Paese africano: proprio una di queste basi, nella città di Akobo, è stata attaccata dalle milizie ribelli, provocando la morte di due caschi blu indiani. In una situazione così complicata la diplomazia internazionale si sta adoperando per favorire i colloqui tra i due rivali, predisponendo allo stesso tempo piani di evacuazione dei propri concittadini. Proprio durante l’evacuazione di cittadini americani, il Dipartimento della Difesa statunitense ha riferito che tre aerei militari sono stati colpiti da soldati disertori che hanno causato quattro feriti tra i militari. Le rivalità tra le due principali figure politiche del Paese sono iniziate a luglio, quando il Presidente Kiir ha deciso di destituire Machar dal suo incarico, dopo che quest’ultimo aveva annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2015. Machar ha accusato più volte Kiir di essersi trasformato in un dittatore e di aver tradito le aspettative della popolazione che risulta ancora tra le più povere al mondo. Dopo le accuse di aver tentato un golpe, l’anziano Machar ha esortato Salva Kiir a lasciare il potere: “noi vogliamo che se ne vada via” ha detto in un’intervista all’emittente radiofonica RFI. Machar – continua nella sua intervista – ritiene che il Presidente “non è riuscito a mantenere l’unità del popolo sud sudanese che ha acquisito la libertà dopo una lunga lotta, e permette che l e persone muoiano come mosche, fomentando le rivalità etniche”. Le divergenze, che sembravano essenzialmente politiche e tutto all’interno del partito SPLM, si sono trasformate in uno scontro tra le etnie a cui appartengono i due leader politici, i Dinka e i Nuer. Tra i due gruppi non sembra esserci un odio feroce, come quello che c’era in Ruanda tra i Tutsi e Hutu, ma esistono vecchie ruggini che potrebbero diventare motivi di risentimento più forti: proprio a Bor, nel 1991, i soldati Nuer massacrarono centinaia di soldati Dinka . UNIONE EUROPEA – Dopo una lunga maratona negoziale e alcune settimane di difficili trattative, nella notte tra il 18 e il 19 dicembre i Ministri dell'Economia e delle Finanze dei Paesi membri hanno raggiunto l'accordo per la nascita di un meccanismo unico di gestione delle crisi bancarie, ultima tappa di un progetto avviato 18 mesi fa per unificare la vigilanza finanziaria dell'eurozona. L'intesa dovrà essere tuttavia approvata dal Parlamento europeo (la battaglia all'interno del quale Martin Schulz ha preannunciato dura) entro la fine della legislatura, fissata per aprile 2014, e poi di nuovo dal'Ecofin. Con entrata in vigore il 1 gennaio 2015, dunque, il pacchetto di norme - basato su un regolamento e un trattato intergovernativo - prevede la creazione di un Consiglio (composto dalle autorità nazionali coinvolte e con funzioni esecutive) e di un fondo di risoluzione (SRF, da 55 miliardi di euro, alimentato su compartimenti nazionali e pienamente operativo dal 2025), nonché un "paracadute" (o backstop) finanziario comune che consentirebbe un prestito temporaneo di denaro da parte del fondo di risoluzione, ma neutro dai bilanci nazionali. Su questo punto si è detto particolarmente soddisfatto il Ministro italiano Saccomanni, secondo cui questo meccanismo sventerà il rischio di una nuova Lehman Brothers grazie alla liquidità che interverrebbe in ultima analisi nel caso in cui un Istituto in risoluzione abbia finito i fondi cui attingere. Dal punto di vista economico i leader riuniti a Bruxelles non si sono occupati soltanto di unione bancaria ma hanno ribadito anche la necessità di sostenere la ripresa favorendo i regimi fiscali per l'imprenditoria e at-


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tuando i programmi in favore dell'occupazione giovanile entro gennaio 2014. Riferimenti, infine, ai "partenariati per la crescita, l'occupazione e la competitività" volti ad assicurare una maggior convergenza nell'UEM prevenendo di fatto l'insorgere di difficoltà economiche e/o la loro ingestibilità. Perdono così mordente i "contractual arrangements", cavallo di battaglia della Germania, la cui valutazione è stata rinviata a giugno 2014 nel timore che questi possano portare a nuove forme di condizionalità oltre al quadro normativo già in essere. Nelle Conclusioni del Consiglio si legge ancora "accordi contrattuali" nell'ambito di tali partenariati, ma si specifica che essi dovranno essere disposti su necessità ed esigenze dei singoli Paesi, con il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, discussi e concordati con la Commissione e ampiamente basati su meccanismi di solidarietà. Non solo economia. Preceduto da una riunione con il Segretario Generale della NATO, per la prima volta dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona il Consiglio europeo ha tenuto un dibattito sulla Difesa, individuando azioni prioritarie a garanzia della Sicurezza: alimentare la visibilità, l'efficacia e l'impatto della Politica di Difesa e di Sicurezza Comune (PDSC); potenziare lo sviluppo delle capacità; rafforzare l'industria europea della Difesa. Relativamente al primo punto il Consiglio ha ribadito la necessità di continuare a lavorare di concerto con gli altri partner globali, transatlantici e regionali, nonché con le altre organizzazioni regionali offrendo formazione, consulenza e attrezzature utili alle gestioni delle crisi. La necessità di migliorare le capacità di risposta rapida vanno di pari passi con l'emergere di nuove sfide: la cyberdifesa, la sicurezza marittima e degli approvvigionamenti energetici, la gestione delle frontiere e la lotta all'immigrazione clandestina e alla criminalità organizzata, tutti ambiti per i quali il Consiglio raccomanda l'attuazione di programmi entro giungo 2014. Spazio, infine, ad aspetti specifici della proiezione esterna oltre il dossier caldo sul Partenariato Orientale: dopo alcuni timori iniziali derivanti dalla difficoltà di implementare gli accordi in materia di giustizia tra Serbia e Kosovo, il prossimo 21 gennaio si apriranno ufficialmente i negoziati di adesione di Belgrado allo spazio comunitario. Preso atto dell'annuncio di Ban Ki Moon sulla Conferenza di pace per la crisi siriana, il Presidente francese Hollande ha infine riferito sull'attuale crisi in Centrafrica, auspicando che Bruxelles esamini l'impiego di strumenti e misure volti a favorire la stabilizzazione del Paese.

MONDO - Brevi AFGHANISTAN, 16 dicembre – Mentre l’amministrazione Obama resta ancora legata all’attesa firma del Presidente Karzai del tanto discusso accordo che dovrebbe regolare i rapporti tra USA e Afghanistan per i prossimi dieci anni, il governo britannico e australiano hanno sancito l’inizio della ritirata. Il Premier inglese David Cameron ha dichiarato, durante una recente visita alle truppe britanniche di stanza nella base di Camp Bastion nella provincia di Helmand, di ritenere compiuta la missione dei militare del Regno Unito. Le truppe britanniche, che sono in Afghanistan dal 2001, hanno già iniziato a smantellare alcune basi e porranno fine alle missioni operative nel corso del 2014, lasciando sul terreno solo alcune componenti non-combat. Allo stesso modo, il Primo Ministro australiano Tony Abbott ha confermato la dipartita delle proprie truppe dall’Afghanistan, già annunciata dal suo predecessore Julia Gillard. Le truppe australiane sono state dispiegate in Afghanistan dal 2001 e dal 2005 sono in Uruzgan: da allora circa 25.000 soldati si sono alternati nella gestione della difficile provincia afghana. Il governo di Canberra lascerà sul posto c irca 400 soldati con ruoli di non combattimento, che dovranno gestire il passaggio della gestione della sicurezza all’Afghan National Army. Le decisioni di Inghilterra e Australia hanno attirato diverse critiche a causa dell’errato tempismo con cui sono state prese: ad aprile ci saranno le elezioni presidenziali in Afghanistan che rappresentano un momento delicato nel processo di transizione del Paese verso la piena democrazia. È proprio a questa importante scadenza elettorale che sono legati i tentennamenti dell’amministrazione Obama nei confronti di Karzai: c’è la necessità di dover assicurare la protezione del paese almeno fino a quella data. Nel frattempo, esponenti del Ministero della Difesa afghano avrebbero rassicurato il Pentagono, prevedendo a breve la firma del tanto agognato accordo sui rapporti USA-Afghanistan post- 2014. ISRAELE/PAESTINA/GIORDANIA, 10 dicembre – Mentre proseguono tra affanni e tensioni da ambo le parti le trattative di pace tra Israeliani e Palestinesi, mediate da USA e Giordania, i governi dei tre Paesi mediorientali hanno raggiunto a Washington un importante accordo sulla gestione e sullo sfruttamento delle acque del Mar Morto da tempo a rischio prosciugamento entro il 2050. Un impianto di desalinizzazione verrà costruito ad Aqaba, cittadina giordana sul Mar Rosso sul Golfo di Eilat, il quale, salvo imprevisti, diverrà pienamente operativo entro il 2018. Secondo il progetto, ogni anno verranno pompati circa 200 milioni di metri


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cubi di acqua dal Mar Rosso, all’estremità meridionale di Israele e da lì trasferiti verso Giordania e Territori Palestinesi. In base all’accordo tripartito, finanziato in parte dalla Banca Mondiale, a Giordania e Israele giungeranno dai 30 ai 50 milioni di metri cubi di acqua potabile, mentre Tel Aviv si impegna a vendere a prezzi preferenziali 20 milioni di metri cubi d’acqua ai Territori Palestinesi. L’impianto fa parte però di un accordo di più ampio respiro che permetterà inoltre la costruzione del Canale Mar Rosso-Mar Morto – noto anche come “Canale dei Due Mari” –, nel quadro di un’ampia iniziativa destinata a produrre milioni di metri cubi di acqua dolce per rispondere alle necessità della regione semi-arida e di contrastare la diminuzione del livello delle acque del Mar Morto. Il costo complessivo dell’opera dovrebbe aggirarsi intorno ai 250 e 400 milioni di dollari. Si tratta di una delle rare occasioni di cooperazione regionale tra le tre entità e che si spera possa essere un segnale positivo in vista di un’intesa politica da ll’alto valore storico che dovrebbe avvenire entro l’anno 2014. ITALIA, 17 dicembre – A seguito della decisione presa lo scorso 28 giugno dal Consorzio Shah Deniz per lo sviluppo del c.d. "corridoio meridionale" energetico, si è svolta a Baku, in Azerabaijan, la cerimonia per la decisione finale di investimento del progetto Trans-Adriatic Pipeline (TAP): l'infrastruttura che, lunga 870 Km (di cui 117 sottomarini), dal 2018 condurrà il gas dai giacimenti azeri verso le coste italiane (a Melendugno, Puglia) attraversando Turchia, Grecia e Albania, alleggerendo, di fatto, la dipendenza dalla Russia. Alla presenza del Presidente azero Ilham Aliyev, oltre ai rappresentanti dei Paesi coinvolti, vi erano anche il Ministro degli Esteri britannico William Hague e il Commissario europeo per l'Energia, Gunther Oettinger, che ha salutato la firma dell'accordo come un passo decisivo per la sicurezza energetica del Continente oltre che per la cooperazione, la pace e il progresso lungo il Sud Est europeo. Il Ministro degli Esteri Bonino ha poi sottolineato la particolare rilevanza assunta dall'Italia, che potrà così porsi come strategico hub energetico per l'Europa meridionale e continentale, contribuendo all'abbassamento del prezzo dell'oro blu e alla creazione di posti di lavoro. Intanto il Ministro della Difesa Mario Mauro il 16 dicembre ha firmato con la controparte serba Nebojsa Rodic un accordo per il rafforzamento della cooperazione in ambito di difesa e sicurezza, ad iniziare dalla collaborazione nel campo operativo (Operazione Atalanta) e nell'addestramento del personale, nonché nel possibile ingaggio congiunto nei gruppi di combattimento dell'UE e nell'eventuale impiego in operazioni multinazionali. MALI, 24 novembre/15 dicembre – Come da pronostici, il partito del Presidente della Repubblica Ibrahim Boubacar Keita e dei suoi alleati ha ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni legislative. Secondo i dati ancora parziali pubblicati dalla Commissione elettorale nazionale, il Raggruppamento per il Mali (RPM) di IBK si assicura circa 60 seggi sui 147 dell’Assemblea Nazionale e i suoi alleati di Alleanza per la Democrazia in Mali (ADEMA), ne ottengono più di 50 per un totale complessivo di 115 seggi. L’Unione per la Repubblica e la Democrazia (URD), principale partito di opposizione guidato dall’ex candidato sconfitto alle presidenziali Soumalia Cissé, avrà a disposizione tra i 17 e 19 rappresentanti. Anche al secondo turno si conferma bassa l’affluenza (il 37,2% contro il 38,6% del primo turno). Nonostante le rassicurazioni sulla regolarità del voto da parte degli osservatori internazionale, le elezioni maliane sono state caratterizzate da numerosi episodi di violenza. Forti tensioni in particolare nei pressi di Timbuctù, dove uomini armati hanno fatto irruzione in un seggio, portandosi via un’urna. Sempre nella stessa zona, sono state rubate tutte le schede elettorali. In altri seggi, le urne sono misteriosamente sparite, probabilmente sottratte durante la notte. Nella regione di Gao sono stati alcuni indipendentisti tuareg a creare scompiglio, impendendo alla gente di votare. A Kidal invece uccisi due caschi blu da un’autobomba. Situazione, invece, relativamente tranquilla, a Sud, anche per la forte presenza dell’esercito. Il voto dovrebbe rappresentare il primo passo verso un pieno ritorno ad un regime democratico, interrotto nel marzo 2012 da un colpo di Stato e dalla successiva guerra che ha visto anche l’intervento armato francese e della comunità internazionale con la missione MINUSMA. SIRIA, 10-16 dicembre – I governi statunitense e britannico hanno deciso di bloccare gli aiuti non letali alle opposizioni siriane che si battono contro il regime di Bashar al-Assad, a seguito della conquista da parte dei gruppi armati del Fronte Islamico – la coalizione formata in novembre da sei gruppi jihadisti guidati da Jabhat al-Nusra e con l'obiettivo di costituire uno Stato islamico in Siria – di un’importante base dei ribelli moderati sostenuti dall’Occidente del Free Syrian Army – tanto da costringere alla fuga anche il loro comandante, il Generale Salim Idris – e del valico di frontiera con la Turchia di Bab al-Hawa. Come sottolineato da funzionari del Dipartimento di Stato USA e del Foreign Office inglese, la sospensione non colpirà gli aiuti umanitari alla popolazione civile. Washington e Londra hanno, inoltre, assicurato che “fino a quando la situazione non si sarà chiarita”, entrambe le poten-


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ze non provvederanno ad alcuna fornitura di attrezzature ai ribelli siriani. Mentre l’esercito lealista continua a riconquistare territori e infrastrutture strategiche nel nord del Paese, come la città di Nabak e assicurandosi il pieno controllo dell’autostrada Damasco Homs, gli aerei dell'aviazione del regime da circa una settimana bombardano le roccaforti dei combattenti anti-Assad nei pressi di Aleppo. L’attacco peggiore si sarebbe avuto il 16 dicembre e secondo la denuncia dell'Osservatorio Siriano dei Diritti dell'Uomo (OSDH), notizia rilanciata poi dalla tv panaraba al-Jazeera, le incursioni dell’aviazione di Assad avrebbero provocato la morte di 125 persone, di cui almeno 28 bambini. Con l’inasprirsi delle azioni militari si aggrava anche la situazione umanitaria. Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello record per 6,5 miliardi di dollari, pari a 4,7 miliardi di euro, per affrontare la crisi umanitaria siriana il prossimo anno. Secondo le stime del Palazzo di Vetro, 16 milioni di persone, circa tre quarti della popolazione, avranno bisogno di aiuto nel 2014. Un allarme ripreso anche dall'Alto Commissariato ONU per i rifugiati: il prossimo anno i rifugiati saranno più di 4 milioni, rispetto ai 2,4 milioni di adesso. Di questi, circa 660.000 ospitati in campi profughi e quindi considerati più a rischio. Intanto la Conferenza di pace di Ginevra 2, il prossimo il 22 gennaio, rischia di partire con forti handicap: ancora irrisolti i nodi principali su chi dovrà rappresentare i ribelli e il rifiuto di Assad di negoziare con quelli che lui ritiene “terroristi”. Recentemente il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius si è detto “pessimista” sull’esito dei negoziati di Ginevra, specialmente per le difficoltà che stanno attraversando i ribelli siriani più moderati appoggiati dall’Occidente. Oltre ai problemi politici, le Nazioni Unite devono far fronte anche a quelli organizzativi. A causa di alcune difficoltà logistiche i lavori di Ginevra 2 inizieranno sempre il 22 gennaio ma nella cittadina vicina di Montreux. UCRAINA, 17 dicembre – Il Presidente russo Vladimir Putin ha annunciato l'intenzione di acquistare titoli di Stato ucraini dal valore di 15 miliardi di dollari per allontanare Kiev dallo spettro del default, aggiungendo, peraltro, che questa decisione non sarà vincolata a nessuna condizione (leggasi all'adesione dell'Ucraina all'Unione Doganale). Eppure, nonostante anche Yanukovich abbia dichiarato che non vi è alcuna trattativa in merito, i Ministri dell'Economia dei due Paesi, Alexei Ulyukayev e Igor Prasulov, hanno siglato una serie di accordi volti a facilitare gli scambi commerciali. A ciò si aggiunge l'emendamento tra Gazprom e Naftogaz Ukraine che permetterà alla società di Stato russa di vendere oro blu a Kiev ad un prezzo decisamente minore rispetto a quello attuale: da 400 dollari per 1000 metri cubi a 268,50 che, secondo il Ministro per l'Energia russo Eduard Stavitski, permetterà al governo ucraino di risparmiare almeno 5 miliardi di dollari. Mosca ha anche tenuto a precisare non solo che interromperà il regime di controllo e di dazi lungo le aree di confine, ma anche che riprenderà le forniture di petrolio che giungono fino alla raffineria di Odessa. Misure, tutte, che raffreddano ulteriormente i rapporti tra l'Ucraina e l'Unione Europea già compromessi dopo la recente decisione della prima di sospendere la firma dell'Accordo di Associazione, rifiuto che ha portato migliaia di cittadini ucraini a scendere in piazza Maidan a Kiev per protestare contro il governo. Yanukovich ha ad ogni modo sostenuto l'intenzione di riprendere i negoziati con l'UE nella prossima primavera, una possibilità a cui Bruxelles sembra ora intenzionata a chiudere le porte: secondo il Commissario all'Allargamento Štefan Füle mancherebbero ormai le basi per qualsiasi trattativa. TURCHIA, 17 dicembre – La procura di Istanbul ha ordinato l'arresto di oltre 50 personalità turche con l’accusa di corruzione. La vicenda, da fatto di mera cronaca giudiziaria, si è trasformata subito in un’aspra querelle politica, perché al centro dell'indagine vi sono i più alti esponenti dell'attuale establishment turco che secondo gli inquirenti sarebbero coinvolti in un maxi giro di tangenti legato alla concessione di appalti pubblici. Tra gli arrestati, oltre ad imprenditori, dirigenti e consiglieri ministeriali, vi sono i figli dei Ministri dell'Interno, dell'Economia e dell'Ambiente ed Urbanizzazione, il discusso businessman azero Reza Zarrab, da poco diventato cittadino turco, il magnate dell'edilizia Ali Ağaoğlu, il general manager della banca statale Halkbank Süleyman Aslan e il sindaco della municipalità istanbuliota di Fatih, Mustafa Demir. L'azione della procura rappresenta uno dei colpi più duri subiti dal governo monocolore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), al potere in Turchia dal 2002 sotto la guida del premier Recep Tayyp Erdoğan, che era riuscito a neutralizzare le recenti proteste di Gezi Park e Piazza Taksim. Dopo la notizia degli arresti, Erdoğan si è scagliato contro chi sta conducendo l’inchiesta parlando di un’operazione mirata a danneggiare l’immagine del suo governo e ha ventilato l’ipotesi di espellere dal paese alcuni ambasciatori stranieri responsabili di provocazioni. Secondo vari analisti turchi, la vicenda è da leggere sullo sfondo dello scontro, ormai a tutto campo, tra i sostenitori del leader musulmano Fetullah Gulen e il premier Erdoğan in vista delle amministrative del marzo 2014. Il movimento di Gülen è stato per molti anni


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alleato e sostenitore dell'AKP, ma col passare del tempo i rapporti si sono fatti sempre più tesi, fino ad arrivare allo scontro aperto: in Turchia da anni si parla delle posizioni influenti che membri dell'”Hizmet” si sarebbero ritagliati all'interno delle forze di polizia e dei servizi segreti, ma anche nello stesso AKP. VENEZUELA/CILE, 8-15 dicembre – Importante settimana elettorale in Sud America. In Venezuela l’8 dicembre scorso si sono tenute delle attese elezioni municipali: a vincere sono state le forze del Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) del Presidente Nicolas Maduro che su base nazionale ha ottenuto un 43% delle preferenze come partito e un 49,2% come coalizione di governo (Gran polo patriótico), vincendo in 196 municipi contro i 53 degli avversari. Buono anche il risultato delle opposizioni della Mesa de Unidad Democratica (MUD) che ha ottenuto un più che lusinghiero 43% e che ha conquistato le città più importanti e popolose della nazione, come la capitale Caracas, Maracaibo e Barinas, quest’ultima luogo natio del defunto Presidente Hugo Chàvez. Bassa l’affluenza alle urne: si è recato a votare il 58,92%, un dato comunque superiore all'affluenza media delle amministrative venezuelane del 2012 (circa il 50%). L’affermazione elettorale del PSUV di Maduro nelle elezioni locali – considerato da molti analisti un referendum sulle reali capacità del presidente in carica – potrebbe, tuttavia, concedere al leader venezuelano l’opportunità di adottare misure impopolari utili al rilancio economico. Anche in Cile poche novità rispetto ai pronostici delle scorse settimane: Michelle Bachelet è la nuova presidente del Paese latinoamericano. La candidata socialista ha battuto al ballottaggio la rivale conservatrice Evelyn Matthei, ottenendo il 62% dei voti contro il 37% dell’avversaria. Anche al secondo turno si conferma un astensionismo record: ben il 59% non si è recato alle urne. La Bachelet torna al governo dopo l'esperienza del 2006-2010 ma stavolta le sfide per la neo-presidente saranno ben più ardue: innanzitutto riformare la Costituzione ancora colma di elementi e norme poco democratiche dell’epoca Pinochet, rendere più equi e meno elitari i sistemi scolastico, sanitario e pensionistico, nonché ridurre le forti sacche di povertà ancora presenti nella società cilena.

ANALISI E COMMENTI

GIBILTERRA: UNA DISPUTA ALLE PORTE D’EUROPA di Elisabetta Stomeo – 9 dicembre 2013 [leggi sul sito] TUNISIA: CRISI POLITICA, EMERGENZA ECONOMICA di Sara Brzuszkiewicz – 11 dicembre 2013 [leggi sul sito] 2003-2013: L’UNIONE EUROPEA E LA LOTTA CONTRO LA DIFFUSIONE DELLE ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA di Daniel Angelucci – 12 dicembre 2013 [leggi sul sito] GOLFO PERSICO: PROSPETTIVE DI CAMBIAMENTO? di Simone Vettore – 17 dicembre 2013 [leggi sul sito] MEDITERRANEO E SICUREZZA: INTERVISTA ALL’AMM. FERDINANDO SANFELICE DI MONFORTE di Annalisa Boccalon – 18 dicembre 2013 [leggi sul sito]


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LE VIGNETTE DI BLOGLOBAL di Luigi Porceddu

Questa opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione — Non commerciale — Non opere derivate 3.0 Italia. BloGlobal Weekly N° 34/2013 è a cura di Maria Serra, Giuseppe Dentice, Davide Borsani e Danilo Giordano

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