N°1, 18 DICEMBRE 2016 – 14 GENNAIO 2017 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 15 gennaio 2017 ISSN: 2284-1024 A cura di: Oleksiy Bondarenko Davide Borsani Davide Costolino Giuseppe Dentice Nicolò Fasola Vladislav Krassilnikov Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Fabio Rondini Maria Serra
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FOCUS SIRIA-IRAQ ↴
L’accordo di cessate il fuoco siglato lo scorso 28 dicembre tra il governo di Damasco e la cosiddetta opposizione moderata sotto la mediazione di Russia e Turchia, in vigore dalla mezzanotte del 30 dicembre, ha aperto una nuova fase non solo del conflitto e delle operazioni belliche sul territorio siriano ma anche, e soprattutto, della regia diplomatica per una soluzione concertata e condivisa al conflitto. Dal primo punto di vista l’intesa – specificatamente composta da tre parti, relative alla cessazione in senso stretto delle ostilità, all’implementazione di misure di monitoraggio e all’avvio di negoziati di pace generali – include tutte le aree del Paese e i gruppi armati attivi dell’Esercito Libero Siriano (FSA) politicamente sostenuti dal Consiglio Nazionale Siriano ed esclude lo Stato Islamico (IS) – che mantiene i propri avamposti siriani nel corridoio dell’Eufrate che conduce da Raqqa ad Abu Kamal, a Palmira (riconquistata nei primi giorni di dicembre) e a nord-est di Aleppo –, Jabhat Fatah al-Sham (JFS) e le altre formazioni jihadiste legate al network qaedista – che hanno la loro roccaforte nella provincia nord-occidentale di Idlib –, nonché, come richiesto dalla Turchia, anche le Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG). Se nel lungo periodo la posizione turco-russa sulla questione curda ha la capacità di allontanare nuovamente i due Paesi (storicamente Mosca appoggia infatti le istanze curde), nell’immediato ha avuto l’evidente effetto di indebolire ulteriormente il ruolo degli Stati Uniti (il cui supporto logistico e militare alle milizie curde costituisce il principale motivo di contrasto con Ankara), se non dal punto di vista militare 1
certamente da quello diplomatico. L’accordo tra Russia e Turchia, delineato già nel Vertice di Mosca del 20 dicembre e nella cui cornice è inserito anche l’Iran, punta a ridimensionare il ruolo occidentale (esemplificativa è la bocciatura russa della prima bozza di Risoluzione presentata dalla Francia al Consiglio di Sicurezza sull’invio di osservatori delle Nazioni Unite per il monitoraggio dell’evacuazione di Aleppo, infine approvata il 19 dicembre, perché non inclusiva dell’approvazione di Damasco) e in particolare ad esautorare Washington – o quanto meno l’amministrazione Obama, anche alla luce degli ultimi attriti che esulano dal contesto siriano – dal processo negoziale, ponendo così il fronte sostenitore del regime di Assad quale unico garante del processo di pace e di quello politico che potrà delinearsi nel corso del Vertice di Astana annunciato per il prossimo 23 gennaio. Un appuntamento che pone in ogni caso alcune criticità. La prima riguarda la solidità dell’asse Russia-Turchia-Iran: oltre alla questione curda, la difficoltà con cui si è giunti all’implementazione dell’evacuazione umanitaria delle zone di Aleppo non ancora sotto il controllo delle forze alleate al regime di Assad e dei due villaggi sciiti di Fua e Kefraya nella provincia di Idlib, tra il 14 e il 19 dicembre, certifica la diversità di vedute nelle fondamenta del possibile processo di transizione di ciò che rimane dello Stato siriano. Tali difficoltà hanno risieduto non solo certamente nella prosecuzione delle schermaglie con i ribelli ma anche nelle condizioni qui poste da Teheran, in un’ottica di un controllo specifico di quest’ultima sui territori siriani ancora in mano a JFS anche attraverso la promozione di un cambiamento demografico – in senso evidentemente sciita – tale da allineare il Paese a zone di influenza – e nello specifico quella nordoccidentale in un continuum ideale con il Libano – al fine di promuovere interessi più ampi. Secondariamente rimane da definire il tavolo negoziale del summit in Kazakistan, dove peraltro l’Egitto è stato chiamato dal Cremlino a svolgere una funzione di garanzia a conferma del rafforzamento della cooperazione bilaterale e del coinvolgimento del Cairo nel conflitto: oltre alla presenza e al ruolo che resta da definire degli Stati Uniti, lo stesso Iran si rifiuta di includere nelle trattative l’Arabia Saudita, mentre la Russia ha confermato che la partecipazione di Riyadh è essenziale, pur non specificando in quale fase dei colloqui questa verrà coinvolta; la Turchia è altresì orientata a chiedere l’esclusione dai negoziati delle milizie curde e arabe sunnite riunite sotto le Forze Democratiche Siriane (SDF) e sostenute da Washington, sebbene queste siano in prima linea impegnate nell’offensiva contro l’IS a Raqqa. Il 10 dicembre l’SDF ha infatti avviato la seconda frase dell’Operazione “Euphrates Wrath”, con la quale è coinciso il dispiegamento di altre 200 forze speciali degli Stati Uniti che ha consentito alla coalizione di avanzare di ulteriori 40 Km, di recuperare il controllo su 130 villaggi e di portarsi così a soli 5 Km dalla diga di Tabqah, la più grande in Siria. L’obiettivo è infatti di isolare le aree occidentali della capitale del sedicente Stato Islamico e di riconquistare l’avamposto in questione, privando i miliziani di al-Baghdadi di un fondamentale snodo operativo e spezzando loro i rifornimenti a cavallo dei governatorati di Raqqa e Aleppo. 2
SITUAZIONE MILITARE IN SIRIA (UPDATE AL 12/01)– FONTE: INSTITUTE FOR THE STUDY OF WAR (ISW)
Al tempo stesso la ripresa della diga e il tipo di controllo che si determinerà (vale a dire se l’SDF nel suo complesso o se la sola fazione dell’YPG, opzioni entrambe non accettabili per la Turchia) potranno indubbiamente avere nel lungo periodo importanti ricadute sul controllo e sull’influenza nei territori orientali della Siria, aree su cui si estende l’ombra lunga dello scenario settentrionale dove la stessa Ankara sta combattendo la formazione islamista ad al-Bab e dove per la prima volta il 30 dicembre sono intervenuti in supporto anche i bombardamenti dell’aviazione russa (tale postura è stata d’altra parte certificata dal memorandum russo-turco in materia di cooperazione aerea in ottica anti-terrorismo firmato il 12 gennaio). In ogni caso dal punto di vista tattico la mancanza di barriere naturali a protezione della diga Tabqah sta inducendo l’IS a proseguire nella strategia di attirare le forze della coalizione arabo-curda nei centri urbani, dove il gruppo è in grado di massimizzare i vantaggi attraverso la conduzione di una guerra irregolare utilizzando dispositivi esplosivi improvvisati (IED) e attentatori suicidi. La stessa tattica è d’altro canto applicata in Iraq, dove l’IS ha aumentato il numero degli attacchi sia a Baghdad, dove tra il 30 dicembre e l’8 gennaio – giorni simbolicamente importanti data la visita di Stato del Presidente François Hollande nella capitale irachena – ha condotto molteplici attentati nelle zone più densamente popolate, quali i mercati nel quartiere sciita del distretto sub-urbano di Sadr City e nel distretto di Russafa (ugualmente popolato da sunniti e sciiti), nonché nei pressi degli ospedali di al-Kindi e al-Jawader, uccidendo complessivamente circa 100 persone e ferendone decine. La libertà di manovra dello Stato Islamico nelle aree orientali di Baghdad e la pressione da questo stesso esercitata intorno al centro iracheno – nei territori settentrionali del governatorato del Wasit, in quelli meridionali di Diyala, a Samarra, Tikrit e Ramadi, dove sono stati sventati diversi attentati condotti con tattiche SVBIED e SVEST – se da un lato dimostra le difficoltà del gruppo nella campagna 3
di Mosul, dove ha subito diverse perdite, dall’altro certificata la capacità dei combattenti di al-Baghdadi di poter ancora sfruttare una vasta rete di supporto in territori che almeno formalmente sono stati riconquistati dall’esercito iracheno (ISF). Lo scopo è evidentemente quello di minare la tenuta del governo di Haider al-Abadi, oggetto dalla seconda metà del 2016 di numerose proteste locali, e di trattenere nella capitale le forze di sicurezza scoraggiandole dal rafforzare la presenza a Mosul.
Dopo una sostanziale fase di stallo seguita a quella che sembrava una rapida presa della città, il dispiegamento di ulteriori unità della polizia federale al fianco dell’esercito e l’incremento dei formatori della coalizione anti-IS hanno consentito l’avvio dal 29 dicembre di una seconda fase della campagna e la pressoché totale ripresa del controllo dei territori orientali e sud-orientali della città. L’ingresso del Servizio anti-terrorismo (CTS) nel campus universitario di Mosul (possibile grazie ad
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un’operazione combinata dai territori settentrionali tra il 5 e il 6 gennaio), insieme con l’uccisione il 13 gennaio di Taes Bill Monti (noto come Abu Omer Hollandi, comandante delle forze inghimasi del Califfato, ossia votate al martirio, che combattono ad est di Mosul), proietta dunque le forze irachene sulle sponde del Tigri e prelude ad un’offensiva sulla parte occidentale della città. Se mantenuta la posizione, l’azione si rivela tuttavia complicata dal fatto che i caccia della coalizione internazionale hanno colpito e distrutto quattro dei cinque ponti che collegano le due aree del centro; con ogni probabilità le forze irachene saranno costrette a costruire dei passaggi (com’era stato fatto a Qayyarah, nella scorsa estate) e dunque ad allentare le operazioni di riconquista, favorendo il ricompattamento dello Stato Islamico ed esponendo la popolazione civile ad una massiccia offensiva del gruppo in questione.
SITUAZIONE MILITARE SUL CAMPO A MOSUL
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STATI UNITI ↴
A pochi giorni dalla cerimonia di insediamento (il prossimo 20 gennaio), il Presidente eletto Donald Trump ha preso parte ad una conferenza stampa – la prima da cinque mesi a questa parte. Tema centrale dell’incontro con i giornalisti è stato il ruolo giocato dal Cremlino nell’influenzare le scelte di voto degli americani durante le ultime elezioni presidenziali. Stando alle indagini condotte da diverse agenzie di intelligence USA (tra cui CIA, FBI, NSA e National Intelligence), Mosca sarebbe intervenuta nel processo elettorale americano con il fine di minare alle basi la fiducia della popolazione nella democrazia statunitense e di favorire il candidato repubblicano, presumibilmente per via della sua volontà, espressa a più riprese nel corso della campagna elettorale, di modificare significativamente il corso dei rapporti fra Stati Uniti e Federazione Russa e di instaurare relazioni più cooperative, in particolare in nome del contrasto al terrorismo internazionale. In occasione della conferenza stampa, tenutasi presso la Trump Tower lo scorso 11 gennaio, il magnate di Manhattan ha per la prima volta ammesso inequivocabilmente che «per quanto riguarda l’hacking, penso che sia stata la Russia». Un simile cambiamento di posizione sembrerebbe da imputarsi ad un briefing su materiale classificato tenuto congiuntamente il 6 gennaio dalle presidenze della National Security Agency, del Federal Bureau of Investigation e della Central Intelligence Agency, alla presenza, inoltre, del Direttore della National Intelligence, stando a quanto sostenuto da The Atlantic. Tale dichiarazione, tuttavia, è stata immediatamente diluita dalla seguente affermazione, secondo cui «penso, però, che subiamo hacking anche da altri Paesi e altre persone», e da ulteriori riferimenti alle operazioni informatiche condotte dal governo cinese ai danni di agenzie governative americane. Inoltre, sebbene egli abbia condannato l’hacking in quanto tale, Trump parrebbe aver
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accolto con favore le comunicazioni private politicamente scomode che esso ha portato alla luce, affermando «ma guardate cosa abbiamo appreso dal hacking». Infine, il Presidente eletto ha attaccato il Partito Democratico, colpevole, a suo giudizio, di non essersi dotato di una infrastruttura informatica sufficientemente adeguata a prevenire attacchi di natura cibernetica, secondo quanto riportato dal Washington Post. L’ambiguità dimostrata da Trump nei confronti di Mosca contrasta nettamente con gli umori dell’establishment repubblicano, nonché con le posizioni dell’amministrazione Obama. Infatti, il 10 gennaio i Senatori repubblicani John McCain, Presidente della Commissione Servizi Armati del Senato, e Lindsey Graham, insieme al Senatore democratico Ben Cardin, ranking member della Commissione Relazioni Estere del Senato, hanno presentato un disegno di legge, noto come Countering Russian Hostilities Act of 2017, il quale accoglie le sanzioni recentemente imposte dal Presidente uscente ai danni del governo russo e ne impone di nuove, segnatamente ai danni dei settori energetico e militare russo e delle banche che aiutano la Russia a vendere titoli di debito pubblico, stando a quanto riportato dal Wall Street Journal. I rapporti con la Federazione Russa hanno occupato un ruolo di primo piano anche nel corso dell’udienza di conferma al Senato di Rex Tillerson, nominato da Trump per diventare il prossimo Segretario di Stato. L’ex Amministratore Delegato del colosso petrolifero ExxonMobil ha adottato particolare cautela, prendendo talvolta le distanze dalle posizioni del Presidente eletto, ma non riuscendo, ciononostante, a persuadere completamente la commissione della Camera alta, secondo l’analisi della CNN. Infatti, pur sostenendo la necessità di opporsi “duramente” ai tentativi messi in atto da Vladimir Putin di espandere l’influenza russa, Tillerson ha suscitato non poche perplessità allorché ha preferito non designare il Presidente russo come criminale di guerra in considerazione delle operazioni militari condotte in Cecenia. Ulteriore nodo critico rimangono, infine, i potenziali conflitti di interessi posti dagli interessi privati di Tillerson, laddove si consideri che le sanzioni imposte contro la Russia ostacolano significativamente gli affari della ExxonMobil – una questione affrontata soltanto parzialmente nel corso dell’udienza parlamentare.
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TERRORISMO ↴
Confermando una tendenza delineatasi dagli attentati di Bruxelles (22 marzo 2016) in poi, lo Stato Islamico (IS) sta affrontando una fase di profonda difficoltà tattica, operativa e di risorse dettata da una complementarietà di situazioni avverse figlie di cospicue perdite umane subite a livello di vertici e di uomini sul campo di battaglia (vedi le uccisioni di alcuni leader dell’organizzazione come al-Adnani e alShishani e la drastica riduzione di circa il 30-40% del flusso di foreign fighters verso il teatro di guerra siro-iracheno), nonché di cocenti sconfitte riportate dalle milizie del califfo tra Siria e Iraq, comportando un ulteriore ridimensionamento territoriale (circa il 30%) nel solo 2016. Questo contesto ha di fatto favorito anche un cambio di strategia e di modus operandi dell’organizzazione, che è passata dal difendere un concetto di protostatualità per tornare ad abbracciare il movimentismo internazionalista islamista, più simile al qaedismo. Un cambio di paradigma che da un lato potrebbe aumentare la competizione intra-jihadista con al-Qaeda, dall’altro favorire una crescita della pericolosità di IS, a causa sia della nuova natura multiforme dell’organizzazione sia della dispersione dei suoi miliziani tra Europa e Medio Oriente. Gli attentati avvenuti e sventati hanno evidenziato sì l’esistenza di una rete terroristica transnazionale radicata e attiva tra Europa e area MENA, in grado di colpire i territori con grande rapidità e con scarsa preparazione, ma vedono soprattutto le forze di polizia e di sicurezza affrontare minacce sempre più asimmetriche e poco convenzionali: cellule più o meno strutturate, alcune delle quali plausibilmente collegate all’IS, capaci di agire in gruppi ristretti di uno-tre soggetti e pronte a colpire con azioni fulminee, spesso improvvisate, ma non per questo meno letali.
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Inoltre i tragici eventi di Nizza, Charleroi, Ansbach, Würzburg, St. Etienne du Rouvray, Berlino, Bangkok, Kabul, Istanbul, al-Karak, Gerusalemme, al-Arish, Baghdad, Mogadiscio, Aden – solo per citare i principali avvenuti nel secondo semestre del 2016 – hanno dimostrato ancora una volta come il fenomeno terroristico sia in costante evoluzione, nonché che la lotta e il contrasto all’IS non sia confinato al solo Medio Oriente. Un fenomeno e un messaggio radicale che, quindi, diventano sempre più globali. Pare pertanto evidenziarsi l’ennesimo salto di qualità nella tattica militare e di comunicazione dello Stato Islamico.
GIORDANIA, 18 DICEMBRE 2016 ↴ Un commando di 6-7 uomini armati ha lanciato una lunga operazione militare contro il complesso turistico di al-Karak, 120 chilometri a sud di Amman. Il gruppo, entrato in azione fin dalle prime ore della giornata, ha attaccato la sicurezza uccidendo due poliziotti a difesa dell’area archeologica. Durante l’attacco al sito sono stati presi in ostaggio numerosi turisti, molti dei quali stranieri e occidentali. Nel corso delle operazioni di liberazione condotte dai Reparti Speciali dell’esercito giordano, gli assalitori sono stati uccisi, ferendo anche alcuni degli ostaggi. Il bilancio totale conta 10 vittime e circa 27 persone ferite. L’attacco, rivendicato il 20 dicembre dallo Stato Islamico (IS), rappresenta il più grave atto di terrorismo avvenuto nel Paese, fin dai tempi degli attentati qaedisti condotti dalla cellula di Abu Musab alZarqawi nel 2005 ad Amman contro alcune catene alberghiere, che provocarono una sessantina di vittime. Sebbene a lungo sia rimasta quasi distante dalle violenze che hanno contraddistinto la regione circostante, il Paese non risulta immune all’escalation di attacchi che da circa due anni, seppur ancora su bassa scala e in alcuni casi in circostanze non del tutto chiare (come nei casi degli attentati alla base aerea Principe Faysal nell’area di al-Jafr o a quelli ai campi profughi di al-Rukban e Buqaa), stanno intaccando la stabilità della monarchia hashemita. La Giordania è parte della coalizione internazionale a guida statunitense e ha condotto alcuni raid aerei contro l’IS in Siria, dopo che alcuni miliziani dello Stato Islamico avevano ucciso il 3 gennaio 2015 il pilota dell’aviazione giordana Muath al-Kasasbeh. Anche in virtù di ciò il Paese sta affrontando una duplice minaccia: da un lato il radicamento dell’estremismo islamista salafita, in particolare nelle aree più depresse del Regno; dall’altro, e non meno preoccupante, si sta rivelando la crescita della minaccia terroristica legata in maniera più o meno diretta all’islamismo radicale e salafita dell’IS e/o di al-Qaeda. Una situazione divenuta sempre più preoccupante per le autorità giordane a causa di una compresenza di fattori destabilizzanti esogeni (prossimità della minaccia jihadista e pericolo costante di un effetto spill over delle violenze dalla Siria e dall’Iraq nel Paese) che si innestano all’interno di un contesto nazionale critico, caratterizzato da profondo malcontento sociale – soprattutto nelle zone peri-
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feriche più disagiate –, da una significativa presenza di cellule salafite sul suolo giordano e, infine, da un numero sempre più rilevante di rifugiati siriani, che rischiano di incrinare il già fragile quadro sociale giordano. Questi fattori potrebbero essere sfruttati da IS o al-Qaeda per fare proselitismo e per destabilizzare un territorio strategico negli equilibri della regione. A contribuire in una tale esplosione dello scenario di crisi potrebbe aggiungersi anche il dilagare del fenomeno legato ai jihadisti giordani di ritorno dai teatri di guerra siro-iracheni (circa 2.000 miliziani secondo il Soufan Group), che, una volta rientrati in loco, potrebbero sfruttare le proprie conoscenze e competenze acquisite sul campo di battaglia per esportare tali esperienze all’interno del Paese, lanciando così una sfida diretta all’integrità e alla stabilità della Giordania.
GERMANIA, 19-23 DICEMBRE 2016 ↴ Lo scorso 19 dicembre un camion, simile a quello utilizzato nell’attentato di Nizza del 14 luglio, è piombato sulla folla che gremiva i mercatini natalizi di Breitscheidplatz, nel quartiere occidentale di Charlottenburg a Berlino, uccidendo 12 persone e ferendone altre 50. Secondo le autorità tedesche l’attentatore – identificato nel ventiquatrenne tunisino Anis Amri solo in secondo momento (inizialmente era stato infatti fermato un giovane pachistano) e che per tale motivo ha avuto agio di riuscire a fuggire, per poi essere ucciso il 23 dicembre in Italia, a Sesto San Giovanni, nel corso di un normale controllo stradale – avrebbe rubato il tir poche ore prima nella stessa capitale e uccisone il conducente, il polacco Lukasz Urban. Con un comunicato diffuso dall’agenzia stampa Amaq, lo Stato Islamico (IS) il 20 dicembre ha rivendicato la paternità dell’attentato divulgando inoltre un videotestamento in cui lo stesso Amri giurava fedeltà al gruppo e prometteva vendetta per i raid compiuti in Siria. Malgrado il gesto sembri apparentemente ispirato e non direttamente coordinato dall’IS, e sebbene a comprova di ciò le indagini non abbiano fatto emergere l’evidenza di chiari complici, è indubbio che la facilità con cui l’uomo sia riuscito ad attraversare più Paesi nelle quarantotto ore successive all’attentato dimostra la possibilità di una forte rete che ne abbia supportato e concesso gli spostamenti, in particolare in Italia, dove Amri aveva trascorso un periodo di detenzione dopo i disordini causati da egli stesso nel centro d’accoglienza di Belpasso, in provincia di Catania, nel 2011 dopo l’arrivo dalla Tunisia. La stessa Direzione Amministrativa Penitenziaria lo aveva segnalato all’Anti-Terrorismo come soggetto pericoloso e radicalizzato e successivamente al SIS (Sistema Informazioni Schengen). Espatriato non essendo intervenuto il riconoscimento delle autorità tunisine, in Germania Amri sarebbe entrato in contatto con il predicatore salafita Abu Walaa (arrestato a novembre come reclutatore in Germania di leve dell’IS), ma si sospetta che abbia mantenuto i legami in Italia e in particolare nel centro-sud: ad Aprilia –
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dove alcune operazioni anti-terrorismo hanno rivelato come l’uomo vi abbia soggiornato lo scorso anno – e in Calabria, dove il terrorista ha dichiarato agli agenti di Sesto San Giovanni di essere diretto prima di aprire il fuoco. L’attentato di Berlino – che segue quelli di minore entità della scorsa estate ad Ansbach e a Würzburg, in Baviera, nonché le operazioni anti-terroristiche di Lipsia (nel corso della quale era stato arrestato il poi suicida Jaber al Bakr) e a Colonia – potrebbe far parte di un piano più massivo per colpire la Germania su tre fronti (meridionale, orientale e occidentale).
ATTENTATI E NUMERO DI VITTIME IN GERMANIA (2016) – FONTE: WIKIMEDIA COMMONS
Il 23 dicembre, infatti, le forze speciali tedesche hanno arrestato a Duisburg due uomini originari del Kosovo sospettati di preparare un attentato in un centro commerciale di Oberhausen, tra la stessa Duisburg ed Essen, nell’ovest della Germania. La possibile esistenza di una base logistica jihadista nella Renania Settentrionale-Vestfalia (dove lo stesso Amri pare abbia risieduto per un breve periodo), a diretto contatto con le aree belghe contraddistinte da un’alta attività anti-terrorismo dopo gli attentati di Parigi e di Bruxelles a cavallo del 2015 e 2016, apre indiscutibilmente scenari più complessi nella fluidità della rete terroristica in Europa.
TURCHIA, 19-31 DICEMBRE 2016/5 GENNAIO 2017 ↴ Non si placa l’ondata di terrore in Turchia. Due nuovi attentati terroristici, sebbene di differente matrice, hanno nuovamente sconvolto il Paese dall’inizio del nuovo anno. Proprio durante i festeggiamenti della notte di Capodanno è stato colpito un famoso locale di Istanbul, il Reina, situato nel quartiere di Beşiktaş, nella zona europea della città. L’attentatore, armato di kalashnikov, ha aperto il fuoco all’interno del locale sparando a caso tra i presenti; il bilancio finale è stato di 39 morti, la maggior parte dei quali stranieri, e 70 feriti.
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Nelle ore immediatamente successive all’attacco è stata lanciata la caccia all’uomo in tutta la Turchia con il coinvolgimento di migliaia di uomini delle forze di polizia turche. Nei giorni successivi, nonostante le difficoltà nelle indagini e nella ricostruzione della dinamica dei fatti del 31 dicembre, la polizia turca sarebbe riuscita ad identificare l’attentatore: si tratterebbe di un cittadino uzbeko, Abdul Kadir Masharipov, noto con il nome in codice Muhammed Khorasan. L’attentatore risulta ancora in fuga grazie soprattutto alle forti reti di complicità delle quali sembra ancora godere, in particolare nella città di Konya, nel cuore della penisola anatolica, quest’ultima meta principale delle rotte di immigrazione clandestina centrasiatica, nonché luogo di rifugio per soggetti islamisti radicali del Paese e dell’area eurasiatica. A meno di 48 ore dall’attentato è giunta la rivendicazione in turco da parte dello Stato Islamico (IS), attraverso la propria agenzia stampa Amaq, che ha parlato dell’attentatore come di un «eroico soldato del califfato» e del locale Reina come «il più famoso nightclub dove i cristiani stavano celebrando la loro festa apostatica». Nel comunicato di rivendicazione si attacca ancora una volta la Turchia definendola «serva dei crociati». Il secondo attentato dall’inizio del 2017, invece, non sembrerebbe di matrice jihadista, ma piuttosto riconducibile alla pista curda. Il 5 gennaio un’autobomba è esplosa nei pressi del check point della polizia posto a presidio del tribunale di Smirne; una seconda autobomba è stata invece fatta brillare dagli artificieri in un secondo momento. Subito dopo l’esplosione la polizia ha ingaggiato uno scontro a fuoco con i terroristi uccidendone due; il terzo risulta invece essere ancora in fuga. Secondo il governatore della Provincia, Erol Ayyıldız, dietro l’attentato ci sarebbero gli indipendentisti curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK); l’accusa sembrerebbe quantomeno verosimile considerando la dinamica dei fatti e soprattutto il luogo dell’attacco e l’obiettivo, le forze di polizia turche, sebbene l’ipotesi più verosimile sia riconducibile alla fazione scissionista dello stesso gruppo, ossia il TAK, i cosiddetti Falchi della Libertà. Del resto negli ultimi mesi e più precisamente dal fallito golpe del 15 luglio 2016, non si è mai arrestata la politica repressiva ed epurativa condotta in prima persona dal Presidente Recep Tayyip Erdoğan nei confronti dei congiuranti vicini al predicatore Fethullah Gülen, ritenuto quest’ultimo la mente del fallito colpo di Stato. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 sono stati emessi centinaia di ordini di arresto e detenzione nei confronti di uomini politici, giornalisti, intellettuali e anche imprenditori accusati di avere legami con Gülen e con il PKK. Proprio il 27 dicembre è iniziato il processo contro i poliziotti accusati di aver partecipato al golpe di luglio scorso. Una Turchia, dunque, colpita contestualmente su più fronti. Il Presidente Erdoğan ha parlato di un Paese «sotto attacco contemporaneo [da parte] di diversi gruppi terroristici» che mirano a mettere in ginocchio la Turchia. Emblematici del caos interno e delle difficoltà nazionali sono i fatti del 19 dicembre 2016: un poliziotto turco ha assassinato l’Ambasciatore russo ad Ankara, Andrev G. Karlov, ferendolo a morte durante un suo discorso in una galleria d’arte della capitale. Sebbene l’episodio non sia enucleabile nel lungo elenco di attacchi terroristici ai 12
danni della Turchia, risulta emblematico nella comprensione delle dinamiche e delle difficoltà che il Paese sta attraversando soprattutto a causa delle scelte politiche di Erdoğan. L’uomo, prima di essere a sua volta ucciso, avrebbe gridato «non dimenticatevi di Aleppo, non dimenticatevi della Siria». L’episodio, dunque, sarebbe legato alla politica che la Turchia sta conducendo in Siria, dove continua a bombardare le postazioni dei ribelli che aveva precedentemente sostenuto in funzione anti-Assad. Molti islamisti radicali recriminano ad Erdoğan la scelta di essersi alleato con i due nemici storici della Turchia, Russia e Iran, e di aver lasciato Aleppo, storica città ottomana, nelle mani di russi e sciiti.
PRINCIPALI ATTENTATI TERRORISTICI IN TURCHIA E NUMERO DI VITTIME (2015-2017) – FONTE: AFP
In questo quadro estremamente complesso, l’11 gennaio, durante una discussione sugli emendamenti della riforma costituzionale presentata dal Partito di maggioranza, l’AKP, e fortemente voluta dal Presidente Erdoğan, grazie alla quale la Turchia dovrebbe definitivamente assumere le sembianze di una repubblica presidenziale, si sono verificati tafferugli e scontri all’interno del Parlamento tra il partito di maggioranza e le opposizioni.
ISRAELE, 8 GENNAIO 2017 ↴ A Gerusalemme, nella zona meridionale della città santa alle tre religioni, un camion guidato da un palestinese ha travolto su un gruppo di soldati in congedo appena scesi da un autobus vicino al punto di controllo di Armon Hanatziv, un viale popolare per le passeggiate nella zona sovrastante la Città Vecchia, uccidendo quattro militari e ferendone 17. Sebbene le modalità di attacco, il camion-ariete, ricordino molto da vicino quelle di altri attentati avvenuti in Europa (Berlino e Nizza), quello di Gerusalemme è tuttavia differente a causa di diverse situazioni. Innanzitutto la tipologia non rappresenta una modalità nuova in Israele e/o Cisgiordania, poiché tale 13
tattica trova la propria origine nel 2011, mentre lo è per il Vecchio Continente in quanto lo Stato Islamico (IS) ha fatto propriamente sua, importando e per certi versi migliorando, una tecnica aliena al suo repertorio. Inoltre, l’atto non è stato rivendicato da alcuna sigla, sebbene il Premier Benjamin Netanyahu abbia fin da subito indicato nell’IS il referente oggettivo e morale dell’attacco. Hamas, attraverso la propria ala militare, le Brigate Izzedin al-Qassam, ha celebrato l’attentatore ucciso durante l’attacco come un eroe, ma al momento non emergerebbero collegamenti diretti tra l’aggressore, Fadi al-Qanbar, un palestinese di Jabal Mukaber, quartiere di Gerusalemme Est, e alcuna organizzazione estremista palestinese o movimento di liberazione della Cisgiordania. L’uomo aveva una patente israeliana e guidava un veicolo, rubato poco prima dell’atto, con targa di Israele. È possibile tuttavia che al-Qandar, seppur non collegabile all’IS o ad Hamas, sia stato ispirato nel compiere l’attacco anche in virtù della difficile condizione politica che vivono
oggigiorno
i
palestinesi,
stretti tra divisioni interne agli establishment (lotte intestine a Fatah, ANP vs Hamas, etc.) e i rischi sempre più possibili di derive radicali violente. Proprio quest’assenza di alternative legali potrebbe essere sfruttata dalle due organizzazioni islamiste per incunearsi nel contesto di
crisi
palestinese
e
creare le basi per un rapporto tattico di cooperazione/competizione. In questo modo, la sovrapposizione tra Hamas e IS permetterebbe al primo di contenere le spinte sempre più radicali e di contestazione al suo interno, senza perdere il primato “ideologico” nella lotta di resistenza islamista palestinese, mentre alle cellule filocaliffali di aver un supporto più o meno tacito di Hamas nelle attività terroristiche del gruppo contro Israele. Pertanto è molto probabile che il prossimo e concreto terreno fertile alla “strana” alleanza possa avvenire a Gaza, da tempo incubatore di crisi irrisolte e brodo di coltura per nuove e sempre più violente pulsioni radicali anti-israeliane. Da parte sua, l’ennesimo attentato contro obiettivi sensibili (forze di sicurezza e postazioni militari) e/o soft target (attacco al Sharona Market di Tel Aviv del giugno scorso) nel cuore delle città israeliana crea nuove timori per l’esecutivo in carica, già duramente attaccato al suo interno dalle frange più radicali della destra di governo e 14
dalle opposizioni laburiste e arabo-israeliane. Netanyahu è da loro accusato di aver fallito le sfide nell’attuazione di una politica di sicurezza nazionale adeguata, favorendo invece uno scontro sempre più aspro con le frange palestinesi – sebbene poi le singole parti politiche abbiano visioni e metodi di contrasto al problema del terroristico nettamente differenti tra loro. Si teme, dunque, una nuova escalation di violenze, rischio reso tanto più temibile se si considera il già difficile e precario contesto politico in cui avvengono i timidi tentativi internazionali di trovare una soluzione alla questione israelo-palestinese.
EGITTO, 9 GENNAIO 2017 ↴ Ancora un attentato si è verificato nel nord del Sinai, più precisamente ad alArish, dove un VBIED (Vehicle-Borne Improvised Explosive Device), un camion bomba, è stato lanciato contro una palazzina dell’esercito in cui vi erano gli alloggi dei commilitoni e degli ufficiali. Secondo le forze di sicurezza egiziane, la dinamica dell’attentato è ormai consolidata e presenta un modus operandi simile ad altri atti avvenuti in loco: giorni prima dell’attacco ignoti avevano rubato un camion della spazzatura, il quale è stato blindato e corazzato adeguatamente in modo da resistere alle sollecitazioni esterne ed è stato, infine, caricato di esplosivo, in modo da massimizzare il numero di vittime. L’attacco, che ha provocato 10 morti e il ferimento di 22 persone, è stato rivendicato il 10 gennaio dal Wilayat Sinai (WS), la branca egiziana dello Stato Islamico e precedentemente nota fino al novembre 2014, ossia alla bayah (dichiarazione di fedeltà) al sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi, come Ansar Bayt al-Maqdis. Seppur ridimensionato nelle proprie forze e capacità operative a causa di alcune uccisioni eccellenti di leader militari (non ultimo nell’agosto 2016 Abu Duaa al-Ansari) da parte delle forze di sicurezza egiziane durante le operazioni di counter-terrorism nella penisola sinaitica e nelle principali città del Paese, il gruppo – noto anche per essersi accreditato la paternità dell’esplosione in volo dell’Airbus 321 della russa Metrojet, il 31 ottobre 2015 – è il principale responsabile degli oltre 2.000 attentati avvenuti dalla deposizione di Mohammed Mursi (luglio 2013) ad oggi, continuando di fatto a rappresentare la principale minaccia alla stabilità dello Stato.
ATTENTATI TERRORISTICI IN EGITTO E NUMERO DI VITTIME (2013-2016) – FONTE: TIMEP
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Non meno rilevanti in termini di pericolosità si posizionano altri gruppi in costante ascesa nella galassia jihadista autoctona egiziana, come il movimento Hassm, Liwa al-Thawra o i Comitati di Resistenza Popolare, organizzazioni terroristiche facenti parte del mondo più o meno scissionista della Fratellanza Musulmana e responsabili di numerosi attentati contro personalità politiche, militari o istituzionali di spicco del panorama egiziano (come nel caso dell’uccisione del procuratore generale della Repubblica Hisham Barakat, morto a causa dell’esplosione di un autobomba il 2 luglio 2015). La prova di forza del WS e dell’IS nel suo complesso in Egitto non pone solo una minaccia alla sicurezza del Paese, che rimane l’obiettivo immediato dei terroristi, ma rappresenta ancor di più un serio problema alla stabilità sub-regionale (Libia e Striscia di Gaza) e, in particolare, a Israele (sono sempre più numerosi le segnalazioni da parte dell’intelligence israeliana di possibili infiltrazioni jihadiste e attacchi in Cisgiordania e nel Negev israeliano), target finale dell’offensiva di WS e di IS. Una situazione complessiva che denota, dunque, un innalzamento della globalità della minaccia di IS e della strategia di espansione/radicamento territoriale del brand e del network nel Vicino Oriente.
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BREVI AFGHANISTAN, 11 GENNAIO 2017 ↴ Non è un inizio 2017 sereno in Afghanistan, dove la latente attività militare dei talebani contro il governo continua a mietere vittime. Un nuovo doppio attentato a Kabul, non lontano dalla sede del Parlamento ha causato la morte di almeno 33 persone, ferendone circa 70. Anche se non ci sono conferme ufficiali, la maggioranza delle vittime sarebbero membri del personale del Parlamento. A rivendicare l’attacco è stato il movimento dei talebani afghani che tramite le parole del proprio portavoce, Zabihullah Mujahid, ha sottolineato come il bersaglio principale dell’atto terroristico fossero alcuni membri del Direttorio Nazionale della Sicurezza, i servizi segreti nazionali. Quello di Kabul però non è stato l’unico episodio di violenza che ha scosso il Paese. A poche ore di distanza, infatti, nella provincia meridionale di Kandahar un’altra esplosione nel quartiere governativo ha provocato numerose vittime, ferendo l’Ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti e il governatore locale. La nuova escalation di violenze si inserisce in un quadro particolarmente complesso ed instabile che lo scorso luglio aveva già costretto l’amministrazione Obama e il Segretario Generale della NATO ad annunciare il prolungamento della missione in Afghanistan oltre il 2016. Quello che preoccupa maggiormente, però, è la progressiva e sostanziale perdita di controllo da parte del governo su alcune province periferiche del Paese. Negli ultimi mesi, infatti, si sono susseguiti scontri e azioni militari nella provincia di Kunduz (nel nord) e soprattutto nelle regioni confinanti con il Pakistan, come Kandahar e Helmand, dove i talebani detengono di fatto il potere. Proprio il Pakistan, infatti, continua a giocare un ruolo cruciale sia negli infruttuosi tentativi negoziali, sia tra le varie fazioni dei talebani stessi che rimangono fortemente divisi al loro interno. A complicare ulteriormente la situazione vi è anche la nuova strategia del governo, che negli ultimi mesi starebbe cooptando alcuni comandanti militari talebani con l’obiettivo di creare vere e proprie “milizie segrete” che possano infiltrare le forze dell’insurrezione.
ISRAELE-PALESTINA, 23 DICEMBRE 2016 ↴ Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 2334 che condanna l’instaurazione e il consolidamento delle colonie israeliane nei Territori Occupati Palestinesi. La decisione, approvata con 14 voti favorevoli e l’astensione degli Stati Uniti, oltre a chiedere a Tel Aviv di cessare la propria politica di insediamenti
nei
territori
palestinesi,
inclusa
Gerusalemme
Est,
insiste
sull’importanza della creazione dei due Stati come unica soluzione per una pace 17
stabile in Medio Oriente. L’Ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha giustificato la posizione americana con la consapevolezza che la continua costruzione di insediamenti israeliani, oltre a costituire una grave violazione del diritto internazionale, avrebbe minacciato la sicurezza stessa di Tel Aviv, aggiungendo che per
Washington
non
sarebbe
stato
possibile
continuare
a
difendere
contemporaneamente l’espansione israeliana e la soluzione dei due Stati sostenuta dalla comunità internazionale. Power ha ribadito che, comunque, il sostegno di Washington al proprio alleato storico in Medio Oriente non sarebbe cessato. L’astensione, inoltre, testimonia il netto peggioramento nei rapporti tra Stati Uniti e Israele durante l’amministrazione Obama e ha scatenato l’ira delle autorità israeliane. Il rappresentante dello Stato ebraico presso l’ONU, Danny Danon, ha definito la decisione “vergognosa” e il governo di Tel Aviv ha emesso una nota nella quale dichiara di non aver nessuna intenzione di osservare le suddette richieste. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si era persino rivolto, senza successo, al Presidente eletto Donald Trump per fermare l’approvazione della Risoluzione. Il tycoon ha commentato su Twitter «Le cose saranno diverse dopo il 20 gennaio (data del suo insediamento)». La futura rappresentante americana al Palazzo di Vetro, Nikki Haley, governatrice del South Carolina, ha sempre manifestato il proprio sostegno ad Israele e lo stesso Trump durante la campagna elettorale ha ripetutamente espresso il desiderio di adottare una politica estera molto più filo-israeliana di Obama.
LIBIA, 23 DICEMBRE 2016/9-13 GENNAIO 2017 ↴ Il 2016 libico si è concluso con un episodio di dirottamento di un Airbus A320 della compagnia privata locale Afriqiyah in volo interno nel Paese, da Sebha a Tripoli, che, una volta dirottato, è stato costretto ad atterrare in territorio maltese. I due dirottatori si sono detti membri di al-Fatah al-Gadida, un gruppo di sostenitori di Gheddafi, tanto che la richiesta fatta dai dirottatori riguardava proprio la scarcerazione di Saif al-Islam Gheddafi, uno dei figli dell’ex rais. Dopo alcune ore di trattative condotte direttamente da Tripoli i due dirottatori si sono arresi, rilasciando i 118 passeggeri e i due piloti in ostaggio, e si sono consegnati alle autorità maltesi. Il 2017, invece, si apre con un segnale positivo che giunge proprio dall’Italia, la quale ha scelto di riaprire la propria Ambasciata a Tripoli, nonostante la situazione tuttora carica di rischi. La scelta italiana si presenta come un importante segnale di amicizia nei confronti del popolo libico e di fiducia nel processo di stabilizzazione guidato da Fayez al-Serraj, segnando indubbiamente anche il tentativo italiano di ritrovare un proprio ruolo attivo nelle dinamiche complesse del Paese nordafricano. Con questi presupposti il 10 gennaio l’Ambasciatore Giuseppe Perrone ha presentato le proprie credenziali al Premier libico al-Serraj. Non sono mancate però aspre critiche da parte del Generale Khalifa Haftar alla scelta italiana: in una nota diplomatica, l’uomo forte di Tobruk ha definito l’apertura della sede 18
diplomatica una “nuova occupazione” da parte di Roma. La riapertura dell’Ambasciata è avvenuta in sostanziale concomitanza con la visita del Ministro degli Interni, Marco Minniti, il 9 gennaio a Tripoli dove ha incontrato al-Serraj, per discutere di gestione dell’immigrazione clandestina, di controllo delle frontiere e di contrasto al traffico di essere umani. Dal vertice bilaterale è emersa la concreta possibilità che si possa siglare un nuovo accordo con la Libia di Serraj, sulla falsa riga di quelli del 2008 e poi del 2012 con i quali venivano gestiti i flussi migratori provenienti dalle coste libiche. Sebbene auspicabile, tale intesa potrebbe essere de facto scarsamente efficace considerando l’incapacità dell’esecutivo di transizione giudato da al-Serraj nel controllare l’intero territorio, anche a causa delle difficoltà emerse non solo in rapporto all’altro governo, quello di Tobruk, ma anche nella gestione delle stesse forze avverse presenti a Tripoli. Emblematico in tal senso è il nuovo tentativo di colpo di Stato a guida di Khalifa Ghwell. Dopo il fallito golpe di ottobre, i miliziani fedeli all’ex Primo Ministro hanno nuovamente occupato, tra il 12 e il 13 gennaio, alcuni palazzi ministeriali (Interni, Esteri e Giustizia), ma esattamente come ad ottobre la situazione è rientrata in poche ore. Questo nuovo tentativo di golpe conferma ancora una volta la debolezza del governo al-Serraj e soprattutto la precarietà degli equilibri creatisi a Tripoli. Sul versate Tobruk si registra un nuovo passo sulla strada che porta Haftar verso Mosca: il 12 gennaio, il Generale, promosso Maresciallo di campo a settembre, ha avuto una videoconferenza sulla portaerei Kuznetsov, con il Ministro della Difesa russo, Sergej Shojgu, incontro che avrebbe avuto come obiettivo una possibile assistenza russa alle forze di Haftar nella guerra al terrorismo, ma nel quale le posizioni di Mosca sono sembrate, esattamente come già a novembre, restie, almeno per il momento, a contravvenire al divieto di vendita di armi in Libia così come sancito dal Consiglio di Sicurezza. Mosca sembra però disposta ad impegnarsi quantomeno
diplomaticamente
nei
consessi
internazionali
a
favore
di
una
cancellazione dell’embargo, in cambio, parrebbe, della possibilità di aprire una base militare russa vicino a Bengasi.
UCRAINA, 19-23 DICEMBRE 2016 ↴ Messa in secondo piano dallo scandalo degli attacchi informatici durante la campagna elettorale per le presidenziali americane e dal conflitto in Siria, la situazione in Ucraina rimane tutt’altro che stabile. Allo scadere di dicembre Unione Europea e Stati Uniti hanno di fatti prolungato le sanzioni economiche e le misure restrittive imposte a Mosca a causa dell’annessione della Crimea e del coinvolgimento russo nella guerra in Donbass. Il mancato progresso nella realizzazione degli accordi di Minsk, che nel febbraio 2015 avevano aperto una finestra di dialogo tra Kiev, Mosca e i separatisti di Donetsk e Lugansk, rimane il principale ostacolo alla cancellazione delle misure economiche restrittive imposte alla Russia a partire dal luglio 2014. Quello delle sanzioni, però, appare uno strumento 19
asimmetrico che difficilmente riuscirà a modificare la posizione russa nella crisi ucraina. Le stesse basi degli accordi di Minsk, inoltre, risultano fragili e alcuni punti apparentemente inapplicabili da nessuna delle parti in causa, Kiev compresa. Intanto, mentre l’attenzione mediatica sembra sempre più progressivamente spostarsi verso altre zone calde, il Donbass vive il suo terzo inverno di guerra. Nonostante ufficialmente sia in vigore una tregua, gli scontri armati tra l’esercito regolare e i ribelli si susseguono su base quotidiana, con una decisa intensificazione nel nuovo anno. La zona più critica è stata negli ultimi giorni dell’anno quella intorno alla città di Lugansk, dove si sono registrate, secondo le fonti provenienti dalla missione OSCE, numerose violazioni e l’utilizzo di artiglieria pesante che ha provocato vittime tra l’esercito ucraino. Numerosi villaggi e centri abitati da entrambe le parti della linea di demarcazione, inoltre, sono rimasti senza acqua corrente a causa dei danni provocati al sistema di acquedotti locali. Le continue violazioni della tregua continuano ad impedire infine la formazione della buffer zone lungo la linea di contatto, come accaduto ad esempio presso Stanytsia Luhanska, dove i separatisti hanno attaccato le postazioni dell’esercito regolare ucraino appena prima dell’inizio delle manovre di allontanamento. La situazione rimane tesa e non si può ragionevolmente escludere il rischio di una nuova escalation del conflitto.
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ALTRE DAL MONDO AUSTRALIA, 23 DICEMBRE 2016 ↴ La polizia australiana ha arrestato 7 persone accusate di organizzare attentati terroristici per conto dello Stato Islamico (IS) durante le feste natalizie a Melbourne. Secondo le ricostruzioni, i militanti dell’IS, tutti ventenni nati in Australia e di origine afghana, eccezion fatta per un egiziano, avrebbero avuto intenzione di effettuare un attacco multiplo con armi ed esplosivi in vari punti della città, sul modello degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Il capo della polizia dello Stato di Victoria, Graham Ashton, ha affermato che delle 7 persone arrestate, 5 sono rimaste in carcere, aggiungendo che la minaccia sventata si presentava come un pericolo “serio e reale”; parole riprese anche dal Primo Ministro, Malcolm Turnbull, che ha ringraziato ed elogiato la professionalità delle forze dell’ordine.
MACEDONIA, 25 DICEMBRE 2016 ↴ Il piccolo villaggio di Tearce, 50 km a nord-ovest della capitale Skopje, è stato chiamato a votare nuovamente per le elezioni parlamentari nazionali, già tenutesi l’11 dicembre scorso. Questo segue alla decisione della Commissione nazionale per le elezioni di dare seguito alle accuse di irregolarità sollevate dai socialdemocratici, il maggiore partito di minoranza. Pur contando soli 714 votanti registrati, questo distretto si presentava come decisivo, necessitando i socialdemocratici di appena 307 voti per ottenere un cinquantesimo seggio al Parlamento nazionale e dunque di fatto annullare l’irrisorio distacco dai conservatori di Nikola Gruevski, che avevano ottenuto 51 seggi su 120. Il nuovo risultato, tuttavia, non ha portato nella sostanza ad alcun cambiamento, riconfermando la risicata vittoria di questi ultimi, i quali dunque saranno ufficialmente incaricati di formare un governo – di coalizione, visti i numeri – per la guida del Paese. Globalmente, è osservabile come questa tornata elettorale supplementare si sia svolta agevolmente, senza intoppi di rilievo. È tuttavia in corso di verifica la fondatezza delle accuse mosse ad alcuni uomini di aver tentato di corrompere un buon numero di votanti per non farli accedere ai seggi. Quel che è certo, è che le elezioni del 25 dicembre non hanno né facilitato la formazione del nuovo governo né, più in generale, risolto l’annosa crisi politica che attanaglia il Paese dall’aprile 2015.
POLONIA, 16 DICEMBRE 2016 ↴ Sono ancora in corso nelle piazze delle principali città del Paese numerose proteste guidate dalle opposizioni parlamentari e dalla società civile contro i provvedimenti illiberali adottati dal governo di Diritto e Giustizia (PiS), partito nazionalista al potere da novembre 2015. L’innesco di quest’ultima ondata di proteste è stato duplice. Da un lato, il varo di un provvedimento di fatto limitante la libertà di stampa e di informazione. Con esso, infatti, la possibilità di seguire i lavori parlamentari da parte dei 21
media indipendenti è subordinata alle esigenze dei media di Stato – concedendo ai primi, discrezionalmente, soltanto dichiarazioni e audio vagliati e approvati. Dall’altro lato, il comportamento assunto in Parlamento dal governo. Dopo aver assistito ad una vigorosa protesta da parte dell’opposizione in merito alla suddetta legge, esso ha continuato i lavori legislativi in separata sede, interdicendovi l’accesso sia ai media sia agli altri partiti. Tra i provvedimenti votati in questo modo vi sarebbe anche la nuova legge di bilancio. L’esecutivo di PiS pare tuttavia rimanere insensibile al crescendo di proteste, limitandosi a formali aperture rispetto alla modifica dei propri atti – aperture puntualmente disattese nella sostanza. Il ripetersi di situazioni di questo genere ha inoltre portato rafforzato i crescenti dissapori emersi già da tempo tra Polonia e Consiglio d’Europa e Unione Europea. Stando così le cose, la possibilità che pure la Polonia scivoli verso il modello della “democrazia illiberale” si aggiunge ai già numerosi problemi che Bruxelles dovrà affrontare nel prossimo futuro.
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO, 20 DICEMBRE 2016 ↴ A seguito della decisione del Presidente Joseph Kabila, il cui secondo e ultimo mandato è scaduto il 19 dicembre, di nominare un nuovo governo, sono esplose violente proteste a Kinshasa, Lubumbashi, Matadi, Goma e nelle altre principali città del Paese. Le forze di sicurezza congolesi hanno ucciso almeno 40 manifestanti, mentre quasi 500 sono stati arrestati. Intanto procedono in questo clima di tensione le trattative tra governo e opposizioni, mediate dalla Chiesa cattolica locale: pare si sia raggiunta una prima bozza di accordo secondo la quale Kabila dovrà dimettersi entro la fine del 2017.
SOMALIA, 18 DICEMBRE 2016 ↴ Un furgone è stato fatto esplodere a Mogadiscio, capitale della Somalia nella zona portuale della città, uccidendo 29 civili e ferendo altre 50 persone. Secondo i testimoni, si sarebbero sentiti dei colpi di arma da fuoco subito dopo. L’attacco è stato rivendicato dal gruppo militante al-Shabaab. Secondo il loro portavoce, Sheikh Abdiasis Abu Musab, l’obiettivo erano gli agenti di polizia di stanza al porto. Con queste operazioni terroristiche, il gruppo estremista mira ad espellere dal Paese le forze di pace dell’Unione Africana e a rovesciare il governo somalo – sostenuto dalla comunità internazionale – per imporre la propria rigida versione dell’Islam in tutto il Corno d’Africa.
VENEZUELA, 4 GENNAIO 2017 ↴ Proseguono le tensioni tra il Parlamento e il Presidente Nicolás Maduro, già accusato lo scorso ottobre di aver impedito un referendum destitutivo sulla sua persona. L’Assemblea Nazionale ha approvato il 9 gennaio con 106 voti favorevoli una mozione di censura contro Maduro per “abbandono assoluto dell’incarico”, basata sull’articolo 233 della Costituzione e tuttavia nel frattempo invalidata dal Tribunale Supremo di 22
Giustizia, controllato dallo stesso regime chavista. Il Presidente venezuelano aveva nominato precedentemente il 42enne ex Ministro degli Interni di Hugo Chávez e rappresentante dell’ala più dura del regime, Tareck el-Aissami, suo nuovo vice Presidente, che potrebbe sostituirlo nel caso le richieste dell’opposizione per una sua destituzione e rimozione dall’incarico dovessero avere un seguito. Lo scontro istituzionale nel Paese, provato da una grave crisi economica, avviene proprio mentre, nei giorni scorsi, a seguito di un nuovo giro di vite del governo contro il dissenso interno, tre esponenti politici delle opposizioni sono stati arrestati.
YEMEN, 18 DICEMBRE 2016 ↴ La base militare di Aden, città portale nel sud dello Yemen, è stata colpita da un attentato. Un kamikaze si è fatto saltare in aria con una cintura esplosiva in mezzo ai militari in coda per ricevere lo stipendio. Le fonti ufficiali yemenite hanno contato 49 morti e 50 feriti. L’attacco non è stato ancora rivendicato ma sarebbe riconducibile al ramo yemenita dell’organizzazione terroristica di al-Qaeda. Non è la prima volta che i kamikaze entrano in azione ad Aden contro i militari della coalizione saudita, che sostiene il ritorno dall’esilio del governo riconosciuto a livello internazionale.
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ANALISI E COMMENTI LA GIORDANIA FRA TENTATIVI DI INCLUSIONE, SPINTE RIFORMISTE E VECCHIE TENTAZIONI DI ACCENTRAMENTO DEL POTERE
MATTEO ANASTASI ↴ Il 20 settembre scorso la Giordania si è recata alle urne per votare il rinnovo del Parlamento di Amman. Un appuntamento molto atteso per un Paese simbolo e speranza di stabilità nel Medio Oriente contemporaneo. Il voto ha rappresentato una tappa importante e in un certo senso terminale di un più articolato processo di riforme che il sovrano Abdullah II aveva pianificato nei passati mesi in risposta alle difficoltà economiche, sociali e politiche che il Paese stava e sta ancora vivendo e che solo in parte è riconducile alle difficoltà derivanti dal contesto regionale altamente critico. Un voto quindi che mira a favorire una ricomposizione degli equilibri interni, a rafforzare la vita istituzionale e sociale (attraverso una grande riforma del sistema scolastico) e, infine, a rilanciare un’economia ferma da diverso tempo. Da questa premessa si comprende l’importanza della consultazione elettorale, anch’essa preceduta dalle solenni dichiarazioni del regnante che ha auspicato regolarità nello spoglio e una partecipazione attiva della popolazione, ai fini di un’inclusione più ampia possibile. Per la prima volta si è votato con la nuova legge elettorale, introducendo un sistema proporzionale per liste distrettuali (…) SEGUE >>>
LA GLOBALIZZAZIONE E L’INTUIZIONE DI DONALD TRUMP VLADISLAV KRASSILNIKOV ↴ In uno dei più clamorosi colpi di scena nella storia politica americana, Donald J. Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti. Il messaggio anti-sistema del magnate di Manhattan, rivelatosi più potente di quanto qualsiasi sondaggio – con la notevole eccezione delle rilevazioni condotte dal Los Angeles Times, che per mesi ha dato Trump in vantaggio – sia riuscito a prevedere, ha permesso all’imprenditore prestato alla politica di cavalcare fino alla Casa Bianca un’ondata di risentimento degli sconfitti dalla globalizzazione, consentendogli di prevalere sul candidato democratico, Hillary Clinton, la cui vittoria era data per scontata quasi unanimemente dagli osservatori. Dal Washington Post a Time, fino al Guardian, i giorni precedenti all’Election Day sono stati segnati da titoli quali “Perché Hillary Clinton vincerà” e “Il caso è chiuso”. Abbondano in questi giorni le analisi che tentano di razionalizzare l’imprevisto esito delle elezioni, adducendo non di rado profetiche motivazioni che, col senno di poi, avrebbero dopotutto dovuto rendere chiaro sin da principio chi sarebbe stato premiato dall’elettorato americano in una corsa di fatto contesa fino all’ultimo voto. Basti pensare al fatto che all’indomani del voto la CNN ha stilato un elenco di ben ventiquattro chiavi di lettura che spiegherebbero la vittoria repubblicana. L’elezione di Donald Trump è una questione complessa che richiede una spiegazione articolata, che a sua volta auspicabilmente sollevi nuovi interrogativi, invece di pretendere di fornire ogni risposta (…) SEGUE >>>
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IL JIHADISMO IN EGITTO: VOLATILITÀ NEL SINAI E TENTATIVI DI PROIEZIONE NELL’ENTROTERRA SILVIA CARENZI ↴ Negli ultimi anni l’Egitto è divenuto oggetto di un’escalation jihadista, che si è esplicitata nell’esecuzione di attacchi comprendenti una pletora di obiettivi – non ultimo quello dello scorso 9 gennaio contro una palazzina dell’esercito ad al-Arish, che ha ucciso 10 persone, ferendone oltre 20 – e, soprattutto, non confinata alla penisola sinaitica, ma che al contrario si è inalveata anche nell’entroterra. Questo fenomeno non rappresenta un unicum nella storia del Paese: già tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta si poteva ravvisare tale tendenza, come pure negli anni Novanta, periodo di violenza endemica in cui l’Egitto era bersagliato dal gruppo al-Jama’a alIslamiyya e (seppur in misura minore) da Tanzim al-Jihad. Tuttavia, l’attuale ondata jihadista si inscrive in un quadro evenemenziale differente: dal punto di vista cronologico si colloca posteriormente alla cosiddetta “primavera araba”, in un contesto di transizione incompiuta, segnato dalla primazia dell’apparato statale sul cittadino – in cui a livello economico permangono delle disfunzionalità, mentre sul versante sociopolitico si registra un’acuta polarizzazione [2]. Sul piano geografico, di fatto, la minaccia terroristica in Egitto esibisce due vistosi epicentri, ossia la già citata penisola sinaitica e la regione del Cairo; ad ogni modo, non meno secondari si sono dimostrati altri punti focali, come la Valle e il Delta del Nilo, il Deserto Occidentale, il confine libico e l’Alto Egitto (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 25