N°15, 24 MAGGIO – 6 GIUGNO 2015 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 7 giugno 2015 ISSN: 2284-1024 A cura di: Paolo Balmas Davide Borsani Agnese Carlini Giuseppe Dentice Danilo Giordano Antonella Roberta La Fortezza Violetta Orban Maria Serra Alessandro Tinti
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Photo credits: Associated Press; IPC; The Wall Street Journal; EPA; La Stampa; AFP/Yoan Valat; AFP;
FOCUS CINA/COREA DEL SUD ↴
Lunedì 1° giugno 2015 è stato ufficialmente firmato a Seoul il trattato di libero scambio tra Cina e Corea del Sud. Nonostante siano trascorsi tre anni dall’inizio delle trattative, solo dopo un’accurata analisi del documento si è giunti alla sua firma. Il trattato che vedeva come principali firmatari Cina, Giappone e Corea del Sud ha subito un notevole ritardo a causa delle preoccupazioni espresse dal Giappone in merito alle isole contese (Senkaku/Diaoyu) tra i due Paesi. Il trattato è esclusivamente valido per la Cina continentale, con l’esclusione di Hong Kong che ha stipulato accordi separati con la Corea del Sud, tra cui una convenzione contro la doppia imposizione. Nella lettera al Presidente Xi Jinping, la contro-parte coreana Park Geun-hyen ha descritto l’accordo come «una pietra miliare tra i due Paesi nell’intento di rafforzare quanto più possibile le relazioni strategiche e di cooperazione». Analogamente il Presidente Xi ha definito il trattato come un «evento colossale» che «non solo favorirà un notevole miglioramento nelle relazioni commerciali tra i due Paesi, ma porterà anche vantaggi concreti alle rispettive popolazioni». Secondo il Ministero del Commercio sudcoreano l’operazione aumenterà annualmente gli scambi di circa 300 miliardi di dollari, a differenza dei 215 miliardi del 2012. Inoltre, si prevede un aumento annuo del PIL sudcoreano di circa l’1% e dello 0,3% per quanto riguarda quello cinese per il prossimo decennio. In particolar modo risentiranno della firma di questo trattato il Giappone e Taiwan, il cui volume di scambi con la Cina diminuirà notevolmente. Gli scambi bilaterali tra Cina e Corea
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del Sud per l’anno 2014 sono ammontati all’incirca a 235,4 miliardi di dollari, ciò significa che circa il 16% dei prodotti in entrata provengono dal partner cinese.
In base all’accordo, entrambi i Paesi hanno ridotto i dazi doganali a zero su quasi il 90% delle merci commercializzate. Il trattato promuove 637 articoli coreani, principalmente prodotti industriali come acciaio e macchine, e 852 prodotti cinesi, perlopiù agricoli. L’operazione commerciale avrà un impatto notevole su determinati settori agricoli e dell’industria automobilistica, limitando quanto più possibile investimenti stranieri in entrambi i Paesi. Di particolare interesse sono anche la firma dell’accordo sui contributi previdenziali, relativo al pagamento delle prestazioni sociali per i rispettivi espatriati, e quello sulle tariffe agevolate per i prodotti realizzati nel complesso industriale di Kaesong, nella Corea del Nord. In sintesi il trattato di libero scambio tra la Cina e la Corea del Sud ha un forte impatto politico; scavalcando Giappone e Taiwan, Seoul potrà immettere nel mercato un maggior numero di imprese nazionali creando all’incirca 53.800 nuovi posti di lavoro nel decennio a venire. È evidente che i principali beneficiari saranno gli agricoltori cinesi, il settore automobilistico sudcoreano e alcune joint venture straniere all’interno dei suddetti settori. Pertanto non si assisterà ad un aumento degli investimenti stranieri né in Cina né in Corea del Sud. Una nota positiva è comunque l’interesse ad estendere il trattato al settore dei servizi, aumentando quanto più possibile la liberalizzazione di questo accordo politico esclusivamente bilaterale.
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IRAQ/SIRIA ↴
Il 2 giugno Parigi ha ospitato un nuovo vertice della coalizione internazionale opposta allo Stato Islamico (IS) per ridefinire le direttrici strategiche della campagna bellica. Di fronte ai recenti successi militari ottenuti a Ramadi e a Palmira dai miliziani del Califfato e a quasi nove mesi dal lancio dell’operazione “Inherent Resolve”, l’incontro ha invece appurato le distanze politiche nel composito fronte alleato che combatte per l’integrità irachena. Del resto il summit era stato anticipato dalle taglienti dichiarazioni del Segretario della Difesa statunitense Ashton Carter, il quale ha biasimato la cedevolezza delle forze di sicurezza irachene schierate a Ramadi, che seppur superiori in numero hanno abbandonato l’importante capoluogo dell’Anbar sotto l’attacco di poche centinaia di guerriglieri islamisti. La circostanza per cui le truppe irachene, come già un anno addietro durante la disfatta di Mosul, abbiano lasciato sguarniti numerosi veicoli corazzati corrisposti dall’alleato americano ha accentuato il disappunto del Pentagono. Malgrado la delegazione inviata a Parigi abbia annunciato che gli Stati Uniti raddoppieranno l’impegno profuso contro l’IS, l’attrito con la leadership irachena è parso evidente. Il Primo Ministro Haider al-Abadi ha infatti addebitato la caduta di Ramadi all’insufficiente sostegno militare della coalizione internazionale. In particolare, al-Abadi ha lamentato la modesta copertura aerea offerta dagli Stati Uniti e criticato i ritardi nell’invio di armamenti e munizioni – questione che rafforza la richiesta del governo iracheno dell’acquisto di armi da Iran e Federazione Russa. È inoltre degno di nota che tra le ventidue rappresentanze presenti a Parigi mancasse quella del Kurdistan iracheno, nonostante la rilevanza militare dei Peshmerga curdi
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nell’arginare le colonne di Abu Bakr al-Baghdadi nel nord del Paese. L’analogo annullamento di una riunione con alcuni esponenti delle tribù sunnite testimonia le ripetute false partenze del processo di riconciliazione nazionale cui l’amministrazione Obama aveva esplicitamente associato, in discontinuità con la gestione del predecessore Nuri al-Maliki, l’approvazione dell’esecutivo guidato da al-Abadi. Il fallimento di una concertazione con le minoranze etniche e confessionali aggrava pesantemente gli equilibri nel conflitto a favore dei fondamentalisti islamici. In tal senso, la precipitosa ritirata da Ramadi è anch’essa sintomo e conseguenza della dissociazione della comunità sunnita dalle istituzioni centrali. È peraltro preoccupante riscontrare il giuramento di fedeltà al Califfato islamico di alcune tribù sunnite che l’influente sceicco Ahmed Dara al-Jumaili ha annunciato a Falluja lo scorso 3 giugno. Il vertice di Parigi ha anche ripresentato divergenze pronunciate tra le stesse potenze occidentali. Il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha ribadito che la stabilizzazione irachena non sia perseguibile senza l’avvio della transizione politica in Siria, poiché la delegittimazione di Bashar al-Assad e le frammentazioni innescate dalla guerra civile hanno progressivamente consolidato la forte presenza dell’IS in circa metà del territorio siriano. In tutta evidenza la posizione francese, condivisa anche da parte britannica, sconfessa la duplice politica statunitense, che anche in occasione del summit del 2 giugno ha attribuito centralità allo scenario iracheno, mettendo in secondo piano la complessa partita politica che ruota attorno al regime di Damasco. Intanto, i combattimenti infuriano nel vasto deserto dell’Anbar, dove le forze di sicurezza irachene sono impegnate in un’estesa controffensiva per la riconquista di Ramadi. L’esercito regolare ed i gruppi paramilitari volontari avrebbero circondato gran parte della città, tagliando le linee di rifornimento dei guerriglieri islamisti arroccati nel capoluogo e ingaggiando violenti scontri a fuoco nei quartieri meridionali. Le milizie sciite del Fronte di Mobilitazione Popolare sono pienamente coinvolte nelle operazioni, benché abbiano opportunamente deciso di presidiare le vie di comunicazione periferiche senza addentrarsi nei centri urbani. Tra queste, la brigata Badr e Asa’ib Ahl al-Haq hanno contribuito ad assicurare una testa di ponte a Garma, a nord di Falluja, in un’azione coperta dall’aviazione irachena e statunitense. I bombardamenti dei caccia americani nell’area testimoniano la criticità della situazione, poiché Washington aveva sinora attentamente evitato di impiegare la propria capacità di fuoco in presenza delle milizie sciite legate agli interessi di Teheran. Proprio nei combattimenti a Ramadi ha perso la vita un comandante della Guardia Rivoluzionaria iraniana, Jassem Nouri. Seppur non sottoposte allo stretto controllo dei vertici di Baghdad, i gruppi armati sciiti sono però essenziali a sostenere l’urto dell’IS sulla capitale e a recuperare terreno nell’Anbar. Il 26 maggio l’organo dirigente del Fronte di Mobilitazione Popolare ha dato il via all’operazione “Labayk ya Iraq” che si prefigge l’obiettivo di ripulire la provincia di Salah ad-Din al fine di prevenire le deviazioni dei miliziani islamisti da Ramadi e Falluja. Ciò ha dato nuovo impulso alle manovre su Samarra, dove il 19 maggio l’esercito regolare e le milizie
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volontarie hanno dapprima ricacciato le uniformi nere dall’ex impianto di armi chimiche di Muthanna e poi ripristinato il possesso della rete viaria che porta a Baghdad.
SITUAZIONE SUL CAMPO IN IRAQ – FONTE: INSTITUTE FOR THE STUDY OF WAR
Ciononostante, tanto la morfologia e l’ampiezza del territorio, quanto la notevole capacità di adattamento tattico dell’IS, allargano inevitabilmente le maglie difensive delle forze di sicurezza irachene, che subiscono gli attentati suicidi dei fondamentalisti islamici. Mentre Baghdad comandava l’assembramento di uomini e mezzi nell’Anbar – dove gli 800 guerriglieri tribali sunniti addestrati nella base di Habaniya sono confluiti nei ranghi delle milizie volontarie e la polizia federale ha organizzato sei battaglioni speciali cui sarà attribuito il compito di consolidare il controllo governativo nella provincia –, gli strateghi del Califfato hanno replicato con una serie di attacchi nei pozzi petroliferi di Ajil, a nord-est di Tikrit, e di Baiji. Inoltre, i miliziani islamisti hanno chiuso le dighe di Warrar, a nord di Ramadi, e di Falluja al fine di ostacolare la controffensiva delle forze irachene. La mossa attenta alla sicurezza della base di Habaniya, dove il governo di Baghdad ha installato il comando 5
operativo delle Forze Armate, che nei primi giorni di giugno è stata raggiunta da alcuni colpi di mortaio. L’interruzione delle forniture idriche aggrava ancor più la crisi umanitaria della popolazione civile, quando da aprile oltre 180mila persone hanno lasciato Ramadi a causa del conflitto. In Siria, la presa di Palmira ha incoraggiato la progressione delle schiere del Califfato verso Aleppo, dove i combattenti dell’IS hanno attaccato le postazioni di Jabhat al-Nusra e delle altre formazioni ribelli. I miliziani hanno inoltre ripreso una postura offensiva nel nord-est del Paese, dove i Peshmerga curdi avanzano lungo il confine turco verso Tel Abyad per muovere poi verso le roccaforti islamiste nella provincia di Raqqa. Intanto, numerose fonti attestano lo schieramento a Damasco e nella zona costiera di Latakia di migliaia (7mila-15mila uomini) di soldati iraniani e iracheni al comando di Qassem Suleimani, leader della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Ciò conferma il forte interesse di Teheran verso la sopravvivenza del regime alawita di Bashar al-Assad, laddove nelle ultime settimane le forze governative avevano perso Idlib e Jisr al-Shughour dietro l’avanzata dei gruppi ribelli riuniti nel Jaysh al-Fatah. Quest’ultimo sviluppo e l’ingresso dell’IS nella battaglia di Aleppo assestano una nuova scossa negli equilibri delle molteplici linee di conflitto che disgregano il territorio siriano. Peraltro, le incursioni dell’IS nell’area di Aleppo e l’intensità crescente dei raid indiscriminati dell’aviazione siriana insidiano la sostenibilità della posizione statunitense nella guerra civile, dal momento che alcuni comandanti ribelli hanno messo in dubbio la partecipazione al programma di addestramento concepito da Washington in ragione della mancata copertura aerea della coalizione internazionale contro l’espansione del Califfato nel nord-ovest del Paese.
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UCRAINA ↴
All’indomani del fallimento di un nuovo round di trattative a Minsk tra i membri del Gruppo di Contatto (2 giugno), i separatisti filo-russi hanno lanciato una nuova offensiva – la più ampia dopo la conquista del centro strategico di Debaltseve lo scorso 18 febbraio – nelle regioni orientali dell’Ucraina, rompendo definitivamente l’accordo di cessate il fuoco che, nonostante alcune schermaglie, sembrava aver contenuto l’escalation. L’operazione, i cui preparativi erano iniziati nel mese di aprile con il riposizionamento di alcune armi pesanti lungo la linea di controllo (movimenti confermati anche dagli osservatori internazionali dell’OCSE) e con i successivi attacchi contro le prime linee dell’esercito ucraino a nord di Donetsk e ad est di Mariupol, si è concentrata intorno alle località di Marinka e di Krasnohorivka, sobborghi orientali della stessa Donetsk ancora controllati da Kiev. Le autorità ucraine hanno denunciato l’accerchiamento degli uomini dell’Operazione Anti-Terrorismo (ATO) in almeno due grandi ondate di attacchi (che avrebbero provocato la morte di almeno 3 soldati ucraini e di 3 civili), nonché massicci bombardamenti da parte delle forze ribelli attraverso l’utilizzo combinato di artiglieria e armi pesanti come i lanciarazzi multipli MLRS (Multiple Launch Rocket System). La strategia dei separatisti, che già tra la fine di maggio e l’inizio di giugno avevano lanciato bombardamenti localizzati lungo la buffer zone istituita dagli accordi di Minsk2, risponderebbe al duplice obiettivo di ottenere dal governo concessioni politiche (in particolare l’autonomia delle regioni in questione, come discusso nuovamente in Bielorussia) e di recuperare un vantaggio strategico ai danni delle forze armate di Kiev, testando innanzitutto i punti di maggiore vulnerabilità delle forze ucraine e ampliando il controllo di territori strategicamente rilevanti: Marinka e Krasnohorivka infatti non solo pongono in collegamento l’Oblast di Donetsk a quello confinante di Zaporizhia e la stessa città di Donetsk alla centrale termica di Kurakhove 7
(fondamentale per l’indipendenza energetica – e dunque statuale – delle aree ribelli), ma spezzano anche la resistenza delle forze ucraine sul fronte sud-occidentale al fine di prendere il controllo dell’ala settentrionale dell’autostrada (H20) che conduce al centro portuale di Mariupol – obiettivo principale dei ribelli anche per via del diretto collegamento con la Crimea –, l’offensiva contro la quale non è stata mai incisiva anche a causa della barriera naturale rappresentata dal fiume Kalmius. Allo stesso tempo un attacco incrociato proveniente dai centri di Horlivka e Pervomaysk potrebbe essere diretto contro Artemivsk, punto di approvvigionamento militare dell’ATO, a protezione della sacca di Debaltseve e presumibilmente testa di ponte per il recupero degli iniziali principali teatri di scontri, Sloviansk e Kramatorsk. Scontri tra i separatisti e i soldati ucraini sono anche occorsi nel villaggio di Katerynivka, ad ovest dell’autostrada “Bakhmutka”, corridoio di importanza strategica nell’Oblast di Luhansk per una ripresa più efficace dell’offensiva settentrionale.
SITUAZIONE SUL CAMPO IN UCRAINA – FONTE: KGS NIGHTWATCH
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Il 4 giugno, inoltre, un commando non identificato ma presumibilmente legato all’istanza separatista, ha condotto un attacco sulla linea ferroviaria nel sud ovest del Paese, nelle vicinanze di Odessa. L’episodio potrebbe essere verosimilmente riconducibile alla decisione del Petro Poroshenko di nominare l’ex Presidente georgiano Mikhail Saakashvili – già consigliere del Presidente ucraino e che già aveva affrontato la Russia nel conflitto del 2008 relativo all’Ossezia del Sud – come nuovo governatore della medesima regione del Mar Nero. Mentre il Premier ucraino Arseniy Yatsenyuk è tornato ad accusare il Cremlino di sostenere le operazioni dei separatisti, da Bruxelles giunge un nuovo monito circa la possibile decisione (che potrebbe avvenire nel corso del Consiglio europeo di fine giugno) di estendere le sanzioni nei confronti della Russia fino all’inizio del 2016. Sebbene anche gli Stati Uniti siano dello stesso avviso, aprendo peraltro nuovamente alla possibilità di forniture militari occidentali a Kiev (mentre il Premier canadese Stephen Harper ha annunciato lo stanziamento di 5 milioni di dollari per contribuire ai programmi di sviluppo indirizzati alle forze dell’ordine ucraine), sul tema delle sanzioni economiche l’Italia, pur allineata alla posizione europea, sta tentando di portare avanti una nuova partita negoziale. Nel corso di un incontro a Mosca (31 maggio) con Serghej Lavrov e il Vice Premier Arkady Dvorkovich, il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha sottolineato la necessità di riportare la Russia ad un dialogo franco e positivo e ad un negoziato proficuo per la soluzione della crisi ucraina, aggiungendo che le misure restrittive sono reversibili nella misura in cui la Russia dimostri una piena collaborazione e si impegni all’attuazione degli accordi di Minsk, che dovrà essere completata entro l’anno.
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UNIONE EUROPEA ↴
Mercoledì 27 maggio, a sole due settimane dalla presentazione dell’Agenda europea sulla migrazione, la Commissione ha adottato il primo pacchetto di proposte concrete per rispondere alla sfida dell’emergenza migratoria. Il pacchetto comprende: l’attivazione di una ricollocazione di emergenza, una raccomandazione circa un programma di reinsediamento, un piano d’azione contro il traffico dei migranti, l’orientamento della Commissione su come facilitare il rilevamento sistematico delle impronte digitali e infine una consultazione pubblica sul futuro della direttiva sulla Carta blu. A tutto questo si aggiunge una nota informativa sulla situazione dell’Operazione Triton, coordinata da Frontex, così come da ultime modifiche. Proprio il 26 maggio Frontex ha infatti annunciato l’avvio di un nuovo piano che prevede un’espansione dell’area operativa di Triton fino a 138 miglia nautiche a sud della Sicilia, nonché per tutta la stagione estiva (fino alla fine di settembre), generalmente il periodo dell’anno in cui si registrano i più alti flussi migratori, un massiccio rafforzamento dei mezzi utilizzati per il pattugliamento (da 3 a 6, per passare poi a 5 nel periodo invernale). La strada che si sta seguendo è sostanzialmente quella di un potenziamento delle capacità e dei mezzi delle operazioni congiunte di Frontex, Triton e Poseidon confermato dalla previsione di risorse finanziarie aggiuntive, pari a ulteriori 45 milioni di euro, per il 2016. Il vero centro nevralgico del pacchetto proposto dalla Commissione è, tuttavia, il meccanismo di ricollocazione dei richiedenti asilo in Europa adottato, sulla base giuridica dell’art. 78, par. 3, TFUE, con l’obiettivo di rispondere all’innegabile emergenza che tocca soprattutto le sponde Sud dell’Europa mediterranea: Italia e Grecia. Il meccanismo tracciato dalla Commissione prevede, nello specifico, una ricollocazione su base obbligatoria tra i Paesi membri dell’UE, da effettuarsi in due
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anni, di circa 40.000 richiedenti asilo arrivati in Italia ed in Grecia dopo il 15 aprile 2015 o che arriveranno dopo l’avvio del meccanismo. I suddetti 40.000 saranno selezionati sulla base della loro nazionalità privilegiando le cittadinanze che nel 2014 hanno registrato un elevato tasso di accettazione delle richieste di asilo, almeno il 75% secondo le indicazioni della Commissione. Si presume dunque che ad essere ricollocati saranno soprattutto siriani ed eritrei. La redistribuzione avverrà tramite il meccanismo delle “quote” calcolato tenendo conto di alcuni precisi parametri individuati dalla Commissione stessa: PIL (pesa per il 40%), popolazione (40%), tasso di disoccupazione (10%) e peso avuto in passato nell’accoglienza dei rifugiati (10%). Per il ricollocamento, il bilancio europeo fornirà un finanziamento extra di 240 milioni così da poter garantire agli Stati membri 6.000 euro per ogni persona coinvolta nella ricollocazione.
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Il meccanismo così delineato scardina profondamente il noto Principio di Dublino, vale a dire l’impostazione europea adottata a partire dal febbraio del 2003 secondo la quale il Paese responsabile dell’accoglienza del richiedente asilo sarebbe quello di primo sbarco. Nelle stesse parole della Commissione, Dublino appare ormai anacronistico: adottato in un contesto di relazioni internazionali e flussi migratori profondamente diverso da quello attuale, ha senz’altro dimostrato di non riuscire a rispondere alle nuove e più complesse sfide. Non a caso la Commissione si è impegnata a promuoverne una modifica già nel 2016.
Accanto alla ricollocazione di coloro che sono già sul suolo europeo, la Commissione ha adottato anche una raccomandazione che invita gli Stati membri a reinsediare 20.000 persone provenienti da Paesi non appartenenti all’UE e in evidente bisogno di protezione internazionale secondo i parametri dell’UNHCR. Il reinsediamento dovrebbe avvenire in un periodo di due anni, sulla base, anche in questo caso, di un meccanismo di distribuzione proporzionale per quote. Gli Stati membri che aderiranno al programma riceveranno un sostegno finanziario dell’UE pari a 50 milioni di euro per il periodo 2015-2016. Le novità del testo legislativo proposto dalla Commissione non si esauriscono nella trattazione dell’immigrazione irregolare e nella logica di protezione umanitaria legate al periodo di emergenza che stiamo vivendo. Nelle parole della Commissione, al contrario, si legge chiaramente la volontà di avviare un nuovo corso che, prescindendo 12
dall’emergenza, possa incidere sia sul fenomeno migratorio a monte (nei Paesi di origine) sia sulle politiche di integrazione e su quelle relative all’immigrazione regolare degli Stati membri. L’obiettivo, insomma, è di lungo periodo e di ampio respiro e mira a proporre una nuova impostazione in materia migratoria coerente ed incisiva che possa dimostrarsi capace di sopravvivere anche sotto il peso di future emergenze. Solidarietà e responsabilità condivisa sembrano dunque essere queste le parole d’ordine dell’Agenda europea in materia di immigrazione; lo stesso slogan non sembra invece essere condiviso da alcuni Stati membri. Fermo restando le clausole di optingin e opting-out previste dai Protocolli 21 e 22 per Regno Unito, Irlanda e Danimarca, anche Francia, Polonia e Spagna hanno dichiarato di non accettare il sistema delle quote al quale si guarda come ad un’eccessiva interferenza con il principio di sovranità nazionale degli Stati. La questione non è di poco conto se si considera che, per concretizzarsi, la proposta della Commissione deve ricevere, ai sensi della procedura legislativa speciale prevista dall’art. 78 TFUE, il via libera (maggioranza qualificata) dei Ministri degli Interni nella riunione prevista per il 15 e 16 giugno e la previa approvazione del Parlamento. Il complesso iter decisionale è quindi irto di ostacoli. La partita si giocherà evidentemente sulle due principali questioni: l’obbligatorietà del meccanismo di ricollocazione e i criteri di suddivisione dei richiedenti asilo.
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YEMEN ↴
Il giorno dopo aver respinto un attacco via terra da parte delle milizie Houthi nella provincia di Najran (29 maggio), l’aviazione saudita ha rivelato di aver intercettato un missile Scud lanciato dai ribelli fedeli all’ex Presidente Saleh in direzione della città di Khamis Mushait. Intanto nella mattinata del 5 giugno, alcuni rappresentanti degli Houthi avevano dichiarato la propria volontà di partecipare ai colloqui di pace, previsti per il prossimo 14 giugno a Ginevra, peraltro già rimandati diverse volte, insieme ai delegati del Presidente Hadi. I colloqui, voluti fortemente dall’inviato dell’ONU in Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed, sono mirati al raggiungimento di un cessate il fuoco, attraverso una ritirata sicura per gli Houthi ed un piano umanitario per la popolazione yemenita. Nonostante gli estremi tentativi di conciliazione, l’offensiva saudita contro le postazioni dei ribelli, iniziata lo scorso 26 marzo, ha aumentato il suo slancio a seguito della morte di due guardie di frontiera saudite (che hanno portato a 31 il numero totale delle vittime da parte di Riyadh) causata dal lancio di alcuni missili militari sulle postazioni di Zahran, città situata nella provincia frontaliera dell’Asir. Pesanti bombardamenti si sono concentrati sulla capitale Sana’a e sulla città di Aden, città portuale e capitale commerciale del Paese, nel tentativo di scacciare via gli Houthi dalla regione. Mentre l’aeroporto di Aden è chiuso dall’inizio dell’offensiva saudita, il porto è ancora attivo e rappresenta una via d’accesso importante alla città, anche in chiave umanitaria. I combattimenti di Aden si sono concentrati nei distretti di Khor Maksar, Crater e Moalla, provocando la morte di almeno 15 ribelli. Gli attacchi sulla capitale Sana’a hanno, invece, colpito il quartier generale e la base aerea dell’aviazione yemenita di Dallami, entrambe controllate dai ribelli, nonché alcuni depositi di armi e munizioni. L’offensiva saudita ha messo sulla difensiva i ribelli Houthi che si
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trovano ad affrontare anche gli attacchi provenienti dal Comitato di Resistenza Popolare, un fronte eterogeneo costituito da combattenti pro-governativi, milizie sunnite e gruppi separatisti del sud. Nella città di Shoqra, nella provincia meridionale di Abyan, un’autobomba, probabilmente posizionata dai gruppi favorevoli ad una separazione del sud dello Yemen, è esplosa sabato 30 maggio nei pressi di un deposito di armi, causando la morte di 12 militanti Houthi ed il ferimento di altri otto. Il 1° giugno, inoltre, gli Houthi hanno subito, sempre nel sud del Paese, la loro prima significante sconfitta: le milizie sunnite, autodefinitesi Resistenza del Sud, hanno costretto i sostenitori di Saleh ad abbandonare completamente Dalea, città situata a circa 170 km da Aden. Dal canto suo, invece, il Presidente Abd Rabbo Mansur Hadi si trova a dover affrontare alcune difficoltà interne: il 4 giugno ha dimissionato, per decreto, il nipote dell’ex Presidente Saleh, il Generale Ammar Mohammad Abdullah Saleh, attuale addetto militare presso l’Ambasciata yemenita in Etiopia, dopo che un ex-combattente di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), Hani Muhammad Mujahid, ha rivelato, in un’intervista ad al-Jazeera, di aver ricevuto fondi da lui per organizzare l’attentato all’Ambasciata americana a Sana’a del 2008, che causò la morte di 18 persone. Negli ultimi giorni, inoltre, il ritrovamento di armi israeliane all’interno dell’Ambasciata saudita a Sana’a ha causato uno scontro diplomatico tra Teheran e Riyadh, accusata di sostenere le milizie sunnite locali fedeli al Presidente Hadi contro i ribelli Houthi. Secondo l’agenzia iraniana Fars, sarebbero stati i ribelli Houthi a trovare le armi all’interno degli alloggi delle guardie dell’ambasciata, dopo essere entrati nella sede diplomatica saudita. Il ritrovamento, secondo Teheran, rafforza i sospetti di forti legami fra sauditi ed israeliani, coinvolgendo anche gli Stati Uniti che, lo dimostrerebbero alcuni documenti ritrovati, avrebbero l’intenzione di creare una propria base militare in un’isola yemenita a sud-ovest di Aden.
DISPOSIZIONE DELLE FORZE IN CAMPO – FONTE: AMERICAN ENTERPRISES INSTITUTE & BBC
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BREVI COLOMBIA, 18 MAGGIO ↴ La Forza Aerea Colombiana ha dichiarato di aver ucciso
un
leader
delle
FARC
(Forze
Armate
Rivoluzionarie della Colombia) in un bombardamento nei pressi della città di Riosucio, nella provincia nordoccidentale di Choco. Alfredo Alarcon Machado, conosciuto come Ramòn Ruiz, era a capo della 18° divisione del gruppo operante nel nord-ovest del Paese ed era ritenuto il principale assistente di Pastor Alape, tra i negoziatori delle FARC nel processo di pace con il governo colombiano in corso a L’Avana. L’annuncio ha comunque suscitato qualche dubbio, dato che la notizia della morte di Ruiz era già stata data lo scorso anno per poi essere smentita dal capo della polizia. I negoziati tra il gruppo ribelle e il governo di Bogotà hanno avuto inizio nel 2012 e hanno finora condotto ad alcuni risultati: una riforma agraria per una distribuzione delle terre più equa, un piano per lo sminamento e l’interruzione della produzione e dei traffici di droga controllati dai guerriglieri. In aprile le FARC hanno assassinato 11 soldati colombiani nella provincia sud-occidentale di Cauca, violando l’accordo sul cessate il fuoco stabilito a dicembre e spingendo il Presidente Manuel Santos a ordinare la ripresa dei bombardamenti contro le loro postazioni. Dalla fondazione delle FARC nel 1964 ad oggi si ritiene che il conflitto con il governo centrale abbia causato oltre 220mila vittime.
ISRAELE-GAZA, 3-4 GIUGNO ↴ Tornano ad soffiare i venti di guerra nella Striscia di Gaza, a pochi mesi dall’ultimo conflitto del luglioagosto 2014 che ha provocato oltre 2.200 vittime in circa 60 giorni. A rinfocolare le tensioni latenti vi sarebbero stati due episodi avvenuti a distanza di pochi giorni: l’uccisione di un importante leader salafita e i raid israeliani contro le postazioni militari di Hamas e del Palestinian Islamic Jihad (PIJ) a Gaza. Il 3 giugno, in una dinamica ancora poco chiara, il leader salafita Youssef al-Hatar è stato ucciso durante una sparatoria a Sheikh Radwan, un quartiere a nord di Gaza City, dalle forze di sicurezza di Hamas, intervenute con l’intento di un semplice arresto. Youssef al-Hatar era una nota figura del salafismo armato gazawi e leader del gruppo Jamaat Ansar al-Dawla al-Islamiya fi Bayt al-Maqdis (Sostenitori dei Paladini di Gerusalemme), un movimento scissionista da Hamas nato nel 2014 e ritenuto vicino a frange più o meno dichiaratamente vicine allo Stato Islamico (IS), tra le quali la Provincia islamica del 16
Sinai (già nota come Ansar Bayt al-Maqdis) e i Mujahideen Shura Council for the Environs of Jerusalem, quest’ultimi attivi nel vicino Sinai e nella Striscia di Gaza con l’intento di instaurare un califfato tra la Penisola egiziana, la Palestina e Israele. Ansar al-Dawla al-Islamiya (conosciuto anche come Ansar al-Khilafa) avrebbe rivendicato anche una serie di attacchi contro postazioni militari di Hamas e del suo braccio armato, le Brigate Ezzedin al-Qassam, compiuti durante lo scorso mese di maggio a Khan Younis e a Gaza City, e per aver compiuto alcuni lanci di razzi Grad verso l’entroterra israeliano. Il gruppo viene percepito dunque come una grande minaccia dentro e fuori dalla Striscia soprattutto per la sua alta capacità di infiltrare uomini nei campi profughi palestinesi in Siria, come quello di Yarmouk a Damasco, dove si sono registrati importanti infiltrazioni/cooptazioni dell’IS. Anche in considerazione di ciò è stata quasi immediata la reazione di Israele che ha lanciato una serie di raid aerei, anche in risposta ai razzi lanciati verso le città della costa e del Negev.
GITTATA MASSIMA DEI RAZZI PALESTINESI – FONTE: US CONGRESSIONAL RESEARCH SERVICE REPORTS
In realtà nei giorni precedenti l’omicidio di al-Hatar, l’IDF aveva effettuato nuovi pesanti attacchi contro le postazioni di Hamas e del PIJ che si erano resi protagonisti di lanci di razzi verso le città meridionali di Israele, senza tuttavia provocare morti e/o feriti. Lo Stato Maggiore israeliano e il governo hanno deciso di pre-allertare le forze terrestri nel caso di necessità ad un possibile nuovo intervento lungo i confini di Gaza. In questo caso il timore israeliano si lega alle preoccupazioni della dirigenza islamista di Hamas di una possibile penetrazione nella Striscia di frange e soggetti
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ancor più radicali e in grado di trasportare le masse su posizioni sempre più estreme. Si spiega in questi termini il rinnovato attivismo politico di Hamas e il dialogo non ufficiale con i vertici dell’intelligence egiziana per contenere questi gruppi sempre più fuori dalla sua sfera di influenza. Nel solo mese di maggio, Hamas ha effettuato oltre 100 arresti nel movimento salafita palestinese, ritenuto sempre più legato all’IS e alle sue cellule sul territorio.
NIGERIA, 29-30 MAGGIO ↴ Muhammadu Buhari si è insediato come nuovo Capo di Stato della Nigeria. Nel suo primo discorso da Presidente, in cui ha affermato «appartengo a tutti i cittadini,
ma
non
appartengo
a
nessuno»,
ha
sottolineato le principali sfide che dovrà affrontare il suo governo: migliorare il livello di sicurezza del Paese, diminuire la corruzione, risolvere le carenze strutturali di carburante ed energia elettrica e la mancanza di infrastrutture. Sul tema della sicurezza Buhari ha sottolineato la priorità del contrasto al terrorismo di Boko Haram, annunciando il trasferimento del centro di coordinamento dell’esercito da Abuja a Maiduguri, luogo di provenienza e aggregazione del gruppo islamista-salafita, per meglio gestire la controffensiva. La reazione di Boko Haram si è manifestata già nella notte tra il 29 e il 30 maggio con un’ondata di attacchi che hanno colpito Maiduguri, capitale dello Stato del Borno. Si sono verificati scontri tra esercito e ribelli affiliati al movimento, un attentato a una moschea, il lancio di un razzo contro una casa che ha provocato la morte di almeno cinque persone e l’esplosione di due bombe nella città di Tashan Alade. Si stima che dal 2009 l’attività terroristica di Boko Haram abbia causato 15mila morti e 1,5 milioni di profughi.
REGNO UNITO, 28-29 MAGGIO ↴ Dopo la vittoria alle urne nel Regno Unito (7 maggio), il Primo Ministro, David Cameron, ha intrapreso un tour in Europa per sondare la disponibilità di alcuni Paesi a riformare l’Unione Europea per permettere al Regno Unito di restarne parte a fronte del referendum nazionale previsto per il 2017. L’idea di Londra è quella di ottenere maggiore flessibilità politica, sottraendosi al controllo diretto di Bruxelles e riappropriandosi di parte della sovranità ceduta in passato. Cameron ha visitato l’Olanda, la Francia, la Polonia e la Germania. All’Aja, il Premier ha incontrato il suo omologo, Mark Rutte, definendolo «vecchio amico ed
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alleato». A margine, Cameron ha affermato di aver «lavorato insieme per fare in modo che il bilancio europeo sia sotto controllo, abbiamo lavorato insieme sugli accordi commerciali con altre parti del mondo e abbiamo lavorato insieme su un’agenda forte a favore dei mercati e delle imprese». A Parigi, è stato il turno del Presidente François Hollande ad ascoltare le proposte britanniche. «La Francia», ha dichiarato il titolare dell’Eliseo, «vuole che il Regno Unito resti nell’Unione Europea», tuttavia «la volontà della gente deve sempre essere rispettata». Cameron ha ribadito che «lo status quo (dell’UE) non è buono abbastanza» invitando «i suoi 28 membri ad essere flessibili e immaginativi abbastanza per rispondere a certe questioni». In Polonia, la Premier Ewa Kopacz ha sottolineato la necessità che Londra non cada nella tentazione di discriminare i lavoratori polacchi, emigrati in gran quantità in Inghilterra, negando loro l’accesso ai benefit previsti dalla legislazione britannica. La tappa più significativa di Cameron è stata comunque quella a Berlino, dove la Cancelliera, Angela Merkel, si è mostrata piuttosto conciliante. «Dal lato tedesco ci sono chiare speranze che il Regno Unito rimanga membro dell’UE», ha affermato la Merkel, esprimendo il desiderio di trovare rapidamente una soluzione condivisa; anche gli altri 27 Stati dell’Unione, ha continuato, hanno mostrato la «volontà di perseguire questo tentativo». Cameron ha ringraziato e ha concluso che «non esiste una soluzione magica e rapida. L’importante è avviare i negoziati, ci saranno difficoltà e disaccordi, lo sappiamo».
THAILANDIA, 3 GIUGNO ↴ È forte tensione nel Sud della Thailandia in seguito ad un doppio attacco contro militari nelle province di Yala e Pattani, che ha causato quattro morti ed otto feriti. Nel primo attacco, perpetrato nella sera di mercoledì 3 giugno, i quattro commilitoni viaggiavano a bordo di un auto privata quando un gruppo di ribelli ha aperto il fuoco con fucili M-16. Prima di abbandonare la scena del crimine, i ribelli si sono appropriati di tre M-16A2 e di una pistola 380 semi-automatica di proprietà dei militari. Nel secondo attacco, effettuato nella notte tra il 3 e il 4 giugno, alcuni ribelli hanno fatto esplodere un’autobomba al passaggio di un blindato ferendo tutti gli otto militari a bordo. Yala, Pattani e Narathiwat sono le uniche tre province a maggioranza musulmana in un Paese prevalentemente buddista. L’attacco di Yala arriva in risposta alle molteplici investigazioni avviate dalle autorità locali in seguito agli attacchi di maggio nel centro della città, in cui vennero ferite 22 persone. Dall’inizio dell’insurrezione islamica, nel 2004, sono più di 5.000 le vittime; sembrerebbe che l’unico scopo degli attacchi sia poter fondare uno Stato musulmano.
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ALTRE DAL MONDO ALBANIA, 27 MAGGIO ↴ Quella a Tirana tra Edi Rama e Aleksandar Vučić, la prima di un Capo di governo serbo in Albania, rappresenta una visita dall’alto valore politico per i rapporti tra i due Paesi e per la stabilità dei Balcani. Nonostante infatti resti profonda la distanza sul tema del riconoscimento del Kosovo, i due Premier – al loro secondo incontro dopo la missione di Rama dello scorso novembre a Belgrado all’indomani delle tensioni generate dall’incidente del drone avvenuto durante la partita tra le due nazionali – hanno ribadito la necessità di proseguire sulla strada del dialogo reciproco al fine di proseguire nei rispettivi processi di integrazione europea e di rafforzare la sicurezza della regione alla luce dei disordini avvenuti in Macedonia. Rama ha in particolare auspicato che i due Paesi possano seguire il modello franco-tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale per la riconciliazione nello spazio balcanico.
ARABIA SAUDITA, 29 MAGGIO ↴ A distanza di una settimana dall’attentato alla moschea di Qudaih (22 maggio) – costato la vita a 21 persone – un nuovo attacco kamikaze contro la comunità sciita del Qatif (provincia orientale saudita nota anche come al-Sharqiyah), si è registrato questa volta a Dammam, provocando almeno quattro morti. Anche in questa occasione, l’attentato suicida è stato rivendicato dalla branca saudita dello Stato Islamico (IS) con un comunicato pubblicato su Twitter. I due attacchi, entrambi aventi come obiettivo la popolazione sciita delle province orientali, rischiano di trascinare nel Paese le pulsioni settarie esterne, aprendo di fatto ad una nuova stagione di instabilità politica e di insicurezza nel regno degli al-Saud.
BOSNIA-ERZEGOVINA, 6 GIUGNO ↴ A 18 anni dalla storica visita di Giovanni Paolo II, Papa Francesco ha condotto un nuovo viaggio apostolico per la promozione della pace a Sarajevo, città simbolo delle guerre balcaniche degli anni Novanta. All’arrivo all’aeroporto internazionale di Sarajevo, il Pontefice ha trovato, ad accoglierlo, in rappresentanza della presidenza il cattolico Dragan Čović e per l’episcopato locale il cardinale Vinko Puljić, arcivescovo di Sarajevo e Presidente della Conferenza Episcopale bosniaca. Dopo l’incontro con le autorità il Papa ha celebrato la messa nello stadio di Sarajevo, davanti a 65 mila persone, dove ha rinnovato la necessità, per il popolo della Bosnia-Erzegovina, di ritrovare la pace, rispettando le diversità reciproche.
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CAUCASO, 27 MAGGIO ↴ Geidar Djemal, Presidente del Comitato Islamico di Russia, avrebbe nominato Magomed Suleymanov nuovo leader dell’Imarat Kavkaz (Emirato del Caucaso). Sebbene non ancora ufficializzata, la nomina, che giunge a meno di due mesi dall’uccisione dell’Emiro Aliaskhab Kebekov, pare ormai certa. Il nuovo Emiro dovrà far fronte ad un’opposizione interna che accusa ormai da tempo l’Emirato del Caucaso di essere eccessivamente moderato e non più intenzionato realmente a portare avanti la lotta armata. Non è un caso, dunque, l’innegabile aumento delle defezioni tra le fila caucasiche in favore di quelle dello Stato Islamico.
EGITTO, 3-4 GIUGNO ↴ Due agenti di polizia sono stati uccisi in una sparatoria nei pressi delle Piramidi di Giza, nell’area archeologica del Cairo. Secondo quanto riferito dall’agenzia stampa egiziana MENA, i due agenti sono stati colpiti da tre persone sconosciute e fuggite a bardo di una motocicletta. Intanto al Cairo, la Corte di Cassazione ha proceduto ad annullare per vizi procedurali le assoluzioni nei confronti dell’ex Presidente Hosni Mubarak, dei suoi due figli (Ala’a e Gamal), dell’ex Ministro dell’Interno Habib al-Adly e dei suoi collaboratori di partito, fissando l’apertura di nuovi processi al 5 novembre prossimo.
ETIOPIA, 24 MAGGIO ↴ Nelle elezioni parlamentari, il partito del Premier Hailemariam Desalegn, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) ha ottenuto una netta affermazione, conquistando 442 dei 547 seggi disponibili. I principali partiti dell’opposizione hanno rigettato l’esito del voto, sostenendo di non aver avuto la libertà di condurre una campagna elettorale.
GRECIA, 4 GIUGNO ↴ La Grecia pagherà la tranche da 305 milioni di euro al Fondo Monetario Internazionale (FMI) entro la fine del mese di giugno. Il FMI ha confermato che «le autorità greche ci hanno informato che intendono unire in un’unica soluzione i quattro pagamenti che la nazione deve al fondo» che, spiega in una nota il direttore della comunicazione Gerry Rice, dovranno avvenire entro il prossimo 30 giugno, come prevede una clausola adottata dal board esecutivo alla fine degli anni Settanta.
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KENYA, 25-26 MAGGIO ↴ Nella notte tra il 25 e il 26 maggio, nei pressi della città di Garissa, una pattuglia della polizia è saltata su un ordigno artigianale, posizionata dai miliziani al-Shabaab. All’arrivo dei rinforzi ne è seguita una sparatoria che ha causato la morte di un poliziotto. Questo ennesimo attacco degli al-Shabaab in Kenya dimostra la volontà dei jihadisti di voler estendere la propria lotta oltre i confini della Somalia.
LIBIA, 29 MAGGIO ↴ Dopo giorni di furiosi combattimenti contro le milizie di Fajr Libya (Alba Libica) – quest’ultime più o meno legate al governo filo-islamista di Tripoli –, i gruppi libici vicini allo Stato Islamico hanno preso il controllo dell’aeroporto di al-Qardabiya, a Sirte. Intanto le fazioni di Tripoli e Tobruk hanno dato la loro disponibilità a riprendere i dialoghi di pace, mediati dalle Nazioni Unite nella persona del Rappresentate Speciale Bernardino Leon, incontrandosi il prossimo 8 giugno in Marocco.
MALI, 25-28 MAGGIO ↴ Un casco blu della missione ONU in Mali, la MINUSMA, è stato ucciso a Bamako ed un altro ferito, a seguito di un’imboscata tesa da due uomini armati. Un altro attentato ai danni della MINUSMA è stato messo in atto giovedì 28 maggio, e ha causato il ferimento di tre persone. Entrambi gli attentati sono stati rivendicati da al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM).
MACEDONIA, 2 GIUGNO ↴ Le principali parti politiche (VMRO-DPMNE, SDSM, DUI e PDSh) hanno raggiunto un accordo per la soluzione all’attuale crisi politica. L’intesa, mediata dall’Unione Europea nella persona del Commissario per la politica di vicinato e per i negoziati e l’allargamento Johannes Hahn, dovrebbe riguardare in particolare la possibilità di un ricorso ad elezioni anticipate per il prossimo aprile 2016 e l’avvio di un programma di riforme istituzionali in cambio dello sblocco dei negoziati di adesione all’UE con un’apertura (seppur informale) dei capitoli 23 e 24 (sistema giudiziario, diritti fondamentali, sicurezza e libertà). I dettagli verranno tuttavia ufficializzati nel corso di un nuovo round di trattative la prossima settimana a Bruxelles.
POLONIA, 24 MAGGIO ↴ Con il 51,55% dei voti il candidato del partito di destra Diritto e Giustizia, Andrzej Duda, ha vinto il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Polonia. Lo sfidante, il Capo dello Stato uscente, Bronislaw Komorowski, si è fermato al 48,45% dei voti. Il
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neo-eletto si insedierà ufficialmente il 6 agosto quando dovrà giurare davanti all’Assemblea Nazionale. L’elezione di Duda pare andare oltre i confini nazionali per proporsi come una nuova sfida per l’Europa dei partiti populisti. Andrzej Duda non ha mai taciuto, infatti, le proprie posizioni anti-europeiste e contrarie all’entrata della Polonia nell’eurozona. Il prossimo appuntamento elettorale per la Polonia sarà in ottobre con le legislative alle quali spetterà il compito di rafforzare o invertire la scelta del 24 maggio.
RUSSIA, 25 MAGGIO – 1° GIUGNO ↴ Nelle ultime settimane l’Artico è stato teatro di forti tensioni tra Russia e NATO. A partire dal 25 maggio, sia l’Alleanza Atlantica sia la Russia hanno condotto esercitazioni militari su larga scala nella regione, dando una reciproca dimostrazione di forza. Negli stessi giorni, difatti, mentre 3.600 uomini e 115 velivoli militari della NATO e dei Paesi scandinavi si sono radunati nelle aree settentrionali scandinave, oltre il confine russo, nella regione tra gli Urali e la Siberia, la Russia ha organizzato un’attività addestrativa non pianificata, schierando sul campo 12.000 uomini e 250 aerei militari. Per tutta risposta, a partire dal 1° giugno, la NATO ha iniziato una nuova attività addestrativa negli Stati Baltici e in Polonia, schierando 6.000 soldati di 13 Stati differenti.
SPAGNA, 24 MAGGIO ↴ Le elezioni regionali spagnole hanno confermato la forza di Podemos, il partito di sinistra guidato da Pablo Iglesias. Nonostante i risultati delle elezioni svoltesi in 13 regioni e 8.000 comuni abbiano confermato, in generale, che il Partito Popolare e il Partito Socialista sono ancora le principali formazioni spagnole, Podemos e Ciudadanos sono diventate le terze forze del Paese, arrivando a conquistare anche l’importante municipalità di Barcellona.
STATI UNITI, 29 MAGGIO - 3 GIUGNO ↴ Negli Stati Uniti è decaduto il Patriot Act, la legge promulgata negli anni dell’amministrazione di George W. Bush all’indomani degli attentati dell’11 settembre per incrementare la sorveglianza nelle comunicazioni all’interno dei confini americani. In sostituzione, il 3 giugno il Presidente Obama ha firmato il Freedom Act che permetterà comunque alle autorità statunitensi di controllare il flusso di informazioni con il consenso delle compagnie telefoniche. Intanto, procede il riavvicinamento tra gli USA e Cuba: L’Avana è stata cancellata dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo.
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TUNISIA, 25 MAGGIO ↴ Un caporale in congedo ha aperto il fuoco contro i propri commilitoni nella base di Bouchoucha, a Tunisi. Il bilancio della sparatoria è di sette morti, tra cui l’attentatore, e almeno dieci feriti. Le autorità tunisine hanno escluso la matrice terroristica, nonostante la rivendicazione di un gruppo jihadista legato allo Stato Islamico.
TURCHIA, 6 GIUGNO ↴ La vigilia del voto delle prossime elezioni parlamentari (7 giugno) è stata segnata dall’attentato che ha causato la morte di quattro persone e il ferimento di oltre 350 durante il comizio elettorale del Partito Democratico Curdo (HDP) a Diyarbakir. In un clima di forte tensione, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è inoltre scagliato contro la stampa nazionale, minacciando il direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, Can Dündar, per la pubblicazione di un reportage che attesterebbe il finanziamento dei gruppi armati jihadisti operanti in Siria. La procura di Istanbul ha chiesto l’ergastolo per Dündar.
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ANALISI E COMMENTI LO STATO ISLAMICO E IL CALIFFATO: ELEMENTI E LINEE EVOLUTIVE SIMONE VETTORE ↴ A metà strada tra l’invocazione profetica e l’appello accorato, terminava il primo scritto in lingua italiana diffuso dallo Stato Islamico (IS); un testo dal chiaro intento propagandistico ma che probabilmente non è stato adeguatamente analizzato. Infatti da un lato, complici le concomitanti notizie provenienti dalla Libia, ci si è soffermati essenzialmente sul passaggio relativo ai propositi di conquista, dall’altro si è posto l’accento sul fatto che i destinatari del messaggio fossero chiaramente i musulmani di seconda generazione nati e cresciuti in Italia, vista dunque come terra in cui fare proselitismo. In effetti dei 14 capitoli per 64 pagine che compongono lo scritto, solo due (11 e 13) parlano, peraltro in termini estremamente generici, di “politica estera”; il resto è tutto un alternarsi di citazioni dal Corano, di interviste ad esponenti dell’IS, di foto e di descrizioni della quotidianità nelle terre del califfo (…) SEGUE >>>
EUROPA VS GAZPROM: LA REGOLAZIONE DEL MERCATO COME ATTO POLITICO? CLAUDIO GIOVANNICO ↴ Con una comunicazione formale degli addebiti (statement of objections), presentata lo scorso 22 aprile, la Commissione europea ha concluso l’indagine antitrust avviata nel 2012 nei confronti del colosso dell’energia russa Gazprom, accusandolo di pratiche commerciali considerate in violazione della normativa UE in materia di mercati del gas. Secondo Bruxelles, l’azienda controllata dal Cremlino agirebbe quasi come un secondo-Stato, perseguendo una vera e propria strategia di separazione dei mercati del gas dell’Europa Centrale e Orientale e abusando, de facto, della propria posizione dominante all’interno dei mercati di otto Paesi dell’Unione Europea: Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. Nello specifico, l’accusa mossa dalla Direzione Generale Concorrenza della Commissione europea si svilupperebbe su tre fronti (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net
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