N째24, 13-19 SETTEMBRE 2015 ISSN: 2284-1024
I
www.bloglobal.net
Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 20 settembre 2015 ISSN: 2284-1024
A cura di: Eleonora Bacchi Davide Borsani Agnese Carlini Danilo Giordano Antonella Roberta La Fortezza Violetta Orban Alessandro Tinti
Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma: Weekly Report N°24/2015 (13-19 settembre 2015), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2015, www.bloglobal.net
Photo credits: Associated Press; AllSource Analysis; Reuters/Mohamed al-Sayaghi; Getty Images; Reuters/Ismail Zitouni ; AFP.
FOCUS IMMIGRAZIONE ↴
Il 14 settembre il Consiglio “Giustizia e affari interni” dell’Unione Europea si è riunito a Bruxelles per discutere importanti provvedimenti in merito all’attuale crisi migratoria. Al termine della riunione straordinaria tra i ministri degli Interni dei 28 Stati dell’UE è stata approvata una decisione che stabilisce un meccanismo “temporaneo ed eccezionale” di redistribuzione di 40mila migranti dalla Grecia e dall’Italia ad altri Paesi membri. Il sistema di ricollocazione è operativo nei confronti dei soggetti che necessitano di protezione internazionale che sono giunti, o giungeranno, sul territorio greco e italiano tra il 15 agosto 2015 e il 16 settembre 2017. La divisione dei rifugiati tra i diversi Paesi sarà effettuata su base volontaria, garantendo agli Stati ospitanti un contributo di 6mila euro a persona. Non si è tuttavia giunti all’adozione del piano proposto il 9 settembre scorso dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker in merito alla distribuzione di 120mila migranti tramite un sistema di quote vincolanti predeterminate. Nel corso di una conferenza stampa Jean Asselborn, ministro degli Esteri del Lussemburgo, Paese attualmente alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione, ha riferito che la maggioranza degli Stati membri ha accettato le istanze della Commissione, ma la discussione è stata «complicata». Il controverso tema delle quote è all’origine delle principali divergenze tra i Paesi membri e vede Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania e Paesi baltici fortemente contrari. Secondo la loro opinione il sistema delle quote innescherebbe un aumento del fenomeno migratorio verso l’Unione, determinando un afflusso di persone non sostenibile dai Paesi dell’Europa orientale e incidendo sul tessuto sociale 1
europeo. Tra i risultati raggiunti dall’incontro si registrano l’approvazione di un piano di sovvenzione e costruzione di campi di accoglienza nelle aree prossime alle zone di provenienza della maggior parte dei richiedenti asilo – in particolare Iraq, Giordania, Turchia e Libano – e l’impegno al rafforzamento delle operazioni Triton 2015, Poseidon 2015 ed EUNAVFOR MED. Sono state autorizzate azioni di pattugliamento e controllo nelle zone di confine dell’UE nel Mediterraneo, provvedimento che consentirà alle forze dell’ordine di rilevare, confiscare e distruggere le imbarcazioni utilizzate dagli scafisti per trasportare i migranti. I ministri degli Interni di Francia, Germania, Grecia, Italia e Ungheria, insieme ai rappresentanti della Commissione Europea e della presidenza lussemburghese del Consiglio UE, si sono riuniti a margine dei lavori dell’incontro straordinario del 14 settembre per discutere in particolare dei cosiddetti “hot spot”, i centri di identificazione dei richiedenti asilo da istituire nei Paesi di prima accoglienza in territorio comunitario (Italia, Grecia e Ungheria). Francia e Germania sollecitano la loro istituzione prima di procedere al meccanismo di redistribuzione nei Paesi dell’Unione. I titolari dei dicasteri degli Interni di Francia e Germania, Bernard Cazeneuve e Thomas De Maiziere, hanno affermato: «Diciamo no alla ricollocazione dei richiedenti asilo senza un sistema potente ed efficace di controllo alle frontiere e senza l'istituzione di questi famosi hot spot, di cui si parla da diverse settimane. Bisogna distinguere i richiedenti asilo dai migranti che non ne hanno diritto. Il processo di redistribuzione deve partire dagli hot spot e non deve procedere senza ordine». La proposta della Commissione sulla distribuzione in quote obbligatorie di 120mila richiedenti asilo, che aveva registrato forti opposizioni in occasione del vertice del 14 settembre a Bruxelles, è stata approvata dal Parlamento Europeo il 17 settembre con 372 voti favorevoli, 124 contrari e 54 astenuti. In tal modo, in aggiunta ai 40mila migranti da redistribuire sui quali si sono già espressi favorevolmente sia il Parlamento che la Commissione, il numero totale di persone da rilocalizzare salirebbe a 160mila. I capi di Stato e di governo si riuniranno in un vertice straordinario il 23 settembre per dirimere i temi maggiormente controversi. Continuano nel frattempo le tensioni legate all’imponente flusso di migranti che preme alle frontiere di alcuni Paesi comunitari. Il 13 settembre la Germania ha temporaneamente sospeso il libero transito di persone al proprio confine meridionale con l’Austria, seguita il giorno successivo da Slovacchia, Austria e Paesi Bassi che hanno reintrodotto i controlli alle frontiere. Il 15 settembre è entrata in vigore in Ungheria una nuova legge che consente l’arresto di chiunque entri illegalmente nel Paese; i media nazionali hanno inoltre reso noto che Budapest ha richiamato i riservisti per «gestire la situazione del’immigrazione di massa». Situazione critica anche in Croazia, che ha informato di aver esaurito le proprie capacità di accoglienza e ha chiesto uno stop degli arrivi. Il governo di Zagabria ha creato un gabinetto di crisi per fronteggiare l’ondata di migranti che ha raggiunto oltre 15mila 2
persone. La Croazia ha deciso di aprire un corridoio per i profughi che vogliono raggiungere il nord Europa e il premier, Zoran Milanovic, ha affermato che «il confine non può essere sigillato e tutta questa gente non la si può trattenere». Intanto, oltre all’annuncio della costruzione di una barriera al confine con la Croazia da parte del premier ungherese Viktor Orbán, anche la Slovenia ha introdotto controlli ai confini e la Bulgaria ha schierato un migliaio di soldati alla frontiera con la Turchia.
3
IRAQ/SIRIA ↴
Immagini satellitari confermano l’invio presso una base aerea governativa sud di Latakia, una delle ultime roccaforti ancora in mano a Bashar al-Assad, di armamenti ed equipaggiamento russi - tra cui carri armati T-90, elicotteri e artiglieria pesante. Le foto diffuse dal centro AllSource Analysis sembrano inoltre attestare la mobilitazione di reparti aviotrasportati nella base di Taganrog, alle porte dell’Ucraina, che potrebbero costituire forze addizionali destinate a rafforzare la già importante presenza di Mosca in Siria. Il New York Times riferisce che l’intelligence statunitense avrebbe accertato la presenza di almeno duecento militari russi nella base di Latakia, la cui capacità di ricezione sarebbe stata ampliata per alloggiare almeno 1500 unità e che nelle prossime settimane potrebbe diventare un hub per i caccia Mikoyan MiG 31 e Sukhoi Su-25. Negli ultimi giorni almeno sette cargo militari hanno sfruttato un corridoio nei cieli di Iran e Iraq per raggiungere la costa siriana, aggirando il veto americano manifestatosi tardivamente con il rifiuto greco e bulgaro di aprire il proprio spazio aereo agli imponenti Condor russi. Secondo le opposizioni ribelli già nel mese di agosto consulenti militari russi avevano prestato assistenza alle truppe di Damasco a Homs, Slinfah e Hama. Benché gli obiettivi operativi siano ancora da decifrare, il deciso intervento russo potrebbe rappresentare un punto di svolta sia nell’andamento dei due conflitti sovrapposti combattuti nel teatro siro-iracheno, sia nelle strategia 4
delle potenze regionali ed extra-regionali coinvolte nella crisi. L’iniziativa di Vladimir Putin non volge soltanto a sostegno dello spossato regime di al-Assad, ma ambisce anche a dirigere la formazione di un fronte internazionale distinto da quello d’impronta statunitense allo scopo di contrastare lo Stato Islamico (IS). L’ipotesi è ben più concreta di una suggestione: in occasione del vertice dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) a Dushanbe il 15 settembre, Putin ha espresso l’intento di costruire attorno all’asse Mosca-Teheran una nuova coalizione multilaterale che combatta il Califfato a fianco delle truppe di Damasco. È in questa direzione - che preoccupa le potenze occidentali e sunnite, ma incontra la condiscendenza irachena - che la diplomazia iraniana ha lavorato sotto traccia nelle ultime settimane, quando già alla metà di agosto il Generale Qassem Suleimani - comandante dei Pasdaran iraniani e uomo ombra del governo Rouhani - aveva raggiunto il Cremlino per negoziare la partecipazione russa nelle operazioni militari in Siria. Putin ha inoltre paventato la possibilità di prestare assistenza alle truppe tagike per aumentare la sicurezza del confine meridionale con l’Afghanistan contro la minaccia eversiva del Movimento islamico dell’Uzbekistan, gruppo affiliato all’IS resosi protagonista di numerosi attentati dinamitardi. L’inserimento di Mosca nella crisi siriana comporta una necessaria e impervia correzione della politica statunitense. Il rapido e massiccio dispiegamento di forze russe rende infatti impraticabile l’ipotesi di una zona cuscinetto nel nord della Siria su cui Stati Uniti e Turchia sembravano infine aver trovato una comunione di intenti. L’amministrazione Obama ha annunciato un aggiustamento della strategia adottata in Siria, non un suo stravolgimento. Se sul tavolo delle proposte vagliate dalla Casa Bianca c’è anche l’offerta russa di un coordinamento delle azioni militari, la mano tesa da Putin ad Assad apre a soluzioni lontane dalle preferenze di Washington, che sembra anzitutto intenzionata ad accreditare uno o più gruppi armati d’opposizione attivi nell’area di Aleppo quale forza alleata sul campo. Sarà certamente l’atteso faccia a faccia tra Obama e Putin nell’ambito della prossima sessione dell’Assemblea Generale ONU, che si terrà alla fine di settembre a New York, a imprimere una direzione alla complessa partita siriana. È presumibile che il Presidente russo sceglierà il Palazzo di Vetro per lanciare un appello contro il terrorismo islamista. Il Cremlino ha annunciato che ai margini dell’importante appuntamento dell’agenda internazionale ospiterà un incontro aperto alle parti in conflitto in Siria per la ripresa dei colloqui di pace. Intanto, il Generale Lloyd Austin, vertice del Comando Centrale nell’organigramma delle Forze Armate statunitensi, ha confermato in un’audizione al Senato la partecipazione attiva dei reparti speciali nelle azioni condotte dai guerriglieri curdi dell’Unità di Protezione Popolare (YPG) nel nord della Siria, seppur (almeno ufficialmente) a soli scopi di assistenza e senza funzioni di combattimento. Se i Peshmerga siriani sono stati sinora i principali interlocutori sul terreno, la Turchia preme tuttavia il governo Obama affinché non incoraggi l’estensione delle aree soggette al 5
controllo del YPG in virtù della vicinanza di quest’ultimo al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) con cui ha riaperto l’annoso confronto armato. Dopo gli annunci dei giorni scorsi, il Ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha ribadito che nelle prossime settimane i caccia francesi colpiranno obiettivi dell’IS anche in territorio siriano. Secondo il Ministro, l’avanzata dei miliziani islamisti nella provincia di Aleppo - dove il Califfato sta cercando di anticipare l’eventuale dispiegamento turco - prova l’assennatezza della decisione. Attraverso il portavoce Stéphane Le Foll, il Presidente François Hollande ha aggiunto che i bombardamenti sono necessari e giustificati dal principio di legittima difesa. Anche l’Australia ha deciso di aggregarsi ai raid nei cieli siriani, mentre le forze speciali operative nell’Anbar iracheno saranno dimezzate. Crescono invece le tensioni in Iraq, dove alcuni gruppi paramilitari sciiti hanno denunciato le manifestazioni popolari nelle province meridionali (a maggioranza sciita) per alzare il livello dello scontro con il governo di Haider al-Abadi. Contro le indicazioni delle istituzioni centrali, le forze di polizia nella provincia di Babil hanno violentemente disperso i cortei di protesta e minacciato l’incolumità dei giornalisti presenti. Il 15 settembre uomini armati affiliati a una milizia sciita hanno rapito nel centro di Baghdad il consigliere sunnita dell’ex governatore dell’Anbar, mentre due dei diciotto lavoratori turchi sequestrati in agosto sono stati rilasciati a Basra. Questi preoccupanti segnali d’instabilità non frenano il processo di riforme avviato da al-Abadi: sempre nella giornata del 15 settembre, il Consiglio dei Ministri ha inoltrato al Parlamento l’approvazione della legge per la cancellazione delle cariche di vice presidente. Sul fronte dei combattimenti restano inalterate le posizioni dell’IS a Ramadi e Baiji, dove i miliziani jihadisti hanno ripreso l’offensiva contro l’esercito iracheno. Tuttavia, le manovre dei Peshmerga curdi intorno a Kirkuk e il successivo schieramento di centinaia di combattenti del Califfato nella stessa area indicano la possibile riapertura di un terzo fronte nel nord dell’Iraq. Intanto, Baghdad continua a essere oggetto di attentati: il 16 settembre una duplice esplosione ha provocato la morte di ventitré persone.
6
YEMEN ↴
È iniziata, domenica 13 settembre, l’offensiva della coalizione di paesi arabi a guida saudita contro i ribelli Houthi - sciiti filo-iraniani - per la riconquista della provincia di Marib nello Yemen centro-occidentale, a cui seguirà l’operazione per la liberazione della capitale yemenita, Sana’a. Con il supporto di raid aerei, le truppe terrestri formate in prevalenza da soldati degli Emirati Arabi Uniti, stanno conducendo un’avanzata su due fronti per raggiungere la capitale, controllata da un anno dagli Houthi. L’esercito guidato da Riyadh sta pertanto procedendo sia da sud, dalla città di Aden alla volta di Taiz per proseguire verso nord, sia dalla provincia di Marib dalla quale raggiungerà Sana’a passando attraverso l’area settentrionale di al-Jawf. Nella stessa giornata di domenica 13, il Presidente esiliato Abd Rabbu Masour Hadi ha annunciato che non prenderà parte ai negoziati di pace voluti dall’Inviato Speciale per la Nazioni Unite in Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed. Quest’ultimo aveva dato notizia, alcuni giorni prima, della conferma di entrambe le fazioni – il Presidente Hadi e il governo a lui fedele da una parte e i ribelli sciiti Houthi dall’altra – di essere disposte a partecipare al tavolo negoziale nel corso della settimana successiva. Tuttavia, nel comunicato di Hadi viene sottolineato che i legittimi leader yemeniti non apriranno alcun dialogo fino a quando i ribelli non accetteranno la risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n. 2216 del 14 aprile scorso. Secondo quanto indicato in tale documento gli Houthi devono, tra le altre richieste: cessare l’uso della violenza, abbandonare le aree conquistate nel corso del 7
conflitto inclusa la capitale Sana’a, nonché cessare ogni attività che spetti in maniera esclusiva alle autorità del Governo dello Yemen. In seguito al rifiuto delle autorità yemenite l’inviato speciale ONU ha annunciato che si recherà in Arabia Saudita per tentare nuovamente la via del dialogo, affermando che «non esiste una soluzione militare al conflitto» e che « tutte le parti in lotta devono impegnarsi urgentemente e in buona fede nella ricerca di soluzioni politiche al tavolo negoziale con lo scopo di porre fine agli scontri in Yemen». Nel frattempo, mercoledì 16, alcuni membri del governo yemenita – tra cui il Vice-presidente nonché Primo Ministro Khaled Bahah - sono rientrati nel Paese, recandosi nella città portuale di Aden riconquistata nel luglio scorso. Da qui, secondo quanto comunicato dal portavoce del governo Rajeh Badi, il legittimo Governo yemenita cercherà di guidare lo Stato fino a quando non gli sarà permesso di rientrare a Sana’a. Non è ancora chiaro, tuttavia, se il Presidente Hadi seguirà le mosse di Bahah o meno. Del 16 settembre è inoltre la notizia di un attentato avvenuto contro una chiesa cattolica ad Aden, la quale è stata data alle fiamme. Secondo alcune fonti non confermate i responsabili sarebbero membri della cellula di alQaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Contro questo gruppo – che rivendicò l’attentato di Parigi contro il giornale satirico Charlie Hebdo nel gennaio scorso - alcuni giorni prima dell’attentato alla chiesa di Aden, è stato condotto un attacco con drone da parte delle forze armate statunitensi che ha portato all’uccisione di quattro terroristi. Nel corso delle ultime settimane le azioni militari della coalizione anti-Houthi si stanno
intensificando
per
la
riconquista
della
capitale
Sana’a.
Nonostante
l’evoluzione delle operazioni andasse in questa direzione, la recente escalation del conflitto sembra essere scaturita da un attentato condotto il 4 settembre per mano degli Houthi in cui sono rimasti uccisi 60 soldati della coalizione. Il conflitto yemenita, in cui le forze del Golfo Arabo sono entrate il 26 marzo scorso, è iniziato nell’estate 2014 con le proteste inizialmente pacifiche del gruppo Houthi. Il motivo per cui questo movimento – di religione sciita zaydita, che prende il nome dal primo leader, Hussein al-Houthi – ha iniziato a ribellarsi al Governo centrale, è stata la decisione di riformare il sistema politico del Paese in favore di una struttura di tipo federale. Questi cambiamenti avrebbero tuttavia indebolito il potere di cui il movimento godeva nella Provincia settentrionale di Saada e nelle zone limitrofe. Grazie all’alleanza con l’ex-presidente Ali Abdullah Saleh, gli Houthi sono riusciti a rafforzarsi ed a conquistare la capitale nel settembre 2014. Nei mesi successivi il legittimo Presidente Hadi è stato costretto a trovare rifugio prima ad Aden e poi in Arabia Saudita per non cadere in mano ai ribelli. Risale appunto al periodo in cui Hadi si è recato a Riyadh - marzo 2015 - la decisione di formare una coalizione militare per porre fine all’avanzata dei ribelli sciiti.
8
BREVI GRECIA, 19 SETTEMBRE ↴
Domenica 20 settembre la Grecia tornerà alle urne per la terza volta, a meno di otto mesi dalle elezioni del 25 gennaio scorso. Molti sono i risentimenti da parte dei cittadini nei confronti di Tsipras, tanto che saranno
proprio
costoro
a
ricoprire
un
ruolo
fondamentale nelle prossime elezioni. Sin dal 1974 i principali partiti della Grecia sono Nea Dimokratia, per il centro destra, e Pasok, per il centro sinistra, ma ad oggi guadagnano campo partiti più piccoli tra cui quello di estrema destra Alba Dorata. Secondo le statistiche di gennaio 2015 nessuno dei partiti riuscirebbe da solo a formare un governo di maggioranza. Nonostante Tsipras si sia espresso contro una coalizione con Nea Dimokratia, vi è la possibilità che i due partiti si uniscano per il bene del Paese. Gli ultimi sondaggi alla vigilia del voto attribuiscono un lieve vantaggio al partito del premier dimissionario sul suo avversario conservatore. L'istituto di sondaggio Rass ha attribuito a Syriza il 28.2% dei voti, rispetto al 27.5% di Nea Dimokratia. L'istituto Marc ha accreditato Syriza in vantaggio di 1.1 punti percentuali (26.2 rispetto al 25.1), mentre Avghi ha previsto il 33% dei consensi per Tsipras contro il 30% del leader di Nea Dimokratia, Vangelis Meimarakis. L'istituto Gpo ha previsto due punti e mezzo percentuali di vantaggio per Syriza, accreditata del 28.5% rispetto al 26% di Nea Dimokratia. L’estrema destra di Alba Dorata può contare su un buon livello di consenso non solo a
causa
della
crisi
immigrazione, su cui
economica, il
ma
partito e il
anche
dell’aggravarsi
della
questione
suo leader Michaloliakos hanno fatto
pragmaticamente leva. Gli analisti affermano che i sondaggi accreditano i contendenti di una percentuale di voti troppo simile per poter dire chi vincerà. I partiti in corsa per il rinnovo dei 300 seggi del Parlamento di Atene sono 19 e dovranno superare la soglia di sbarramento del 3% per potersi assicurare un posto nell’assemblea.
LIBIA, 13 SETTEMBRE ↴ Sembra essere giunto alla fase finale il negoziato tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli per la formazione di un governo di unità nazionale che, sebbene non risolutivo di per sé, si presenta come il primo passo sulla strada di un effettivo processo di pacificazione e stabilizzazione del Paese. L’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino León, ha annunciato domenica 13 9
settembre
di
aver
fondamentalmente
il
consegnato
alle
parti
medesimo
testo
un
nuovo
negoziato
a
testo
luglio
con
di
accordo,
circa
nove
emendamenti rispondenti soprattutto alle richieste di modifica provenienti da Tripoli. Ora la parola passa al Congresso generale Nazionale di Tripoli e alla Camera dei Rappresentanti di Tobruk che dovranno entrambe approvare il testo dell’accordo entro il termine ultimo del 20 settembre. Il cauto ottimismo dell’inviato speciale contrasta con l’esistenza di numerose fazioni interne, da entrambe le parti, contrarie all’accordo.
In particolare si teme una possibile azione di boicottaggio
dell’accordo proveniente dai leader delle potenti milizie che controllano il Paese e su cui i due governi “ufficiali” esercitano un controllo soltanto parziale. L’accordo, infatti, oltre a disegnare le nuove istituzioni libiche prevede lo smantellamento delle milizie esistenti e dei loro vertici in vista della formazione di una rinnovata gerarchia militare nominata dal governo di unità nazionale.
REGNO UNITO, 12 SETTEMBRE ↴ Dopo le dimissioni di Ed Miliband, che sono seguite alla sconfitta nelle elezioni parlamentari del maggio scorso per mano dei Conservatori di David Cameron, il Partito Laburista ha eletto un nuovo leader. Si tratta di Jeremy Corbyn, che alle urne delle primarie ha raccolto il 59,5% delle preferenze. La sua elezione segna
un
ulteriore
spostamento
a
sinistra
dei
Laburisti, che si riappropriano di quell’orientamento socialista già adottato tra gli anni Settanta ed Ottanta, e che l’ex Primo Ministro Tony Blair aveva sostituito tra gli anni Novanta e Duemila con politiche più centriste. Corbyn non solo è un socialista, ma, a dispetto della maggioranza dei britannici, è anche un repubblicano, ostile alla storica forma monarchica del Paese. Le polemiche successive alla sua elezione non sono mancate. Da destra ha ricevuto attacchi che lo hanno indicato come un pericolo per la sicurezza nazionale (si era mostrato in disaccordo con l’omicidio di Bin Laden nel 2011) e per l’unione in sé (ha fraternizzato con la causa del Sinn Fein). Inoltre, durante le recenti celebrazioni per la battaglia di Inghilterra, avvenuta nel corso della Seconda guerra mondiale, si è rifiutato di cantare l’inno, destando stupore e sconcerto tra molti dei suoi compatrioti. Tuttavia, la Regina Elisabetta II non ha tardato ad inserirlo nel suo Privy Council, un gesto significativo (anche se, convenzionalmente, dovuto) per quella che è da poco divenuta il monarca più longevo nella storia del Regno Unito. Dal canto suo, il primo provvedimento di Corbyn è stato nominare il nuovo governo ombra. Ad Andy Burnham, rivale per la leadership del partito, Corbyn ha assegnato gli Interni, mentre Hilary Ben, già agli Esteri con Miliband, è stata confermata nel suo ruolo. Nel governo ombra risultano più donne che uomini (16 a 15), benché Corbyn sia stato accusato di aver riservato loro cariche secondarie.
10
ALTRE DAL MONDO AFGHANISTAN, 13 SETTEMBRE ↴ Un’irruzione armata dei Talebani nel carcere della città meridionale di Ghazni ha prodotto la liberazione di oltre 350 detenuti. Secondo fonti non confermate dalle autorità, l’intelligence aveva già individuato nella prigione un possibile bersaglio del gruppo terroristico. Un assalto analogo ad un carcere di Kandahar nel 2011 aveva portato all’evasione di circa 500 reclusi.
AUSTRALIA, 15 SETTEMBRE ↴ Malcolm Turnbull, giunto a capo del partito Liberale dopo aver vinto un voto di fiducia interno, è stato nominato nuovo primo ministro. Turnbull ha sostituito alla guida dell’esecutivo il premier uscente Tony Abbott, battuto il 14 settembre con 54 voti contro 44, ed è diventato capo del governo. Le consuetudini australiane prevedono infatti che il leader del principale partito diventi automaticamente primo ministro. BURKINA FASO, 17-19 SETTEMBRE ↴ Alcuni membri della guardia presidenziale, guidati dal generale Dienderé, ex-capo di Stato Maggiore particolare del deposto presidente Blaise Compaorè, hanno preso in ostaggio il presidente ad interim Michel Kafando ed il primo ministro Isaac Zida, sollevandoli dall'incarico. I golpisti, dopo aver annunciato la liberazione dei due politici, sono ora impegnati in colloqui di pacificazione con la mediazione del presidente senegalese Macky Sall. COREA DEL NORD, 15 SETTEMBRE ↴ L’Agenzia di stampa governativa KCNA ha definitivamente confermato i sospetti che si avevano già da circa due anni: il governo di Pyongyang ha riaperto il principale impianto per la produzione di combustibile per gli ordini atomici, il complesso di Yongbyon, chiuso nel 2007 secondo quanto previsto da un accordo tra Corea del Nord, Corea del Sud, Stati Uniti, Russia e Giappone, in cambio di aiuti economici. Nella stessa nota, l’agenzia informa che Pyongyang sta procedendo ad accrescere, quantitativamente e qualitativamente, le proprie testate nucleari. La conferma della riapertura giunge poco dopo un altro annuncio coreano relativo ad un imminente lancio in orbita di un satellite, operazione che, secondo la comunità internazionale, potrebbe celare un test missilistico a lungo raggio. Il rischio non è tanto quello derivante da un possibile concretizzarsi delle minacce coreane nei confronti degli USA quanto quello di un’escalation nei già delicati rapporti con Seoul.
11
GIAPPONE, 18 SETTEMBRE ↴ Il Senato giapponese ha approvato la legge che autorizza, per la prima volta dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, lo schieramento di propri soldati in territorio estero. La legge, approvata già dalla camera bassa in luglio, ha suscitato le violente proteste dei membri dell'opposizione e un dibattito acceso nella società civile, nonostante rappresentasse uno dei punti cardine del programma politico del premier Shinzo Abe. ISRAELE, 16 SETTEMBRE ↴ Continuano da giorni gli scontri sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme, luogo sacro alle tre maggiori religioni monoteiste, tra le forze dell’ordine israeliane e manifestanti palestinesi. Le tensioni sono esplose a seguito dell’applicazione, decretata dal Ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon alla vigilia del capodanno ebraico, del divieto per i gruppi musulmani volontari di presiedere la moschea di Al Aqsa. Dura la reazione del Primo Ministro israeliano Netanyahu che ha annunciato l’inasprimento delle pene a seguito dell’incidente in cui un civile israeliano ha perso la vita a causa della sassaiola degli attivisti palestinesi.
NIGERIA, 16 SETTEMBRE ↴ L'esercito nigeriano ha rivelato di aver liberato decine di persone tenute in ostaggio dagli estremisti islamici di Boko Haram. L'esercito ha affermato di aver sgomberato gli accampamenti di Boko Haram nello stato di Borno, nel nord-est del Paese, pur non precisando il luogo del rapimento dei prigionieri e le loro condizioni.
12
ANALISI E COMMENTI LA GEOGRAFIA E LA STORIA, CROCE E DELIZIA DEL LIBANO
ANTONELLA ROBERTA LA FORTEZZA ↴ La geografia e la storia sembrano aver assegnato al Libano il suo destino. Costantemente teso fra il mondo occidentale e quello arabo in una posizione di crocevia fin dai tempi dell’Emirato del Monte Libano, il Paese dei Cedri si muove come un funambolo sull’insicura fune che divide la stabilità dal collasso. Incessantemente alla ricerca del suo equilibrio all’interno e all’esterno, il Libano è forse il Paese del Levante che maggiormente risente dell’instabilità caratterizzante la regione. Un perfetto ma alquanto precario gioco di equilibri ha consentito per lungo tempo al Libano di smorzare le tensioni interne dovute alla compresenza di diverse comunità (principalmente maronita, sunnita e sciita); ma muoversi in spazi così ristretti significa essere preda, più di altri, di ogni minima alterazione dello status quo così come esistente. Così, il Libano ha mostrato apertamente e più volte nella sua storia tutte le contraddizioni, interne ed esterne, amplificandole ed esasperandole. Infatti, a soli venticinque anni dalla fine della guerra civile, il vacuum istituzionale che si prolunga ormai da più di un anno, la difficile situazione economica e i nuovi sconvolgimenti nel contesto regionale fanno del Libano, ancora una volta, una facile preda di quel settarismo che già in passato ha portato il Paese dei Cedri al collasso. Proprio le proteste anti-governative che si stanno registrando in questi ultimi giorni, proteste generate dalla crisi dei rifiuti ma che si sono presto trasformate in una contestazione politica contro la piaga della corruzione e il sistema di protezione sociale ormai al collasso, testimoniano la definitiva insostenibilità della situazione libanese nel lungo periodo (…) SEGUE >>>
LE TRE SFIDE DELLA NIGERIA DI MUHAMMADU BUHARI: DEMOCRAZIA, ECONOMIA, SICUREZZA DANILO GIORDANO
↴
La vittoria di Muhammadu Buhari alle elezioni presidenziali nigeriane dello scorso 28 marzo, è stata accolta in maniera positiva dalla popolazione, dalla comunità internazionale, ma anche dalla Borsa nigeriana che ha fatto registrare un guadagno superiore all’8% il giorno della proclamazione dei dati ufficiali da parte della Commissione Elettorale Nazionale. Buhari, che è stato già al potere in Nigeria dal 1983 al 1985, ha ottenuto un’affermazione netta, vincendo in 21 dei 36 Stati che compongono la federazione e sconfiggendo il presidente uscente Goodluck Jonathan. Jonathan ha pagata caro la miseria dilagante di gran parte della popolazione, nonostante una crescita media del PIL superiore al 6% negli ultimi 5 anni, e l’incapacità di opporsi alla minaccia terroristica di Boko Haram. Buhari, ex-generale delle forze armate nigeriane, artefice di una, seppur controversa, campagna anti-corruzione 13
durante il suo precedente “mandato presidenziale”, è stato identificato come l’uomo forte a cui affidarsi, in ultima istanza, per sconfiggere la minaccia jihadista che sta martoriando il nord-est del Paese. In concreto, però, le sfide che il presidente Buhari dovrà affrontare durante il suo mandato saranno tre: consolidamento del processo democratico, miglioramento delle condizioni economiche della popolazione e creazione di una cornice di sicurezza stabile e duratura (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net
14