N°32, 29 NOVEMBRE – 12 DICEMBRE 2015 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 13 dicembre 2015 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Danilo Giordano Vittorio Giorgetti Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Violetta Orban Maria Serra Alessandro Tinti
Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma: Weekly Report N°32/2015 (29 novembre – 12 dicembre 2015), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2015, www.bloglobal.net
Photo Credits: AFP; Reuters; La Presse/Reuters; Mahir Zeynalov/Today’s Zaman.
FOCUS FRANCIA-COP 21 ↴
Si è conclusa con un giorno di ritardo rispetto al programma preventivato (30 novembre – 11 dicembre) la Conferenza Internazionale sul Clima, denominata COP21, svoltasi a Parigi sotto l’egida dell’ONU. Alla fine della maratona diplomatica è stato raggiunto un importante accordo sul clima, il primo della storia, in cui ben 195 Paesi hanno accettato di impegnarsi in maniera decisa per la riduzione delle emissioni di gas serra. Il testo finale della COP21 contiene una serie di obiettivi molto ambiziosi, inimmaginabili fino a pochi anni fa, al quale hanno partecipato anche i maggiori produttori di gas serra, come Stati Uniti e Cina, diversamente da quanto accaduto nel 1997 quando i protocolli di Kyoto furono sottoscritti soltanto dall’Europa e da pochi altri Paesi. L’elemento principale dell’accordo riguarda la temperatura, la cui crescita non dovrà oltrepassare i 2°C, con l’impegno di cercare di raggiungere un obiettivo ancora più ambizioso, ovvero un riscaldamento inferiore a 1,5°C. La comunità scientifica ha da tempo messo in guardia l’opinione pubblica circa gli effetti catastrofici del global warming, ovvero dell’aumento eccessivo delle temperature che è stato calcolato in due gradi centigradi rispetto a livelli pre-industriali. È stato calcolato che secondo i trend delle emissioni attuali siamo avviati verso un aumento della temperatura di circa cinque gradi rispetto al periodo pre-industriale, e tali sbalzi di temperatura potrebbero aver un’importanza enorme per la Terra. Il secondo elemento rilevante dell’accordo siglato al centro congressi di Le Bourget riguarda la creazione di un fondo annuo da 100 miliardi di dollari a partire dal 2020 e con dei meccanismi di 1
crescita programmata, alimentato dai Paesi industrializzati e da utilizzare per il trasferimento delle tecnologie pulite a favore dei Paesi meno sviluppati. Terzo elemento base dell’accordo è relativo ad un programma di rafforzamento periodico degli obiettivi di riduzione fissati dai singoli Stati: ogni cinque anni, a partire dal 2018, sarà previsto un incontro nel quale i Paesi dovranno rivedere il loro contributo e rinnovare i loro impegno verso obiettivi più ambiziosi di quelli fissati in precedenza. Infine l’intesa contiene un riferimento al carbon budget, ovvero alla quantità di carbonio immessa nell’atmosfera bruciando combustibili fossili che deve essere tagliata di un terzo per permettere un aumento delle temperature inferiore ai 2°C. L’intesa di Parigi entrerà in vigore non appena sarà firmato o ratificato da ameno 55 Paesi responsabili di almeno il 55% delle emissioni, con i contenuti operativi che devono ancora essere ben delineati. Benché l’accordo sia globale, è emerso con evidenza che le attenzioni fossero rivolte alla Cina, ovvero al Paese che inquina più di tutti al mondo. L’accordo di Parigi sembra concedere qualcosa a Pechino, così come all’India, terzo inquinante al mondo, e agli altri Paesi in via di sviluppo: potranno mitigare con più calma il loro impatto sul clima, in quanto il picco delle emissioni, stabilito nel 2020 per i Paesi industrializzati, dovrà essere raggiunto il prima possibile senza alcun riferimento temporale specifico. Nell’accordo è stata prevista anche una sezione a favore delle nazioni insulari che potranno ottenere agevolazioni e contributi specifici, ma non compensazioni, per i danni derivanti dall’innalzamento del livello dei mari. Per quanto riguarda l’Italia, il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha annunciato un contributo di 13 milioni di dollari per gli Stati africani per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per le azioni sul clima attraverso la Banca Africana di Sviluppo (AFDB).
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SIRIA-IRAQ ↴
L’8 dicembre l’Arabia Saudita ha ospitato a Riyadh la Conferenza delle opposizioni siriane in esilio e in patria, cui hanno preso parte quindici gruppi armati in lotta con il governo di Damasco e circa cento delegati. Escluse dal tavolo le organizzazioni terroristiche Stato Islamico (IS) e Jabhat al-Nusra, l’invito saudita è stato però rivolto alle fazioni islamiste Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham – gruppi estremisti di orientamento salafita che le potenze sunnite (tra cui Turchia, Qatar e la stessa Arabia Saudita) sostengono finanziariamente e politicamente – che hanno presieduto l’incontro al fianco degli elementi moderati dell’eterogeneo fronte ribelle. È la prima volta dalle determinazioni di Ginevra nel 2012 che i maggiori gruppi di opposizione al Presidente siriano Bashar al-Assad si sono riuniti in vista dei negoziati di pace previsti a Vienna per gennaio. A conclusione di due giorni di trattative, le parti hanno concordato la formazione di un comitato di venticinque membri e la redazione di un documento che esclude il governo alawita installato a Damasco da qualsiasi ruolo nella prossima transizione politica. Le decisioni sono state giudicate insoddisfacenti dal gruppo Ahrar al-Sham, che ha abbandonato la Conferenza in ragione dell’attribuzione d’incarichi di primo piano a esponenti delle fazioni moderate convenute a Riyadh, per quanto i rappresentanti del gruppo salafita avrebbero firmato la dichiarazione conclusiva dell’incontro. Seppur tassello importante, l’appuntamento patrocinato dalla diplomazia saudita e appoggiato da Stati Uniti e Russia (malgrado l’alleanza con al-Assad, Mosca ha avuto voce nel suggerire la lista dei partecipanti) ha estromesso dai colloqui i soggetti curdi, organizzatisi in una Conferenza separata a Rumeilan, nel nordest della Siria. Intanto, le autorità del cantone di Afrin – isolato dai cantoni di Kobane e Cizire
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– nella regione autonoma del Kurdistan siriano hanno dichiarato lo stato di emergenza, denunciando i crescenti attacchi “terroristici” di Jabhat al-Nusra e Ahrar alSham fiancheggiati da parte turca. Il Presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato, alla presenza dei massimi vertici militari nazionali, che le forze schierate in Siria stanno fornendo copertura aerea e armamenti anche ad alcune fazioni dell’Esercito Libero Siriano sostenute dalle potenze occidentali. La dichiarazione è rilevante, poiché dall’inizio dell’offensiva l’aviazione russa ha prevalentemente attaccato i gruppi ribelli anti-governativi al fine esplicito di garantire la solidità del contestato regime di Damasco. A ciò non fanno eccezione gli sviluppi sul terreno delle ultime due settimane, che hanno registrato pesanti bombardamenti russi ad Aleppo e Homs in coordinamento con l’aviazione siriana e provocato la morte di un elevato numero di civili. Tuttavia, la nota di Putin potrebbe indicare un certo margine di flessibilità nell’ordine di priorità fissato dal Cremlino, che il 15 dicembre riceverà la visita del Segretario di Stato USA John Kerry. Proprio le diplomazie di Stati Uniti e Russia sono al lavoro per la negoziazione di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, volta a tagliare i canali di finanziamento dell’IS e la cui bozza sarà discussa il 17 dicembre. Tuttavia, a mantenere alta la tensione tra le parti ha contribuito lo stesso Putin, che in un colloquio con il Ministro della Difesa russo Sergej Shoigu ha ricordato che i missili cruise oggi impiegati in Siria possono essere armati sia con testate convenzionali, che nucleari – un appunto infelice, eppur strategicamente ponderato, che seguiva l’annuncio (8 dicembre) del lancio di missili Kalibr dal sottomarino “Rostov-on-Don” dislocato nel Mediterraneo. Se il futuro del Presidente siriano Bashar al-Assad continua a essere un elemento di divisione tra Stati Uniti e Russia, il Ministro degli Esteri Laurent Fabius ha smorzato la posizione francese sulla famiglia regnante, annotando che a fronte di garanzie sufficienti l’allontanamento di al-Assad non deve necessariamente rappresentare una precondizione vincolante la stessa transizione politica. Il 3 dicembre la Camera dei Comuni britannica ha autorizzato la conduzione di bombardamenti contro l’IS in Siria – provvedimento su cui il Primo Ministro David Cameron aveva lungamente speso il proprio capitale politico per strappare un’approvazione parlamentare trasversale, sopraggiunta con 397 voti a favore (223 contrari) e la spaccatura in seno al Partito Laburista. A poche ore dal voto, quattro caccia Tornado partiti dalla base cipriota di Akrotiri hanno colpito delle installazioni petrolifere nel giacimento siriano di Omar, controllato dall’IS. Il via libera è stato accolto con favore da Stati Uniti, Francia e Russia – per quanto il Cremlino abbia riproposto l’invito ad una campagna unitaria contro il terrorismo. Anche il Bundestag tedesco ha votato ad ampia maggioranza l’intervento armato in Siria, con un dispiegamento massimo di 1200 uomini. Il vice Ministro degli Esteri iraniano
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Hossein Amir-Abdollahian ha invece commentato che le operazioni condotte da Francia e Regno Unito non possano considerarsi legittime in virtù del mancato coordinamento con il governo siriano, mentre secondo alcune indiscrezioni la stessa Teheran starebbe preparando l’ingresso della flotta aerea nel teatro di guerra. Eppure, alcuni ufficiali statunitensi riportano il ritiro parziale delle truppe iraniane presenti in Siria, adducendo l’elevato numero di perdite quale causa principale del ripiegamento. Da circa 2.000 unità, i Pasdaran della Guardia Rivoluzionaria sarebbero stati ridotti a circa 700. Il 4 dicembre alcune centinaia di soldati turchi sono entrati in territorio iracheno nella città settentrionale di Bashiqa in coordinamento con le autorità curde ma senza l’autorizzazione del governo centrale, che ha denunciato l’incursione come una grave violazione della sovranità irachena. L’esecutivo guidato da Haider alAbadi ha rigettato l’argomentazione addotta dal Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu – che aveva giustificato lo schieramento allo scopo di proteggere i consulenti turchi che stanno addestrando i Peshmerga curdi in preparazione di un’offensiva sulla vicina città di Mosul, dal giugno 2014 sotto il controllo dell’IS – e intimato l’immediato ritiro del contingente. Tuttavia, la richiesta di Baghdad ha incontrato la ferma replica di Ankara, che pur astenendosi dalla rotazione di altre unità nel nord dell’Iraq non richiamerà i militari inviati nella base di Bashiqa. Di fronte alla prova di forza sostenuta dal Presidente turco Recep Tayyp Erdoğan, che ha convocato per il 21 dicembre un incontro trilaterale con gli Stati Uniti e con una delegazione del Kurdistan iracheno senza fare menzione del governo di Baghdad, l’11 dicembre il Premier Haider alAbadi ha comunicato la preparazione di un reclamo formale al Consiglio di Sicurezza ONU e ha inoltre contattato direttamente il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg per richiamare la Turchia al rispetto dell’integrità irachena. Mentre la tensione tra i due Paesi cresceva, i caccia turchi hanno continuato a sorvolare le zone montuose di Qandil nel nord dell’Iraq attaccando alcune postazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), mentre Davutoğlu ha accolto – con gli onori dovuti a un capo di Stato e la bandiera curda in evidenza – Masoud Barzani, Presidente del Governo Regionale del Kurdistan Iracheno. Già il 2 dicembre al-Abadi aveva rinnovato il principio per cui l’eventuale coinvolgimento di truppe straniere in missioni di combattimento contro i miliziani del Califfato avrebbe potuto svolgersi unicamente dietro la previa approvazione e lo stretto controllo di Baghdad, così commentando l’annuncio del Segretario della Difesa statunitense Ashton Carter circa il prossimo impiego di una forza di spedizione di approssimativamente 200 unità dei reparti speciali per la conduzione di raid e attività d’intelligence al fianco dell’esercito regolare iracheno. La decisione concertata con Washington aveva innescato la veemente opposizione delle fazioni sciite, intransigenti rispetto all’allargamento della mal tollerata presenza armata americana, che può già contare su circa 3.330 soldati prevalentemente con funzioni di assistenza e addestramento. D’altra parte l’amministrazione Obama mostra crescente preoccu-
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pazione per la riemersione delle tensioni settarie nel Paese, che nelle ultime settimane hanno registrato gravi episodi di persecuzione della comunità sunnita da parte delle forze di sicurezza, peraltro aggravati dall’epurazione di numerosi ufficiali sunniti negli stessi ranghi dell’esercito. Per questa ragione, la diplomazia statunitense ha minacciato il governo a maggioranza sciita presieduto da al-Abadi di accogliere la richiesta di armare direttamente le tribù sunnite (sul modello di un disegno di legge in discussione al Congresso avente a oggetto i trasferimenti diretti ai Peshmerga curdi) qualora queste non vengano effettivamente integrate nel dispositivo militare iracheno. Intanto, le forze di sicurezza irachene sono riuscite ad aprire una breccia a Ramadi, avanzando nei quartieri occidentali della città e stringendo l’attacco contro i circa 350 miliziani jihadisti che secondo le stime dell’intelligence statunitense starebbero ancora combattendo nella città. I successi sul campo – cui hanno partecipato attivamente guerriglieri sunniti – hanno sollecitato l’offerta di Washington per un intervento di terra nello scenario, che potrebbe rivelarsi decisivo per la riconquista del maggiore centro urbano nella contestata provincia dell’Anbar, laddove i bombardamenti dei caccia americani già hanno avuto un ruolo fondamentale nello spossare le difese dei miliziani dell’IS, impadronitosi di Ramadi nel maggio scorso. Il Pentagono ha inoltre accertato l’eliminazione in un raid alla fine di novembre di Abu Saleh, uno dei banchieri del Califfato.
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BREVI AFGHANISTAN, 8 DICEMBRE ↴ L’Afghanistan è nuovamente scosso da una serie di attentati terroristici effettuati dagli insorti talebani più oltranzisti. Obiettivo dell’attacco è stato l’aeroporto internazionale di Kandahar, nella parte meridionale del Paese. L’aeroporto è un centro nevralgico per l’attività delle forze armate afghane, che lì lavorano al fianco di quelle della missione a guida NATO, inclusi gli Stati Uniti. Ne è seguito un assedio durato oltre ventiquattr’ore, al termine del quale sono state contate non meno di cinquanta vittime, di cui circa quaranta sono civili. Per intensità e significato, è probabilmente l’attacco più rilevante degli ultimi dieci anni. Secondo la ricostruzione effettuata dal governo, undici insorti, che pare fossero vestiti con le uniformi delle forze afghane, sono penetrati nella struttura e si sono fatti esplodere in mezzo a un gruppo di civili prima che le truppe governative potessero intervenire. Non è un caso che l’attacco sia avvenuto in contemporanea alla visita del Presidente Ashraf Ghani nel vicino Pakistan, in occasione della conferenza internazionale “Heart of Asia”, che aveva tra i principali temi di dibattito proprio la pacificazione dell’Afghanistan. Ghani ha voluto sfruttare l’occasione anche per cercare di rilanciare i negoziati con gli insorti più moderati sotto l’egida (e la garanzia) del governo di Islamabad. I colloqui si erano arenati in luglio a seguito della notizia della morte del mullah Omar, che aveva aperto un vuoto di potere tra gli insorti. Intanto, l’offensiva militare talebana continua oltre Kandahar: gli insorti hanno infatti sconfitto le forze afghane e conquistato il distretto di Khanshin nella provincia di Helmand. Venerdì 11 dicembre, poi, un gruppo di talebani ha fatto esplodere un’autobomba nei pressi dell’Ambasciata di Spagna a Kabul, provocando due morti e sette feriti.
MONTENEGRO, 2 DICEMBRE ↴ A distanza di sei anni dall’ultimo allargamento, nel corso del Vertice di Bruxelles tra i Ministri degli Esteri dei 28 Paesi membri la NATO ha ufficialmente invitato il Montenegro ad avviare i colloqui per l’adesione all’Alleanza Atlantica. In virtù della partecipazione dal 2009 al Membership Action Plan e ad alcune missioni della NATO, nonché di una precedente autorizzazione del Parlmento di Podgorica di procedere con il rinnovo delle forze armate necessario a soddisfare i requisiti richiesti per l’accesso all’Organizzazione, l’iter dovrebbe richiedere tra i 12 e i 18 mesi. Malgrado la scarsa rilevanza strategica e logistica del Paese nelle strategie di 7
sicurezza della NATO – a differenza di quanto avvenne con l’ingresso di Romania e Bulgaria nel 2006 –, la decisione ha comunque un significativo valore politico e in questo senso ha incontrato la critiche della Russia che con Podgorica ha mantenuto un rapporto privilegiato, di tipo innanzitutto economico, e che ha perciò minacciato ritorsioni. Sebbene il Primo Ministro montenegrino, Milo Đukanović, debba scontrarsi con la contrarietà dei partiti di opposizione e dell’opinione pubblica – scesa in piazza negli ultimi e in particolare dopo la visita di ottobre del Segretario NATO Stoltenberg –, il nuovo allargamento dovrebbe essere ormai certo e punta a diventare, come ha dichiarato anche il Ministro degli Esteri ed ex Premier Igor Lukšić, un punto di riferimento per il completamento del processo di integrazione euro-atlantica con i Paesi dell’area balcanica che non ne fanno ancora parte. Il riferimento è implicitamente alla Serbia, pedina fondamentale per la sicurezza nei Balcani, con la quale l’Alleanza Atlantica ha di recente avviato un processo di rafforzamento delle relazioni.
TURCHIA-RUSSIA, 7-8 DICEMBRE ↴ A due settimane dall’incidente del Su-24 nei cieli tra Turchia e Siria, non sembra placarsi la tensione tra Ankara e Mosca. Accanto all’escalation verbale che ne è seguita (la Russia ha apertamente accusato il regime di
Erdoğan
di
aiutare
lo
Stato
Islamico
nel
contrabbando di petrolio; la Turchia ha risposto accusando il Cremlino di mettere in atto un tentativo di pulizia etnica ai danni delle popolazioni turcomanne e sunnite in Siria), sono iniziate anche le prime ritorsioni da parte russa: in particolare, la compagnia statale russa Rosatom ha deciso di sospendere momentaneamente i lavori di realizzazione della prima centrale nucleare ad Akkuyu, nella Turchia meridionale. I già difficili rapporti hanno subito un ulteriore inasprimento a seguito del passaggio nel Bosforo, avvenuto il 7 dicembre, di una nave da guerra russa, la Cesar Kunikov, con missili pronti al lancio. L’episodio è stato definito dal Ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, una chiara “provocazione” da parte di Mosca. Contestualmente, il Ministro ha ricordato che la Turchia ha finora scelto di non bloccare il passaggio di navi da guerra attraverso lo Stretto, in ottemperanza agli obblighi scaturenti dalla Convenzione di Montreux del 1936, ma ha avvertito che in futuro la Turchia fornirà «le risposte necessarie a situazione giudicate come una minaccia». Il braccio di ferro tra Ankara e Mosca, infiammato dall’episodio dell’abbattimento del Su-24, nasce in realtà dai contrapposti interessi in ballo nel conflitto siriano: la Turchia di Erdoğan chiede da tempo un cambio dei vertici politici di Damasco, invece tenacemente negato dalla Russia di Putin. In questo delicato contesto si inserisce la richiesta da parte della Russia di una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, riunione effettivamente tenutasi l’8 dicembre ma in merito alla quale vige totale riserbo.
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VENEZUELA, 6 DICEMBRE ↴ Le elezioni parlamentari hanno visto un’importante vittoria delle opposizioni, confinando la formazione del Presidente Nicolas Maduro a partito di minoranza. Sebbene non sia ancora ufficiale il dato sul numero dei seggi, la coalizione che riunisce tutti i partiti di opposizione
avrebbe
ottenuto
112
scranni
dell’Assemblea Nazionale su 167, ottenendo la maggioranza assoluta, mentre il Partito Socialista Unificato del Venezuela (PSUV) si sarebbe fermato a 55. Maduro ha riconosciuto la sconfitta, parlando tuttavia di una “guerra economica” contro di lui, uno scontro sotterraneo in cui gli Stati Uniti si sarebbero alleati alle élites del Paese per distruggerlo, determinando dunque tali risultati. Il Presidente, che rimarrà in carica fino al 2019, ha inoltre annunciato un prossimo rimpasto di governo. La nuova legislatura avrà inizio a gennaio 2016 e la Mesa de la Unidad Democrática (MUD) – una coalizione che riunisce più di dieci partiti di centro, centro-sinistra e centro-destra – grazie alla cosidetta “supermaggioranza” potrà approvare o bloccare le proposte dell’esecutivo su leggi ordinarie, promozioni referendarie e/o modifiche costituzionali. Nonostante tali potenzialità, è piuttosto evidente la volontà di Maduro di non cooperare con l’opposizione e di sfruttare gli strumenti a sua disposizione per contenere le prerogative dei suoi avversari. Nel marzo 2015 Maduro ha ottenuto dal Parlamento la possibilità di governare per decreto, senza dunque far passare le leggi per l’assemblea parlamentare, per nove mesi; il giornalista venezuelano Raúl Stolk ha ipotizzato che potrebbe nuovamente fare approvare una legge simile a quella di marzo prima che si insedino i nuovi parlamentari. Il Parlamento potrebbe tentare di annullare la legge, ma a quel punto è probabile che Maduro si rivolgerebbe al Tribunale Supremo del Venezuela che è saldamente in mano al suo partito. Sullo sfondo della lotta politica permane la grave situazione economica e sociale del Paese. L’inflazione è stimata intorno al 200% e secondo il Fondo Monetario Internazionale alla fine del 2015 l’economia ha subìto una contrazione del 10% rispetto all’anno precedente.
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ALTRE DAL MONDO BRASILE, 2-9 DICEMBRE ↴ Il Presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha, ha autorizzato l’apertura di un procedimento di impeachment nei confronti di Dilma Rousseff, rieletta alla Presidenza del Brasile per altri quattro anni nell’ottobre 2014. Rousseff è accusata di aver truccato i conti pubblici nel 2014 e nel 2015 e di aver autorizzato spese pubbliche per decreto, senza il via libera del Congresso. Il Supremo Tribunale Federale tuttavia ha emesso una misura cautelare con cui è stata sospesa la commissione speciale della Camera insediata per valutare la procedura di impeachment, accogliendo la richiesta del Partido Comunista do Brasil, (PCB) per presunte irregolarità nella composizione della commissione. Il 16 dicembre il Supremo Tribunale Federale si riunirà per esaminare la validità della procedura svolta finora.
BURKINA FASO, 29 NOVEMBRE ↴ Con il 53,5% dei voti, Roch Marc Christian Kaboré, già Primo Ministro, ha vinto le elezioni presidenziali, a un anno di distanza dalla rivolta popolare che aveva portato alle dimissioni dell’allora Presidente Blaise Compaoré, in carica dal 1987. In uno dei suoi primi discorsi, il neo-Presidente ha dichiarato di volersi concentrare sui bisogni fondamentali della popolazione burkinabè, tentando in primis di rilanciare l’economia del Paese.
CINA, 1° DICEMBRE ↴ In seguito alla riunione del Comitato Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), lo yuan renminbi (RMB), la moneta cinese, sarà inserita ufficialmente nel paniere di valute dello stesso FMI. É la prima volta in 15 anni che la lista delle valute, compreso la stessa unità di conto del FMI, i Diritti Speciali di Prelievo (DSP), subisce delle variazioni. La decisione rappresenta un’importante pietra miliare per quanto riguarda l’integrazione della Cina nel sistema finanziario globale, dati i suoi progressi negli ultimi anni verso un’economia di mercato più aperta. Le autorità cinesi dovranno comunque assicurare un quadro politico in grado di facilitare le operazioni del FMI e di tutti i membri appartenenti al DSP.
COLOMBIA, 4 DICEMBRE ↴ Le forze di sicurezza colombiane hanno comunicato di aver ucciso José Daniel Pérez, un leader storico dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN). L’uccisione di Pérez è avvenuta il 30 novembre scorso, a seguito di uno scontro a fuoco nella provincia di Santander. L’esercito colombiano ritiene che fosse lui il responsabile dell’imboscata
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tesa da alcuni guerriglieri il 26 ottobre scorso in cui furono uccisi 11 soldati che stavano scortando alcuni funzionari della commissione elettorale nella provincia di Boyaca. Il governo di Bogotà, da tempo impegnato in un processo di pacificazione interna con le FARC, principale gruppo insorto del Paese, potrebbe rivedere la propria posizione nei confronti dell’ELN.
EGITTO, 4 DICEMBRE ↴ Una bomba molotov è esplosa all’interno di un ristorante del Cairo, uccidendo 16 persone e ferendone almeno due. Il locale, che è anche un night club, è situato nell’area di Agouza, nel centro della capitale egiziana. Le vittime fanno tutte parte dello staff del locale. Secondo fonti della sicurezza, i due aggressori, che viaggiavano a bordo di un ciclomotore, sono due giovani di Imbaba (quartiere del distretto di Giza) che erano stati licenziati dal proprietario del locale. In base alle ricostruzioni ufficiali i giovani avrebbero agito in questo modo per vendicarsi della perdita del loro lavoro di camerieri. Per il momento non vi sono rivendicazioni e la polizia non esclude definitivamente la pista terroristica riconducibile al mondo della guerriglia urbana, di cui fanno parte forze estremamente eterogenee, da quelle laiche e anti-sistema a quelle islamiste.
FRANCIA, 6 DICEMBRE ↴ Il Front National (FN) di Marine Le Pen è risultato il partito più votato nel primo turno delle elezioni regionali francesi, ottenendo la maggioranza dei voti in 6 regioni su 13. Nel complesso, il FN ha raggiunto il 27,9% delle preferenze, staccando Les Républicains (LR) di Nicolas Sarkozy (26,8%) e il Parti Socialiste (PS) del Presidente Hollande (23,3%). Si tratta di una significativa affermazione, figlia di una campagna elettorale profondamente incentrata sul tema della sicurezza ma che si inscrive anche in un trend di crescita di consensi in tutti gli ultimi appuntamenti elettorali. Per il secondo turno di domenica 13 dicembre i socialisti hanno già deciso di ritirare la propria lista in tre regioni allo scopo di favorire i repubblicani per contrastare FN. Dal canto suo, Sarkozy ha escluso qualsiasi possibilità di fusione o ritiro del LR nelle regioni in cui i socialisti hanno preso buone percentuali e in cui il PS si presenterà con uno schieramento di sinistra unito (assieme a Verdi e Front de Gauche). Da segnalare anche l’affluenza alle urne del 49,9%, bassa ma in leggera risalita rispetto alle elezioni regionali del 2010.
ITALIA-KOSOVO, 1° DICEMBRE ↴ Grazie ad un’operazione congiunta tra la polizia italiana (insieme con la DIGOS e la Procura di Brescia), la Direzione nazionale anti-terrorismo del Kosovo e la Procura speciale internazionale del Kosovo è stata scoperta e sgominata una cellula jihadista attiva nei due Paesi. Le indagini erano state avviate dopo il ritrovamento di materiale di propaganda filo-jihadista fatto circolare online, in cui si celebravano gli attentati di 11
Parigi e si rivolgevano minacce dirette al Papa e all’ex Ambasciatrice USA in Kosovo. Samet Imishiti, considerato la mente della cellula, aveva vissuto diversi anni a Brescia, ma da alcuni mesi era tornato in Kosovo, dove è stato fermato. Nella sua abitazione sono stati inoltre rinvenuti armamenti pesanti. Per il fratello ed il nipote di Imishiti, entrambi residenti in Italia, è stato emanato un decreto di espulsione. La misura di sorveglianza speciale è invece scattata per un quarto componente del gruppo, un cittadino macedone residente nel vicentino. La Procura di Brescia ha accusato i quattro di apologia al terrorismo e di istigazione all’odio razziale, confermando che avevano collegamenti diretti con gruppi jihadisti attivi in Siria.
LIBIA, 7 DICEMBRE ↴ In Libia, il Parlamento di Tobruk e quello di Tripoli sembrano definitivamente orientati a siglare un accordo per la creazione di un governo di unità nazionale. È già stata fissata anche una data per l’ufficializzazione, che, secondo quanto riferito dall’inviato ONU Martin Kobler, dovrebbe avvenire il 16 dicembre a Skhirat, in Marocco. Domenica 13 dicembre, intanto, si è tenuta a Roma una conferenza internazionale con l’obiettivo di stabilizzare la Libia soprattutto a fronte della crescente minaccia posta dallo Stato Islamico.
MACEDONIA, 30 NOVEMBRE ↴ Dopo aver ricevuto il sì da parte del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’esercito macedone ha eretto una barriera metallica di 1,5 Km al confine con la Grecia lungo il corso del fiume Axios. Essa avrà la primaria funzione di bloccare il valico di Gevgelija, principale punto di accesso dei migranti che, partendo dalla Grecia, tentano di risalire il Balcani per raggiungere l’Europa centro-settentrionale. Il governo di Skopje ha ribadito che la barriera servirà come posto di blocco per identificare i migranti: siriani, iracheni ed afghani avranno la possibilità di superarla e transitare nel Paese, mentre tutti gli altri, i cosiddetti “migranti economici”, saranno respinti. A Idoumeni, città greca di frontiera, sono accampati già da mesi migliaia di migranti e più volte si sono registrati episodi di tensione tra questi ultimi e l’esercito macedone.
MYANMAR, 5 DICEMBRE ↴ La leader della Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi, ha ufficialmente incontrato l’ex leader del governo, il Generale Than Shwe nella capitale birmana Nay Piy Taw. É il primo incontro tra i due, dopo quello dell’8 novembre, in cui si è discusso del futuro del Paese. Il Generale ha riconosciuto la vittoria di Suu Kyi ed ha espresso il proprio appoggio nel processo di consolidamento del governo democratico. L’appoggio da parte di Than Shwe sembra essere di vitale importanza data la sua influenza sia nella sfera politica sia in quella militare.
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SUD AFRICA, 4-5 DICEMBRE ↴ Si è tenuto a Johannesburg il 6° summit del Forum di Cooperazione Cina-Africa (FOCAC), co-presieduto dal Presidente sudafricano Jacob Zuma e dall’omologo cinese Xi Jinping. In questa sede Xi ha annunciato di voler devolvere 60 miliardi di dollari ai governi del continente per finanziare dieci programmi di cooperazione nei settori agricolo, industriale, per la riduzione della povertà e per la sicurezza. Inoltre è stato confermato che entro la fine del 2017 la Cina costruirà la sua prima base navale a Gibuti, Paese del Corno d’Africa che si affaccia sullo stretto di Bab al-Mandeb, la cui posizione è strategicamente rilevante poiché collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano, e dove sono già presenti truppe di Stati Uniti, Francia, Italia e Giappone. La scelta cinese rientra da un lato in una strategia di continuità del famoso “filo di perle” di Pechino, dall’altra è motivata dalla necessità di garantire la sicurezza delle proprie tratte commerciali da possibili attacchi pirateschi e/o dalla penetrazione di altri competitor internazionali nell’area.
UCRAINA, 9 DICEMBRE ↴ A margine della riunione degli Ambasciatori dei 28 Paesi UE per stabilire il rinnovo automatico per un ulteriore semestre delle sanzioni economiche nei confronti della Russia (in scadenza il prossimo 31 gennaio 2016), l’Italia ha chiesto alla presidenza di turno lussemburghese l’apertura di un dibattito politico sul tema, riservandosi di riproporre l’argomento in una nuova riunione del COREPER, o al Consiglio Affari Esteri del 14 dicembre o al Consiglio Europeo del 17-18 dicembre. Mentre anche gli USA – attraverso John Biden, in visita a Kiev (7-8 dicembre) – hanno dichiarato che il sollevamento delle sanzioni vi sarà solo dopo l’effettiva implementazione degli Accordi di Minsk-2, l’Italia rischia di correre da sola su un tema che, pur con i dovuti distinguo, vede i Paesi europei concordi.
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ANALISI E COMMENTI CINA E TAIWAN: UN INCONTRO ALL’INSEGNA DEL RIAVVICINAMENTO AGNESE CARLINI ↴ Un incontro storico, avvenuto il 7 novembre scorso a Singapore, tra il Presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese Ma Ying-jeou, ha segnato la ricorrenza del settantesimo anniversario dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La sconfitta dell’impero nipponico portò Taiwan sotto il controllo della Repubblica di Cina, unico governo legittimo riconosciuto fino al 1949 che, in seguito alla rivoluzione maoista, si vide obbligato a rifugiarsi sull’isola di Formosa. Sul piano internazionale molte cose sono cambiate. La fine della Guerra Fredda ha portato con sé il disgelo nelle relazioni tra USA e Russia e l’emergere di un nuovo attore nella regione dell’Asia-Pacifico: la Cina. Dal punto di vista geopolitico l’ascesa della Cina è andata ad intaccare le sfere di influenza che si erano create nei decenni precedenti, soprattutto quella statunitense. Come potenza vincitrice della guerra, il primo interesse cinese è stato quello di promuovere e rafforzare il suo status e la sua influenza non solo nella regione ma anche a livello internazionale e, inoltre, quello di stringere legami sempre più forti con la Russia (…) SEGUE >>>
IL FATTORE PETROLIO NELLA CRISI DEL VENEZUELA SARAH WAFIQ ↴ Il petrolio era conosciuto ed usato in Venezuela ancora prima che gli europei conquistassero le Americhe: i nativi lo usavano per impermeabilizzare le proprie canoe, per farsi luce e per trattare certi tipi di ferite. Tuttavia, la produzione petrolifera nel Paese sudamericano iniziò soltanto nel 1875, ovvero sedici anni dopo l’apertura del primo pozzo commerciale di petrolio al mondo. Da allora, il Venezuela ha fatto grandi passi: è uno dei membri fondatori dell’OPEC, dove oggi siede come unico Paese del continente americano insieme all’Ecuador; è stato uno dei principali esportatori di greggio verso gli Stati Uniti e nel 2014 ha riconfermato la propria posizione di dodicesimo maggior produttore di petrolio del globo. Nel 2012, nuovi studi geologici hanno permesso di aggiornare l’ammontare delle riserve petrolifere venezuelane a 298,35 miliardi di barili, consentendo così al Paese latino-americano di strappare all’Arabia Saudita l’indiscusso primato come detentore delle maggiori riserve petrolifere del globo. Tuttavia, l’importanza di tale scoperta è stata ridimensionata (…) SEGUE >>>
AL-QAEDA, LO STATO ISLAMICO E LO YEMEN IN FRANTUMI ELEONORA ARDEMAGNI ↴ Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) rischia di essere il vero vincitore dell’intricato e irrisolto conflitto yemenita. Il movimento jihadista, nato nel 2009 dalla fusione della cellula saudita di al-Qaeda con quella di Sana’a, si avvantaggia, da sempre, dei troppi
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vuoti di sicurezza nella Repubblica della Penisola Arabica: essi dipendono sia dall’incapacità del governo centrale di esercitare la propria sovranità sul territorio sia dall’ostilità di alcune tribù, specie nel sud del Paese, verso le autorità statuali. La spirale di conflitto apertasi dal 2011 – quando il Presidente Ali Abdullah Saleh negoziò la sua (formale) uscita di scena dalla vita politica – ha solo peggiorato l’instabilità interna, moltiplicando i territori fuori dal controllo delle forze di sicurezza. Nuovi vuoti di sicurezza si sono così affiancati ad aree di insicurezza endemica, consentendo ad AQAP di autoproclamare, nel 2012, alcuni emirati islamici fra le città di Jaar e Zinjibar, nell’Abyan meridionale, poi smantellati grazie all’azione congiunta di esercito, comitati popolari e bombardamenti da parte dei droni statunitensi (…) SEGUE >>>
LA SPAGNA AL VOTO: QUALE FORMA PER LA DEMOCRAZIA SPAGNOLA? DAVIDE VITTORI ↴ I dati sulla disoccupazione spagnola sono in leggero miglioramento: dopo aver toccato quasi il 27% nel primo trimestre del 2013, le ultime rilevazioni segnalano un tasso del 21,18%. Un dato ancora molto negativo se si pensa che nel pre-crisi non arrivava nemmeno al 10%. In Spagna, però, la salienza di questi dati è più rilevante – anche dal punto di vista simbolico – rispetto ad altri Paesi mediterranei. Il 15 marzo 2011, infatti, a partire dalla piattaforma digitale ¡Democracia Real Ya! e da altre associazioni, si è sviluppata una piattaforma rivendicativa dei giovani di Puerta de Sol (il luogo “occupato” dalla protesta, a Madrid), la quale si fondava su tre cardini principali: la lotta alla disoccupazione, il contrasto alla corruzione e un cambio radicale rispetto al bipartitismo spagnolo. Dalle manifestazioni del 2011, svoltesi in circa 60 tra le principali città, il panorama politico spagnolo è cambiato radicalmente, tanto da rompere il duopolio conservatore-socialista. Sulla scena partitica sono entrate due nuove formazioni, Podemos e Ciudadanos, il cui impatto in termini elettorali è stato significativo nelle comunità in cui si è votato (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 15