OPI Weekly Report N°23/2016

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N°23, 25 SETTEMBRE - 8 OTTOBRE 2016 ISSN: 2284-1024

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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 9 ottobre 2016 ISSN: 2284-1024 A cura di: Giulia Bernardi Oleksiy Bondarenko Davide Borsani Eleonora Bacchi Giuseppe Dentice Danilo Giordano Vladislav Krassilnikov Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Fabio Rondini Maria Serra

Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma: Weekly Report N°23/2016 (25 settembre - 8 ottobre 2016), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2016, www.bloglobal.net

Photo Credits: Javier Soriano/AFP/Getty Images; Attila Kisbenedek/AFP/Getty Images; European Union Commission; Rick Wilking/Reuters; Reuters; cbc.ca; arabpress.eu; Semir Jovanovich/Anadolu.


FOCUS SIRIA-IRAQ ↴

Dopo l’ennesimo fallimento dei negoziati di pace in Siria, sono ripresi, in maniera sempre più violenta, i bombardamenti dell’aviazione governativa di Bashar alAssad e di quella russa sulla parte est della città di Aleppo, una delle ultime roccaforti dei ribelli siriani anti-regime e degli insorti islamisti. Nonostante la zona orientale della città sia ridotta ad un cumulo di macerie, Mosca ha fatto sapere di essere intenzionata ad inviare ulteriori aerei nell’area siriana sotto il controllo di Damasco, facendo intendere di voler intensificare i bombardamenti per giungere ad una soluzione definitiva per la città di Aleppo, mentre nella base russa di Tartus è stato schierato un nuovo sistema di difesa anti-missile S-300 ed S-400. Secondo l’UNICEF sono state uccise almeno 3.250 persone, inclusi 100 bambini, da quando la tregua negoziata da Stati Uniti e Russia è cessata lo scorso 19 settembre. Dopo l’utilizzo indiscriminato da parte delle truppe governative di barrel bombs, nel conflitto siriano sono apparsi per la prima volta le bunker buster bombs, ovvero ordigni capaci di causare la distruzione dei bunker sotterranei nei quali si annidano i ribelli, ma anche dove si rifugia la popolazione civile nel corso dei bombardamenti. Questa nuova tipologia di bombe è stata usata lo scorso 3 ottobre nel corso degli strikes russo-siriani nei confronti di uno degli ospedali di Aleppo, indicato come M10, causando la morte di sette persone, tra medici e manutentori della struttura. L’utilizzo di strumenti offensivi indiscriminati ha spinto il Segretario Generale uscente dell’ONU Ban Ki-Moon a parlare apertamente di «crimini di guerra», mentre il mediatore dell’ONU per la Siria, l’italiano Staffan de Mistura, ha definito i bombardamenti russosiriani «atti inumani e barbari». Lo stesso de Mistura ha lanciato infine un monito alle 1


parti in causa per una maggiore responsabilità, denunciando che «se i bombardamenti continueranno incessantemente e con la stessa intensità, Aleppo est sarà totalmente distrutta entro due mesi o due mesi e mezzo, e migliaia di persone saranno morte mentre festeggeremo il Natale». Anche in considerazione di ciò ha ripreso vigore sul piano diplomatico la proposta dello stesso inviato speciale delle Nazioni Unite di allontanare, sotto protezione ONU, i terroristi di Jabhat Fatah al-Sham (ex Jabhat al-Nusra) e i feriti civili, attraverso un corridoio umanitario ad hoc, fuori da Aleppo est in cambio della sospensione dei bombardamenti di Siria e Russia.

Il contesto diplomatico è tuttavia complicato dalla decisione degli Stati Uniti di sospendere le negoziazioni con la Russia per cercare di riprendere i colloqui di pace e garantire l’arrivo degli aiuti umanitari nelle zone più colpite: al di là delle differenze strategiche, Washington accusa Mosca di non impegnarsi nella ricerca della pace, mentre i russi accusano gli americani di continuare a sostenere alcuni gruppi di ribelli, tra i quali Jabhat Fatah al-Sham, considerati terroristi dal Cremlino. In questo ginepraio di accuse reciproche, ha fatto molto scalpore la diffusione di una registrazione audio nella quale il Segretario di Stato USA John Kerry rivelerebbe di essersi più volte espresso in favore di un intervento armato risolutivo, ma di non essere riuscito a convincere i suoi interlocutori. Rimane sempre alta in Siria la minaccia costituita dai miliziani del sedicente Stato Islamico (IS): il 3 ottobre un attentatore suicida si è fatto esplodere nel corso di un matrimonio curdo nella città di Hasakah, nel nord est del Paese, causando la morte di 22 persone.

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Per quanto riguarda il fronte iracheno, si avvicina il compimento di quella che potrebbe essere la soluzione definitiva per il Paese, ovvero la battaglia per la riconquista di Mosul dalle mani dei miliziani dell’IS. Lo ha rivelato il Ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, a seguito dell’invio, il 30 settembre scorso, di alcuni assetti aerei nella zona in questione per la conduzione di operazioni volte a fiaccare la resistenza dei miliziani dell’IS. Il giorno prima gli Stati Uniti avevano incrementato di 600 unità il numero dei soldati costituenti il contingente impegnato in Iraq, con lo scopo di fornire supporto logistico-addestrativo alle truppe governative e a quelle curde. Lo scenario iracheno è ulteriormente complicato dalla decisione della Turchia di schierare sul terreno un piccolo contingente, costituito di circa 2.000 persone, 500 dei quali stanziati nella base di Bashiqa nel nord Iraq, per sostenere la battaglia contro l’IS. Contestualmente nella capitale continuano gli attentati del gruppo di al-Baghdadi miranti a destabilizzare l’Iraq ed il governo di Haider al-Abadi: il 27 settembre un attentatore suicida si è fatto esplodere ad al-Jadida, distretto a predominanza sciita di Baghdad, uccidendo nove persone e ferendone almeno 30, mentre un secondo attentato è avvenuto nell’area di Bayaa, dove sono morte 6 persone. Il 3 ottobre altri due attentatori si sono fatti esplodere in due diversi quartieri sciiti di Baghdad causando la morte di almeno 10 persone ed il ferimento di oltre 40.

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STATI UNITI ↴

Presso la Hofstra University di New York, si è tenuto il 26 settembre il primo dibattito presidenziale fra il candidato democratico, Hillary Clinton, e quello repubblicano, Donald Trump. Il confronto, dinanzi ad un vasto pubblico pari a 84 milioni di spettatori, si è articolato attorno a tre temi principali: la direzione del Paese, i temi riguardanti lo sviluppo e la creazione di prosperità e la sicurezza nazionale. Nel corso dei novanta minuti a disposizione, il candidato espresso dal Partito Democratico – come illustrato dal New York Times – ha dato prova di preparazione, concentrazione e compostezza, mentre il magnate newyorkese, dopo una partenza con dure critiche nei confronti delle politiche commerciali sostenute dai Clinton, recentemente tornate al centro del dibattito, ha ceduto alle incalzanti provocazioni dell’ex Segretario di Stato. Hillary Clinton ha subito attaccato il candidato repubblicano, mettendo in dubbio uno dei suoi principali “cavalli di battaglia”: il successo nel mondo degli affari. Trump, diversamente da quanto accaduto nel corso dei dibattiti durante le primarie repubblicane, è stato costretto a condurre il resto del confronto sulla difensiva, se non per sporadici, ma – stando all’analisi del Washington Post – incisivi commenti volti a dipingere il suo avversario come espressione di una vecchia classe politica inerte. Come rilevato dall’istituto sondaggistico Gallup, l’equilibrio del dibattito non si è spostato a favore dell’esponente del Partito Repubblicano quando si sono affrontati i temi della tutela delle minoranze – con Trump impegnato a difendersi dall’incalzare del moderatore, Lester Holt – e della sicurezza nazionale, allorché Trump si è limitato ad esprimere principi generali negli ambiti della cybersecurity e

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della postura nucleare degli Stati Uniti, senza avanzare proposte concrete. I sondaggi condotti da CNN e Politico tra l’elettorato all’indomani del dibattito hanno registrato una generale vittoria della Clinton, che avrebbe manifestato più preparazione e attitudine al ruolo di Presidente rispetto a Trump. A distanza di soli cinque giorni dal dibattito, un’inchiesta del New York Times ha portato alla luce i registri fiscali del miliardario di Manhattan, risalenti al 1995. Tali documenti indicherebbero una perdita pari a 916 milioni di dollari in un unico anno. Ai sensi delle disposizioni statunitensi in materia fiscale, un passivo così sostanziale avrebbe permesso al candidato repubblicano di evitare il pagamento di tasse federali sul reddito per diciotto anni. Questa pratica, benché legale, ha esposto Trump ad ulteriori attacchi da parte della campagna della Clinton. In attesa del secondo incontro tra Trump e Clinton a St. Louis, il 4 ottobre si è tenuto presso la Longwood University di Farmville il primo e unico dibattito vice presidenziale della presente stagione elettorale, che ha contrapposto Tim Kaine, senatore democratico dalla Virginia, e Mike Pence, governatore repubblicano dell’Indiana. Malgrado le puntuali domande poste dalla moderatrice, Elaine Quijano, il confronto è ruotato attorno alla figura di Donald Trump. Il candidato democratico è apparso – secondo l’analisi del Guardian – nervoso nel suo vano tentativo di imputare gli scandali che hanno segnato la campagna repubblicana a Pence, il quale, al contrario, è riuscito a dimostrarsi imperturbabile dinanzi alle accuse del suo avversario. Un sondaggio condotto dalla CNN al termine del dibattito ha attribuito la vittoria al candidato repubblicano, sebbene la maggioranza degli intervistati ritenga che Kaine abbia difeso Hillary Clinton in maniera più convincente di quanto Pence abbia difeso Donald Trump.

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BREVI AFGHANISTAN, 4-5 OTTOBRE ↴ L’Unione Europea e il governo afghano hanno riunito i rappresentati di oltre 70 Paesi e di 26 organizzazioni internazionali

in

occasione

della

Conferenza

internazionale di Bruxelles sull’Afghanistan. L’incontro, che aveva lo scopo di promuovere la sviluppo politico ed economico dello Stato afghano, si è concluso con l’approvazione di un programma di riforme presentato dallo stesso governo di Kabul in cambio dello stanziamento di aiuti finanziari per un importo di 15,2 miliardi di dollari per il periodo 2017-2020. Di questi, 5,6 miliardi verranno concessi dagli Stati membri dell’Unione Europea. L’accordo è stato fortemente criticato in quanto il rinnovo degli aiuti finanziari all’Afghanistan segue di pochi giorni la firma del Joint Way Forward, un documento che sancisce la cooperazione tra UE e Afghanistan in materia di immigrazione e che di fatto facilita il rimpatrio dei migranti irregolari – circa 80.000 afghani nei propri territori di origine. Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, nega che ci sia un nesso tra rimpatri e aiuti in quanto sarebbero due processi separati. Il Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha invece affermato che l’UE si aspetta cooperazione da parte dei Paesi aiutati per quanto riguarda il rimpatrio di migranti irregolari. Nel frattempo in Afghanistan si continua a combattere. Alla vigilia della Conferenza di Bruxelles, i talebani hanno lanciato un’offensiva combinata contro la città di Kunduz, nel nord del Paese. Dopo aver attaccato la città su quattro fronti, i guerriglieri sono riusciti a penetrare fino alla piazza principale della città, dove hanno issato la loro bandiera. Secondo Amnesty International migliaia di civili sono ancora bloccati nelle loro abitazioni in condizioni sempre più disperate a causa dei duri scontri tra guerriglieri e forze governative afghane, che cercano di riconquistare la città. L’attacco avviene ad un anno dalla prima presa di Kunduz da parte dei Talebani, che in quell’occasione erano riusciti a mantenere il controllo della città per tre giorni.

BOSNIA ERZEGOVINA, 2 OTTOBRE ↴ Come

da

aspettative,

il

voto

locale

in

Bosnia

Erzegovina ha sostanzialmente confermato gli equilibri politici delle due entità federali, rinnovando da un lato la leadership del Partito di Azione Democratica (SDA), in coalizione con l’Alleanza per un Futuro migliore della Bosnia

ed

Erzegovina

(SBB),

all’interno

della

Federazione di Bosnia ed Erzegovina (Federazione BiH, a maggioranza croato6


musulmana) e, dall’altro, dell’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD) all’interno della Republika Srpska (RS, a maggioranza serba). L’unico comune in cui non si è votato è Mostar, dove l’impossibilità dal 2008 di raggiungere un accordo tra le parti sul regolamento elettorale sta prolungando la fase di stallo politico. A livello generale occorre sottolineare come l’SNSD abbia conquistato il 30% in più delle municipalità (compresa quella di Srebrenica) rispetto alle elezioni del 2014 – in occasione delle quali aveva registrato una consistente flessione di consensi, evidenziata soprattutto dalla perdita del posto in seno alla presidenza tripartita. Il partito di Milorad Dodik ha evidentemente beneficiato della campagna elettorale condotta dallo stesso leader per il referendum sul mantenimento del 9 gennaio come festa nazionale dell’entità statale: il voto del 25 settembre ha infatti visto il 99,8% dei serbo-bosniaci esprimersi in favore del “si”; un risultato che rischia tuttavia di esacerbare le tensioni acuitesi nel corso degli ultimi mesi non solo a causa della consultazione referendaria (in merito alla quale la Corte Costituzionale aveva espresso giudizio di illegittimità, in quanto in contrasto con i principi di Dayton) ma anche dei risultati del censimento popolare (30 giugno) che ha messo in evidenza la crescita demografica della componente bosgnacca. In ogni caso l’affluenza complessiva alle urne è stata del 53%, in calo di un ulteriore punto percentuale rispetto al voto del 2014 ed indicativa del trasversale crescente clima di sfiducia nei confronti della classe politica bosniaca. In particolare nella Federazione BiH, e principalmente a Sarajevo, sembra trarre vantaggio da questa situazione il fronte della sinistra, la cui frammentazione – tra Partito Socialdemocratico (SDP), Partito Nostro (Naša Stranka), Fronte Democratico (DF) e Alleanza Civica (GS), quest’ultimo di recente formazione – non consente tuttavia la sua affermazione.

COLOMBIA, 2-7 OTTOBRE ↴ Il referendum inerente all’accordo di pace tra il governo colombiano e i guerriglieri delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (FARC) si è concluso con un’inattesa vittoria del fronte del “no”. Con il 51% e soli 65.000 voti di scarto, hanno prevalso i contrari all’intesa Presidente

Juan

Manuel

Santos

e

siglata dal

lo

scorso

rappresentante

luglio delle

all’Avana FARC

dal

Rodrigo

“Timoshenko” Londono, segnando una sconfitta per il governo di Bogotà e l’ennesimo rallentamento di un processo di pacificazione che dovrebbe porre fine a una guerra civile che dilania il Paese da oltre cinque decenni. Il voto popolare, oltre ad aver rivelato un elevato livello di astensionismo (pari al 63%), ha anche proiettato l’immagine di un Paese ancora profondamente diviso, non sulla volontà di giungere a una pace definitiva, quanto soprattutto sui termini di come raggiungerla: infatti tra i nodi più contestati si segnalano i possibili sconti di pena per gli ex guerriglieri e le politiche temperate di reinserimento sociale, nonché la partecipazione delle milizie rivoluzionarie alla vita politica attraverso l’istituzione di un proprio partito. Secondo 7


il portavoce del fronte del “no”, Ivan Duque, le concessioni alle milizie previste dall’accordo sarebbero state inaccettabili per la popolazione colombiana dopo anni di atrocità. L’esito referendario costituisce una pesante sconfitta politica per Santos, che ha immediatamente rassicurato l’elettorato circa il fatto che «il cessate il fuoco è bilaterale e definitivo». Parole di distensione anche da Londono, che ha ribadito «la volontà di pace». Il ripudio dell’accordo di pacificazione lascia intravedere possibili scenari d’instabilità per il futuro del Paese, che ancora una volta si ritrova a dover affrontare sia il mantenimento dell’ordine interno sia l’adozione di una riforma agraria in grado di ridistribuire i redditi e di contrastare il traffico di droga. Nonostante il passo falso referendario, il Comitato norvegese assegnatario del premio Nobel per la pace ha conferito la simbolica onorificenza internazionale al Presidente colombiano Santos per i suoi sforzi nel perseguimento della pace. Secondo il Comitato organizzatore il premio costituisce dunque un incoraggiamento alla definitiva conclusione di uno dei conflitti civili più lunghi del secondo dopoguerra, nonché uno sprone al superamento delle distanze che hanno impedito la chiusura definitiva di una sanguinosa pagina della storia colombiana (220.000 vittime e circa 8 milioni di sfollati interni).

LIBIA, 6 OTTOBRE ↴ Il portavoce delle forze libiche fedeli al governo di Tripoli, il Generale Mohamed al-Ghasri, ha annunciato che è ormai prossima la sconfitta dello Stato Islamico (IS) a Sirte; sono infatti non più di duecento, molti dei quali feriti, i jihadisti che resistono asserragliati nel Quartiere-3 della città libica. Tuttavia, la caduta di Sirte, con ogni probabilità, non sancirà la sconfitta definitiva dell’IS nel Paese nordafricano. A tal proposito, il coordinatore dell’Unione Europea per l’anti-terrorismo, Gilles de Kerchove, ha posto in evidenza il pericolo derivante dal cambio di strategia del gruppo in questione: da un lato, si teme che le difficoltà sul terreno mediorientale e nordafricano possano portare DAESH a sviluppare nuovi modus operandi tra cui anche il ricorso ad autobombe e armi chimiche; dall’altro, proprio la Libia rischia di diventare nuovo hub per il fenomeno terroristico soprattutto considerando l’inevitabile esodo di combattenti provenienti dal territorio del cosiddetto “Siraq”, i quali potrebbero utilizzare la Libia anche come ponte per muovere nuovi attacchi all’Europa. In relazione, invece, all’altra guerra che si sta combattendo in Libia – quella tra il governo di Tripoli e il Parlamento di Tobruk – si registra, in una serie di interviste a France 24 e al quotidiano saudita Asharq alAwsat, l’apertura del Premier Fayez al-Serraj nei confronti di chiunque possa risolvere i problemi della Libia, comprendendo indirettamente anche il Generale Khalifa Haftar. Serraj, rivolgendosi a tutte le parti libiche con la speranza di riunire tutte le identità presenti sul territorio, ha poi promesso di presentare entro la fine dell’anno una nuova proposta di esecutivo che possa essere appoggiata anche da Tobruk. Infine si segnala 8


l’attivazione di una sala operativa italo-libica in cui esperti italiani dell’intelligence, del Dipartimento di pubblica sicurezza e del Ministero della Difesa lavoreranno in collaborazione con personale altamente specializzato del governo di Tripoli per garantire il controllo della costa e dei confini libici.

SPAGNA, 25 SETTEMBRE – 1 OTTOBRE ↴ Le elezioni locali in Galizia e nei Paesi Baschi, ma in particolar modo le dimissioni di Pedro Sánchez da Segretario del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), potrebbero rappresentare un punto di svolta per stallo politico e istituzionale in cui versa la Spagna da circa un anno. I risultati delle elezioni per il rinnovo dei Parlamenti galiziano e basco – che hanno visto l’affermazione rispettivamente del Partito Popolare (PP) e degli autonomisti-conservatori del Partito Nazionale Basco (PNV) –, sebbene abbiano confermato l’esistenza di un trend nazionale ormai consolidato (forte calo dei socialisti in favore delle forze anti-sistemiche come Unidos-Podemos e un netto rafforzamento dei popolari di Mariano Rajoy), allo stesso tempo hanno provocato delle importanti conseguenze in campo socialista. Infatti, durante il congresso straordinario del PSOE, convocato a Madrid all’indomani del voto locale in questione, il leader Pedro Sánchez è stato sfiduciato da una larga maggioranza del Comitato federale e costretto alle dimissioni immediate. Il leader socialista è stato considerato dal proprio partito il principale responsabile delle sconfitte elettorali registrate nel corso dell’ultimo anno, nonché reo di tenere una linea politica errata nei confronti del PP e dell’offerta di questo stesso di costituire un esecutivo di unità nazionale contro l’avanzare delle forze populiste emergenti a destra e a sinistra come Ciudadanos e Unidos-Podemos. Il partito ha dunque deciso di indire per il 23 ottobre nuove primarie nazionali: tra i candidati il principale favorito e figura di compromesso accettata dalle diverse anime del PSOE rimane Javier Fernández, governatore delle Asturie e alleato di Susana Díaz, influente governatrice dell’Andalucia e rilevante membro del direttivo nazionale. Ad ogni modo la prima vera opportunità per capire se le dimissioni di Pedro Sánchez abbiano portato ad una svolta interna al Partito Socialista sarà il voto parlamentare sulla fiducia al Premier in pectore Mariano Rajoy, il prossimo 31 ottobre, ultima occasione per scongiurare le terze elezioni anticipate in dodici mesi.

UNGHERIA, 2 OTTOBRE ↴ Il mancato raggiungimento del quorum ha reso nullo il referendum indetto dal governo ungherese sul piano dell’Unione Europea circa la ripartizione delle quote di profughi e migranti, ridimensionando pertanto le ambizioni del Primo Ministro Viktor Orbán che sul tema immigrazione sta conducendo con Bruxelles un lungo 9


braccio di ferro. Malgrado la bassa affluenza alle urne – attestatasi infatti al 44% –, secondo il leader di FIDESZ il risultato sarebbe ugualmente premiante per l’esecutivo poiché il 98,36% dei votanti si è espresso contro la politica europea della ripartizione in quote, nonché al tempo stesso incoraggiante a proseguire sulla strada intrapresa. Orbán ha difatti annunciato in Parlamento (3 ottobre) l’intenzione di procedere con un disegno di modifica costituzionale – della cui redazione sarà incaricata un’apposita commissione e sul quale non dovrà dunque esprimersi l’Assemblea Nazionale – in linea con lo spirito della consultazione. Nonostante la vittoria politica per le opposizioni di sinistra – il Partito Socialista (MSZP) e la Coalizione Democratica (DK), che hanno richiesto le dimissioni del Premier –, l’esito elettorale tende a rafforzare l’immagine del partito di estrema destra Jobbik, che, sebbene abbia anch’esso sostenuto il “no”, punta ad incalzare il partito di governo – già indebolito a livello locale, dopo le elezioni suppletive del 2015, a favore dello stesso Jobbik – in vista della tornata elettorale del 2018. Gábor Vona, leader di Jobbik, ha infatti dichiarato che il voto del 2 ottobre deve essere letto in un’ottica interna – e non contro l’UE – e dunque come una bocciatura della politica di Orbán. Malgrado il fallimento del referendum, è lecito dunque supporre che lo scenario politico ungherese continuerà ad essere caratterizzato dai toni nazionalistici (oltre che anti-europeisti) e da una crescente polarizzazione tra il partito di maggioranza e le opposizioni. Non sembra in ogni caso avere al momento legami con il contesto politico l’esplosione avvenuta la sera del 24 settembre a Budapest nelle vicinanze dell’Accademia musicale Ferenc Liszt e nella quale sono rimasti feriti due agenti di sicurezza. Secondo quanto dichiarato dal Capo della polizia Karoly Papp in una conferenza stampa, l’attentato – del quale sarebbe responsabile un giovane ancora ricercato – sarebbe stato diretto contro la polizia.

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ALTRE DAL MONDO AZERBAIJAN, 26 SETTEMBRE ↴ I cittadini dell’Azerbaijan sono stati chiamati alle urne per un referendum sui 29 emendamenti alla Costituzione proposti il 18 luglio scorso da un decreto del Presidente Ilham Aliyev. Il risultato ha visto l’approvazione di tutti gli emendamenti, ma tra le modifiche presentate spiccano alcune che, come affermato dalla Commissione per la Democrazia attraverso il Diritto (Commissione di Venezia) del Consiglio d’Europa, comporteranno un «incredibile aumento del potere del Presidente». Aliyev, infatti, tra le altre misure ha proposto l’allungamento del mandato presidenziale da 5 a 7 anni nonché un provvedimento per eliminare l’età minima (35 anni) per essere eletti Presidenti della Repubblica. Quest’ultima misura, in particolare, è stata criticata dall’opposizione interna che denuncia la svolta autoritaria di Aliyev poiché sembra volta a favorire l’ascesa del figlio diciannovenne dell’attuale Capo di Stato, Heidar Aliyev, e quindi a passare il potere del Paese esclusivamente nelle mani della famiglia del Presidente.

EGITTO, 1-4 OTTOBRE ↴ In un’operazione di polizia delle forze speciali egiziane a Bassateen, distretto meridionale del Cairo, sono stati uccisi durante uno scontro a fuoco Mohammed Kamal e Yasser Shehata, due importanti membri della Fratellanza Musulmana. Oltre ad essere un rilevante leader del Bureau della Guida Suprema – attualmente in carcere come altri vertici del movimento –, Kamal era da tempo riconosciuto dalle autorità cairote come il responsabile dell’ala militare o armata dell’organizzazione dichiarata fuorilegge nel dicembre 2013. Secondo la polizia, Kamal e il suo gruppo erano pronti per «pianificare nuove operazioni armate» e sarebbero collegati con gli omicidi, entrambi avvenuti nel 2015, del Procuratore generale Hisham Barakat e del Colonnello di polizia Wael Tahoun, nonché coinvolti nella nuova spirale di violenze politiche contro membri delle istituzioni nazionali. Secondo gli inquirenti Kamal avrebbe avuto un ruolo e/o alcune connessioni con il gruppo Hasam, responsabile dei recenti tentati assassini nei confronti del Gran Muftì Alì Gomaa (5 agosto) e del vice Procuratore generale Zakaria Abdul Aziz (1 ottobre). La formazione Hasam, della quale non si hanno molte informazioni, si ritiene possa essere un offshoot di membri radicali della Fratellanza Musulmana, nonché di vecchi aderenti alle defunte organizzazioni terroristiche Ajnad Misr e Ansar Bayt al-Maqdis (ABM). Infatti il modus operandi del gruppo (principalmente attentati con grande uso di esplosivi o IED) ricorda da vicino quello della formazione guidata dall’ex ufficiale dell’esercito egiziano Ali Hisham Ashmawy, già membro di spicco di ABM e attualmente alla guida della più grande organizzazione jihadista alleata di al-Qaeda nell’area, Jamaat al-Mourabitoun. Quest’ultima pare non avere apparenti collegamenti con la formazione omonima attiva nell’Africa saheliana retta da Mokhtar Belmokhtar.

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ETIOPIA, 2-6 OTTOBRE ↴ Il governo di Addis Abeba ha proclamato tre giorni di lutto nazionale dopo l’uccisione di almeno 52 persone avvenuta durante la cerimonia religiosa degenerata in scontri con la polizia a Bishoftu, nella regione dell’Oromia. Secondo le fonti riportate, le forze speciali della polizia, che erano arrivate in massa nella zona da giorni, hanno represso la manifestazione pacifica con lanci di granate lacrimogene e colpi d’arma da fuoco. Gli Oromo sono la comunità più numerosa dell’Etiopia, ma tradizionalmente restano ai margini della vita politica e sono critici nei confronti del governo. La celebrazione dell’Irreechaa, festival tradizionale degli Oromo, si era trasformata in una grande manifestazione dell’opposizione contro il governo etiope.

KASHMIR, 28 SETTEMBRE – 6 OTTOBRE ↴ Continua a salire la tensione tra India e Pakistan nella regione contesa del Kashmir. Secondo quanto annunciato dal Direttore Generale delle operazioni militari indiane, Rambir Singh, la notte del 28 settembre alcune truppe indiane si sono infiltrate oltre la Linea di Controllo che divide il territorio controllato dal Pakistan da quello amministrato dall’India, nel nord del Kashmir, con lo scopo di smantellare le basi dei jihadisti. Singh ha giustificato l’azione affermando che «le operazioni sono la conseguenza dell’attacco terroristico del 18 settembre nella zona di Uri» che ha causato la morte di 17 soldati indiani. Nei giorni successivi all’operazione delle truppe indiane, i militanti jihadisti hanno risposto attaccando una base militare indiana e uccidendo un militare. In uno scontro a fuoco tra la polizia e i terroristi nel distretto di Kupwara il 6 ottobre, infine, sono stati uccisi tre militanti.

OPEC, 26-28 SETTEMBRE ↴ In occasione del Vertice informale dell’OPEC di Algeri, i Paesi esportatori hanno raggiunto un accordo circa il taglio delle quote di produzione del greggio al fine di invertire l’andamento negativo del prezzo del petrolio verificatosi negli ultimi anni. Una diminuzione della produzione non si verificava dalla crisi finanziaria del 2008. Secondo tale accordo, la produzione dovrebbe diminuirebbe da 33,5 milioni di barili al giorno, a 33 o 32,5. Come riportato da Bloomberg, l’accordo sarebbe stato reso possibile grazie ad un compromesso sulle quote di produzione tra Arabia Saudita – attualmente in recessione economica – e l’Iran, segnando apparentemente l’inizio di una nuova fase di collaborazione tra i due Paesi. I membri OPEC si riuniranno nuovamente in novembre, in occasione del Vertice di Vienna, per formalizzare l’accordo e definirne i dettagli, tra cui le quote di produzione di ciascun Paese esportatore.

SVIZZERA, 25 SETTEMBRE ↴ L’iniziativa referendaria intitolata “Prima i nostri” promossa dall’Unione Democratica di Centro (UDC) e sottoposta a votazione nel solo Canton Ticino ha confermato una 12


netta insofferenza della popolazione locale per l’affluenza di immigrati e transfrontalieri, in particolare italiani. Il 58% dei votanti, infatti, si è dichiarato favorevole a maggiori garanzie e tutele dei lavoratori svizzeri rispetto a quelli stranieri, accusati di dumping salariale. «Il referendum non avrà implicazioni immediate sui lavoratori italiani», come affermato dal Ministro degli Esteri svizzero Didier Burkhalter, in quanto la gestione dei flussi migratori è competenza del Parlamento elvetico; la votazione avrà, tuttavia, un grande peso politico. Piero Marchesi, Presidente del Canton Ticino, ha dichiarato «Ora è chiaro che gli interessi del Ticino devono prevalere su quelli dell’UE». Il Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ha commentato: «Senza libera circolazione delle persone, i rapporti Svizzera-UE sono a rischio».

YEMEN, 30 SETTEMBRE – 8 OTTOBRE ↴ Un natante in uso alla Marina militare degli Emirati Arabi Uniti è stato colpito vicino allo Stretto di Bab al-Mandeb mentre percorreva la rotta abituale partendo da Aden per prestare soccorso alla popolazione civile. L’atto, che non ha provocato vittime, è stato rivendicato dai ribelli sciiti Houthi. Aden e la regione marittima circostante, compreso il largo di mare intorno allo Stretto in questione, sono state riportate sotto il controllo delle forze fedeli al governo, dopo averle strappate ai ribelli Houthi e ai miliziani del deposto Presidente Ali Abdullah Saleh. La coalizione araba a guida saudita ha pertanto lanciato un’operazione contro le imbarcazioni in uso agli Houthi yemeniti, sostenendo che questi ultimi minacciano il traffico commerciale marittimo della zona. Bab al-Mandeb è infatti un’area strategica di accesso al Mar Rosso e al Mediterraneo orientale. La stessa coalizione araba è responsabile di un attacco contro civili durante una cerimonia funebre a Sana’a, che ha provocato 155 vittime e 525 feriti, tutti di etnia Houthi.

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ANALISI E COMMENTI DAL PKK AL TAK: LA NUOVA ERA DEL TERRORISMO CURDO MATTEO ANASTASI ↴ La Turchia è stata recentemente vittima di una serie di attentati imputabili al terrorismo curdo, che hanno lasciato sul campo un ingente numero di vittime, sia militari sia civili. Simili episodi hanno nuovamente portato alla ribalta il problema del terrorismo come pericolo per l’equilibrio del Paese, evidenziando tuttavia dinamiche nuove. Non è più solo il Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK) a minacciare la stabilità di Ankara. Un nuovo gruppo ultranazionalista armato sembra, infatti, essersi guadagnato il proscenio del terrorismo di matrice curda: il Teyrêbazên Azadiya Kurdistan (TAK, i Falchi per la Libertà del Kurdistan). L’esplosione all’aeroporto Sabiha Gökçen di Istanbul (23 dicembre 2015), i successivi attacchi ad Ankara – nelle vicinanze del Parlamento e nella sede dello Stato Maggiore delle Forze Armate prima (17 febbraio 2016), nei pressi del Ministero degli Esteri e degli Interni poi (13 marzo 2016) – e il recente attentato dinamitardo ad una fermata degli autobus nel centro di Istanbul (7 giugno 2016), sono stati tutti condotti e rivendicati dal TAK (…) SEGUE >>>

CRISI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO: VERSO UNA NUOVA GUERRA CIVILE? GABRIELE CARLINI ↴ Il recente annuncio della Commissione Elettorale Nazionale indipendente (CENI) della Repubblica Democratica del Congo (RDC) circa il possibile slittamento al 2018 delle elezioni presidenziali, inizialmente previste per il prossimo mese di novembre, ha scatenato violenti scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti scesi in piazza per richiedere all’attuale Presidente, Joseph Kabila – al potere ininterrottamente dal 2001 (anno in cui assunse la presidenza ad interim fino al 2006) e giunto al termine del suo secondo mandato – di fare un passo indietro e di procedere con nuove consultazioni in accordo alla nuova Costituzione entrata in vigore nel 2005. La possibilità di posticipare il voto era stata paventata già nell’ottobre dello scorso anno, quando il portavoce dell’AMP che sostiene Kabila, Andrè Alain Atundu, aveva dichiarato che, affinché potesse essere garantita la veridicità delle votazioni, si sarebbe dovuto procedere anzitutto con un censimento della popolazione, poiché negli ultimi tempi molti stranieri avrebbero acquisito illecitamente la cittadinanza congolese (…) SEGUE >>> A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net

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