In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano Ucraina e Bielorussia di Federica Castellana…………………………………………………………………………………pag.2 Balcani: un successo “made in UE” di Maria Serra……………………………………………………………………………………………..pag.3 Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la rielezione di Obama di Davide Borsani…………………………………………………………………………………………pag.6 Unione Europea e Mediterraneo: un partenariato impossibile? di Giuseppe Dentice…………………………………………………………………………………….pag.8 L’Europa e l’immigrazione: norme, politiche e prospettive future di Salvatore Denaro…………………………………………………………………………………….pag.11
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I chiaroscuri dell’Europa nel Mondo. Mezzo secolo di politica estera UE a vignette
In bilico tra Est ed Ovest: Unione Europea e Russia corteggiano Ucraina e Bielorussia di Federica Castellana, 18 aprile 2013 A quasi un decennio dal grande allargamento ad Est, l’Unione Europea non è ancora riuscita a costruire dei rapporti lineari con i nuovi vicini orientali (Russia, Bielorussia, Ucraina e Moldavia): nel tempo si sono alternati, in entrambi i sensi, momenti di apertura ad altri di scontro o disinteresse. Restano complesse le relazioni di Bruxelles con Mosca, capitale di uno Stato talmente esteso da comprendere – in termini di tessuto culturale e produttivo – una parte più europea-occidentale ed una quanto mai opposta. Il dialogo sembra invece più intenso con i due “avamposti” Ucraina e Bielorussia, ex repubbliche sovietiche di particolare strategicità. Economie ormai dinamiche, competitive, business-friendly e in crescita del 5% (dati 2011): basti pensare che il volume totale degli scambi commerciali dell’UE raggiunge ogni anno circa 36 miliardi di euro con l’Ucraina e oltre 12 miliardi di euro con la Bielorussia, mentre gli stock di investimenti europei si attestano rispettivamente a quota 23 miliardi di euro nella prima e circa 500 milioni di euro nella seconda. Specialmente in tema di energia l’Ucraina e la Bielorussia sono partner importanti: ai Paesi dell’UE rivendono infatti quote rilevanti di petrolio e gas naturale provenienti dai giacimenti russi e centroasiatici e trasportate nella Mitteleuropa dai gasdotti Yamal e Transgas e dall’oleodotto dell’Amicizia (Druzhba), che passano proprio attraverso il territorio ucraino-bielorusso. Inoltre l’Ucraina è tra i Paesi europei dotati di una roccia poco permeabile e simile all’argilla, nota come roccia di scisti, da cui è possibile estrarre mediante meccanismi idraulici lo shale gas: una nuova tipologia di gas naturale, al centro di analisi e interesse a livello internazionale per diversificare l’approvvigionamento energetico europeo (e non solo) rispetto ai fornitori storici – Russia, appunto, e Medio Oriente. Da parte loro, l’Ucraina e la Bielorussia, situate in una speciale posizione geografica di cuscinetto tra Est ed Ovest, hanno dato negli ultimi anni l’impressione di due giovani Paesi divisi tra il richiamo alla fedeltà per la grande Madre Russia e le spinte verso una maggiore indipendenza nazionale sotto l’ombrello dell’UE e della NATO. Una precarietà rintracciabile sinora nelle forti spaccature delle opinioni pubbliche e nelle scelte dei governi di Kiev e Minsk, dettate da un chiaro pragmatismo e oscillanti tra le diverse avances offerte da Mosca e Bruxelles. La strategia di Mosca - L’approccio della Russia nei confronti dell’Ucraina e della Bielorussia si inserisce nell’ambiziosa politica estera perseguita dal team Putin-Medvedev volta a ridefinire la distribuzione globale del potere e recuperare un ruolo di primo piano in un contesto internazionale sempre più interessato da fenomeni di aggregazione regionale (in primis il blocco UE/NATO, l’America Latina, Cina e India). In particolare, è evidente che tale approccio rientra nell’intento di consolidare l’influenza russa sugli ex satelliti sovietici ovvero di contenere la progressiva espansione euro-atlantica verso Est, che peraltro è ormai irreversibile nei Paesi baltici e forse anche nell’inquieta Georgia in seguito al conflitto del 2008 in Ossezia del Sud. In questa prospettiva Mosca utilizza astutamente due importantissime leve, l’energia e il commercio, offrendo ai suoi interlocutori vantaggi e rapporti privilegiati. Malgrado gli attriti degli scorsi anni, Kiev e Minsk hanno infatti ottenuto dalle compagnie russe Gazprom e Transneft degli sconti sulle forniture di gas e petrolio, che hanno permesso a entrambi i Paesi di incrementare la spesa pubblica, ridurre le tariffe energetiche applicate agli acquirenti europei e di conseguenza rendere più competitivi i costi della manifattura domestica sui mercati esteri. Nel frattempo, Gazprom continua ad aumentare la sua quota di controllo sul corridoio di transito energetico: per modernizzare la rete dei gasdotti e renderla più efficiente ha già acquisito per intero il gestore bielorusso (Beltransgaz) e sta facendo simili pressioni su quello ucraino (Naftogaz). Sul fronte commerciale, invece, è in vigore dallo scorso anno l’Unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia (presto si aggiungeranno Kirghizistan e Tagikistan), primo passo verso quella proposta di Unione Eurasiatica lanciata da Putin nell’ottobre 2011: uno spazio economico comune collocato tra il Vecchio Continente e il Pacifico che unisca tutti i mercati degli ex Stati sovietici, ispirato all’Unione Europea e aperto alla cooperazione con le altre organizzazioni regionali e internazionali. L’adesione dell’Ucraina è fortemente auspicata dal Cremlino, disposto in cambio a ulteriori concessioni sul conto
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energetico. Lo stesso Putin assicura tuttavia che nel suo grande progetto non c’è spazio per eserciti o ideologie: nessuna restaurazione quindi dell’Impero bolscevico ma di certo l’occasione per la Russia di riconquistare peso nel sistema mondiale ponendosi come principale punto di riferimento per i Paesi dell’area e avvalendosi soltanto dell’arma economica. La politica di vicinato di Bruxelles - I recenti allargamenti dell’Unione Europea hanno reso più impellente la necessità di una forte collaborazione con gli Stati confinanti, a Est e a Sud, per garantire sicurezza e stabilità e per prevenire la rinascita di nuove divisioni in tutto il continente europeo. Avviata proprio nel 2004, l’ENP, l’European Neighbourhood Policy, ha l’obiettivo principale di coinvolgere gli Stati vicini (dall’Europa orientale al Maghreb, passando per il Caucaso e il Vicino Oriente) nei benefici politici, economici, sociali e strategici dell’integrazione comunitaria. Questo viene realizzato mediante accordi bilaterali e piani di azione periodici, negoziati da Bruxelles con i singoli Paesi, che prevedono: la partecipazione a programmi europei in materia di trasporti, energia, telecomunicazioni, ambiente, frontiere e giustizia; diverse agevolazioni commerciali per l’avvicinamento al mercato unico europeo; l’assistenza tecnica e finanziaria fornita dallo “Strumento europeo per il vicinato e partenariato” (ENPI) la cui dotazione per il periodo 2007-2013 è stata di circa 12 miliardi di euro e che ha contribuito, tra l’altro, all’adeguamento infrastrutturale dell’Ucraina in vista del Campionato europeo di calcio 2012 ospitato insieme alla Polonia. In tipico stile europeo, si tratta di accordi condizionati al rispetto dei valori fondamentali su cui si basa l’UE, anche se è opportuno ricordare che ad oggi per nessuno di questi Paesi ci sono prospettive di adesione vera e propria. Ucraina e Bielorussia fanno parte della suddivisione dell’ENP denominata “Partenariato Orientale”; ultimamente, però, le loro relazioni con l’UE hanno subito una battuta d’arresto soprattutto per divergenze politiche e per gli effetti indiretti della crisi mondiale. Le trattative sul nuovo Accordo di Associazione con Kiev sono state sospese da Bruxelles a causa della vicenda Tymoshenko, tuttora irrisolta, e non riprenderanno finché l’Ucraina non avrà fatto progressi in tema di trasparenza, giustizia e riforme elettorali. Anche un investimento dell’UE nel promettente shale gas appare a questo punto difficile, considerati gli elevati costi economici e ambientali dell’estrazione e la mancanza di conoscenze e attrezzature adeguate. La Bielorussia invece preme per un confronto nuovo, che abbandoni pretese, adeguamenti, sacrifici e sanzioni, e si basi su un equilibrio di aspettative più rispettoso. La stessa Unione Europea, alle prese con i suoi drammi interni economici e istituzionali, sembra meno convinta dalle politiche di vicinato (già limitate) e più interessata all’allargamento ai Balcani e all’Islanda. Il dualismo dell’Ucraina e della Bielorussia è quindi solo apparente. In realtà l’impasse a Ovest con Bruxelles sta spostando la loro bussola decisamente verso Est: un riavvicinamento a Mosca che è sostenuto sia a Minsk dall’”ultimo dittatore d’Europa”, Lukashenko, sia a Kiev dal presidente filo-russo Yanukovich. Per i due governi, l’Unione europea è un partner strategico ma non così determinante e la vera priorità rimane la Russia. Insomma, per il momento Ucraina e Bielorussia restano due finestre russe sull’Europa.
Balcani, un successo “made in UE” di Maria Serra, 24 aprile 2013 «The union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe (…) Through well-aimed efforts and by building up mutual confidence, historical enemies can become close partners (…) The fall of the Berlin Wall made EU membership possible for several Central and Eastern European countries, thereby opening a new era in European history. The division between East and West has to a large extent been brought to an end; democracy has been strengthened; many ethnically-based national conflicts have been settled». C’è una dimensione del processo di costruzione dell’Unione Europea – spesso offuscata dalla crisi economica e finanziaria – che può essere considerata un autentico successo. Quella dimensione su cui essenzialmente si fonda il conferimento del Premio Nobel per la Pace dello scorso mese di ottobre e che, pur con le molteplici difficoltà che permangono in diversi aspetti strutturali, può rappresentare il punto di forza di un’Europa che non può – e non deve – essere ripiegata solo su se stessa, ma che può guardare fiduciosa alla propria proiezione nel mondo: si tratta del processo di integrazione dei Balcani, come messo in rilievo non solo dagli allargamenti del 2004 (Slovenia), del 2007 (Bulgaria e Romania) e da quello imminente (in luglio la Croazia diventerà il 28° Stato membro), ma anche da
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impensabili – fino a qualche anno fa – intese sul fronte della cooperazione bilaterale (si pensi a quelle tra Serbia e Bosnia Erzegovina relative alla collaborazione e allo scambio di informazioni e di documentazione concernente i crimini di guerra) e in un certo senso della reciproca legittimità (lì dove non si può parlare ancora di reale riconoscimento). Anche l’ultimo dei conflitti latenti all’interno del nostro Continente, quello cioè tra Serbia e Kosovo (che resta de facto un protettorato internazionale), sembra infatti essere giunto al giro di boa grazie al raggiungimento di un accordo sulla gestione comune delle aree di confine mediato dall’Unione Europea, la quale, al di là degli obiettivi strategici ed economici di breve e lungo periodo, ha saputo offrire i giusti incentivi per spingere le due parti a negoziare: l’avvio dei negoziati di adesione per una, la possibilità di formalizzare un accordo di associazione per l’altra. A conti fatti, se solo 15 anni fa la Penisola balcanica era dilaniata da conflitti – non solo e non tanto etnici – generati e amplificati dall’implosione dell’ex Jugoslavia – e a cui Bruxelles non era ancora culturalmente, politicamente e “tecnicamente” preparata – ad oggi, pur restando ancora molti nodi irrisolti, può non essere più considerata la “polveriera d’Europa”. Reciproci vantaggi e strumenti - Se è vero che da un lato nemmeno i Balcani (soprattutto quelli Occidentali) sono stati negli ultimi anni immuni dal senso di sfiducia nei confronti delle Istituzioni europee (si pensi all’alto tasso di astensionismo registrato in Croazia in gennaio 2012 in occasione del referendum relativo alla ratifica del trattato di adesione e dell’elezione dei primi eurodeputati croati nei primi giorni di aprile o, ancora, alle manifestazioni di protesta degli ultranazionalisti serbi all’indomani dell’arresto di Ratko Mladić e della sentenza di assoluzione da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja dei generali croati Ante Gotovina e Mladen Markač ), dall’altro è vero che i governi dei vari Paesi, pur con fasi alterne, hanno inseguito e stanno inseguendo il “sogno europeo”: questi sanno infatti bene che non vi sarà stabilità economica e sociale senza l’ingresso nell’UE e per raggiungere quest’obiettivo sono disponibili a “sacrificare” anche aspetti per così dire “identitari”: la Slovenia ha restituito i beni appartenenti alla minoranza italiana, la Croazia ha dovuto cedere all’istituzione di un arbitrato per la soluzione della controversia relativa alle delimitazione delle acque territoriali nella Baia di Pirano, la Romania ha dovuto fare molte concessioni alla minoranza ungherese, la Bulgaria è stata costretta fermare in parte la centrale nucleare di Kozlodouï, l’impianto più redditizio del Paese. Così anche la Serbia è stata indotta a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti del Kosovo. Il flusso di finanziamenti in termini di aiuti umanitari e di emergenza (si ricordino soprattutto i programmi ECHO e PHARE), di assistenza finanziaria per lo sviluppo e per l’adeguamento all’acquis communautaire (l’ultimo dei quali è lo Strumento per l’Assistenza preaccesso, IPA) e che sono emanazione del Processo di Associazione e Stabilizzazione (PSA) – a tutt’oggi la cornice principale dei rapporti tra UE e Balcani e schema per la cooperazione tra gli stessi Paesi balcanici –, è stato dal 2001 un autentico fiume in piena: da Bruxelles sono giunti oltre 10 miliardi di euro, a cui va aggiunto il contributo di 5,5 miliardi da parte della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), nella convinzione che l’intervento simultaneo in settori fortemente interconnessi, quali la sicurezza, l’economia e lo sviluppo delle istituzioni democratiche – previa naturalmente istituzione di adeguati meccanismi di condizionalità che, in ottica funzionalista, non costituiscono altro che la griglia all’interno della quale i Paesi balcanici hanno dovuto progressivamente informarsi ai criteri europei [1] –, avrebbe dato maggiore stabilità all’intero Continente. Probabilmente in nessun’altra area dentro e fuori i confini l’Unione Europea ha attivato l’intero spettro delle sue politiche e degli strumenti creati per la gestione delle relazioni esterne come fatto nella regione balcanica. Un aspetto, questo, dal profondo valore politico che ha permesso ai leader comunitari di imprimere alcuni importanti sviluppi istituzionali (come il passaggio di competenza del PSA dalla Direzione Generale Relazioni Esterne della Commissione europea alla Direzione Generale Allargamento), allineando maggiormente le idee e i meccanismi alle base delle politiche con la prassi di integrazione, e di concorrere, in estrema sintesi, ad acquistare credibilità come attore internazionale. Non a torto Javier Solana, Segretario Generale della NATO tra il 1995 e il 1999 ed Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune nel decennio successivo, sosteneva che “Per essere un soggetto influente ed autorevole anche lontano dai propri confini, l’UE deve dimostrare di poter fare la differenza anzitutto nel suo cortile di casa”. Non solo democrazia. Gli obiettivi strategici – D’altra parte la cura del proprio cortile, che ha direttamente favorito la costruzione e il rafforzamento dei collegamenti tra Occidente ed Oriente (non solo quello europeo) in una realtà internazionale sempre più interconnessa, non ha fatto altro che rispondere ad alcuni più o meno espliciti obiettivi:
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1) contenere la possibile influenza di una Russia che, nonostante non si sia eccessivamente opposta – o perlomeno non ha avuto i mezzi per farlo – al procedere del processo di integrazione comunitario e al crescente ruolo della NATO/Stati Uniti nella regione, continua a guardare ai Paesi balcanici con grande interesse certamente in ottica di affinità culturale, ma anche e soprattutto economica (e dunque di maggior accesso ai mercati mediterranei) e strategica. A ben vedere lo storico accordo tra Belgrado e Pristina dello scorso 22 aprile sull’amministrazione del Kosovo settentrionale potrebbe aprire una nuova stagione di relazioni russo-balcaniche e, dunque, russo-europee (e queste ultime non per forza in senso positivo, specialmente se si considera l’atteggiamento più rampante di Mosca con il procedere della realizzazione dell’Unione eurasiatica); 2) competere allo stesso tempo con il crescente ruolo che la Cina ha negli ultimi anni assunto nell’area: si pensi agli enormi investimenti che Pechino indirizza nel settore degli impianti marittimi croati e montenegrini – controllando di fatto il porto di Rejka –, all’ottenimento di appalti per la realizzazione di infrastrutture ferroviarie lungo il percorso del Corridoio 10 e sul Danubio serbo (tra cui il cosiddetto “ponte dell’amicizia serbo-cinese”), alla costruzione di centrali idroelettriche in Macedonia o, infine, al supporto di alcuni dei Paesi in questione (come la Romania) che ha offerto di difendere le posizioni della Cina a Bruxelles in cambio di più strette relazioni economiche e politiche; 3) garantire il controllo e il trasporto delle fonti di approvvigionamento energetico che provengono proprio dalla Russia e dall’Asia Centrale, dove la competizione con Mosca lascia il passo alla proprio
collaborazione se non ad un’esigenza
strutturale. Tramontato l’ambizioso progetto di diversificazione (il gasdotto Nabucco) che avrebbe convogliato 31 miliardi di metri cubi di metano azero, iracheno e iraniano attraverso la Turchia e buona parte dei Paesi balcanici allentando la morsa russa, avanzano i negoziati per la realizzazione di South Stream, i cui primi lavori dovrebbero iniziare nel prossimo mese di dicembre secondo quanto annunciato lo scorso 10 aprile dal Premier serbo Ivica Dačić, correndo lungo la Penisola balcanica e giungendo da un lato in Austria, dall’altro in Italia passando per la Grecia. Anche se di portata minore, resta in piedi il progetto del Gasdotto Trans-Adriatico (TAP) per il trasporto del gas dell’Asia Centrale attraverso Turchia-Grecia-Albania-Italia e il cui ultimo degli accordi per la definizione degli aspetti operativi è stato firmato a Roma lo scorso 22 aprile. Non solo gas da Russia e Azerbaijan: l’allargamento ai Paesi balcanici permette l’estrazione lo sfruttamento delle risorse già presenti nella regione – e non sufficientemente valorizzate durante gli anni dell’integrazione nel sistema economico del COMECON – come il petrolio e il gas rumeno, il carbon fossile bulgaro, la lignite albanese, nonché il potenziamento di quel reticolo idrico che farebbe della Penisola uno dei maggiori produttori di energia idroelettrica; 4) sviluppare una vera e propria “hard security policy” per garantire sia il mantenimento della pace “al di qua” dei Balcani, sia la sicurezza dei propri confini, giunti, al di là dei rapporti con la Russia, ormai a ridosso di aree – quelle mediorientali e caucasiche – caratterizzate da instabilità. Ben si vedrà non solo che gli allargamenti comunitari sono andati di pari passo con quelli dell’Alleanza Atlantica e che ulteriori adesioni a quest’ultime sono in corso di negoziazione (eccetto con la Serbia, con cui i meccanismi di dialogo sono ancora molto lenti), ma anche che si è proceduto con una certa rapidità nell’allargamento della NATO a Bulgaria e Romania (sede peraltro del sistema di difesa anti-missile fortemente voluto dall’Amministrazione Bush prima e da quella Obama poi) e, nonostante le numerose questioni aperte sul piano politicoistituzionale-amministrativo-giudiziario, a quello dell’UE. Sintomo, questo, che, com’è stato fatto notare, nei primi anni 2000 si sono forse prese decisioni che hanno tenuto conto di giudizi “generosi” sul livello di attuazione delle riforme previste, confidando in quelle condizionalità cui si accennava pocanzi come stimolo per un cambiamento. Completamento e approfondimento, ma non solo. Le sfide – Sebbene i punti messi a segno siano molti, l’impegno dell’UE e dei Paesi balcanici non può in effetti ritenersi ancora concluso. Restano ancora numerose le zone d’ombra che non permettono una completa integrazione e che in questa sede è possibile delineare in maniera solo generica. Al di là del caso estremo della Bosnia Erzegovina all’interno della quale continuano a sussistere profonde fratture politiche e sociali (cosa che da un certo punto di vista ha sollecitato la firma dell’accordo di associazione), o, ancora della Macedonia (FYROM) con cui i negoziati di adesione sono fermi dal 2005 a causa sia delle dispute ancora aperte con Grecia e Bulgaria sia delle limitazioni alle libertà di espressione e al dialogo interetnico, emblematica è la situazione di Bulgaria e Romania: a queste è di fatto ancora inibito – soprattutto per volontà di Germania e Olanda – di accedere
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all’area di Schengen, cosa inizialmente prevista per marzo 2011. Il Consiglio dei Ministri dell’Interno e della Giustizia UE dello scorso 7 marzo ha nuovamente rimandato la questione alla fine del 2013. L’adozione di misure più efficaci – ancor più se attuate in presenza di una sostanziale stabilità politica che nessuno dei due Paesi in questo momento può vantare – per la lotta alla corruzione in ogni settore dell’amministrazione pubblica e, in particolare, in quello delle dogane al fine di prevenire e affrontare forme gravi di criminalità (quali il traffico di immigrati clandestini, tratta degli esseri umani e traffico di droga) è ancora un requisito imprescindibile. Allo stesso tempo non si possono sottovalutare le paure e i disagi che l’allargamento proprio a questi due Paesi – se non anche agli altri dell’Europa Centrale e Orientale – ha prodotto all’interno dei cittadini della stessa Unione Europea. Mantenere lo slancio all’allargamento, garantendo l’approfondimento delle riforme specialmente in un momento di importanti cambiamenti di governance economica (e si auspica politica) e promuovendo il senso di cittadinanza europea, sono aspetti di uno stesso contesto e fondamentali per il proseguimento dell’azione politica ed internazionale dell’UE. Ciò che emerge è, in effetti, non solo la naturale difficoltà – o quanto meno lentezza – da parte dei Paesi balcanici ad adeguarsi alle oltre 130mila pagine di acquis, ma anche la capacità stessa dell’Unione Europea di difendere e rafforzare i traguardi raggiunti. Quelli che vengono definiti “enlargement fatigue” e “capacità di assorbimento”, ossia la capacità di funzionare incorporando nuovi membri (e dunque con le relative necessità di riformare le Istituzioni e di adeguare gli strumenti di integrazione) sono due concetti che – anche in relazione alla crisi economica a cui inizialmente si accennava, nonché alle difficoltà di trovare un compromesso alle questioni di bilancio – hanno negli ultimi tempi hanno preso sempre più forma. L’evidente necessità di aggiornare la strategia di allargamento per superare le divisioni interne rimanenti, infine, non può non collegarsi al quadro della politica internazionale e al quadro di generale stabilità cui dovrebbe aspirare tutto il contesto mediterraneo, anche e soprattutto la sponda sud. Laddove un processo di allargamento alla Turchia dovesse richiedere ancora molti anni, è indubbio che proprio quest’ultima può rappresentare quanto meno un partner fondamentale per la riuscita di una completa integrazione (non solo e non tanto politica) del nostro cortile di casa. E che permetta poi di guardare oltre. [1] Gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione (il cui nucleo originale è rappresentato dal CEFTA Agreement a cui aderirono nel 1992 i primi Paesi dell’Europa Centrale e Orientale e che hanno trovato definitiva consacrazione con il Consiglio europeo di Salonicco del 2003) impegnano i firmatari a completare in un periodo di transizione definito all’interno dell’accordo stesso, un’associazione formale con l’UE imperniata sulla graduale attuazione di un’area di libero scambio e sull’adozione di riforme che, basate sul rispetto dei principi democratici e sugli elementi centrali del mercato comune interno (dialogo politico, cooperazione regionale, libera circolazione di persone-merci-servizi-capitali, etc.), facilitino il raggiungimento degli standard europei.
Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la rielezione di Obama di Davide Borsani, 2 maggio 2013 Per tutta la durata della Guerra Fredda, l’Europa giocò l’importante ruolo di principale alleato strategico degli Stati Uniti. Caduto il Muro di Berlino, l’asse transatlantico perse tali connotati per essere investito del ruolo di perno economico di un ordine liberale in estensione globale. Nel XXI secolo l’Europa è però progressivamente diventata sia strategicamente sia economicamente tanto un partner ed alleato quanto una sfida per gli Stati Uniti [1]. Se la crisi sull’Iraq del 2003 ha mostrato crepe strategiche non certo irrilevanti, quella finanziaria del 2007 – con le sue conseguenze – ha ulteriormente indebolito i rapporti, ponendo in potenza su due sentieri autonomi le due sponde dell’Atlantico. Oggi l’amministrazione Obama, dopo la “benevola disattenzione” del primo mandato, ha iniziato il secondo quadriennio proponendo all’Europa di siglare un «nuovo patto transatlantico» [2]. L’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 suscitò grandi aspettative nell’opinione pubblica e negli establishment europei. Se la popolarità del predecessore, George W. Bush, al momento della chiamata alle urne si attestava al 19%, quella di Obama al momento del giuramento era superiore di quasi sessanta punti percentuali (77%) [3]. Eppure, il nuovo Presidente non contraccambiò tale ammirazione, negando anzi al Vecchio Continente la propria leadership e settando le priorità del suo mandato su questioni interne, a cominciare dal risollevamento di un’economia in pericoloso dissesto, sul riavvicinamento al mondo musulmano e sul celebre pivot Asia. L’Europa, in breve, avrebbe dovuto badare a se stessa. Nemmeno l’estensione all’Eurozona della crisi finanziaria causò una revisione di tale direttrice. Solo nel 2011 Washington prese coscienza della reale posta in gioco, che coinvolgeva ormai
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l’economia globale, e decise quindi di prendere contatto, nelle parole del portavoce della Casa Bianca Jay Carney, «a livello presidenziale e ministeriale per sollecitare un’azione vigorosa» dell’Unione Europea [4]. Che la “benevola disattenzione” non fosse solo a livello economico ma anche strategico, fu chiaro nello stesso 2011 in occasione della guerra in Libia. Fu responsabilità degli Europei portare a conclusione l’operazione NATO Unified Protector e guidare “dall’alto” la rivolta libica, mentre gli Stati Uniti – non riconoscendo vi fossero propri interessi vitali in gioco – si limitarono ad una funzione di sostegno logistico, che comunque si rivelò quanto mai necessaria per l’esito della campagna. Nonostante l’indebolimento dei rapporti, il sostegno dell’opinione pubblica europea ad Obama al momento delle recenti elezioni presidenziali restava saldo. Da un lato, l’approvazione europea della gestione degli affari internazionali da parte statunitense era calata dal 2009 al 2012 di una dozzina di punti percentuali (da 83% a 71%). Dall’altro, però, ben il 75% degli Europei avrebbe votato per la rielezione di Obama, rispetto all’8% che sosteneva l’alternativa, il candidato repubblicano Mitt Romney [5]. Il secondo giuramento è giunto quindi in un clima transatlantico tutto sommato favorevole ed è stato accompagnato, da parte di Washington, da una nuova presa di coscienza della centralità dell’asse con l’Europa. Come già fece la seconda amministrazione Bush Jr., il primo viaggio all’estero del nuovo Segretario di Stato John Kerry è stato infatti in Europa. Nel corso dell’ultima settimana di febbraio, Kerry si è recato in visita ufficiale nel Regno Unito, in Germania, in Francia ed in Italia, riconoscendo di fatto la pluralità delle anime che contraddistinguono l’Unione Europea. Dalla special relationship all’asse franco-tedesco, passando infine per il Mediterraneo, il Dipartimento di Stato ha voluto lanciare un segnale: ricominciamo a lavorare insieme. Due settimane prima, lo stesso Obama aveva già avviato il processo di riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico annunciando, nel corso del Discorso sullo Stato dell’Unione, l’avvio di «negoziati per un’ampia Transatlantic Trade and Investment Partnership con l’Unione Europea» [6]. Dopo il fallimento del 1998, Stati Uniti ed Europa sono dunque tornati a discutere della creazione di un’area di libero scambio che, secondo la Commissione Europea, potrebbe incrementare il commercio transatlantico di oltre il 50%. Se da un lato è vero che le tariffe protezionistiche sono già basse (5,2% per l’UE, 3,5% per gli USA), tuttavia l’accordo – in particolare se comprendesse gli investimenti – costituirebbe un passo avanti per cui, ad opinione di The Economist, «vale la pena combattere» [7]. Non solo integrerebbe ulteriormente le due economie rafforzandone il legame politico, ma ribilancerebbe la direttrice del commercio globale che punta ormai verso l’Asia. La Camera di Commercio degli Stati Uniti stima che l’eliminazione delle tariffe doganali incrementerebbe il PIL combinato di USA ed UE di circa 180 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, mentre l’abbattimento delle barriere non tariffarie lo aumenterebbe per entrambi i partner del 3% su base annua; parallelamente, 7 milioni di nuovi posti di lavoro verrebbero creati [8]. In tempi di crisi economica, la TTIP consentirebbe insomma all’Europa di tornare a respirare e agli Stati Uniti di velocizzare la propria crescita economica. La dimensione strategica delle relazioni transatlantiche non sembra essere, però, altrettanto rosea. Certamente, nel Grande Medio Oriente – il teatro dove la somma degli interessi euro-atlantici è maggiormente in gioco – le grand strategy di Europa e Stati Uniti tendono a convergere. Nella scorsa estate entrambi hanno adottato nuove sanzioni economiche nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare, benché queste abbiano un impatto superiore sugli interessi nazionali dei Paesi europei rispetto a quello sugli Stati Uniti. In Afghanistan, tanto Washington quanto le capitali europee sono ansiose di disimpegnarsi da un teatro strategico fattosi estremamente complicato e scomodo, la cui prospettiva di “pace senza vittoria” – nonostante gli enormi progressi fatti dal Paese nel corso degli ultimi dodici anni [9] – è ormai molto più che allettante. In Siria, il supporto politico ai ribelli contro il regime è parimenti condiviso, benché l’Europa si sia dimostrata ben più intraprendente degli Stati Uniti nell’ampliarlo a livello militare e comunque consapevole che, in caso di intervento diretto, sarebbero gli americani a dover assumere i maggiori oneri. Ed è proprio qui, nella dimensione strettamente militare, che si manifestano le maggiori incertezze: l’Europa costituisce tutt’oggi l’anello debole dell’Alleanza Atlantica, fatto che infastidisce non poco gli Stati Uniti. Di fronte all’annosa questione del burden sharing, la NATO ha recentemente proclamato la volontà di “spendere in modo intelligente”, lanciando la Smart Defence, ovvero un «nuovo modo di pensare [...] una rinnovata cultura di cooperazione [...] che significa mettere in comune le capacità, decidere le priorità e coordinare meglio gli sforzi», in particolare tra Europei, per «generare [insieme]le capacità difensive che l’Alleanza necessita» [10]. Eppure, nonostante le buone intenzioni, la realtà racconta che l’Europa sta proseguendo il cammino dei tagli ai budget militari; forse non in termini relativi, dato che grosso modo le percentuali del PIL restano immutate da alcuni anni, ma certamente in termini assoluti. Non è dunque
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casuale che i diplomatici statunitensi abbiano fin qui etichettato il pooling&sharing europeo come una «cortina di fumo per mascherare i tagli alla difesa» [11]. Per concludere, il secondo mandato di Obama è iniziato sotto nuove luci e solite ombre nel rapporto con gli Europei. Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a rimettere al centro della propria politica estera un’Europa che da oltre sessant’anni appare sì stabile nelle fondamenta, ma che non riesce ancora a dimostrare una piena maturità né nel risolvere le crisi interne né nel giocare un ruolo di primo piano negli affari internazionali, a partire da quelli che maggiormente la coinvolgono. Eppure, come un refrain che si ripete incessantemente dal Secondo dopoguerra, è compito anzitutto dei Paesi europei trovare quella volontà di lavorare insieme, che permetta loro di esercitare responsabilmente il ruolo di partner ed alleato al fianco di Washington. Gli Stati Uniti stanno (ri)chiamando l’Europa alla costruzione di un nuovo ponte transatlantico in un momento in cui l’ordine occidentocentrico appare in forte bilico di fronte all’ascesa dell’Asia. Che sia l’ultima chiamata per la rilevanza del Vecchio Continente nel mondo? [1] Bertelsmann Foundation, Field Manual to Europe. Ten Memos for the New US Administration, Washington, 2013, p. 4 [2] G. Pastori, Obama reduxed. L’Europa e le sfide della presidenza 2.0, ISPI Commentary, gennaio 2013 [3] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2009 [4] Corriere della Sera, Crisi, affondo di Obama sull’Europa: «Non la affronta in modo efficace», 28 settembre 2011 [5] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2012 [6] B. Obama, State of the Union Address, WashingtonDC, 12 febbraio 2013 [7] The Economist, Hope and no change, 10 novembre 2012; cfr. anche Il Sole 24ore, Usa e Ue verso un’area di libero scambio, 14 febbraio 2013 [8] US Chamber of Commerce, Transatlantic Economic and Trade Pact, 2012, p. 2; IAI, A Deeper and Wider Atlantic, Documenti IAI 1301, febbraio 2013 [9] M. Guillot, Welcome to Kabul. La strana storia di una ripresa che non si conosce, Bloglobal – Osservatorio di Politica Internazionale, 11 aprile 2013 [10] http://www.nato.int/cps/en/natolive/78125.htm [11] G. Robertson – T. Valasek, Conclusion, in T. Valasek (a cura di), All alone? What US retrenchment means for Europe and NATO, Centre for European Reform, febbraio 2012, p. 62
Unione Europa e Mediterraneo: un partenariato impossibile? di Giuseppe Dentice, 7 maggio 2013 Il Mediterraneo o Mare Nostrum è stato per secoli un crogiolo di differenti razze, religioni, etnie, lingue e popoli, tutti uniti dall’unicità di uno spazio geografico definito, che bagna 25 Paesi e costituisce una risorsa eccezionale e uno spazio vitale per tre continenti. Per decenni i rapporti tra i Paesi del Mediterraneo sono stati rivolti quasi unicamente allo sviluppo di forti interconnessioni economiche ed energetiche tralasciando, invece, la possibilità di creare uno spazio unico comune di sicurezza e di stabilità politica. Il sopraggiungere della crisi economico-finanziaria prima e della Primavera Araba poi, ha mostrato tutti i limiti di un’Unione Europea che solo poco tempo prima, con il Trattato di Lisbona (2009), sembrava essersi dotata di più efficaci strumenti di gestione delle relazioni esterne (tra le novità in ambito PESC l’istituzione della figura di Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza e la creazione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna) anche per ovviare a quei problemi di preparazione già messi in luce in occasione delle crisi nei Balcani negli anni Novanta e, non da ultimo, della guerra in Iraq nel 2003. A fronte di una rinnovata impossibilità di procedere con un’unica voce sugli avvenimenti che si sono susseguiti nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, Bruxelles ha provato a rafforzare i propri legami con i Paesi della regione in questione quanto meno dal punto di vista economico e sul piano della cooperazione bilaterale: la task force lanciata lo scorso mese di novembre con l’Egitto nell’ambito del quale l’UE dovrà erogare al Cairo circa un miliardo di euro per il biennio 2012-2013 al fine di stimolare la crescita e la stabilità politica, nonché la recente decisione di stabilire un partenariato privilegiato con la Tunisia (pur specificando che entrambi i programmi sono legati ad un più vasto programma di aiuti internazionali che vede questi due Paesi in trattative con il Fondo Monetario Internazionale), sono gli ultimi esempi di come Bruxelles sia
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stata spinta a rivedere e a rimodulare le proprie politiche di cooperazione con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo attraverso lo strumento del partenariato. Nonostante i progressi compiuti nell’ambito della Politica Europea di Vicinato in tutte le sue rivisitazioni e declinazioni, Bruxelles si trova ancora oggi di fronte alla difficoltà di esprimere una politica mediterranea, lì dove non si può definire ancora completamente euro-mediterranea, di ampio respiro come nei progetti sorti all’indomani della caduta del Muro di Berlino, della riunificazione tedesca e del Trattato di Maastricht quando, “incassato” il mercato unico, Bruxelles iniziava a guardare in maniera rinnovata al resto del mondo e, soprattutto, al proprio “cortile di casa”. In principio fu il Partenariato euro-mediterraneo (PEM) – Sorto nel novembre 1995 con la Conferenza di Barcellona tra i 15 membri dell’allora Unione Europea e 10 paesi del Mediterraneo – inclusa la Turchia – questo prevedeva la creazione di un’area di libera scambio finalizzata alla creazione di una cooperazione di natura politica, economica e sociale. L’obiettivo era quello di proporre una struttura multilaterale in cui collocare una serie di accordi di associazione che l’Unione Europea avrebbe dovuto stipulare in via bilaterale con i singoli Paesi. Alcuni di tali accordi hanno effettivamente aperto la strada a rapporti commerciali più solidi (come nel caso di Marocco, Egitto e Tunisia appunto), mentre in altri casi (Siria) questi non hanno portato a nulla. L’iniziativa è proceduta piuttosto lentamente, senza risultati molto soddisfacenti. Parallelamente all’istituzione del PEM, sono nate nello stesso periodo altre due iniziative informali di natura sub-regionale come il Forum per il Mediterraneo e il Dialogo 5+5, volti ad instaurare dei contenitori di idee e proposte per un rafforzamento delle politiche socio-economiche tra le due sponde. Tuttavia, le tensioni croniche nel Mediterraneo orientale dovute allo stallo nel processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, nonostante gli Accordi di Oslo, hanno contribuito notevolmente a ridimensionare se non proprio bloccare sul nascere il processo politico che era stato ideato a Barcellona. Il 2003 è l’anno del rilancio euro-mediterraneo attraverso un nuovo strumento che si fonda su accordi di partenariato e cooperazione su base bilaterale, la Politica Europea di Vicinato (PEV): programma avvertito come una necessità non solo per ovviare ai problemi di coordinamento e realizzazione riscontrati nel corso degli anni Novanta, ma anche perché l’UE era sul punto di compiere il grande allargamento verso Est (2004) senza dimenticare, appunto, la sponda Sud. Coinvolgendo Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia (mentre ad Est, come discusso in altra sede, Bielorussia, Moldova e Ucraina), l’obiettivo era quello di costruire una zona di stabilità, di sicurezza e di benessere per i popoli, attuando riforme di ampio respiro attraverso l’erogazione di assistenza tecnica e finanziaria per la realizzazione di singoli Piani d’Azione (basati su singoli documenti di natura strategica) definiti con ogni singolo Paese e che coprono un ampio spettro di temi: dialogo politico, riforme politico-economiche, commercio estero e altre misure di avvicinamento al mercato interno europeo, così come energia, ambiente, trasporti e politica sociale. Il tutto, dunque, per rendere estremamente flessibile il processo di avvicinamento ed integrazione con il mercato comune, evitando che singole criticità (come appunto il conflitto israelo-palestinese) intervenissero a bloccare la più complessa macchina della cooperazione multilaterale, e per creare quell’“anello di amici” di cui parlava l’allora Presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Pur avendo ottenuti buoni risultati con alcuni Paesi come Marocco, Tunisia o Giordania, questa politica non ha in realtà decretato quel salto di qualità necessario da strumento di cooperazione economico bilaterale ad uno vero e proprio partenariato euro-mediterraneo politico e multilaterale. Unione per il Mediterraneo, l’illusione? - Nel 2008, il Partenariato conosce un nuovo sussulto sotto il semestre di presidenza francese e l’allora neo-insediato Sarkozy. A rinnovata testimonianza dell’interesse di Parigi nei confronti del bacino mediterraneo (e, più in profondità, del territorio africano) e sotto i buoni auspici della stretta di mano ad Annapolis tra l’ex Premier israeliano Ehud Olmert e Abu Mazen che avrebbe dovuto portare ad una rapida realizzazione di una road map per la soluzione al conflitto mediorientale così come delle trattative tra le stessa Israele e la Siria circa la restituzione delle Alture del Golan, il 13 luglio 2008 nasceva durante il Vertice di Parigi l’Unione per il Mediterraneo (UPM) che aveva l’obiettivo di sostituirsi all’agonizzante PEV e aprire 44 Paesi – dai Balcani al Marocco, passando per Israele – alla cooperazione economica e politica a 360° con l’obiettivo di “costruire insieme un futuro di pace, democrazia, prosperità”. Fu un fuoco di paglia, perché già alla fine dello stesso anno Israele lanciò la nuova offensiva sulla Striscia di Gaza. Lo scoppio della crisi economica e, poco dopo, l’accendersi delle proteste nei Paesi arabi – con la caduta di alcuni dei regimi con cui lo stesso Sarkozy e i leader comunitari avevano fino a quel momento trattato, Mubarak in primis – tagliarono le ali al progetto di mediterraneo integrato.
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“More for More”, il rilancio degli aiuti finanziari - Nonostante l’impegno e le risorse profuse negli anni (circa 12 miliardi di euro nel periodo di riferimento 2007-2013), Bruxelles è riuscita di fatto solo parzialmente a promuovere prosperità, stabilità e sicurezza nel Mediterraneo. Così, in coincidenza delle proteste arabe, il 25 maggio 2011 la Commissione Europea e l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza hanno lanciato una proposta di revisione della PEV improntata lungo 4 direttrici principali: • Garantire processi riformatori e democratici; • Migliorare la mobilità delle persone e garantire una buona gestione dei flussi migratori; • Promuovere uno sviluppo economico inclusivo; • Favorire il commercio e gli investimenti; Questo nuovo approccio comunitario, denominato “more for more”, offre ai Paesi in transizione un maggiore accesso agli aiuti economici e al mercato unico europeo in cambio di maggiori riforme in senso democratico e del rispetto dei diritti umani e delle libertà di espressione. Ovviamente il ritmo di completamento delle riforme condiziona lo sblocco degli aiuti finanziari e la possibilità di accedere a uno status avanzato di associazione. L’Unione Europea ha stanziato per il triennio 2011-2013 5 miliardi di euro nelle politiche di vicinato, così ripartiti: • 600 milioni di EUR attraverso “more for more”; • 670 milioni EUR del bilancio UE vengono riorientati tramite due programmi ombrello: i programmi di assistenza SPRING (per il vicinato meridionale – 540 milioni di EUR) e EaPIC (per il vicinato orientale – 130 milioni di EUR); • 79,2 milioni EUR l’anno per la promozione di riforme politiche e responsabilità pubblica nei Paesi toccati dalla transizione democratica; L’UE ha, inoltre, offerto prestiti nei confronti di Egitto e Tunisia rispettivamente per un valore di 449 milioni EUR e 160 milioni EUR tramite lo Strumento eu¬ropeo di vicinato e partenariato (ENPI). Grazie al programma internazionale ISMED (sicurezza degli investimenti nella regione del Mediterraneo), Bruxelles ha finanziato, sempre nel triennio 2011-2013, investimenti e prestiti attraverso la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) e la Banca Europea per la Ricostruzione (BERS): • 1,15 miliardi EUR l’anno per la promozione degli investimenti attraverso la BEI; • 2,5 miliardi EUR l’anno per finanziare progetti infrastrutturali attraverso la BERS; Il rovescio della medaglia: se la crisi economica genera instabilità - I tentativi di integrazione dal 1995 ad oggi hanno dimostrato come la sola cooperazione economica, finanziaria ed energetica – sebbene questa di gran lunga la più sviluppata avendo infatti creato una dipendenza europea dagli approvvigionamenti nordafricani, come evidenziato dalla guerra in Libia – non abbia contribuito a rendere maggiormente coeso e politicamente stabile il bacino mediterraneo. A decretare la debolezza di qualsiasi progetto di regione politica euro-mediterranea è soprattutto l’assenza di un quadro politico coerente ed effettivamente condiviso sul piano della cooperazione e della realizzazione di robuste istituzioni che agiscano in merito. Le cosiddette Primavere Arabe e la crisi economico-finanziaria non hanno fatto altro che far venire a galla tali criticità rimaste tutto sommato sommerse negli anni in cui nel bacino mediterraneo vigeva un sostanziale status quo. Soprattutto la crisi interna all’UE – che a conti fatti ha una profonda radice politica oltre che culturale –, la contrazione economica e la crisi del debito hanno non di meno costituito un ostacolo per i Paesi della sponda nordafricana, che sono dipendenti dall’Europa in termini di export, di entrate del turismo, di rimesse e di afflussi di investimenti. Questi fattori hanno da un lato concorso ad indebolire ulteriormente le economie dei Paesi della sponda sud, alimentando in parte i focolai sociali che sono stati alla base delle rivolte scoppiate nel 2011, dall’altro stanno spingendo a rivedere i termini e la sostanza delle strategie di integrazione politica, economica e sociale sinora in atto. Sarà pertanto importante trasformare le criticità interne in una grande opportunità di cambiamento e di rilancio delle relazioni euro-mediterranee snellendo, riformulando e definendo un’agenda politica regionale chiara e non necessariamente ambiziosa. E’ importante, quindi, che l’UE punti a delineare precisi e comuni obiettivi politico-strategici
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di medio-lungo periodo, eventualmente con attori più direttamente coinvolti nello scenario (come ad esempio la Turchia, piuttosto che gli Stati Uniti, il cui baricentro delle politiche si è spostato più ad Est) al fine di evitare che altri attori internazionali o regionali (Russia, India, Cina e Paesi del Golfo), sempre più interessati ad assumere una leadershipforte in un’area dalle potenzialità enormi, possano definire la futura agenda politica della sub-regione scalzandola da quel bacino che per secoli è stata la culla della sua potenza civile e militare.
Per approfondire Chiara Albanese, Enrica Bucciarelli, Verso un Mediterraneo integrato, Cemiss, 2009; Cathrine Ashton, Antonio Tajani e Werner Hoyer, Task force europea per il Cairo, 15 novembre 2012, Il Sole 24 Ore; Riccardo Alcaro, Roberto Aliboni, La Politica di Vicinato dell’Unione Europea e il Mediterraneo. Orientamenti, strumenti operativi, prospettive, IAI paper; Commissione Europea, Il riesame della politica di vicinato rivela risultati contrastanti, 22 marzo 2013; Commissione Europea, Politica europea di Vicinato; ISPI Dossier, Economia ed energia per il rilancio Euro-med, in ISPI, novembre 2012; Roberto Aliboni, Silvia Colombo, Bilancio e prospettive della cooperazione euro-mediterranea, in Osservatorio di Politica Internazionale, giugno 2010;
L’Europa e l’immigrazione: norme, politiche e prospettive future di Salvatore Denaro, 10 maggio 2013 Per svolgere un’analisi sulle azioni svolte in ambito comunitario sul tema dell’immigrazione, occorre partire da alcune valutazioni sul piano storico, strettamente collegate a necessità demografiche, cambiamenti delle origini geografiche dei flussi e delle caratteristiche socio-economiche dei migranti. Seguendo questo schema, è possibile fare una suddivisione in tre grandi fasi delle migrazioni in Europa nell’ultimo secolo. La prima fase riguarda il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Erano gli anni in cui l’immigrazione veniva intesa come un’opportunità di rilancio demografico, necessaria per la ricostruzione e per la crescita dopo le devastazioni della guerra. Questo periodo fu altresì caratterizzato dalle migrazioni dai Paesi decolonizzati e da quelli devastati dalle sanguinose guerre di indipendenza come Uganda, Tanzania e Kenya, ma anche dall’India e dal Pakistan. Le ondate migratorie, pertanto, sfuggivano dal controllo delle autorità politiche e venivano affrontate attraverso politiche del tipo laissez-faire. La seconda fase si apre con l’inizio degli anni ‘70, ovvero quando la crisi economica e sociale ha evidenziato l’impossibilità di far fronte ad ondate migratorie su larga scala. Ecco che le grandi migrazioni avvenute nella fase precedente subirono un brusco stop e le forti implicazioni sociali causate dagli altissimi livelli di disoccupazione portarono a misure drastiche nel contenimento del fenomeno migratorio. La recessione economica conseguente alla crisi petrolifera produsse una forte contrazione della domanda di manodopera determinando l’adozione di misure restrittive, soprattutto da parte dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale. Infatti, l’emigrazione si spostò verso i Paesi europei meridionali come Italia, Spagna e Grecia dove si diressero flussi provenienti soprattutto da Nord Africa e Mediterraneo Orientale. La terza fase parte a ridosso degli anni ‘90 fino ai giorni nostri. L’evoluzione del fenomeno migratorio è stata caratterizzata da eventi epocali come la caduta del muro di Berlino, la Guerra del Golfo, le instabilità politico-sociali del Medio Oriente, la crisi dei Balcani, l’11 Settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq ed infine la cosiddetta “Primavera Araba”. Trasformazioni di carattere economico, politico e culturale si sono racchiusi nel termine “globalizzazione”, allargando il concetto di migrazione a livello mondiale. Detto ciò, è apparso evidente a tutti gli Stati la necessità di
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affrontare tematiche simili non più in modo isolato ed autonomo. Nel corso degli anni ‘90 abbiamo assistito ad un lento e graduale trasferimento delle tematiche migratorie all’interno dell’agenda delle Istituzioni comunitarie: l’Europa ha preso atto del fatto che una materia come quella migratoria non può continuare ad essere gestita in modo indipendente dagli Stati, proprio in ragione degli evidenti limiti dell’approccio intergovernativo. Il metodo “comunitario” è apparso, quindi, più idoneo per affrontare un tema tanto globale quanto legato ad una serie di dinamiche prettamente nazionali di carattere economico, sociale e culturale (ed elettorali…). Dal Trattato di Maastricht a Lisbona: il difficile tentativo di “comunitarizzare” le politiche migratorie Come accennato in precedenza, a partire dagli anni ’90 le Istituzioni comunitarie iniziarono a considerare le politiche migratorie strategiche nel difficile percorso di integrazione della Comunità Europea. Nella Conferenza Intergovernativa (CIG) che ha preceduto il Trattato di Maastricht, il governo tedesco e, in un secondo momento, il governo italiano e belga proposero una completa “comunitarizzazione” della materia migratoria. Ma il “no” del governo britannico condusse ancora una volta ad affrontare la politica migratoria esclusivamente a carattere intergovernativo. Tuttavia il Trattato di Maastricht la definì come una questione di interesse comune nell’ambito del terzo pilastro dedicato alla giustizia e agli affari interni (Titolo VI, art. K1 del TUE), ovvero le condizioni di ingresso e permanenza dei cittadini di Paesi terzi, le politiche di asilo e il contrasto all’immigrazione irregolare. Con il Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la comunitarizzazione, diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e Stati membri. I temi immigrazione e asilo confluiscono dal terzo pilastro di Maastricht al primo, sancendo la fine della sgradevole associazione della politica migratoria con le disposizioni del terzo pilastro riguardanti il contrasto alla criminalità. Venne superata la cooperazione intergovernativa del precedente Trattato anche se i limiti imposti dal principio di sussidiarietà (art. 5 TCE) e dell’art. 63 [1] limitarono de facto il processo di comunitarizzazione della materia. Occorre inoltre aggiungere che per la completa realizzazione di tale processo è stato disposto un periodo transitorio di cinque anni, dal 1999 al 2004, in cui per le approvazioni delle delibere era necessaria l’unanimità del Consiglio europeo. Inoltre, ad Amsterdam è stato introdotto un meccanismo che ha reso possibile il processo di comunitarizzazione di alcune materie come ad esempio quelle del Titolo IV, oggetto della nostra analisi (Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone). Infatti, grazie alla cooperazione rafforzata, una maggioranza di Stati poteva aumentare il livello di integrazione e non essere bloccata da un gruppo di Stati che su alcune tematiche, come quella in questione, voleva mantenere un approccio nazionale. Questa flessibilità ha portato all’introduzione di meccanismi di opting-out (vie d’uscita) rispetto ad alcune parti del Trattato, che se da un lato aumentavano il processo di comunitarizzazione, dall’altra hanno aperto la strada ad un’Europa a due velocità. Tra il 2000 ed il 2001 le iniziative della Commissione hanno riguardato i ricongiungimenti familiari, l’accoglimento dei rifugiati, l’attuazione del principio di parità di trattamento e lo status dello straniero residente. A cavallo tra il 2001 e il 2002 le proposte che giungevano dalla Commissione e dai governi erano sempre più legati ad aspetti giuridico-penali dell’immigrazione irregolare mettendo in secondo piano l’effettiva fruizione dei diritti umani da parte dei migranti irregolari. Andarono in questa direzione la Comunicazione del Piano d’azione su una politica comune sull’immigrazione illegale (COM 2001-672) e la Comunicazione su una politica comune di rimpatrio dei residenti illegali (COM 2002-564). Il vertice di Siviglia del 2002, sull’onda emotiva dei fatti dell’11 settembre, non ha fatto altro che dare priorità al contrasto all’immigrazione irregolare anche attraverso un piano per la gestione e il controllo delle frontiere esterne [2]. Il primo gennaio 2003 è entrato in vigore il Trattato di Nizza. Direttamente connessa al Trattato, pur essendo un allegato a carattere non vincolante, è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Proclamata a Nizza il 7 Dicembre 2000 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, contiene alcune disposizioni che si applicano anche nei confronti degli stranieri [3]. In virtù dello spirito della Carta di Nizza, la Direttiva 109 del 2003 ha disposto il diritto al riconoscimento dello status di residente di lungo periodo allo straniero che abbia soggiornato regolarmente in qualunque Stato membro e quindi le limitazioni alle ipotesi di allontanamento, la parificazione ai cittadini comunitari riguardo l’accesso ad alcuni servizi, il diritto di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro per un periodo superiore a tre mesi. Nel 2005 la Commissione europea ha elaborato il “Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica” ovvero uno strumento che mira ad avviare un dibattito approfondito, con la partecipazione delle
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Istituzioni dell’UE, degli Stati membri e della società civile, sulle novità da introdurre a livello comunitario in materia di ammissione dei migranti per motivi economici e sul valore aggiunto dell’adozione di questa disciplina comune. L’impasse a cui è andata incontro l’Unione Europea dopo il fallimento della Costituzione ad opera dei referendum negativi di Francia e Olanda è stata superata nel 2009 dal Trattato di Lisbona, il quale oltre a confermare l’impegno dell’Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali attraverso lo strumento del rinvio recettizio contenuto nell’art. 6 par.1 del Trattato sull’Unione Europea. Nella sostanza il Trattato di Lisbona non cambia le impostazioni strutturali stabilite nei trattati precedenti e mantiene inalterata la prerogativa statale nella gestione dei flussi d’ingresso. Meritano di essere citate la Direttiva 2004/114/CE del Consiglio del 2004 relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per motivi di studio, la Direttiva 2004/81/CE del 2004 riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un'azione di favoreggiamento dell'immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti, la direttiva 2005/71/CE per l'ammissione di cittadini di Paesi terzi a fini di ricerca scientifica, la direttiva 2008/115/CE relativa al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolarmente soggiornanti. Infine, particolarmente importante e significativa è stata l’emanazione della Direttiva 52/CE [4] del 2009 in cui Consiglio e Parlamento europeo hanno introdotto norme relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Le recenti azioni dell’Unione Europea sull’immigrazione: inversione di tendenza? La “Primavera Araba” del 2011 ha drammaticamente riportato all’interno delle Istituzioni europee il tema dell’immigrazione. La necessità di aprire una nuova fase di politiche migratorie comunitarie non è solamente dettata da freddi rilievi statistici del fenomeno migratorio nel vecchio continente ma da nuove dinamiche economiche, sociali e politiche che riguardano non solo i Paesi geograficamente più vicini all’Europa. Dagli ultimi interventi della Commissione emerge proprio il tentativo di riportare il tema dell’immigrazione su un piano che non sia solamente quello della sicurezza, ma anche e soprattutto sul piano dei diritti umani, dell’integrazione, della gestione dei flussi regolari, di una nuova politica di vicinato che miri a promuovere lo sviluppo economico dei Paesi in questione. Strettamente legata a quanto accaduto in Nord-Africa nei primi mesi del 2011 è la Comunicazione della Commissione europea del marzo 2011 dal titolo: “Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il mediterraneo meridionale”. Qui l’Europa rivendica un ruolo da protagonista nell’azione di sostegno a tutti i Paesi che manifestano il loro impegno per la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, il buon governo e lo Stato di diritto. Oltre ad istaurare una nuova partnership di vicinato occorre sviluppare una concezione più moderna di integrazione. Per questo motivo la Commissione, spinta dai risultati di un sondaggio di Eurobarometro [5] sulla qualità dell’integrazione degli immigrati dei Paesi terzi nella società europea, ha individuato alcuni punti cardine delle future azioni che l’Europa dovrà impostare attraverso l’agenda europea per l'integrazione del 2011: interazione sul luogo di lavoro e nelle scuole e contributo dei migranti alla cultura locale. Secondo quanto ribadito dalla Commissione, appare assolutamente fondamentale eliminare le barriere che ostacolano l’accesso dei migranti all’occupazione, anche in ragione del fatto che l’Europa si troverà ad avere una forza lavoro nettamente inferiore a quella attuale (circa 50 milioni di lavoratori europei in meno entro il 2060). Altro aspetto necessario ai fini di una maggiore integrazione sarebbe quello riuscire a fornire ai migranti gli stessi diritti degli Europei. Infatti, il mancato riconoscimento dell’istruzione e delle esperienze maturate al di fuori dell’Europa, oltre ad essere fattori discriminatori, espongono i migranti al rischio di disoccupazione, sottoccupazione e sfruttamento. Infine, come più volte dichiarato da Cecilia Malmström, Commissaria europea per gli Affari Interni, “per la riuscita dell’integrazione occorre che i migranti abbiano la possibilità di partecipare pienamente alle loro nuove comunità”. Per raggiungere questo obiettivo, oltre a promuovere la creazione di organismi consultivi locali, regionali e nazionali, all’interno della Commissione europea è emersa la necessità di agevolare il voto degli stranieri residenti nelle elezioni locali. Anche perché sono oltre 20,5 milioni gli stranieri residenti in Europa, un numero in costante crescita secondo recenti proiezioni statistiche: “in prospettiva – ha affermato Cecilia Malmström – l’Unione Europea ospiterà il 20% degli emigranti mondiali, che rappresenteranno il 13% della popolazione europea”. Il 18 novembre 2011 la Commissione europea ha pubblicato una Comunicazione sul nuovo Approccio Globale in materia di Migrazione e Mobilità (GAMM) aggiornando di fatto il documento precedente del 2005. Bruxelles oltre a ribadire gli strumenti giuridici e operativi sui tre pilastri base (migrazione regolare, migrazione irregolare, migrazione e sviluppo) ne
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aggiunge un altro: la protezione internazionale e la dimensione esterna della politica europea in materia di asilo. All’interno di quest’ultimo pilastro, i nuovi Programmi di Protezione Regionale (PPR) [6] rappresentano lo strumento principale per rafforzare i sistemi di asilo delle regioni e dei Paesi partner. Lo scorso 19 giugno la Commissione attraverso la comunicazione della “Strategia per l’eradicazione della tratta degli esseri umani” ha posto delle linee guida per contrastare le moderne forme di schiavitù che coinvolgono sempre più i migranti del vecchio continente. La legislazione dell’Unione Europea ha più volte affrontato la questione della tratta degli esseri umani nelle sue numerose specificità, ad esempio in relazione allo sfruttamento sessuale dei minori e alle sanzioni nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Si tratta di un tema che è oggetto di molteplici azioni a carattere nazionale, interregionale e di accordi bilaterali di Paesi membri con alcuni Paesi terzi. Per questo motivo, la Commissione con tale strategia intende offrire un quadro coerente dove ricondurre le iniziative esistenti e programmate e soprattutto fornire da supporto alla direttiva 2011/36/UE [7] concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. Da questi esempi appare evidente come le priorità dell’Unione Europea riguardo i migranti abbiano registrato un sostanziale cambiamento degli orientamenti rispetto ai programmi ed alle azioni della stessa UE fino ai primi anni del nuovo millennio. Ma nonostante lo sforzo di Bruxelles per scardinare il muro della diffidenza nei confronti degli immigrati, gli strumenti normativi, il deficit democratico all’interno delle Istituzioni europee e soprattutto l’estremo tentativo degli Stati di mantenere le prerogative sulle politiche migratorie, rendono le azioni dell’Unione Europea piuttosto lente, complesse, farraginose e quindi in ritardo con la necessità di decisioni rapide che il mondo d’oggi richiede. [1] L’articolo 63 stabilisce che le misure riguardanti l’immigrazione “non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali”. [2] Si veda: Capo III “Asilo e Immigrazione” delle Conclusioni della Presidenza sul Vertice di Siviglia del 21 e 22 Giugno 2002 consultabili su questo link. [3] Ad esempio le norme che contemplano il diritto alla vita (art.2), all’integrità fisica e psichica (art.3), alla libertà e sicurezza (art.6), al rispetto della vita privata e familiare (art.7), all‟istruzione (art.14), alla prevenzione sanitaria (art.35), ad un ricorso giurisdizionale effettivo ed imparziale (art.47) e il divieto della schiavitù e del lavoro forzato, della tortura o dei trattamenti inumani e degradanti (art.4), il diritto alla parità di trattamento dei lavoratori stranieri con quelli comunitari (art.15), divieto di espulsione verso uno Stato in cui c’è il rischio di essere sottoposto a pena di morte o a trattamenti inumani o degradanti (art. 19). [4] Questa direttiva è stata recepita dall’Italia solamente il 6 luglio 2012 attraverso un decreto legislativo. Nonostante ciò l’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha evidenziato alcune gravi lacune nell’attuazione delle disposizioni della direttiva stessa. [5] Sondaggio consultabile online a questo link. [6] Per approfondire il contenuto degli PPR consultare questo link: [7] Documento consultabile su questo link.
*** BloGlobal – Osservatorio di Politica Internazionale Research Paper
Coordinamento editoriale a cura di Maria Serra e Giuseppe Dentice
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