World Crisis Watch N°3 2013

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Osservatorio Aree di Crisi N° 3, 6 ottobre 2013

INFOGRAFICA DEL MESE: L’instabilità del Mali

WORLD CRISIS WATCH – in Focus AFGHANISTAN – Alla vigilia delle nuove elezioni presidenziali e del ritiro delle truppe di ISAF, entrambe fissate per il 2014, vi sono nuovi importanti sviluppi in Afghanistan. L'ex avversario di Hamid Karzai alle elezioni del 2009, Abdullah Abdullah, ha annunciato ufficialmente che correrà per la massima carica istituzionale al termine di un negoziato con il partito HezbiIslami; insieme a lui, si è candidato anche il capo della Commissione per la Sicurezza della Transizione, Ashraf Ghani Ahmadzai. Sul versante diplomatico, è stato fissato il summit dei Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza Atlantica incentrato sulla conclusione della missione ISAF; il vertice si terrà, come annunciato da David Cameron, in Gran Bretagna in una data ancora da decidere. L’agenda sarà prevedibilmente incentrata sulla capacità delle Forze afghane di garantire la sicurezza di un territorio che tuttora è vittima di attacchi degli insorgenti. Se Kabul si dimostra fiduciosa sulla tenuta dell’Afghan Army, così non è Washington e, in particolare, il Pentagono, come annunciato in un suo recente report. Proprio gli Stati Uniti stanno spingendo per la definizione dei contenuti della ‘partnership strategica’ con l’Afghanistan,

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che contribuirà a definire il quadro di sicurezza generale. Un alto funzionario della Difesa americana ha definito una “tragedia” se l’accordo non venisse siglato. In effetti, sembrano esserci cospicue divergenze tra Washington e Kabul in merito. Anzitutto, come riferito da Karzai, dal concetto di ‘aggressione straniera’: “siccome nessun Paese probabilmente ha intenzione di muoversi apertamente in armi contro di noi, dobbiamo convincerci che le aggressioni straniere sono altre”, facendo riferimento al flusso di miliziani che infoltiscono le fila degli insorgenti in Afghanistan; “se gli Americani non ci sostengono per contrastarli – ha continuato – a che cosa servirebbero le loro basi qui?”. Un’altra questione bilaterale in attesa di risoluzione è la war on terror americana sul suolo afghano, in altre parole la ‘caccia’ ad al-Qaeda, che gli Stati Uniti vorrebbero condurre in autonomia dal governo di Kabul: nelle parole di Karzai, “non siamo d’accordo e consideriamo questa ipotesi una violazione della nostra sovranità. Vittime civili per la nostra popolazione nei loro raid sono inaccettabili”. Il Segretario alla Difesa statunitense, Chuck Hagel, ha dichiarato, forse con un eccesso di fiducia, che l’accordo sarà trovato entro la fine di ottobre. Nel frattempo, anche il governo del Pakistan, nel tentativo di proporsi alla comunità internazionale come interlocutore affidabile, sta cercando di contribuire all’opera di pacificazione dell’Afghanistan sul fronte diplomatico. Islamabad avrebbe avviato un dialogo con il principale movimento dei talebani pakistani, Tehrik-e-Taleban Pakistan, i cui esponenti avrebbero accettato dietro esplicito invito di alcuni leader religiosi. Inoltre, a margine dell’avvio dei lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Primo ministro pakistano, Nawaz Sharif, e il suo omologo indiano, Manmohan Singh, si sono incontrati per cercare un fronte comune per fermare le violenze che colpiscono entrambi i Paesi e, secondo le intenzioni di Sharif, per siglare una nuova alleanza da estendere poi a Kabul, anzitutto a sostegno della credibilità diplomatica del Pakistan. AFRICA OCCIDENTALE (NIGERIA/MALI) - E' di almeno 143 vittime il bilancio

dell'attentato terroristico

avvenuto lo scorso

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settembre a Benisheik, nello Stato di Borno, nella Nigeria nordorientale. L 'attacco, ad opera del gruppo fondamentalista di Boko Haram e condotto anche nelle aree limitrofe alla città e nella strada che unisce Maiduguri (la capitale di Borno) con Damaturu (capitale dello Stato di Yobe, altra area sensibile all'azione dei Boko Haram) dove sono state incendiate case ed edifici, non è stato tuttavia l’unico durante il mese di settembre: domenica 30, infatti, un commando di ribelli estremisti ha preso d’assalto la facoltà di Agricoltura di Gujba, sempre nello Stato di Yobe, non lontano da Damaturu, uccidendo almeno 50 studenti ospitati nei dormitori della struttura, ferendone decine e mettendone in fuga almeno 1000. Già nello scorso luglio, nel villaggio di Mamud i miliziani avevano attaccato il dormitorio di una scuola: 42 i morti, di cui la maggior parte studenti; poche settimane prima, nello Stato confinante di Kano, un assalto a una scuola era costato la vita a 13 giovani e ad alcuni professori. Di minore impatto, ma ugualmente gravi, anche gli assalti al villaggio di Zangang, dove hanno perso la vita nei roghi almeno 11 persone, e nel distretto di Kunumburi, dove tra le 21 vittime risulta anche un capo villaggio. La nuova raffica di attentati sono con ogni probabilità una risposta al raid compiuto dalle forze di sicurezza di Abuja lo scorso 12 settembre contro un campo fortificato del gruppo in cui avrebbero perso la vita 150 islamisti oltre a 16 soldati nigeriani e fanno di fatto definitivamente saltare il già precario accordo di pace tra 3


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ribelli e Governo raggiunto lo scorso 8 luglio a seguito di una massiccia campagna anti-terroristica nelle aree settentrionali del Paese – non ancora del tutto completata – da parte del Presidente Goodluck Jonathan con la quale tuttavia non tutte le autorità politiche si sono trovate d’accordo: l'ex capo di Stato Maggiore, l'influente generale Martin Luther Agwai, ha infatti dichiarato: “Non si può risolvere il problema con la forza militare, non siamo in guerra, non stiamo combattendo un invasore. Il problema è politico, sociale, economico, serve questo approccio per risolverlo”. Abuja sta intanto cercando di proseguire sulla strada dei negoziati anche con l’altro gruppo terroristico presente sul territorio, Jamaatu Ansarul Musilimina fi Biladis Sudan (Avanguardia per la protezione dei musulmani nell’Africa nera), meglio conosciuto come Ansaru, che secondo alcuni sarebbe una formazione scissionista di Boko Haram, mentre per altri una costola stessa del movimento jihadista. A rischio rottura è anche l'intesa trovata lo scorso 18 giugno tra i ribelli tuareg del nord del Mali e il governo di Bamako: i ribelli del Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad (MNLA), dell'Alto Consiglio per l'Unità dell'Azawad (HCUA) e del Movimento Arabo dell'Azawad (MAA) hanno infatti deciso di sospendere l'accordo accusando il governo centrale di non aver rispettato le condizioni, specialmente con riferimento alla mancata scarcerazione dei detenuti ribelli nelle carceri di Bamako e, in particolare, allo status della regione settentrionale. Su questo punto il neo-Presidente Ibrahim Boubacar Keita, eletto lo scorso 11 agosto dopo aver battuto l’ex Ministro delle Finanze Soumailà Cissé, è stato chiaro: il suo governo non negozierà mai l'integrità del Mali. Nel nord continuano intanto le scorrerie dei tuareg nelle zone di Gao e Kidal e l'emissario ONU per il Sahel, Romano Prodi, ha dichiarato che il livello di fragilità resta alto e che la possibilità di attività terroristiche resta elevata. Dopo scontri di piccola entità proprio nelle aree circostanti Kidal e presso un check-point al centro del capoluogo tra soldati regolari e presumibilmente alcuni combattenti della ribellione tuareg (anche se non è ancora chiaro chi per primo ha aperto il fuoco), il 28 settembre una base dell’esercito maliano a Timbuctù, nel Nord-Ovest del Paese, è stata oggetto di un attentato kamikaze, rivendicato poi da al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), in cui hanno perso la vita 4 terroristi e 2 civili. ESTREMO ORIENTE – Le tensioni in Asia, che hanno coinvolto la penisola coreana e i due ‘giganti’ Giappone e Cina nel corso degli ultimi mesi, stanno attraversando una nuova fase di incertezza. Per ciò che concerne la questione della Corea, il Nord da un lato appare deciso a non abbandonare la sua retorica di guerra, dall’altro sembra non voglia rinunciare a riavviare i vari progetti di cooperazione e distensione con il Sud. In questo senso, il passo più importante è stata la recente riapertura di un complesso industriale in Corea del Nord gestito congiuntamente da Pyongyang e da Seul. Il Presidente dell’Assemblea Suprema del Popolo della Corea del Nord, Kim Yong Nam, ha dichiarato recentemente che l’obiettivo del suo Paese è di concentrarsi sul miglioramento della difficile situazione economica attraverso un incremento del tenore di vita; Kim ha aggiunto che per perseguire tale fine è necessario che gli Stati Uniti abbandonino una “politica ostile” verso Pyongyang : "Non ci sarebbe alcun motivo per noi di coltivare cattivi rapporti con gli Stati Uniti se il governo americano abbandonasse la sua politica ostile e optasse per un cambiamento, in virtù del rispetto della 4


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nostra sovranità e del nostro diritto di scegliere". Si rincorrono però altre voci meno distensive, che suggeriscono che la Corea del Nord avrebbe riavviato un reattore nucleare di eredità sovietica, già utilizzato in passato per ottenere plutonio e costruirsi la propria bomba atomica. Il riavvio del reattore significherebbe che il Paese sarebbe deciso a riavviare la produzione, dando così reale seguito alle minacce nucleari che dal 2007 – anno in cui entrò in vigore, seppur per breve tempo, un accordo con Washington – vengono regolarmente reiterate. Nel frattempo, a poche centinaia di chilometri di distanza, le tensioni tra Tokyo e Pechino sulle isole Senkaku, le isole giapponesi contese dalla Cina nel Mar Cinese Orientale, restano vive; nel corso degli ultimi mesi, più volte navi e aerei cinesi hanno continuato ad accedere alle zone intorno alle isole. Il Primo Ministro del Giappone, Shinzo Abe, ha ribadito che il suo governo è deciso a non arretrare dalla propria posizione a sostegno dell’indiscussa sovranità giapponese; Abe ha però aggiunto che, al di là della non-negoziabilità della sovranità, la porta è sempre aperta per il dialogo con la Cina. In una conferenza stampa a margine dell’avvio dei lavori dell’Assemblea Generale dell’ONU, Abe ha dichiarato che "Noi non cerchiamo alcun compromesso sulla sovranità delle Senkaku. [Ma] non è giusto chiudere la porta [del dialogo con la Cina] dato che ci sono sfide da affrontare. C’è la necessità di avere colloqui, anche a livello di summit". La Cina, però, benché abbia apparentemente abbandonato l’acceso nazionalismo, è decisa a rivendicare i propri diritti sulle Diaoyu (la denominazione cinese delle Senkaku). Infatti, due settimane prima delle parole di Abe, il 9 settembre, un drone cinese – come riconosciuto dallo stesso Ministero della Difesa di Pechino – ha sorvolato lo spazio aereo delle isole contese, spingendo l'aeronautica giapponese a far alzare in volo i propri caccia. Il Ministro della Difesa giapponese, Itsunori Onodera, ha notificato l’incidente all’Ambasciata della Cina a Tokyo, sottolineando come il drone abbia violato un’area il cui attraversamento, con tanto di informazioni di volo, avrebbe dovuto essere prima notificato alle autorità giapponesi e da queste, eventualmente, autorizzato. FILIPPINE – Sono in corso dall’inizio di settembre scontri tra l’esercito di Manila e i guerriglieri del gruppo separatista islamico del Moro National Liberation Front (MNLF) nell’area di Zamboanga, nella parte meridionale dell’arcipelago. Con la liberazione degli ultimi 195 civili tenuti in ostaggio, il bilancio delle vittime dopo venti giorni di battaglia è di 166 ribelli uccisi e di altri 23 soldati filippini e almeno una decina di civili morti. Altri 238 ribelli sono stati invece arrestati e saranno processati. L’offensiva messa in atto dallo scorso 9 settembre da un commando di qualche centinaia di ribelli – giunti via mare dalla regione di Mindanao sulle coste di Rio Hondo e a cui si è immediatamente opposto un nucleo di 800 soldati dell’esercito regolare nazionale – sarebbe scaturita a seguito della dichiarazione unilaterale di indipendenza della regione di Zamboanga da parte dello stesso gruppo in risposta ai negoziati di pace attualmente in corso tra il governo centrale e un altro gruppo di ribelli sunnita – il Moro Islamic Liberation Front (MILF), fuoriuscito dal MNLF nel 1984. La recente intesa (13 luglio) di Kuala Lumpur sulla condivisione delle risorse naturali (il 75% di oro, rame e altri estratti dell’isola meridionale andranno ai dissidenti del MILF) fa infatti seguito all’accordo quadro sul Bangsamoro (FBA) – firmato il 15 ottobre dello scorso anno e mediato dalla vicina Malesia e da un Gruppo di Contatto 5


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Internazionale creato appositamente nel 2009 composto da Regno Unito, Giappone, Turchia, Arabia Saudita e dalle rappresentanze di quattro ONG, l'Asia Foundation, il Centro per il Dialogo Umanitario, il Conciliation Resources e l'indonesiana Muhammadiyah – che, concedendo ai musulmani del Mindanao (dove rappresentano la maggioranza della popolazione) maggiore autonomia (ma non indipendenza) e accordando agli 11mila uomini del MILF più poteri economici e politici, ha tentato di risolvere definitivamente un conflitto che dura da oltre 40 anni e che è costato 120mila vite umane. Il compromesso trovato durante l’estate ha così aperto la strada al completamento del FBA, che prevede la creazione della nuova regione entro il 2016 (che sostituirà proprio quella dell’Autonoma Regione nel Mindanao Musulmano ARMM, creata nel 1996 dall’unione delle province di Basilan, Lanao del Sur, Maguindanao, Sulu e Tawi-Tawi e che lo stesso Presidente ha definito un “esperimento fallito”) con la fine del mandato del Presidente Benigno Aquino, ma non risolve ancora molti problemi sul tappeto: non solo il trasferimento di alcuni importanti poteri (tra cui soprattutto quelli relativi alla gestione delle forze di sicurezza) e la garanzia dei diritti umani per la popolazione musulmana, ma anche e soprattutto il disarmo di tutte le milizie ribelli, tra cui il Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (BIFF), una milizia fuoriuscita nel 2011 dal MILF che opera sempre nell'area di Bangsamoro e che non ha accettato l’intesa del 2012, e il gruppo fondamentalista Abu Sayyaf, nato negli anni Novanta e presumibilmente legato al network di al-Qaeda che opera prevalentemente nelle isole di Jolo e di Basilan. Il rischio, dunque, è che la ripresa delle ostilità del MNLF nei confronti di Manila e della fazione MILF rinfocoli le spinte estremiste degli altri gruppi, vanificando gli sforzi di pace e, complessivamente, la stabilità dell’intero arcipelago e del Sud Est asiatico, strategico com’è per la lotta al terrorismo islamista regionale e dove a questo proposito, ed impegnate nell’addestramento delle forze armate locali, in operazioni di intelligence e in missioni di ricostruzione civile, sono schierate truppe statunitensi non-combat. IRAQ – Non accennano a placarsi le violenze settarie nel Paese mediorientale ormai sconvolto da quotidiani attentati. L’ultima mattanza di sabato 5 ottobre parla di cinque attentati avvenuti tra Baghdad e Mosul che hanno provocato la morte di 48 civili. Almeno 23 fedeli sciiti diretti al mausoleo di Mohammed alJawad, il nono imam per gli sciiti duodecimali, sono stati uccisi nel quartiere di Adhamiyah nella zona Nord di Baghdad. A Balad, area Nord della capitale, un kamikaze si é fatto saltare in aria in un caffè uccidendo almeno 12 persone. Altre vittime si sono registrate a Muqdadiyah e a Bayaa, quartieri nei dintorni di Baghdad. Tra le vittime ci sono anche un reporter e un cameraman della televisione irachena al-Sharqiya uccisi invece a Mosul. Cifre, queste, che confermano i dati preoccupanti diffusi pochi giorni fa dall’UNAMI (United Nations Assistance Mission for Iraq), la missione internazionale ONU di stanza nel Paese mediorientale che ha contato 979 vittime e 2.133 feriti nel solo mese di settembre. Numeri, questi, ritenuti sottostimati dalle ONG internazionali e che dovrebbero essere più verosimilmente vicini ai 1.271 deceduti e diverse migliaia di feriti. Si tratta di uno dei dati mensili più sanguinosi registrati negli ultimi anni. Anche se il mese peggiore in termini di stragi per gli attentati è stato lo scorso luglio, quando le vittime sono state 1.057. La città più colpita da atti di violenza politica è stata Baghdad, dove a settembre si sono registrati 418 morti e 1.011 feriti. Nei primi 5 giorni del 6


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mese di ottobre le vittime sono già 110 ed oltre 5.900 dall'inizio dell'anno, uno dei peggiori dal terribile triennio 2006-2008 che insanguinò l'Iraq. Gli attacchi sono stati quasi tutti rivendicati dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISI) e da al-Qaeda in Iraq (AQI), gruppi affiliati alla centrale afghana di al-Qaeda che hanno sfruttato lo scoppio della guerra civile siriana e le tensioni settarie e che hanno cavalcato il malcontento sunnita per scatenare una violenta campagna di attentati. Gli estremisti hanno giustificato le violenze come “una risposta ai continui attacchi alla comunità sunnit da parte del governo”. A più di dieci anni dall’invasione americana e a due dal ritiro delle truppe americane dall’Iraq che lasciarono la difesa del Paese alle deboli e impreparate forze di sicurezza nazionali, questi episodi confermano ancora una volta come il conflitto settario in corso in Iraq stia acquisendo sempre più connotati di natura politica. Il Premier Nouri alMaliki, che molti sunniti accusano di politiche discriminatorie nei confronti della loro comunità, ha portato avanti in questi anni politiche di sostanziale accentramento dei poteri e di graduale emarginazione dei principali esponenti politici della comunità sunnita. Tuttavia le profonde divisioni anche all’interno del fronte sunnita non facilitano un processo di coesione nazionale. Nikolai Muladinof, Rappresentante Speciale in Iraq del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, ha fatto appello a tutti i leader politici, religiosi e sociali e alle forze di sicurezza perché lavorino insieme per la “fine degli attentati” e creino le “condizioni per una maggiore coesione nazionale”. Oltre alle tensioni settarie tra sunniti e sciiti, il tema della sicurezza è da ricondursi ai problemi legati allo sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio nel Kurdistan iracheno e alle rivendicazioni autonomiste di quest’ultimo. Intanto la scorsa settimana (21 settembre) si sono tenute le elezioni locali che hanno decretato, con il 37% delle preferenze (e dunque con 42 seggi dell'Assemblea di Erbil), la vittoria del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Massud Barzani, riconfermandosi così alla guida della regione irachena. A sorpresa seconda forza del Parlamento curdo è il Gorran – Movimento per il Cambiamento, fondato nel 2009 da Nawshirwan Mustafa, che ha conquistato 24 seggi. Solo terza l'Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) del Presidente della Repubblica irachena Jalal Talabani, che potrà contare su 18 seggi. A pesare su questo risultato anche le difficili condizioni di salute proprio del Capo dello Stato. Alle consultazioni del 2007 PDK e PUK avevano partecipato con una lista unica ottenendo 70 seggi. Flop dei tre partiti islamici in lista – primo fra tutti il Kurdistan Islamic Union (KIU), la frangia curda della Fratellanza Musulmana –, danneggiati dalle vicende egiziane e dalla guerra dichiarata dai qaedisti contro la minoranza curda in Siria. Al di là del risultato, che fa pendere l'ago dell'alleanza più verso l'ala di Barzani, queste consultazioni rappresentano un momento fondamentale nella vita politica della regione e dell'Iraq: la prima e la più grande sfida è infatti la prospettiva indipendentista del Kurdistan iracheno (che tra l'altro dal punto di vista economico-commerciale agisce già in maniera completamente distaccata dal governo centrale) in un momento in cui, tra l'altro, il Paese è attraversato da divisioni etnico-settarie che rischiano di far scivolare Baghdad in una guerra civile. La seconda questione, invece, sarà la gestione dei rapporti con le altre componenti curde in Turchia, Siria, e Iran, finora non scevri da tensioni. L’escalation di violenze a sfondo settario, la contrapposizione tra arabi e curdi, la fragilità delle procedure democratiche per conferire legittimità alle istituzioni irachene e la sempre più intrusiva influenza delle potenze regionali, rischiano di fare nuovamente dell’Iraq un terreno di scontro per l’intero Medio Oriente.

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TUNISIA – Dopo mesi di stallo politico dettato dalle tensioni derivanti dagli omicidi di Chokri Belaid e Mohammed Brahmi, leader dell’opposizione laica e di sinistra, Ennahda ed Ettakatol, due dei tre partiti della maggioranza di governo, hanno accettato di iniziare il cosiddetto Dialogo Nazionale con le opposizioni per fare uscire la Tunisia dalla crisi. Rimasto invece su posizioni critiche il terzo partito della maggioranza, Congresso per la Repubblica, che non intende firmare l'accordo anche in virtù della traballante posizione del suo leader e Capo di Stato Moncef Marzouki – recentemente coinvolto in una dura polemica con le autorità egiziane per la sua dichiarazione in favore della scarcerazione del Presidente egiziano Mohammed Mursi – che, in base all’accordo sottoscritto la settimana scorsa, dovrebbe essere sostituito con Béji Caïd Essebsi, ex Ministro degli Esteri sotto Bourghiba e leader di Nidaa Tounés, principale forza centrista di opposizione e in grande ascesa nei sondaggi elettorali. Il documento, stilato dal cosiddetto quartetto, il gruppo di quattro mediatori della società civile – l’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT), l’Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA), Ligue tunisienne des droits de l’homme (LTDH) e l’Office National de l’Artisanat Tunisien (ONAT) –, sancisce la nomina di un Primo Ministro indipendente ma scelto da Ennahda (entro una settimana), le dimissioni dell’attuale esecutivo – sebbene questo sia ancora ufficialmente in carica – e la formazione di un governo non politico ad interim (in un paio di settimane) che traghetti il Paese ad elezioni anticipate (presumibilmente nei primi mesi del 2014). Intanto le forze aderenti al Dialogo Nazionale dovranno portare a termine i lavori nell’Assemblea Costituente redigendo sia la nuova Carta fondamentale sia una nuova legge elettorale entro tre settimane. La crisi, nata con l’uccisione del deputato Brahmi e accelerata dalle incessanti manifestazioni di protesta avvenute durante tutta l’estate avevano di fatto posto le condizioni per una vera e propria paralisi politica ed economica dello Stato. Tensioni, queste, connesse con le questioni legate alla sicurezza interna e a quelle delle frontiere che hanno reso il Paese particolarmente vulnerabile alla penetrazione di gruppi armati più o meno legati alla galassia qaedista di AQIM e per lo più provenienti dal confine meridionale e condiviso con Algeria e Libia. Ennahda, infatti, ha pagato l’ambiguità del proprio rapporto con alcune realtà salafite violente come il movimento di Ansar al-Sharia, inserito di recente dalle autorità nazionali nella black list delle organizzazioni terroristiche. Infatti, secondo le indagini del forze di polizia coordinate dal Ministro degli Interni Lofti Ben Jeddou, il gruppo salafita sarebbe responsabile della morte di Belaid e dello stesso Brahmi. Sempre Ben Jeddou ha comunicato che gli ultimi blitz effettuati da polizia e militari hanno portato all’arresto di oltre trecento terroristi dislocati nel Sud della Libia e pronti a combattere il jihad in Siria. Questi uomini sono legati alla formazione jihadista di alMurabitun, gruppo costituito di recente e guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, nato da una fusione del gruppo algerino Katiba al-Mulathimin, comandato dallo stesso Belmokhtar, e il MUJAO (Movimento per l’Unicità e il Jihad in Africa dell’Ovest). Nelle passate settimane il governo tunisino aveva dovuto lanciare una pesante controffensiva aerea e terrestre di counter-terrorism, in collaborazione con i vicini algerini, nell’area tra i Monti Chaambi e il wilayat algerino di el-Oued.

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Photo credits: Asiainfo.org, Exploring Africa, Lonely Planet.

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Coordinamento editoriale a cura di Maria Serra, Giuseppe Dentice, Davide Borsani

Questa opera è distribuita con licenza Creative Commons - Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.

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