Weekly Report N°1/2016

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N°1, 20 DICEMBRE 2015 – 9 GENNAIO 2016 ISSN: 2284-1024

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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 10 gennaio 2016 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Agnese Carlini Giuseppe Dentice Danilo Giordano Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Maria Serra Alessandro Tinti

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Photo Credits: Arif Ali/AFP/Getty Images; Ahmad al-Rubaye/AFP/Getty Images; AFP; AP; Reuters.


FOCUS ARABIA SAUDITA-IRAN ↴

Dopo l’episodio dei razzi iraniani lanciati in acque internazionali da alcune navi della marina di Teheran contro la portaerei USS Truman, lo scorso 30 dicembre, si accende nuovamente la tensione nel Golfo Persico/Arabico a causa questa volta dell’esecuzione del religioso sciita e dissidente politico saudita Sheikh Nimr Bakr alNimr. L’evento, che ha rinfocolato nuovamente i dissidi mai sopiti tra gli antichi rivali dell’area, Arabia Saudita e Iran, è avvenuto il 2 gennaio. Nella stessa giornata l’Arabia Saudita aveva eseguito le condanne a morte di altri 46 prigionieri accusati, secondo il Ministero degli Interni saudita, di «aver adottato l’ideologia radicale takfiri (ossia di essere degli apostati, dei miscredenti assoluti, dei falsi musulmani), essersi uniti a organizzazioni terroriste e aver orchestrato diverse azioni criminali» contro il regime di Riyadh. In effetti, tra coloro che sono stati sottoposti ad condanna capitale vi erano alcuni responsabili degli attacchi perpetrati da al-Qaeda nel Paese tra il 2003 e il 2006 – tra cui Fares al-Zahrani, uno dei più stretti collaborati di Osama Bin Laden nella struttura qaedista –, ma anche molti esponenti della comunità sciita saudita del Qatif, provincia orientale del regno (al-Sharqiyya), arrestati in seguito alle proteste del 2011-2012. Il più noto tra gli accusati era sicuramente al-Nimr, un religioso e attivista dei diritti umani che rivendicava da anni una migliore condizione di vita per i sauditi sciiti del regno (tra il 10-15% della popolazione totale saudita) sottoposti ad ogni tipo di vessazione (tra cui non aver diritto alla cittadinanza) ed esclusione politica, economica e sociale del Paese. Al-Nimr tuttavia rappresentava un

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voce critica anche nei confronti dell’Iran, poiché in più occasioni aveva denunciato l’inappropriata difesa di Bashar al-Assad in Siria, alleato di Teheran nella regione, e l’inadeguatezza dello stesso leader siriano, reo di aver ucciso e affamato la propria popolazione innocente. L’uccisione di al-Nimr ha immediatamente scatenato una serie di proteste in tutto il Medio Oriente sciita: dalla stessa Arabia Saudita e dal vicino Bahrain (un Paese composto dal 65% della popolazione di sciiti e governato dalla minoranza sunnita della famiglia al-Khalifa) al Libano, estendendosi anche ad India, Pakistan, Iraq e Iran. Proprio in quest’ultimo si sono registrate le violenze maggiori. Infatti, a seguito della condanna ufficiale da parte delle autorità di Teheran dell’esecuzione di al-Nimr, gruppi di manifestanti hanno attaccato poche ore dopo sia l’Ambasciata saudita a Teheran sia il consolato a Mashaad, nel nord del Paese. Da parte sua, gli al-Saud, per voce del loro Ministro degli Esteri, Adel al-Jubeir, hanno risposto alla “sfida” lanciata dall’Iran interrompendo le relazioni diplomatiche, commerciali e turistiche con la Repubblica teocratica e minacciando Teheran di non tollerare nuove intromissioni nelle questioni di carattere interno saudita. Il Gran Mufti saudita, lo sceicco Abdul-Aziz Alal-Sheikh, ha definito l’esecuzione una «grazia ai prigionieri», in quanto «la morte eviterà loro di commettere altro male e di causare caos nel Paese». Sulla stessa linea di rottura delle relazioni si sono mossi subito anche alcuni Paesi più o meno politicamente vicini all’Arabia Saudita – tra cui Qatar, Bahrain, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Sudan, Gibuti, Comore e Somalia –, i quali hanno sospeso o ridotto i rapporti diplomatici con Teheran. L’accusa rivolta all’Iran è di voler destabilizzare la sicurezza e l’unità dell’Arabia Saudita e dell’intero Medio Oriente. Più sfumate invece le posizioni di Turchia ed Egitto che, seppur condannando l’Iran per una supposta ingerenza negli affari interni dell’Arabia Saudita, non hanno tuttavia assunto decisioni ufficiali radicali in merito. Anche l’Oman ha criticato aspramente l’assalto iraniano alle rappresentanze diplomatiche saudite, ma non ha tenuto le stesse posizioni degli altri Paesi del Golfo. La Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha invocato la vendetta divina contro l’Arabia Saudita, Il Presidente del Parlamento Ali Larijani ha detto alla televisione di Stato che l’esecuzione di al-Nimr «metterà l’Arabia Saudita in un vortice da cui non riusciranno a uscire». Per l’Ayatollah Ahmad Khatami, l’esecuzione di al-Nimr resterà «una profonda ferita sul corpo del mondo islamico», per cui l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) – a guida saudita – dovrebbe rispondere alla situazione. Pur allineandosi alle posizioni ufficiali, il Presidente Hassan Rouhani, ha comunque condannato l’attacco popolare, rigettando qualsiasi accusa – in particolare saudita – di aver aizzato o fomentato la popolazione contro le rappresentanze diplomatiche estere di Riyadh. Teheran ha rimarcato inoltre le distanze con Riyadh, tacciando di ipocrisia il regno degli al-Saud e, attraverso il portavoce del Ministro degli Esteri Hossein Jaber Ansari, accusandolo di supportare esternamente «il terrorismo

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e i movimenti takfiri (tra cui lo stesso Stato Islamico)» e di occultare con false accuse le condanne a morte dei propri dissidenti interni. Oltre ad inasprire ulteriormente le relazioni bilaterali tra Riyadh e Teheran, rivali impegnati su più fronti opposti (Siria, Yemen, Bahrain), l’affaire al-Nimr rischia strumentalmente di aprire una nuova falla nella crisi settaria già esistente nella regione. L’escalation diplomatica tra i due Paesi si inscrive in un contesto generale più ampio e che trova una sua ragione d’essere nel sistema di alleanze e nuove relazioni venutosi a creare nel post–accordo sul nucleare iraniano del luglio scorso e nella conseguente reintegrazione dell’Iran nella comunità internazionale. Un messaggio, quest’ultimo, indirettamente rivolto a Stati Uniti e Unione Europea che nelle prossime settimane torneranno al tavolo dei negoziati internazionali nel tentativo di una risoluzione delle crisi mediorientali in Siria e Yemen. Allo stesso tempo, però, le ragioni che hanno spinto i sauditi ad alzare il livello della tensione con l’Iran sono da rintracciare anche in fattori di carattere interno, dettate dall’estrema difficoltà del regno nel far fronte da un lato alla crisi economica di bilancio causata dal crollo del prezzo del petrolio (sotto i 35 $ il prezzo del barile), e in conseguenza della quale, per la prima volta nella sua storia, Riyadh è stata costretta a imporre misure di austerità; dall’altro lato si aggiungono le crescenti voci di spaccature sociali, che chiederebbero maggiori cambiamenti in un Paese profondamente bloccato. Crepe che riguarderebbero, infine, anche l’unità stessa della famiglia reale sempre più divisa in almeno due fazioni capeggiate dal figlio del Re Salman, il principe ereditario e Ministro della Difesa, Mohammed bin Salman al-Saud – grande architetto delle ultime operazioni di politica estera e di sicurezza nazionale, come la coalizione islamica internazionale contro il terrorismo – e il Ministro degli Interni e secondo in linea di successione al trono, Mohammed bin Nayef al-Saud.

COALIZIONE INTERNAZIONALE ANTI-IS VS COALIZIONE ISLAMICA A GUIDA SAUDITA – FONTE: REUTERS, US DEPARTMENT OF STATE, SPA NEWS AGENCY

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IRAQ-SIRIA ↴

Il 28 dicembre l’esercito iracheno ha strappato Ramadi ai guerriglieri dello Stato Islamico (IS). Nel maggio 2015 il capoluogo dell’Anbar sunnita era caduto in mano ai seguaci del sedicente Califfato. Dopo mesi di confronto serrato nei quartieri periferici, nell’ultima settimana di dicembre le forze di sicurezza irachene hanno aperto una breccia nel complesso governativo al centro della città in cui si erano asserragliate poche centinaia di miliziani dell’IS. Il Primo Ministro iracheno Haider alAbadi ha salutato il successo militare con toni trionfali, dichiarando l’intento di sferrare un colpo decisivo ai vessilli neri dell’IS con la liberazione entro la fine del 2016 di Mosul, seconda città irachena dopo la capitale Baghdad e ultimo baluardo dell’organizzazione islamista nel Paese. Nel 2015 l’IS ha visto contrarsi significativamente i propri domini nel teatro siro-iracheno, perdendo secondo stime statunitensi il 40% e il 20% dei territori assoggettati in Iraq e Siria. Tuttavia, il gruppo estremista continua ad attrarre foreign fighters e mantiene importanti capacità operative, come da ultimo dimostrato dalla rappresaglia che il 3 gennaio ha provocato la morte di almeno quarantacinque militari iracheni nei pressi della diga di Haditha, a nord di Ramadi. La stessa occupazione jihadista dell’importante capoluogo sunnita e la battaglia condotta dalle forze di sicurezza irachene, coadiuvate dai bombardamenti della coalizione internazionale a guida americana, hanno lasciato una grave scia di distruzione. Come già avvenuto in altri epicentri del conflitto – Sinjar, Baiji, Tikrit – gli scontri hanno lasciato una pesante eredità in termini di danni a infrastrutture e servizi di base. Il governo iracheno riporta che l’80% di Ramadi sia andato distrutto e che almeno 10 miliardi di dollari dovranno essere investiti nella ricostruzione della città – uno sforzo finanziario insostenibile per le casse di Baghdad, che ha da poco approvato un forte passivo di bilancio per il 2016. Tuttavia, la ricostruzione delle

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aree colpite costituisce il crocevia principale del governo iracheno per scongiurare la progressiva frammentazione dell’ordinamento federale, compromesso dalla radicalizzazione degli antagonismi settari che in prima istanza hanno assecondato la nascita e il consolidamento del Califfato.

LO STATO DELL’ARTE NEL “SYRAQ” - FONTE: IHS (AGGIORNAMENTO AL 31/12/2015)

In questo senso, l’inasprimento della competizione tra Iran e Arabia Saudita a seguito dell’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr ha destato le veementi proteste delle fazioni sciite filo-iraniane, che premono l’esecutivo al-Abadi per un allineamento ancor più marcato verso Teheran e alimentano i motivi destabilizzanti della rivalità confessionale. Intanto, non è andata ancora risolvendosi la crisi diplomatica aperta dall’invio non autorizzato di un contingente turco nella base curda di Bashiqa, nell’Iraq settentrionale. Malgrado i richiami sopraggiunti da Washington, Ankara non ha ritirato i militari in territorio iracheno. Uno scontro a fuoco nei pressi di Bashiqa il 7 gennaio, in cui hanno perso la vita diciotto combattenti dell’IS, è stato anzi addotto dal Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a giustificazione della necessaria presenza turca nell’area. Le autorità di Baghdad, tuttavia, hanno messo in dubbio la ricostruzione, asserendo che sarebbero stati i soldati turchi a lanciare un attacco preventivo contro un drappello di combattenti jihadisti. Diversamente, la Turchia esprime preoccupazione rispetto alla creazione di un “corridoio curdo” lungo la frontiera settentrionale della Siria e al supposto tentativo di alterare la distribuzione demografica dell’area a vantaggio dell’espansione del Kurdistan siriano mediante l’espulsione delle comunità arabe e turcomanne, maggioritarie nell’area compresa tra Azaz e Jarablus. Alla fine di dicembre le milizie

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curde e combattenti arabi uniti nelle Forze Democratiche Siriane, promosse e sostenute militarmente dagli Stati Uniti, hanno conquistato le postazioni dell’IS nei pressi della diga di Tishrin, così interrompendo la continuità delle linee jihadiste tra la roccaforte di Raqqa e la cittadina di Manbej, punto di forza delle uniformi nere nella provincia di Aleppo. Contro l’evoluzione indesiderata dello scenario bellico, la Turchia aveva più volte ribadito che uno sconfinamento curdo oltre l’Eufrate non sarebbe stato tollerato; un monito che è adesso rinnovato con decisione nei colloqui con gli Stati Uniti, per contro favorevoli al ruolo militare delle milizie curde contro le frange armate del Califfato. Nel più ampio e complesso scacchiere della partita siriana, le Nazioni Unite hanno annunciato per il prossimo 25 gennaio una nuova sessione di negoziati a Ginevra, cui prenderanno parte rappresentanti delle opposizioni e del governo di Damasco, come confermato dal Ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallem. Intanto, le truppe leali al Presidente Bashar al-Assad avanzano a sud della capitale, dove hanno ingaggiato battaglia a Sheikh Miskin con Jabhat al-Nusra e con le formazioni ribelli confluite nell’Esercito Libero Siriano. Mentre i bombardamenti a tappeto dell’aviazione russa aprono la strada alle forze di Assad nei vari fronti di guerra e sono in misura crescente condannati dagli attivisti locali per l’elevato numero di vittime civili, gli scontri hanno ulteriormente esacerbato la crisi umanitaria e l’esodo della popolazione verso la frontiera giordana. Fonti ONU stimano che almeno 12.000 persone sono ammassate a Rukban e Hadalat per trovare rifugio in Giordania, che già ospita 633.000 degli oltre 4 milioni di profughi siriani. Malgrado i tentativi della diplomazia di raggiungere tregue locali tra le parti belligeranti, la popolazione civile intrappolata nelle linee del conflitto versa in condizioni drammatiche nelle zone contese nel nord-est e nel sud-est del Paese. Secondo l’ONU almeno 400.000 persone sopravvivono in estrema indigenza a Madaya, Zabadani, Darayya, Ghouta, Foah e Kefraya – dove le forze governative e ribelli hanno strumentalmente impedito il rifornimento di generi di prima necessità e medicinali al fine di rovesciare la parte avversa. Il 28 dicembre una tregua provvisoria a Zabadani (accerchiata dalle truppe governative) e Foah e Kefraya (sotto assedio delle opposizioni) aveva portato all’evacuazione in Turchia e Libano di oltre 460 persone grazie all’intervento della Croce Rossa, della Mezzaluna Rossa e delle agenzie ONU. Il tardivo allarme della comunità internazionale ha sollecitato l’apertura di Damasco all’ingresso di convogli umanitari nel villaggio ribelle di Madaya, ma la situazione resta critica.

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BREVI AFGHANISTAN, 1-5 GENNAIO ↴ Un soldato americano appartenente alle forze speciali è stato ucciso alla fine di alcuni combattimenti avvenuti il 5 gennaio nel distretto di Marjah, nella provincia di Helmand. Lo scontro è avvenuto mentre un elicottero medico stava prestando soccorso ai soldati USA impegnati con le controparti afghane nel sud del Paese. Il giorno prima, al termine di un assedio durato 24 ore, le forze speciali afghane erano riuscite ad avere la meglio su un gruppo di assalitori che aveva attaccato il consolato indiano di Mazar-i-Sharif, nel nord: tutti e tre i terrroristi sono stati uccisi mentre si erano rifugiati in una locazione adiacente alla struttura diplomatica. L’attacco è avvenuto contemporaneamente all’assalto di alcuni uomini armati ad una base dell’aviazione indiana a Pathankot e testimonia il possibile allargamento della criticità afghana a India e Pakistan. I Talebani hanno, inoltre, rivendicato la paternità dell’attacco suicida al compound dei contractors stranieri, avvenuto il 4 gennaio a Kabul nei pressi dell’aeroporto, che ha causato la morte di un civile ed il ferimento di oltre 34 persone. È il terzo attacco in pochi giorni avvenuto nella capitale afghana dall’inizio dell’anno: il primo giorno dell’anno tre persone sono morte e 15 sono rimaste ferite a seguito dell’esplosione di un’autobomba avvenuta nei pressi di un ristorante frequentato da diplomatici e personale straniero, mentre il 4 gennaio un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di una stazione di polizia, senza però causare vittime. L’incremento degli attacchi talebani è il segno di una nuova strategia, partita la scorsa primavera, che mira a sfruttare l’indecisione delle truppe straniere sul futuro del loro impegno militare. I rinnovati scontri si inquadrano nell’ambito del tentativo dei talebani di riconquistare il controllo dei distretti chiave della provincia di Helmand, da tempo roccaforte del movimento insurrezionale, nonché principale snodo strategico per il commercio dell’oppio.

KOSOVO, 9 GENNAIO ↴ È sfociata in scontri diretti tra polizia e manifestanti, i quali hanno lanciato alcune bombe molotov contro il palazzo

governativo,

l'ultima

manifestazione

organizzata dai partiti di opposizione (Vetevendosje, AAK e Nisma) contro l’esecutivo di Isa Mustafa e in particolare contro l'ultimo accordo di normalizzazione dei rapporti con la Serbia (agosto 2015) che, tra i vari punti e in osservanza dell'accordo del 2013 mediato dall'Unione Europea, ha previsto 7


la creazione della cosiddetta Associazione delle Municipalità serbe del nord del Kosovo. Secondo il fronte dell'opposizione, che registra tuttavia delle notevoli differenze al proprio interno, tale accordo, insieme a quello relativo alla demarcazione dei confini con la Macedonia, sarebbe anticostituzionale. Quanto espresso dalla Corte Costituzionale (24 dicembre) a cui si è rivolta la Presidentessa Atifete Jahjaga, non ha risolto la questione e ha spinto l'opposizione ad intensificare le proteste, a richiedere le dimissioni di Mustafa e del suo governo e a reclamare nuove elezioni. Il tribunale, infatti, che aveva sospeso l'attuazione dell’accordo fino alla metà di gennaio, ha sostanzialmente approvato la creazione dell’Associzione sulla base dell’accordo del 2013 già ratificato dal Parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica; tuttavia la Corte ha anche sottolineato come alcuni principi non siano completamente in linea con la Costituzione, asserendo il diritto dei kosovari serbi ad organizzarsi in associazioni senza che queste possano però godere di poteri esecutivi distaccati dal governo centrale, obbligando pertanto le autorità competenti ad adottare una serie di azioni legislative per rispettare gli standard costituzionali. La crisi del governo di Mustafa, sul quale non di meno gravano le accuse di non aver attuato le riforme economiche che aveva promesso, rischia di aprire una nuova stagione di instabilità e violenza interna al Kosovo, compromettendo gli sforzi finora intrapresi per la normalizzazione dei rapporti con la Serbia e per progredire sul cammino dell’integrazione europea che, proprio grazie alle intese con Belgrado, aveva avuto una svolta significativa lo scorso 27 ottobre con la firma dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA).

POLONIA, 6 GENNAIO ↴ Il Presidente della Repubblica Andrzej Duda ha firmato la controversa legge sui media voluta dal partito di destra al governo Diritto e Giustizia (PiS) del leader Jarosław Kaczyński, a cui egli stesso appartiene. La nuova legge, varata dal Parlamento l’ultimo giorno dell’anno, impone un maggior controllo dell’esecutivo sui mezzi di comunicazione pubblici, prevedendo l’immediata sospensione dei membri delle direzioni e dei consigli di amministrazione, e la nomina di nuovi responsabili a cura del Ministro del Tesoro, compito in precedenza svolto da organismi indipendenti. La nuova legge è stata già motivo di scontro con l’Unione Europea, che ha previsto sull’argomento una riunione straordinaria il 13 gennaio. La legge sui media rappresenta l’ultimo passo del nuovo cammino politico intrapreso Polonia dopo le elezioni del 25 ottobre scorso che hanno consegnato il Paese al PiS, partito nazionalista ed euroscettico. Il governo del Premier Beata Szydło ha già messo in campo diverse decisioni discutibili: oltre ad aver garantito maggiori poteri alle forze di polizia e di intelligence e ad essersi opposto al piano di ridistribuzione dei migranti dell’Unione Europea, ha proposto la nomina da parte del governo di cinque nuovi 8


giudici sui quindici della Corte Costituzionale. La proposta di legge – bocciata dalla Corte Suprema per incostituzionalità – prevedeva che i 15 membri della Corte Costituzionale dovessere prendere decisioni vincolanti con la maggioranza di due terzi dei suoi componenti, e non più quella semplice, ponendo un limite, quindi, alle sue possibilità di azione. Resta in corso, inoltre, anche una battaglia politica su chi debba effettivamente sedere tra i banchi della Corte: il precedente Parlamento, retto principalmente dal partito Piattaforma Civica, aveva eletto cinque giudici, ma il Presidente Duda si è opposto alla loro nomina, proponendo l’insediamento di altri cinque più graditi al suo partito di appartenenza. Questa serie di decisioni ha aumentato le dimensioni della protesta popolare contro il governo di Szydło, accusato di limitare le libertà e di violare le regole della democrazia parlamentare. Le manifestazioni, tenutesi poco prima di Natale, si sono svolte a Varsavia, dove si sarebbero radunate almeno 40.000 persone, e in altri 23 città della Polonia, organizzate dal Comitato per la Difesa della Democrazie che ha riunito le forze politiche di opposizione e diverse organizzazioni della società civile.

SPAGNA, 20 DICEMBRE ↴ I risultati delle elezioni generali spagnole hanno confermato l’attesa complessità dello scenario politico iberico, anticipato da numerosi sondaggi, e sancendo, di fatto, la fine del bipartitismo. La vittoria è andata al Partito Popular (PP) di Mariano Rajoy, che ha ottenuto quasi il 29% dei voti, davanti al Partido Socialista Obrero Español (PSOE), che ha invece ricevuto il 22% dei consensi. La sorpresa, non tanto inaspettata, è arrivata dai due partiti emergenti della politica spagnola, ovvero Podemos e Ciudadanos che hanno ottenuto rispettivamente il 20% ed il 14% dei voti espressi. I popolari hanno dunque ottenuto 123 seggi, 65 in meno rispeto a quattro anni fa e molto al di sotto della soglia dei 176 necessari per governare da soli. Al PSOE sono andati 90 deputati, a Podemos 69 e a Ciudadanos 40, mentre è ormai quasi cancellata dal Parlamento la sinistra storica rappresentata da Unità Popolare che ha ottenuto soltanto 2 seggi. Le elezioni hanno confermato lo storico ridimensionamento delle due principali forze politiche spagnole, popolari e socialisti, che dal 1982 hanno governato la Spagna post-franchista. Podemos, in particolare, ha ottenuto un’importante affermazione nei Paesi Baschi e in Catalogna, dove ha addirittura preceduto gli storici partiti indipendentisti, come il Partido Nacionalista Vasco ed Esquerra Republicana de Catalunya: il motivo è da ricercare nella proposta fatta dal leader di Podemos, Pablo Iglesias, personalmente contrario alla secessione delle due regioni, di istitutire un referendum vincolante sulla loro indipendenza.

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RISULTATO ELETTORALE AL CONGRESSO E AL SENATO - FONTE: EL PAIS

Tale risultato politico apre uno scenario di ingovernabilità. Il Premier Rajoy, in quanto leader del partito che ha ottenuto più voti, sta attualmente concentrando gli sforzi sulla formazione di un governo di coalizione che garantisca una sostanziale stabilità: il PSOE di Pedro Sanchez ha tuttavia già manifestato la propria contrarietà ad un governo di larghe intese con Rajoy Premier, mentre è difficile ipotizzare un governo di sinistra con Podemos e gli indipendentisti catalani. La decisione spetterà dunque al Re Felipe VI, che avrà tempo fino al 13 gennaio, data in cui si riunirà nuovamente il Parlamento: in mancanza di un accordo, il Re proporrà come Primo Ministro Rajoy, il quale dovrà prima cercare di ottenere la maggioranza assoluta, poi quella semplice. Nel caso in cui non la ottenesse restano due mesi di tempo per mettere in piedi delle trattative che possano evitare nuove elezioni ed il perdurare dell’instabilità. Intanto, la Catalogna non andrà al voto anticipato: il Presidente della regione autonoma Artur Mas si è dimesso favorendo la nascita di un governo di coalizione con indipendentisti, autonomisti e sinistra radicale e guidato dal sindaco di Girona, Carles Puigdemont. Tale mossa politica ha sbloccato un’impasse che rischiava di portare nuovamente alle urne gli elettori catalani.

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ALTRE DAL MONDO ALGERIA, 5 GENNAIO ↴ L’attuale Direttore del Gabinetto presidenziale ed ex Primo Ministro algerino, Ahmed Ouyahia, ha presentato la bozza di progetto di revisione della Costituzione nazionale. Il testo prevede diverse riforme, tra le quali l’introduzione della lingua berbera (il Tamazight) come lingua nazionale e ufficiale, l’introduzione del limite di due mandati presidenziali, l’istituzione di un organo nazionale indipendente per il monitoraggio delle elezioni e l’introduzione di una previa consulta del Parlamento algerino da parte del Presidente in carica per la nomina del Primo Ministro. Le riforme sono state duramente criticate dai partiti dell’opposizione, soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani algerini. La nuova Costituzione dovrà essere adottata con voto parlamentare nelle prossime settimane.

CINA, 29 DICEMBRE ↴ Pechino ha adottato la sua prima legge anti-terrorismo, dopo che il Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo aveva approvato la nuova legislazione il 27 dicembre scorso. La legge, che entrerà in vigore nel mese di gennaio, offre al governo una struttura legale entro cui articolare una risposta contro al terrorismo, resasi sempre più necessaria dopo l’incremento degli attacchi interni ed esterni al Paese contro cittadini cinesi. Inoltre, la legge permette alle forze armate cinesi di prendere parte alle missioni di lotta al terrorismo, purché vi sia l’approvazione da parte del Paese straniero in questione.

COREA DEL NORD, 5 GENNAIO ↴ La TV di Stato nordcoreana ha annunciato il successo del primo test di bomba nucleare ad idrogeno autorizzato dallo stesso leader Kim Jong-un. Una conferma dell’avvenuta sperimentazione proviene direttamente dalla Corea del Sud e dallo US Geological Survey, i quali hanno rilevato un terremoto di 5.1 della scala Richter, con epicentro Punggye-ri. Seul e Tokyo hanno chiesto immediatamente una risposta forte da parte degli Stati Uniti, principale alleato nell’area, e della comunità internazionale. Dal canto suo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dichiarato l’immediata adozione di nuove misure contro la Corea del Nord. Questo è il quarto test nucleare dal 2006 ma, se confermato, sarebbe il primo test con bomba ad idrogeno.

DAGHESTAN, 29 DICEMBRE ↴ Un gruppo di turisti russi e daghestani è stato attaccato mentre visitava la fortezza di Naryn-Kala situata a Derbent, antica città fortificata nella Repubblica autonoma caucasica del Daghestan. Secondo le testimonianze raccolte, circa 20 persone erano 11


riunite sulla piattaforma di osservazione della fortezza quando diversi colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi dalla vicina pineta, provocando un morto e undici feriti, di cui cinque in modo grave. La vittima era una guardia di frontiera dell’FSB, i servizi di sicurezza russi. Il Daghestan è nel mirino di gruppi estremisti islamisti ostili a Mosca sin dalle due guerre secessioniste in Cecenia e dallo scorso giugno anche in quello della filiale locale dell’IS. L’attacco del 29 dicembre è stato infatti rivendicato dal gruppo operante nella sedicente provincia caucasica del Califfato.

EGITTO-SUDAN, 6 GENNAIO ↴ Continuano a deteriorarsi le relazioni tra Egitto e Sudan, a causa di tensioni multiple riguardanti soprattutto le questioni confinarie e l’immigrazione clandestina. Una situazione tale che ha portato il Sudan a dispiegare le proprie truppe lungo la frontiera condivisa, in risposta a quelle egiziane posizionate già dallo scorso novembre. Un portavoce del Ministro degli Affari Esteri dei Sudan, Ali Alsadig, ha tuttavia dichiarato che Khartoum non ha intenzioni bellicose nei confronti del vicino egiziano. L’escalation di queste tensioni ha visto raggiungere uno dei suoi massimi picchi nel dicembre scorso dopo l’uccisione di 20 migranti sudanesi da parte dell’esercito egiziano nel Sinai mentre tentavano di attraversare il confine con Israele. Le autorità di Khartoum accusano inoltre il Cairo di perpetrare atti discriminatori nei confronti dei cittadini sudanesi. Le testimonianze raccolte sono contrastanti poiché sia le autorità egiziane sia alcuni cittadini sudanesi residenti nella città del Cairo negano tali violenze. Entrambi i governi si sono impegnati ad effettuare indagini più approfondite sui predetti accadimenti.

LIBANO-ISRAELE, 4 GENNAIO ↴ Una pattuglia di soldati israeliani è stata vittima di un’esplosione rivendicata poche ore dopo da Hezbollah, in particolare dalla cellula già guidata da Samir Kuntar, il comandante della milizia sciita ucciso in un raid israeliano il 19 dicembre scorso a Jaramana, un sobborgo di Damasco. L’esplosione è avvenuta nella zona delle fattorie Sheba, alle pendici del monte Hermon; la zona è da decenni contesa tra Libano e Siria ma è occupata dal 1967 da Israele che la considera una parte delle alture del Golan. In risposta all’attacco subito, Israele avrebbe lanciato dei razzi verso il piccolo centro di al-Wazzani, nel Libano meridionale. Si teme, dunque, una nuova escalation al confine tra i due Paesi, rischio reso tanto più temibile se si considera il già difficile e precario contesto regionale.

LIBIA, 23 DICEMBRE – 7 GENNAIO ↴ Mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità la Risoluzione S/RES/2259, che dovrebbe istituire un governo di unità nazionale entro 30 giorni sulla base dell’accordo politico raggiunto a Skhirat (Marocco) il 17 dicembre scorso, non si fermano in Libia gli attacchi e le violenze sempre più marcatamente a 12


firma dello Stato Islamico (IS). Il 4 gennaio i miliziani del Wilayat Barqa (Provincia islamica della Cirenaica) hanno attaccato alcuni giacimenti petroliferi nei pressi di Sidra. Solo pochi giorni dopo, il 7 gennaio, un attacco kamikaze contro un centro di addestramento della polizia di Zliten ha provocato la morte di oltre 70 persone, causando il più grave attentato nel Paese dall’inizio della guerra civile nel 2011. In questo caso l’attentato è stato rivendicato dal Wilayat Tarabulus, la filiale tripolitana dell’IS.

RUSSIA, 1° GENNAIO ↴ Con l’inizio del nuovo anno, la Russia ha adottato una nuova dottrina strategica. Il Presidente, Vladimir Putin, ha firmato una guida dove si afferma che «la priorità nazionale della Russia è confermare il suo status di potenza globale di primo piano» identificando, nel contempo, come primo nemico militare da fronteggiare la NATO. A livello politico, invece, la principale minaccia è rappresentata dalle cosiddette ‘rivoluzioni colorate’ filo-occidentali – con l’annessa «pratica di deporre regimi politici legittimi» – potenzialmente pericolose per la sfera d’influenza del Cremlino nell’Est Europa e oltre. Nessuna specifica attenzione per lo Stato Islamico, inserito piuttosto nel quadro del più ampio contesto del terrorismo internazionale e definito da Putin stesso un «fenomeno secondario».

STATI UNITI, 5 GENNAIO ↴ Il Presidente Barack Obama ha annunciato il varo di un nuovo piano atto a prevenire le numerose morti da arma da fuoco che, di recente, soprattutto a seguito della strage di San Bernardino, hanno generato un notevole clamore mediatico. Il piano prevede un incremento dei controlli da parte dei venditori di armi, online e non, nei confronti degli acquirenti e del loro background. Inoltre, l’FBI dovrà aumentare di circa il 50% il proprio personale (oltre 200 nuovi agenti) addetto a verificare che non vi siano violazioni specifiche in tal senso. La Casa Bianca ha chiesto infine al Congresso di stanziare 500 milioni di dollari per prevenire le stragi attraverso cure mentali per soggetti potenzialmente pericolosi. Coinvolti anche i Dipartimenti di Difesa, Giustizia e dell’Interno, che condurranno ricerche su come debellare il fenomeno.

SVEZIA-DANIMARCA, 4 GENNAIO ↴ Il governo svedese ha reintrodotto i controlli alla frontiera danese, lungo il ponte di Øresund, a causa della crescita del flusso di migranti e al fine di contenere le richieste di richiedenti asilo e di innalzare il livello di sicurezza. Misure temporanee sono state introdotte anche dalla Danimarca al confine con la Germania. Quelle di Svezia e Danimarca si aggiungono alle misure di controllo già poste nei mesi scorsi dalla stessa Germania, Francia, Austria e Norvegia. A margine di un Vertice ristretto a Bruxelles tra il Commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos e i rappresentanti di Stoccolma, Copenaghen e Berlino, si è discusso della necessità di rendere tali controlli

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temporanei, mentre continua il duro confronto europeo sul funzionamento dell’accordo di ricollocamento dei rifugiati e, più in generale, sulla tenuta del sistema Schengen.

TERRORISMO, 22 DICEMBRE ↴ La polizia speciale della Federazione di Bosnia Erzegovina (FUP) ha condotto una vasta operazione anti-terrorismo nei principali distretti della capitale bosniaca e che ha portato all’arresto di 11 persone con l’accusa di finanziamento, di reclutamento e di incitamento ad attività terroristiche. Secondo quanto dichiarato dal portavoce della polizia Boris Grubesic, il gruppo era sospettato di pianificare un attentato a Sarajevo la notte di capodanno ed è presumibilmente collegato con lo Stato Islamico (IS). Nel corso delle festività natalizie si è registrata massima allerta per possibili attentati anche a Parigi, a Vienna, a Monaco di Baviera e a Bruxelles, dove è stato inoltre trovato (8 gennaio) il presunto covo dell’ultimo attentatore di Parigi del 13 novembre e ancora in fuga, Salah Abdeslam.

UNIONE EUROPEA-UCRAINA, 21 DICEMBRE ↴ Il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato la decisione presa dal COREPER II il 18 dicembre circa la modifica della decisione n. 512 del 2014, in ambito PESC, estendendo di altri 6 mesi, dunque fino a luglio del 2016, le sanzioni contro Mosca. La decisione, presa con l’intento di supportare il rispetto degli accordi di Minsk-2, ripropone, da parte europea, il desiderio di creare un link specifico tra il ritiro delle sanzioni e la risoluzione del conflitto nella parte sud-orientale dell’Ucraina, nella regione del Donbass. Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha parlato di “miopia” europea, accusando Bruxelles di continuare a giocare la carta delle sanzioni contro Mosca, anziché instaurare un clima di cooperazione fondamentale per rispondere ad esempio all’attuale emergenza terrorismo.

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ANALISI E COMMENTI LIBERALE ED “EUROPEA”, LA NUOVA ARGENTINA DI MAURICIO MACRI FRANCESCO TRUPIA ↴ «Il cambiamento di un epoca». Così Mauricio Macri, neo Presidente argentino, ha definito la sua elezione e il conseguente successo della coalizione Cambiemos, uscita vittoriosa dalla sfida elettorale dello scorso 22 novembre contro lo sfidante peronista, l’oficialista Daniel Scioli. Nonostante la vittoria elettorale abbia consegnato a Macri «una Nueva Repúbblica en Argentina», il risultato del ballottaggio (51,40%, con soli 700.000 voti di differenza su Scioli) evidenzia come il superamento del Kirchnerismo sia avvenuto non per una forte convinzione degli argentini sui progetti politici dello stesso Macri, quanto per una forte voglia di cambiamento. Fondamentale è stato quindi l’apporto dell’altro sfidante, il peronista dissidente Sergio Massa, che dopo essere stato sconfitto al primo turno è riuscito, grazie al 21,39% dei consensi, a indirizzare in modo decisivo Macri verso la vittoria finale ai danni del Frente Para la Vittoria (…) SEGUE >>>

MONTENEGRO, NUOVO CAPITOLO DELLA SFIDA NATO-RUSSIA FABIO RONDINI ↴ L’invito formulato il 2 dicembre scorso dai Ministri degli Affari Esteri dell’Alleanza Atlantica alla Repubblica del Montenegro di intraprendere i negoziati per una futura adesione al Trattato Nord Atlantico rappresenta l’ennesima occasione per riflettere sul vero ruolo della NATO nei Balcani, sui rapporti tra essa e la Russia, e sui vantaggi (o svantaggi) derivanti dalla potenziale partecipazione di questo Paese all’Alleanza. Il teatro balcanico ha rappresentato uno dei banchi di prova più importanti per la NATO, sia per la sua capacità di sapersi riadattare ai mutamenti dello scenario scaturito dalla fine della Guerra Fredda, sia per la possibilità di proporsi come in grado di provvedere a un processo di pacificazione in quest’area. Gli interventi militari compiuti nel corso degli anni Novanta e il successo delle operazioni militari dell’Alleanza non hanno, tuttavia, comportato l’esaurimento delle tensioni, soprattutto etniche, che li avevano causati (…) SEGUE >>>

LE SFIDE ECONOMICHE E SOCIALI DEL KURDISTAN IRACHENO LORENZO MARINONE ↴ Dopo più di un decennio di relativa stabilità e di forte crescita economica rispetto al resto del territorio iracheno, negli ultimi mesi il Governo Regionale Kurdo (KRG) sta attraversando un periodo di profonda crisi. Alla necessità di far fronte al massiccio afflusso di profughi siriani in fuga dalla guerra civile e, successivamente, di sfollati interni provenienti dalle principali città irachene, dalla metà del 2014 si è sovrapposta la minaccia militare diretta dello Stato Islamico (IS). Tale situazione emergenziale ha indotto i vertici del KRG, protagonisti storici della lotta dei curdi iracheni per l’auto-

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nomia e riconducibili alle tribù Barzani e Talabani, ad aumentare il tentacolare controllo esercitato sulle istituzioni e sulla società curde, abbinandolo a un ulteriore tentativo di smarcamento dalle autorità centrali irachene, messe a durissima prova dalla lotta contro l’IS, tramite l’occupazione e il controllo di Kirkuk e dei suoi importanti giacimenti petroliferi. L’altalenante rapporto con Baghdad e l’irrisolto contenzioso per il trasferimento di fondi statali, necessari per tenere in piedi l’opulenta macchina burocratico-amministrativa del KRG, hanno però sortito l’effetto di esasperare vasti settori della popolazione, che chiedono con crescente insistenza un ricambio politicoistituzionale (…) SEGUE >>>

A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 16


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