N째33, 13-19 DICEMBRE 2015 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 20 dicembre 2015 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Giuseppe Dentice Danilo Giordano Vittorio Giorgetti Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Violetta Orban Maria Serra Alessandro Tinti
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Photo Credits: Associated Press; AFP; EPA; La Presse; European Council.
FOCUS LIBIA ↴
Dopo quattordici mesi di negoziazioni, è stato raggiunto al Palazzo dei Congressi di Skhirat, in Marocco, un accordo storico sulla Libia che dovrebbe portare, nelle intenzioni dei firmatari, alla fine delle ostilità e alla formazione di un governo di unità nazionale. L’accordo, firmato da 90 deputati della Camera dei Rappresentanti del Parlamento di Tobruk e da 70 parlamentari del Congresso Generale Nazionale di Tripoli, è stato sottoscritto da Saleh Makhzoum, Fathi Bishara e Nuri Balabad, in rappresentanza delle tre regioni di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ma non dai Presidenti dei Parlamenti di Tripoli e Tobruk. L’accordo prevede la nomina a Premier di Faiz al-Siraj, deputato originario della città di Tripoli ma appartenente al Parlamento di Tobruk, e di tre vice Premier Ahmed Maitiq (Tripolitania), Moussa Kony (Fezzan) e Fathi Majbari (Cirenaica). Il Premier e i suoi tre vice, coadiuvati da un Consiglio presidenziale di 9 membri, anch’essi suddivisi in base alla loro provenienza, dovranno prendere le loro decisioni all’unanimità: il primo provvedimento riguarderà la nomina dei Ministri, che dovrà avvenire entro 40 giorni in modo da consentire al nuovo governo di insediarsi. Il Parlamento dovrebbe essere costituito da 192 membri, tra i quali 40 appartenenti al Congresso Generale di Tripoli, e prendere le decisioni più importanti con la maggioranza qualificata di 150 voti. L’accordo non prevede alcun tipo di incarico per Khalifa Haftar, l’ex Generale che ha condotto quello che rimaneva dell’esercito di Gheddafi nell’Operazione Dignità contro l’avanzata islamista, e che si è opposto, fino all’ultimo, al raggiungimento di qualsiasi tipo di intesa. Il nuovo governo di transizione dovrà affrontare un compito molto difficile: traghettare il Paese 1
fuori dal caos che si protrae dal 2011, unificare le 250 milizie in un unico esercito, coinvolgere anche le fazioni assenti a Skhirat. La mancata firma dei Presidenti dei due Parlamenti riconosciuti e l’assenza di molte milizie in Marocco rappresentano due pesanti incognite sull’effettività dell’accordo appena sottoscritto. Ciononostante, il neo Inviato Speciale delle Nazioni Unite, il tedesco Martin Kobler, ha espresso tutta la sua soddisfazione per l’intesa raggiunta e ha riconosciuto l’importanza del ruolo dell’Italia, sottolineando l’importanza della Conferenza di Roma «in quanto ha dato l’impulso necessario per arrivare all’accordo, senza la quale sarebbe stato tutto più difficile». La Conferenza di Roma del 13 dicembre, voluta fortemente dal governo italiano, si era conclusa con una dichiarazione di pieno appoggio della comunità internazionale al processo di riconciliazione tra le fazioni libiche, auspicando il cessate il fuoco immediato, la creazione di un governo di unità nazionale, un maggior impulso nella lotta allo Stato Islamico (IS).
GLI ATTORI IN CAMPO E IL CONTROLLO DEL TERRITORIO IN LIBIA - FONTE: BBC & LE JDD
La settimana prossima all’ONU è prevista l’approvazione di una Risoluzione che recepisca l’accordo di Skhirat e autorizzi l’intervento di una coalizione internazionale a supporto del nuovo governo libico. Il compito di guidare questa missione potrebbe essere affidato al generale italiano Paolo Serra, ex capo di UNIFIL in Libano e 2
attuale consigliere dell’ONU per la Libia, che da tempo sta lavorando sulla messa in sicurezza della capitale Tripoli. La missione militare guidata dal Gen. Serra potrebbe essere concepita “a fisarmonica”, ovvero adattata alle esigenze che si presentano lungo il percorso, e costituita da circa 600 uomini, in gran parte soldati italiani. In tale ambito, è emersa, da alcuni giorni, la notizia secondo cui il Regno Unito sarebbe disposto ad inviare mille uomini in Libia, mentre sul terreno sarebbero già presenti diversi soldati dei corpi speciali americani. La situazione nel Paese è, al momento, tutt’altro che pacificata e/o sicura, dato che continuano i combattimenti, concentrati soprattutto in Cirenaica, tra gruppi armati filo-esercito e i miliziani del Consiglio della Shura a Derna, legati all’IS, Ansar al-Sharia, e a Tripoli e Misurata, dove sono altre le milizie che si disputano il controllo del territorio. Ma ciò che preoccupa di più è l’avanzata dello Stato Islamico: dopo aver stabilito il suo quartier generale a Sirte, l’IS ha rafforzato le sue posizioni molto più a est, ad Ajdabiya, dove ci sono immense risorse petrolifere. Nei giorni scorsi uomini dello Stato Islamico avrebbero allestito dei posti di blocco nei pressi della città di Sabratha, città dal 1982 tra i siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO e secondo alcuni locali avrebbero dichiarato l’istituzione di uno Stato islamico nella città. Sabratha possiede, oltre al valore storico, un importante valore strategico in quanto si trova a circa due ore di strada dal confine tunisino, riaperto recentemente, dopo l’attentato che lo scorso 24 novembre aveva causato la morte di 12 guardie presidenziali. Invece è tutta da verificare la notizia diffusa nei giorni scorsi dall’agenzia stampa iraniana, FARS News, secondo la quale l’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sarebbe fuggito dalla capitale siriana Raqqah per trovare rifugio nella libica Sirte.
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SIRIA-IRAQ ↴
Il 15 dicembre Riyadh ha annunciato la formazione di un’alleanza militare dei Paesi dell’Islam sunnita per combattere il terrorismo. Al patto promosso dalla famiglia regnante saudita accedono le monarchie del Golfo (ad eccezione dell’Oman), Turchia, Egitto, Giordania, Pakistan, Kuwait e numerosi Paesi africani e asiatici, portando il perimetro della coalizione a trentaquattro membri. Il Ministro della Difesa Mohammed bin Salman ha comunicato che l’intesa prevede la creazione a Riyadh di un centro operativo congiunto per coordinare gli sforzi militari contro “qualsiasi organizzazione terroristica” attiva nel mondo musulmano, non solo dunque il gruppo Stato Islamico (IS). A questo riguardo, il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir ha annotato che le potenze del Golfo Persico (Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrain, oltre all’Arabia Saudita) già coinvolte nella coalizione a guida statunitense che combatte il Califfato islamico non escludono un prossimo intervento di reparti di terra nel teatro siriano. Il Presidente americano Barack Obama aveva recentemente sollecitato gli Stati regionali a moltiplicare l’impegno nell’ambito della missione multilaterale. Tuttavia, la proposta saudita solleva il dubbio che l’alleanza sunnita sia anzitutto strumento delle ambizioni di Riyadh, precipitata nel conflitto civile yemenita e protesa ad avversare la crescente influenza del rivale iraniano. Non a caso il disegno saudita esclude Iraq e Siria – ossia gli Stati arabi allineati alla politica estera di Teheran – e Oman – negoziatore del recente cessate il fuoco in Yemen e delle trattative sul nucleare iraniano – dal quadro dell’alleanza, che non comprende anche altri rilevanti Paesi a maggioranza musulmana, quali Afghanistan, Indonesia (che ha mostrato interesse ad accedervi) e Algeria. Inoltre, Pakistan e Libano hanno dichiarato di aver appreso della partecipazione al patto militare solo dopo l’annuncio ufficiale del governo di Riyadh.
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Intanto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il 18 dicembre una Risoluzione che riconosce la fase di transizione negoziata in novembre a Vienna e richiama il governo di Damasco e le opposizioni a una tregua su scala nazionale per facilitare i colloqui di pace che si apriranno a gennaio sotto egida ONU – obiettivo quest’ultimo che oggi appare però improbabile in ragione dell’intensità degli scontri armati, dell’eterogeneità del fronte ribelle e dell’espansione territoriale dell’IS, che al pari di Jabhat al-Nusra, è estromessa dal tavolo delle trattative. La Risoluzione non tocca i punti controversi della definizione dei gruppi armati terroristi – questione che tocca direttamente la Giordania, la quale dovrà redigere e presentare a breve una lista completa in tal senso – e della sorte del Presidente siriano Bashar al-Assad. A propiziare i lavori a New York è stato l’incontro del Segretario di Stato americano John Kerry con il suo omologo russo Sergej Lavrov, che il 15 dicembre avevano discusso a Mosca della crisi siriana e ucraina. Il primo esponente della diplomazia statunitense aveva in seguito incontrato anche i rappresentanti di Arabia Saudita, Giordania e Qatar. Malgrado l’iniziativa congiunta in sede ONU, le posizioni di Washington e Mosca rimangono tuttavia distanti sui nodi negoziali del futuro assetto siriano e riflettono la più aspra competizione regionale tra il fronte sunnita coagulatosi attorno all’Arabia Saudita e l’asse sciita che associa Hezbollah, il regime alawita guidato da Assad e il governo iracheno a Teheran. Nel frattempo, l’organizzazione internazionale Human Rights Watch ha pubblicato un corposo rapporto che documenta le torture e l’uccisione di migliaia di oppositori siriani da parte dalle Forze Armate del governo di Damasco. Le oltre 55.275 fotografie mostrano i corpi senza vita di oltre undici mila persone e sono state scattate da un ex collaboratore (denominato Cesar) della polizia militare siriana tra il maggio 2011 e l’agosto 2013. Ricevute nel gennaio 2015 dalla Syrian Association for Mission and Conscience Detainess cui erano state in un primo momento affidate, Human Rights Watch ne ha verificato l’autenticità e riconosciuto decine di cadaveri, così come alcuni dei luoghi in cui sono state consumate le atrocità. Il documento costituisce un grave atto di accusa contro il regime di Bashar al-Assad e la brutale repressione che seguì la sollevazione delle proteste popolari contro la dirigenza alawita. In Iraq, mercoledì 16 dicembre l’IS ha portato un vasto attacco a sorpresa attorno a Mosul, ingaggiando una battaglia di diciassette ore con le forze curde, che con il sostegno aereo dei caccia della coalizione internazionale hanno infine respinto l’offensiva. Secondo gli ufficiali statunitensi oltre duecento miliziani jihadisti avrebbero perso la vita nello scontro. Negli ultimi mesi le incursioni del Califfato erano diminuite in frequenza e intensità, ma l’azione di forza – benché di corto respiro – indica che il gruppo terroristico non abbia perso la capacità di mobilitare e manovrare risorse nel nord dell’Iraq. Sopraggiunto a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, il Segretario della Difesa statunitense Ashton Carter ha perciò rinnovato l’intenzione di equipaggiare direttamente i Peshmerga curdi al fine di accelerare l’accerchiamento dei guerriglieri islamisti a Mosul, come pure di incrementare la presenza militare
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americana nel Paese per trarre vantaggio dalla flessione dell’IS nella regione meridionale dell’Anbar, dove l’avanzata delle forze di sicurezza irachene a sud di Ramadi è stata parzialmente interrotta dai miliziani jihadisti con la distruzione dei ponti che immettono nel centro urbano. In visita a Baghdad, il vertice del Pentagono aveva tuttavia già incontrato la riluttanza del governo centrale guidato da Haider al-Abadi ad approvare un maggiore coinvolgimento sul terreno degli Stati Uniti, ipotesi contro cui le influenti milizie sciite vicine a Teheran hanno apertamente minacciato di sfiduciare l’esecutivo. A contribuire in negativo sui delicati equilibri interni, venerdì 18 dicembre dieci soldati iracheni sono caduti sotto il fuoco amico dei caccia americani durante un’operazione congiunta presso Amriyat al-Falluja. Intanto, la diplomazia americana è intervenuta nella crisi aperta dal dispiegamento non autorizzato di un contingente turco nella città irachena di Bashiqa. Il presidente Barack Obama in un colloquio telefonico con il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha chiesto di ridurre la tensione con il governo di Baghdad continuando il ritiro dei militari turchi dall’Iraq settentrionale. Il Parlamento iracheno ha invece approvato la legge di bilancio per l’anno 2016, stimando un deficit di circa 20,5 miliardi di dollari su un esercizio complessivo di 89,7 miliardi. Per chiudere il pesante passivo determinato dallo sforzo bellico contro l’IS e dal crollo del prezzo del petrolio (che contribuisce a più del 90% delle entrate irachene) l’esecutivo ha inondato il mercato azionario di titoli di Stato, ma il dissesto delle casse federali ha contratto l’attività economica e compromesso l’erogazione dei servizi pubblici di base – con ciò alimentando una veemente ondata di proteste che gradualmente si è arricchita di temi politici, tra cui la ripartizione dei proventi petroliferi e l’endemica corruzione del settore amministrativo. Di fronte alla crisi delle finanze irachene, la Banca Mondiale ha annunciato la concessione di un prestito straordinario di 1,2 miliardi di dollari, che sarà trasferito al governo di Baghdad prima della fine dell’anno. Intanto, l’Italia si è dichiarata pronta a inviare 450 militari a protezione della diga di Mosul, monumentale infrastruttura gravemente danneggiata dagli scontri con i guerriglieri dell’IS, che nel giugno 2014 se ne erano impadroniti per poi arretrare due mesi più tardi sotto gli attacchi congiunti dei Peshmerga curdi e dei caccia statunitensi. All’origine del dispiegamento del contingente è stata l’assegnazione dell’appalto per la messa in sicurezza della diga a un’azienda italiana, il gruppo Trevi. L’Italia è già impegnata in Iraq con 750 unità, prevalentemente adibite a compiti di addestramento a Erbil e Baghdad. Tuttavia, la nuova missione approvata dal governo Renzi costituisce un intervento particolarmente delicato in virtù della vicinanza alla città di Mosul (baluardo del Califfato e distante appena trentacinque chilometri) e della rilevanza strategica dell’impianto, la cui distruzione minaccerebbe drammaticamente le province a valle fino a lambire la stessa capitale Baghdad.
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BREVI BURUNDI, 11-12 DICEMBRE ↴ Non accennano a placarsi le violenze in corso da diversi mesi nel piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi. Nella giornata di venerdì 11 dicembre i miliziani delle forze anti-governative burundesi hanno attaccato tre siti militari per rifornirsi di armi, prendendo altresì di mira le carceri in cui erano detenuti altri rivoltosi, insorti contro il Presidente Pierre Nkurunziza. Almeno 5 militari sarebbero rimasti feriti in quegli scontri, mentre 12 ribelli sarebbero stati uccisi e 20 arrestati. Il giorno seguente, le forze di sicurezza avrebbero risposto ai tre attacchi con rappresaglie casa per casa nella capitale. Gli scontri sono avvenuti a Nyakabiga, quartiere della capitale Bujumbura divenuto roccaforte degli oppositori di Nkurunziza. Sono tra 150 e 200 le persone ritrovate morte in quelle che sembrano essere state esecuzioni extra-giudiziarie. Infatti, i cadaveri di molti giovani sono stati ritrovati con le mani legate dietro la schiena e colpiti da proiettili al capo. Si ipotizza altresì l’esistenza di fosse comuni, pertanto, si teme che il numero delle vittime possa essere maggiore. Gli episodi avvenuti negli ultimi giorni sono stati i più violenti dall’inizio dei disordini. Le proteste nel Paese sono iniziate nell’aprile del 2015, a seguito della decisione del Presidente Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato, violando così il limite di due mandati previsto dalla Costituzione. Nkunrunziza – in carica dal 2005 – ha vinto poi le elezioni presidenziali lo scorso 21 luglio, ottenendo più del 69% dei voti. In virtù di questa costante escalation di violenze, il Burundi rischia di sprofondare nel vortice di una guerra civile. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, oltre alle vittime degli ultimi giorni, almeno altre 240 persone sono state uccise e oltre 200.000 sono fuggite verso i Paesi vicini. Le violenze rischiano, inoltre, di riaccendere le antiche tensioni fra Hutu e Tutsi, dato che la maggioranza delle persone uccise apparteneva all’opposizione Tutsi. Per di più, i leader militari esortano la popolazione a difendersi dagli abitanti di etnia Tutsi, definendoli “terroristi al-Shabaab”. Nonostante non esista alcuna connessione tra questo gruppo jihadista di base in Somalia e le milizie di autodifesa dei quartieri popolari a maggioranza Tutsi, questa propaganda aumenta il rischio di conflitti e scontri inter-etnici. Nel tentativo di placare le tensioni, la comunità internazionale ha chiesto l’avvio urgente di un dialogo tra tutte le componenti della società burundese e concedendo al Presidente ugandese Yoweri Museveni, il ruolo di mediatore nella crisi politica in atto. Inoltre, data la gravità delle violenze, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite terrà una sessione speciale sull’escalation della crisi burundese. La sessione, convocata su richiesta degli Stati Uniti, è stata sostenuta da 17 su 47 membri del Consiglio per i Diritti Umani e da 25 Stati osservatori.
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TURCHIA-RUSSIA, 13-17 DICEMBRE ↴ Due nuove vicende si aggiungono alla già intricata trama
di
rapporti
tra
Mosca
e
Ankara
seguita
all’abbattimento del Su-24: domenica 13 dicembre una nave da guerra russa, il cacciatorpediniere Smetlivy, ha sparato alcuni colpi di avvertimento contro un peschereccio turco, il Geciciler 1, nel Mar Egeo. Secondo
quanto
riferito
dall’Agenzia
Interfax,
l’imbarcazione turca, sulla stessa rotta di quella russa, non avrebbe risposto ai primi avvertimenti da parte della nave russa, la quale sarebbe stata quindi costretta a sparare alcuni colpi per evitare la collisione. Il giorno successivo, nel Mar Nero, un mercantile battente bandiera turca è stato costretto da due navi russe, un incrociatore portamissili della Flotta russa del Mar nero e un’unità della guardia costiera dei servizi di sicurezza dell’Fsb, a cambiare rotta. La notizia è stata riferita dall’agenzia RIA Novosti, la quale ha spiegato che l’intervento si sarebbe reso necessario perché, in violazione dei regolamenti internazionali, il mercantile turco stava impedendo il transito ad un gruppo di navi della compagnia energetica della Crimea che stava trasportando due piattaforme petrolifere, dal valore complessivo di 354 milioni di dollari, della società Chernomorneftegaz. A causa della difficile situazione internazionale, Mosca ha infatti deciso di spostare le due piattaforme per la trivellazione, finora site nelle acque al largo di Odessa, in acque territoriali russe. A tal riguardo, i servizi segreti russi hanno invece smentito che la nave turca stesse deliberatamente ostacolando il passaggio delle navi russe. Intanto nella mattinata del 18 dicembre è stata aperta pubblicamente la scatola nera del Su-24 che risulta parzialmente danneggiata e che sarà analizzata, nei prossimi giorni, da tecnici russi con l’ausilio di esperti cinesi e britannici. I primi risultati dell’analisi si attendono per il 21 dicembre. La situazione rimane in fase di stallo anche dal punto di vista diplomatico: il previsto incontro di una commissione intergovernativa russo-turca che avrebbe dovuto avere luogo il 15 dicembre è stato cancellato senza prevedere, ad oggi, alcuna data alternativa. L’Ambasciatore russo ad Ankara, Andrey Karlov, ha affermato che gli sforzi turchi volti a recuperare pacifiche relazioni con Mosca non potranno portare ad alcun risultato concreto se non rispetteranno almeno tre precondizioni: scuse ufficiali da parte di Ankara, un processo per i responsabili dell’abbattimento del Su-24 e una compensazione per i danni subiti da Mosca. Alle dichiarazioni dell’Ambasciatore si è poi affiancata la dichiarazione del vice Ministro della Difesa e Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe, Valery Gerasimov, il quale ha sottolineato che, allo scopo di garantire la difesa dei propri interessi strategici, Mosca prevede di sviluppare ulteriormente la propria Marina e le proprie forze aeree (sembra sia previsto l’acquisto di almeno 70 aerei e oltre 120 elicotteri nei prossimi 24 mesi, di 30 navi di superficie e sottomarine e di 600 blindati). Il 17 dicembre, nella consueta conferenza di fine anno, il Presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato l’impossibilità, giunti a questo punto, di un miglioramento delle 8
relazioni tra i due Paesi: la Turchia infatti non solo non ha mai fatto pervenire a Mosca scuse formali per quanto accaduto il 24 novembre ma, al contrario, ha convocato d’urgenza il Consiglio NATO. L’ipotesi ventilata dal Cremlino, così come emerge dalle parole di Putin in conferenza stampa, è che l’abbattimento del Su-24 sia stato un chiaro piano turco per poter mostrare agli USA e all’UE che, nonostante tutto, Ankara è ancora un partner affidabile. Putin inoltre, dopo aver parlato di una progressiva islamizzazione strisciante nella vecchia patria di Mustafa Kemal Atatürk, ha precisato che la Russia ha completato l’installazione dei suoi missili antiaereo S-400 in territorio siriano; una chiara risposta all’atteggiamento di Ankara, la quale negli ultimi mesi ha frequentemente autorizzato violazioni dello spazio aereo siriano. Non sembrano, dunque, smorzarsi i toni di questa crisi diplomatica fatta di minacce e provocazioni reciproche.
UNIONE EUROPEA, 17-18 DICEMBRE ↴ Sono
stati
diversi
gli
argomenti
di
discussione
dell’ultimo Consiglio Europeo del 2015: immigrazione, referendum in Regno Unito, unione economica e monetaria, lotta al terrorismo. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’UE ha registrato i progressi in alcuni settori e ha focalizzato l’attenzione sulle prossime misure da adottare, in particolare sull’attuazione delle decisioni sui meccanismi di rimpatrio, sul controllo delle frontiere esterne (con la proposta della creazione di un corpo militare europeo preposto allo scopo) e sulla cooperazione con i Paesi di origine dei migranti. Per ciò che concerne la cosiddetta “Brexit”, i leader dell’UE hanno deciso di rimandare al Consiglio di febbraio 2016 un accordo sui punti sollevati dal Premier britannico David Cameron: oltre al cosiddetto “opt-out” (ossia la possibilità di sottrarsi ai meccanismi di più stretta cooperazione comunitaria), alle garanzie monetarie e alla formula della sussidiarietà, la questione più spinosa riguarda la proposta di Londra di sospendere per quattro anni il sistema di welfare per i cittadini UE che risiedono e che lavorano in Regno Unito per non discriminare i cittadini britannici. Le divisioni maggiori si sono ad ogni modo registrate sui temi economici. In particolare il Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi – il cui governo è al centro di una polemica sul salvataggio di alcune banche, oltre ad essere contrariato per l’apertura di una procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea per la mancata registrazione dei migranti con la presa di impronte digitali (sistema Eurodac) – ha fortemente criticato il ruolo assunto dalla Germania nella gestione della crisi, sottolineandone tra l’altro la mancanza di un impegno concreto sull’applicazione di uno schema europeo sui depositi bancari e sulla relativa implementazione dell’Unione bancaria, evidenziando il doppiopesismo adottato da Berlino con la Russia (al cui rinnovo delle cui sanzioni l’Italia ora si oppone) in ambito energetico (il riferimento è al raddoppio del progetto Nord Stream, avviato in realtà dall’estate) e 9
tornando a promuovere una politica economica maggiormente incentrata sulla flessibilità e sulla crescita piuttosto che sull’austerità. Sullo sfondo degli accordi in Libia e sul processo di transizione in Siria, l’impegno dell’UE a favore della lotta al terrorismo resta ancora verbale e più che altro incentrato sul potenziamento dei database e dello scambio di informazioni tra Paesi membri, oltre che sul rafforzamento dei meccanismi di controllo e di registrazione dei passeggeri delle compagnie aeree (il cosiddetto Passenger Name Record, PNR).
YEMEN, 15 DICEMBRE ↴ A nove mesi dall’inizio della guerra civile yemenita, le principali
forze
in
campo
hanno
dichiarato
una
settimana di cessate il fuoco umanitario e, in parallelo, hanno avviato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, una nuova fase di negoziati a Ginevra (Svizzera), nel tentativo
di
giungere
alla
firma
di
un
accordo
complessivo che possa mettere fine ad un conflitto nell’unica Repubblica del Golfo che ha provocato oltre 6.000 vittime. Sebbene entrambe le parti abbiano accettato la tregua umanitaria, il governo legittimo del Presidente Abd Mansur Hadi – riparato a Riyadh e protetto dalla coalizione arabo-sunnita a guida saudita – e l’alleanza tra le fazioni filo-sciite zaydite degli Houthi e quelle fedeli all’ex Capo di Stato Saleh, non sono ancora riuscite a trovare un punto d’incontro in questo complesso negoziato. Al pari delle difficoltà politico-diplomatiche, non accenna a dipanarsi la situazione militare sul terreno. Infatti dopo gli attacchi e i bombardamenti a Ta’iz, terza città per importanza del Paese, e a Marib, le rispettive parti si sono accusate di aver violato il cessate il fuoco proposto dalle Nazioni Unite. Il governo legitimo di Hadi ha accusato gli Houthi di aver infranto l’accordo e di aver approfittato dei colloqui di pace per continuare a espandere le operazioni militari nel sud del Paese. Da parte loro, gli Houthi e le fazioni filo-Saleh hanno rigettato le accuse, condannando le azioni militari delle forze congiunte guidate dall’Arabia Saudita. Di fatto, entrambe le alleanze si sono vicendevolmente accusate di essere responsabili della grave e costante escalation di violenze, che rischia sempre più di tracimare anche nel vicino regno saudita, dove da alcuni mesi si registrano incidenti di frontiera nello Jizan, nell’Asir e nel Najran, regioni confinarie con una folta presenza di sciiti e di tribù saudite legate da vincoli socio-linguistico-culturali agli Houthi ed altri gruppi etnici dello Yemen. Lo scorso 19 dicembre, infatti, si sono registrati numerosi e multipli attacchi lungo il confine, per la precisione nel Najran, dove sarebbero morte oltre 70 persone, la maggior parte dei quali militari sauditi. A rendere ancora più complesso il piano di stabilità yemenita si inseriscono, infine, le difficoltà legate al ruolo assunto da due attori non statuali: al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e Wilayat Yemen (WY, Provincia dello Yemen), rispettivamente branche locali di al-Qaeda e dello Stato Islamico. In un contesto politico e di sicurezza ampiamente frammentato, le azioni 10
militari di AQAP e di WY rischiano di frantumare quel che resta delle istituzioni statuali yemenite favorendo l’azione eversiva e terroristica dei due gruppi in una pericolosa corsa al radicalismo e all’estremizzazione degli attacchi violenti contro la popolazione civile (gli attacchi contro le moschee sciite) e i simboli del potere centrale (l’attentato mortale contro il governatore di Aden o il compound dei filo-governativi sempre ad Aden). Se WY non sarebbe ancora in grado di attuare una forma concreta di controllo territoriale, AQAP invece è riuscita a conquistare in questi mesi alcuni avamposti strategici, come i porti e gli aeroporti di Mukallah, Jaar e Zinjibar, rafforzando dunque il suo retroterra logistico-militare nelle regioni orientali del Paese.
GLI ATTORI IN CAMPO E IL CONTROLLO DEL TERRITORIO IN YEMEN - FONTE: BBC & STRATFOR (AGGIORNAMENTO AL 9/12/2015)
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ALTRE DAL MONDO CINA, 15 DICEMBRE ↴ Si è tenuto a Zhengzhou, in Cina, il 14° summit dei Primi Ministri della Shanghai Cooperation Initiative (SCO). La dichiarazione pubblicata a margine del summit conferma il supporto della SCO per la creazione della Nuova Via della Seta e, in proposito, auspica l’avvio di una cooperazione regionale specifica, ad esempio sviluppando un corridoio logistico comune con nuove strade e ferrovie, e la creazione in futuro di una banca di sviluppo propria dell’organizzazione. Si è discusso anche di terrorismo internazionale con l’auspicio di rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza, di firmare una nuova convenzione anti-terrorismo e di continuare a sostenere il processo di riconciliazione nazionale in Afghanistan. La prossima riunione si terrà nel 2016 in Kirghizistan.
FRANCIA, 13 DICEMBRE ↴ Nonostante l’ottenimento della percentuale di voti più alta al primo turno delle elezioni regionali dello scorso 6 dicembre, il Front National (FN) di Marine Le Pen non è riuscito a vincere in nessuna delle 13 regioni francesi impegnate nel ballottaggio. Decisivo si è rivelato infatti il ritiro del Parti Socialiste (PS) in Picardia-Nord Pas de Calais e nella Provenza-Alpi-Costa Azzurra, con l’esplicito invito agli elettori di sinistra di appoggiare il partito di centro-destra Les Republicains (LR). I risultati definitivi hanno dunque decretato la vittoria di LR in 7 regioni e del PS in 5; mentre in Corsica hanno vinto i nazionalisti riuniti nel gruppo “Pè a Corsica”. La maggiore affluenza alle urne (16% in più rispetto al primo turno) ha inoltre sicuramente favorito lo spostamento dei voti verso i due maggiori partiti nazionali. Nonostante la sconfitta, va comunque sottolineata la forte ascesa della formazione della Le Pen (che ha ottenuto complessivamente il 18,74% dei voti), in continuità con i risultati di tutte le ultime tornate elettorali.
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MALI, 16 DICEMBRE ↴ Il gruppo terroristico di Ansar al-Dine ha attaccato una caserma militare nel nord del Mali, ferendo e uccidendo numerosi soldati ai quali sono state sottratte anche le armi. Secondo quanto dichiarato dal gruppo estremista sul suo account Twitter, l’attacco alla città di Nione è parte di un tentativo di espellere le truppe francesi dal territorio maliano.
NIGERIA, 12-13 DICEMBRE ↴ Si sono verificati violenti scontri tra l’esercito e la comunità sciita nigeriana in tre diverse aree dell’antica città di Zaria, nel nord del Paese. Gli scontri avrebbero avuto inizio quando un gruppo di almeno 500 sciiti avrebbe tentato di bloccare il passaggio del convoglio del Capo di Stato Maggiore dell’esercito nigeriano, il generale Tukur Burata. Al lancio di sassi da parte degli astanti, i militari avrebbero risposto con il fuoco uccidendo numerosi manifestanti e radendo al suolo la casa di Ibraheem Zakzady, leader dello Islamic Movement of Nigeria (IMN) e a capo della comunità sciita locale, anch’egli ferito e arrestato.
SERBIA, 14 DICEMBRE ↴ A quasi due anni di distanza dalla prima Conferenza intergovernativa (gennaio 2014) e a quasi quattro dal conseguimento della candidatura ufficiale (marzo 2012), sono stati aperti i primi due capitoli negoziali inerenti al processo d integrazione della Serbia nell’Unione Europea. Si tratta del Capitolo 32 sul controllo finanziario e del 35 sulla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo. In particolar modo quest’ultimo, che resta in linea con la Risoluzione 1244/1999) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con il parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, sarà decisivo per determinare l’andamento e il futuro dei negoziati di adesione. Belgrado continua ufficialmente a non riconoscere l’indipendenza di Priština, ma si è impegnata nell’implementazione degli Accordi di Bruxelles che, lo scorso 25 agosto, hanno avuto una svolta con formalizzazione, tra le altre cose, della creazione dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo del nord. Con l’apertura dei capitoli, l’UE ha premiato l’atteggiamento propositivo della Serbia, pur confermando che sarà effettuato un monitoraggio continuo sull’effettiva stabilizzazione delle relazioni con il Kosovo.
STATI UNITI, 17 DICEMBRE ↴ La Federal Reserve Bank degli Stati Uniti ha alzato di un quarto di punto i tassi di interesse portandoli da un range di 0-0,25% ad uno di 0,25-0,5%. È la fine della fase accomodante protrattasi per oltre sei anni e che è fin qui risultata essenziale per far uscire gli Stati Uniti dalla “Grande crisi” economica del 2008. Si è trattato inoltre del primo rialzo dei tassi a distanza di nove anni (l’ultimo avvenne nel 2006). Le borse 13
mondiali, a partire da Wall Street, hanno ben reagito ad una mossa che comunque era nell’aria da oltre un anno. Il Presidente della Fed, Janet Yellen, ha invitato a non esagerare il rialzo dei tassi, specificando che la Banca Centrale continuerà a muoversi «in modo prudente e in maniera graduale».
STATI UNITI-RUSSIA, 15 DICEMBRE ↴ Il Segretario di Stato USA, John Kerry, si è recato a Mosca, dove ha incontrato il Presidente Vladimir Putin e il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov per una serie di colloqui sulla questione siriana, il terrorismo e la crisi in Ucraina. La Siria è stato il tema principale di discussione dell’incontro, nel quale Kerry ha espresso le preoccupazioni di Washington per il fatto che alcuni raid russi nel Paese fossero diretti contro l’opposizione moderata e non solo contro le postazioni dello Stato Islamico (IS). Il Segretario di Stato ha affermato: «Ho spiegato chiaramente [a Putin] la nostra preoccupazione che alcuni raid russi abbiano colpito l’opposizione moderata e non DAESH. E sono contento di poter dire che lui l’ha preso in considerazione». Nel corso dell’incontro, oltre a definire un percorso per un maggior coordinamento nella lotta all’IS, Lavrov ha dichiarato di sostenere l’iniziativa statunitense di svolgere un Vertice sulla Siria, tenutosi il 18 dicembre a New York.
TURCHIA-QATAR, 16 DICEMBRE ↴ L’Ambasciatore turco in Qatar, Ahmet Demirok, ha annunciato che la Turchia disporrà di una base militare permanente nell’emirato, prima base d’oltremare turca in Medio Oriente. Il progetto rientra in un accordo di cooperazione nella Difesa siglato dai due Paesi nel 2014. La base, per il cui completamento ancora non si indica una data esatta, avrà come scopo primario l’addestramento e ospiterà 3.000 unità di fanteria, unità aeree e navali, addestratori militari e forze per le operazioni speciali. L’accordo prevede che il Qatar costruisca una struttura analoga in territorio turco.
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ANALISI E COMMENTI NOVOROSSIYA, TRA PROGETTO POLITICO E NUOVA PIATTAFORMA PER IL NAZIONALISMO RUSSO
OLEKSIY BONDARENKO ↴ A partire dal 1453, anno in cui terminò con successo l’assedio di Costantinopoli da parte dell’Impero Ottomano, la generale priorità della politica estera russa è stata quella di porsi come tutore della cristianità ortodossa e ricomporre sotto un’unica bandiera lo spazio geografico dell’antica Rus’ di Kiev. L’idea dell’ortodossia come collante per tutti i popoli slavi all’interno e fuori dai confini della Russia zarista venne poi rielaborata nella seconda metà del XIX secolo sotto la bandiera del panslavismo. L’agognata creazione di un’unica nazione slava ha contraddistinto il lavoro intellettuale di numerosi panslavisti dando origine all’idea di Russia come civiltà a sé stante, né completamente europea né prettamente asiatica. Il legame ancestrale con l’ortodossia e soprattutto con il mito originario della Rus’ di Kiev fu sostituito dalla “rivoluzione comunista” prima e “dall’accerchiamento capitalista e imperialista” poi, riemergendo lentamente, anche se non come narrazione dominante, dopo la Seconda Guerra Mondiale (…) SEGUE >>>
LE INCOGNITE DELL’ACCORDO USA-CINA SULLA CYBER-SECURITY MATTEO ANTONIO NAPOLITANO ↴ La necessità di stabilire regole certe in materia di relazioni legate al complesso contesto del cyberspace è ormai una consolidata certezza. Sul piano internazionale, un incontro-scontro divenuto un classico sul tema è costituto dagli articolati rapporti tra Cina e Stati Uniti. Il 24 e 25 settembre, in occasione dell’importante visita del Presidente cinese Xi Jinping a Washington, la cooperazione in ambito di cyber-security ha occupato, tra le tante cruciali tematiche in discussione, una posizione tutt’altro che secondaria. Come riportato nell’autorevole analisi condotta da Jack Goldsmith, professore presso la Law School di Harvard ed esperto di cyber law e sicurezza, la Cina e gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo che prevede il reciproco impegno dei due governi al fine di non perpetrare o supportare i furti cyber-enabled di proprietà intellettuale, compresi segreti commerciali o altre informazioni aziendali sensibili, con l’intento di fornire vantaggi competitivi (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 15