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Osservatorio Aree di Crisi N° 4, 10 novembre 2013
INFOGRAFICA DEL MESE: RD Congo: la crisi nel Kivu
WORLD CRISIS WATCH – in Focus AFPAK – Gli Stati Uniti e l’Afghanistan hanno raggiunto un accordo di massima per definire il quadro di cooperazione dopo il ritiro delle truppe alleate nel 2014 dal Paese asiatico. L’accordo, di cui non sono stati resi noti i dettagli, permetterebbe di mantenere parte dei soldati statunitensi sul suolo afghano con il consenso del governo e dei gruppi tribali, ma senza essere sottoposte alle leggi nazionali e godendo così dell’immunità diplomatica. La bozza preliminare è stata approvata dalla Loya Jirga, una sorta di assemblea ‘parlamentare’ tribale. Il Presidente afghano Hamid Karzai ha affermato che tale accordo preliminare accoglie le sue istanze in relazione al rispetto della sovranità nazionale e alla lotta al terrorismo: “abbiamo raggiunto una specie di accordo: gli Stati Uniti non condurranno più operazioni militari da soli. Abbiamo ottenuta una garanzia per la sicurezza del popolo afghano. Ed abbiamo anche delineato una chiara definizione di ‘invasione’”. Il Segretario di Stato americano John Kerry aveva dichiarato che un accordo definitivo e dettagliato doveva essere raggiunto entro il 31 ottobre; ciononostante, non vi sono notizie di ulteriori progressi in merito. È comunque trapelato che le truppe americane che stazioneranno in Afghanistan dopo il 2014 dovrebbero essere composte tra le
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cinquemila e le diecimila unità, rispetto alle cinquantaduemila attualmente presenti; alcune basi dovrebbero inoltre essere ‘affittate’ a Washington per un periodo attualmente indefinito. Il Presidente statunitense, Barack Obama, come riportato dal New York Times, "non si è formalmente impegnato a schierare una forza residuale e non ha detto quanto grande potrebbe essere". L’amministrazione Obama pare inoltre non intenzionata a sottoscrivere l’accordo in forma di trattato, evitando così di sottoporlo al Senato per la ratifica. A Kabul in molti guardano con fiducia ad un rapido raggiungimento dell’accordo, dato che, come ha ricordato un anonimo ufficiale militare afghano, “senza l’aiuto degli Stati Uniti dopo il 2014 non c’è dubbio che il nostro Esercito e le nostre forze di polizie si troveranno in difficoltà”. Il Mullah Omar, capo dei talebani, ha avvertito di “gravi conseguenze” per “gli invasori e i loro alleati” in caso di definitivo accordo tra Kabul e Washington: il mantenimento di basi militari americane in Afghanistan “non sarà mai accettato. La jihad armata contro gli invasori proseguirà anzi con impeto maggiore”. Nel frattempo, era parso ad inizio ottobre che il processo di pace e il dialogo con gli insorgenti, con l’intenzione di spaccarne il fronte, fosse giunto ad un punto di svolta. Il leader dei talebani pakistani Hakimullah Mehsud si era detto pronto a “colloqui seri” con Islamabad in un’intervista alla BBC. Parallelamente, in Afghanistan Karzai aveva riferito di volere inserire uomini vicini ai talebani nel governo. A distanza di pochi giorni, però, un attacco di un drone statunitense in Pakistan ha ucciso Mehsud; il che ha provocato risentimento sia in quelle fazioni che parevano disposte al dialogo con il governo di Islamabad il quale, prontamente, ha annunciato ancora una volta di volere “rivedere” i rapporti con gli Stati Uniti. Al posto di Mehsud è stato eletto come nuovo leader Maulana Fazlullah, che ha già dichiarato che i tentativi di dialogo prospettati dal suo predecessore sono da considerarsi decaduti. Come dichiarato da un alto esponente dei talebani pakistani, “in nome della pace tutti i governi ci imbrogliano e ci uccidono. Siamo certi che il Pakistan ha acconsentito all’attacco del drone statunitense” che ha ucciso Mehsud. EGITTO - Il 4 novembre è iniziato presso l’Accademia di Polizia del Cairo l’atteso processo con l’ex Presidente Mohammed Mursi e altre 14 persone del Partito Libertà e Giustizia – braccio politico legato alla Fratellanza Musulmana – accusate di “istigazione alla violenza, teppismo, tortura e uccisione di 7 manifestanti dinanzi al palazzo presidenziale di al-Ittihadiyah” a Heliopolis (Il Cairo) lo scorso 5 dicembre 2012. La prima udienza – durata pochi minuti perché gli imputati scandivano slogan contro i giudici contestando la legittimità della Corte – ha offerto alcuni momenti di tensione quando il Presidente deposto ha denunciato il golpe che lo ha rimosso nel luglio scorso e quello che ha definito un “processo farsa”. Mursi, inoltre, si é rifiutato di rispondere alle domande dei giudici, ai quali si è rivolto proclamandosi come “il Presidente legittimo del Paese”. L’udienza è stata poi ripresa per pochi minuti con il giudice che ha deciso di aggiornarla all’8 gennaio. Mursi è stato poi condotto in elicottero al penitenziario di Borg el-Arab ad Alessandria e non alla prigione di Torah, al Cairo, dov’era imprigionato dallo scorso 3 luglio insieme agli altri leader della Fratellanza. Tensione che dalle aule si è trasferita anche nelle piazze e nelle strade immediate la Corte. A 3
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margine della prima seduta, infatti, sono avvenuti diversi incidenti tra forze dell’ordine e i manifestanti proMursi e Ikhwan. Intanto la famosa road map che dovrebbe stabilire le tappe della transizione egiziana sta incontrando alcune difficoltà dettate dai ritardi sull’uscita del primo draft del testo costituzionale ancora in discussione. Numerosi i nodi che il Comitato dei 50 – che non include rappresentanti della Fratellanza – non è ancora riuscito a sciogliere. Fra questi il ruolo delle forze armate, la trasparenza del loro bilancio, la presenza o meno della sharia – la legge islamica, come principio del diritto – e il sistema di pesi e contrappesi politici (da sistema presidenziale ad uno semipresidenziale con maggiori poteri al Primo Ministro). Divergenze, queste, che hanno fatto ammettere al Ministro degli Esteri egiziano Nabil Fahmy i ritardi nella road map delineata a luglio dal Generale Abdel Fattah el-Sisi. Infatti, in un’intervista rilasciata lo scorso 8 novembre all’agenzia Reuters, Fahmy ha affermato che tra “febbraio e marzo avverranno le elezioni parlamentari, le presidenziali prima dell'estate e nuova costituzione e referendum entro dicembre di quest'anno”. Oltre all'indicazione delle date, Fahmy ha rivelato, inoltre, che “Libertà e Giustizia non è illegale in Egitto e potrà quindi partecipare alle prossime elezioni” e che il governo dovrebbe annunciare il 14 novembre la fine dello stato d'emergenza, in vigore nel Paese dalle violenze ferragostane, anche se le tensioni e gli scontri non accennano a diminuire. Nonostante ciò, le maggiori preoccupazioni delle autorità sono rivolte alla situazione caotica del Sinai: qui si ripetono con regolarità attacchi contro i check-point militari e delle forze di polizia, in particolare nella zona tra il villaggio di Sheikh Zuweyyd, el-Arish e Rafah, vicino al confine israeliano e la Striscia di Gaza, dove sono attive numerose cellule qaediste e jihadiste. Dallo scorso agosto l'esercito egiziano ha lanciato un’operazione militare nel Nord Sinai contro gli estremisti e nell’ultima azione, nel villaggio di el-Sabkha, i militari hanno ucciso 8 militanti islamisti. Nel frattempo a livello diplomatico importanti leader internazionali si sono recati o si dovranno recare al Cairo per alcuni rilevanti colloqui bilaterali con le autorità locali. Il 2 e 3 novembre hanno iniziato gli USA, i quali hanno riattivato con il Segretario di Stato John Kerry i canali ufficiali temporaneamente congelatesi dopo il golpe del 3 luglio. Kerry nella capitale egiziana ha incontrato il Presidente ad interim Adly Mansour e Fahmy. In particolare, intrattenendosi con quest’ultimo, il diplomatico USA ha definito il Paese nordafricano un “partner vitale intenzionato a proseguire sulla via della democrazia” e che, nonostante le difficoltà nel rapporto bilaterale, gli “Stati Uniti sono amici del popolo e della nazione egiziane”, escludendo di fatto strappi o azioni eclatanti che mirino ad elidere “un’alleanza forte e fondamentale” per entrambi. Kerry ha incontrato, inoltre, il potente Ministro della Difesa el-Sisi, rassicurandolo sul rapporto tra le due nazioni e minimizzando la decisione di sospendere una parte delle forniture di armamenti all'Egitto — secondo più importante destinatario di aiuti militari USA nella regione dopo Israele – affermando che le relazioni bilaterali “non devono essere definite dall'assistenza”. Affermazione, quest’ultima, che comunque non ha lasciato indifferente la leadership egiziana, la quale da tempo si sta muovendo alla ricerca di fornitori militari differenti da Washington. Infatti, se è nota la posizione politica, economica (e forse anche militare) di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, l’Egitto starebbe vagliando l’ipotesi di rafforzare i propri rapporti di collaborazione con la Russia. Infatti, saranno al Cairo il 13 e 14 novembre, in un tandem inedito, il Ministro degli Esteri e della Difesa russi Sergei Lavrov e Sergei Shoigu. I loro colloqui, hanno fatto sapere fonti diplomatiche, si concentreranno sull'acquisto di armi, ma fonti del Cairo hanno tenuto a precisare che
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“questa decisione non ha nulla a che vedere con le recenti divergenze con gli USA”. IRAN – La tre giorni di negoziati a Ginevra tra il 5+1 (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia + Germania) e Iran sul dossier nucleare di Teheran (7-9 novembre) si è conclusa senza il raggiungimento di un accordo in grado di soddisfare ambo le parti. Dopo svariati tentativi, i rispettivi diplomatici hanno riconosciuto di non essere attualmente in grado di soddisfare dal lato del 5+1 la richiesta di sospendere alcuni punti chiave del programma nucleare iraniano e dall’altro lato di non poter sospendere, neppure temporaneamente, le sanzioni economiche che gravano pesantemente sull’economia iraniana. Nuovi tentativi di raggiungere un compromesso saranno effettuati il 20 novembre, nuovamente a Ginevra, ma questa volta non a livello di Ministri degli Esteri, bensì di alti funzionari. Tuttavia, i recenti colloqui non sembrano essersi rivelati una perdita di tempo. Il Segretario di Stato americano, John Kerry, li ha al contrario definiti “molto produttivi. Siamo venuti a Ginevra per limare le differenze di vedute. Posso dire senza alcuna riserva che abbiamo compiuto enormi progressi. Serve tempo per costruire fiducia reciproca tra Paesi che sono stati in disaccordo per lungo tempo. Non c’è dubbio secondo me che siamo più vicini ora, nel momento in cui lasciamo Ginevra, a raggiungere un accordo rispetto a quando siamo arrivati”. Il Ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javid Zarif, ha dichiarato che “ciò che stavo cercando era determinazione politica, volontà, buona fede e rapidità così da concludere” la questione; “penso che siamo tutti sulla stessa lunghezza d’onda, e ciò è importante. Questo ci dà l’impeto per proseguire su questa strada quando ci incontreremo la prossima volta. Abbiamo lavorato molto, si spera che potremo fare ancora di più”. Come ha confermato l’Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione Europea, Catherine Ashton, “sono stati effettuati progressi concreti, ma alcune differenze rimangono. Penso sia naturale che nel momento in cui abbiamo iniziato a discutere di dettagli, ci sarebbero state delle divergenze”. In realtà, sembra che tali ‘divergenze’ ci siano state non solo tra il 5+1 e l’Iran, ma anche all’interno dello stesso 5+1. Infatti, la Francia ha spinto molto per far sì che l’accordo che in un primo momento pareva essere stato raggiunto fosse ancor più rafforzato per prevenire qualsiasi ipotesi di vedere nascere un Iran dotato di bomba nucleare; in particolare, la diplomazia di Parigi si sarebbe soffermata sulla questione dell’arricchimento dell’uranio e sulla chiusura di un reattore nucleare in grado di produrre plutonio. Il Ministro degli Esteri francesi, Laurent Fabius, mostrandosi fermamente contrario a condurre un “gioco da pazzi” che avrebbe arrecato vantaggi solo a Teheran, ha comunque dichiarato che “l’incontro di Ginevra ci ha permesso di fare passi in avanti, ma non siamo stati capaci di chiudere l’accordo dato che esistono varie questioni da affrontare”. Zarif, però, non ha voluto criticare Parigi, anzi: “ovviamente il 5+1 può avere differenze di vedute, ma stiamo lavorando insieme”. Nel frattempo, quando l’accordo preliminare pareva fosse raggiunto, il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aggiornato dalla Casa Bianca sull’andamento dei negoziati, si era già detto pronto a “respingere completamente questo accordo. Gli iraniani devono essere soddisfatti. Volevano un allentamento delle sanzioni dopo anni di pressioni e lo ricevono. E non pagano alcun prezzo, perché non riducono la propria capacità di produrre uranio. Per questa ragione Israele si oppone alle intese in via di formulazione”. 5
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ISRAELE/PALESTINA – Si è tenuto il 5 novembre il quinto round dei negoziati tra Israele e Autorità palestinese, ufficialmente ripresi lo scorso luglio a Washington dopo tre anni di stop. Dialogo che, tuttavia, rischia nuovamente di incepparsi a causa della frustrazione di entrambe le parti. Da un lato, i Palestinesi lamentano i continui insediamenti ebraici in West Bank e a Gerusalemme Est (l’ultimo dei quali è stato autorizzato il 30 ottobre a Ramat Shlomo e che prevede la costruzione di 1.839 nuovi alloggi per i coloni come “compensazione” per la liberazione di un nuovo gruppo di 26 detenuti palestinesi su 104 totali previsti dal pre-accordo di luglio) e la decisione – notizia ripresa dal quotidiano Ma’ariv e rilanciata sulla stampa internazionale dal britannico Telegraph – di costruire una nuova barriera di separazione tra le due sponde della Jordan Valley, un muro che decreterebbe il totale isolamento della Cisgiordania dai territori circostanti. Dall’altro lato, gli Israeliani devono affrontare diverse spinte centripete all’interno della stessa maggioranza di governo e della popolazione, entrambe contrarie alla scarcerazione dei detenuti palestinesi. Infatti, se in ottobre ci sono stati diversi scontri, anche pubblici, tra il Premier Benyamin Netanyahu e il Presidente Shimon Peres sulla conduzione delle trattative di pace con i Palestinesi, ora anche all’interno di alcuni partiti della maggioranza si sono aperte alcune faide. La più pericolosa riguarda Ha’Bait Yehudi (Jewish Home), il partito della destra radicale fondato dal Ministro del Commercio Naftali Bennett che ha condannato “l’azione di liberazione dei terroristi” concordato dalla collega alla Giustizia e capo negoziatore israeliano Tzipi Livni. Critiche però sono giunte anche dall’interno dello stesso partito della Livni, il centrista Ha’Tnuah. Amir Peretz (Ministro dell’Ambiente e numero dello stesso partito) ha criticato la decisione della Livni di firmare insieme a Netanyahu il disegno di legge che cercava di proibire in futuro la scarcerazione di nuovi detenuti palestinesi (gli altri saranno rimessi in libertà il 29 dicembre e il 28 marzo prossimi), bollando l’iniziativa come una “incitazione alla violenza” e suggerendo alla collega di “dimettersi se non si è d’accordo con quello che fa il governo”. Decisione, questa, che – al pari della determinazione con cui l’esecutivo mantiene inalterata la politica di insediamenti per tranquillizzare i riottosi alleati di governo vicini alle correnti radicali laiche e religiose della destra ultraconservatrice che fanno riferimento oltre a Bennett anche al Ministro della Difesa Moshe Ya’alon, al suo Vice Danny Danon e al possibile “nuovo” Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman (recentemente assolto dalle accuse di frode e abuso d’ufficio a suo carico) –, potrebbe decretare la fine di qualsiasi trattativa con i Palestinesi. Proprio la situazione di stallo nei colloqui avrebbe fatto ventilare al capo negoziatore palestinese Saeb Erekat la possibilità di immediate dimissioni, subito respinte dalla diplomazia USA che ancora crede nel possibile recupero di un dialogo e, addirittura, in un accordo storico tra i due arcinemici entro nove mesi dall’inizio dei colloqui ufficiali. A tal proposito i Palestinesi hanno chiesto un intervento deciso e risolutivo a favore delle trattative da parte degli Stati Uniti, i quali attraverso il Segretario Kerry hanno chiesto a Tel Aviv un impegno serio per portare a termine gli accordi di pace. Allo stesso tempo il Segretario americano ha condannato la pratica degli insediamenti “ritenuta illegale dal diritto internazionale”, posizione peraltro ribadita anche dall’Unione Europea. Kerry, inoltre, ha ventilato l’ipotesi di una “crescente campagna internazionale di delegittimazione ed isolamento di Israele” se la posizione
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israeliana non muterà. Da parte sua, Netanyahu, dopo un lungo e teso colloquio privato con il Segretario di Stato anche per via del dossier Iran – su questo versante il Premier ha detto alla sua controparte di “respingere completamente qualsiasi accordo” –, ha fatto sapere di non voler minare le trattative mantenendo fede agli accordi ma che non vuole (o non può) recedere sui piani abitativi (5.100 già previsti da inizio anno) nella West Bank e a Gerusalemme Est. Ad ogni modo, Netanyahu ha ricordato a Kerry che nell’ultimo mese sono stati uccisi tre cittadini israeliani da parte di Palestinesi mai identificati all’interno dei Territori e che sono tali episodi a minare le trattative di pace. Anche se è difficile dire se i recenti colloqui tra Israele e Palestina potranno proseguire e portare ad una reale pace nella regione, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli Stati Uniti starebbero valutando la possibilità di passare da semplici coordinatori a parte attiva negli accordi. Il quotidiano, che cita come fonte la leader del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal-On, rivela che Obama avrebbe intenzione di presentare nel gennaio del 2014 un proprio piano di pace per far trovare un accordo permanente tra Israeliani e Palestinesi “che includerà tutti i temi principali e sarà basato sulle linee del 1967, con uno scambio di terre concordato”. Il progetto prevede inoltre una “graduale tabella di marcia e si svolgerà alla dimensione di una pace regionale, basata sull'iniziativa di pace araba”. Infine, sarà trattata anche l'economia con una serie di investimenti nei Territori palestinesi. Intanto a far aumentare la tensione già alle stelle tra le parti è giunta – non del tutto inaspettata – la conferma dell'avvelenamento da polonio di Yasser Arafat, leader del’OLP, morto a Clamart, vicino Parigi, nel 2004. Per la Commissione d'inchiesta che indaga a Ramallah, “è certo che il leader storico della polizia non è deceduto per cause naturali”. “L’unico e il solo sospettato della morte di Arafat deve essere Israele”, ha dichiarato il capo dell'intelligence palestinese Tawfiq al Tirawi. A termine di una settimana intensa su vari fronti Tel Aviv e Washington sono stati sospesi dal diritto di voto dall’UNESCO, due anni dopo che i rispettivi Governi avevano deciso di interrompere i finanziamenti all'agenzia dell'ONU per protesta contro l'ammissione della Palestina come Stato Osservatore non membro alle Nazioni Unite. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO – Dopo circa un anno e mezzo di conflitto, dopo il riacutizzarsi delle tensioni a seguito della rottura della già debole tregua raggiunta nel novembre del 2012 e dopo, soprattutto, un’offensiva militare nelle aree orientali del Kivu (iniziata in estate ed intensificata dopo la sospensione dei colloqui di pace, 21 ottobre) da parte dell’esercito regolare congolese con l’appoggio degli uomini della Brigata d’Intervento ONU dispiegati sul territorio dopo la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dello scorso 28 marzo in supporto della MONUSCO, il 5 novembre il governo di Kinshasa ha annunciato la vittoria totale della Repubblica democratica del Congo sul “Mouvement du 23 Mars”: dopo la perdita delle ultime roccaforti di Chanzu e Runyonyi e dei villaggi sulle colline Mbuzi che conducono a Goma, i ribelli – distaccatisi dalle FARDC nella primavera 2012 con lo scopo di completare la realizzazione degli accordi di Goma, in occasione dei quali erano stati integrati nelle forze di sicurezza congolesi – si sarebbero rifugiati, secondo quanto dichiarato dall’inviato per le Nazioni Unite in loco, Martin Kobler, appena oltre il confine con il Ruanda, probabilmente al seguito del leader militare Sultani Makenga, inserito nella black list dei ricercati dell’ONU e che potrebbe ora conoscere lo steso destino del comandante Bosco Ntaganda (in attesa di processo della Corte Penale 7
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Internazionale). La guida politica rappresentata da Bertrand Bisimwa, è impegnata, invece, sul piano delle negoziazioni di pace che, nel difficile tentativo di implementare quanto si stava concordando lo scorso anno, dovrebbero prevedere la rinuncia alla ribellione da parte del gruppo dissidente in cambio della reintegrazione dei combattenti e dell’amnistia dei loro leader. Proprio quest’ultimo resta il punto più controverso poiché, come ha affermato il Ministro degli Esteri congolese Raymond Tshibanda N’Tunga Mulongo, non si può prendere in considerazione la grazia “per i crimini di guerra, per i crimini contro l’umanità, inclusa la violenza sessuale, il reclutamento di bambini soldato, le violazioni dei diritti umani su larga scala, per non parlare degli atti di genocidio”. Stando a quanto dichiarato dal portavoce del governo dell’Uganda, Ofwono Opondo, l’accordo di pace dovrebbe essere firmato l’11 novembre a Kampala. A giocare un ruolo importante in questo contesto sono gli altri Paesi della regione, attori interessati quando non direttamente coinvolti del tutto. Infatti, a fronte di un Sud Africa (Stato da cui provengono la maggior parte degli uomini della missione di peacekeeping dell’ONU) che già in occasione del vertice congiunto (4 novembre) tra i Paesi dell’Africa australe (SADC) e quelli della Regione dei Grandi laghi (ICGLR) ha sostenuto il proprio ruolo nel processo di stabilizzazione congolese, cosa che ha indotto molti analisti a ritenere che Pretoria stia (insieme con Luanda) tentando ad attrarre Kinshasa nella propria area di influenza, decisamente è più complicato il ruolo del Ruanda. Sullo sfondo del conflitto etnico tra hutu e tutsi (i dissidenti congolesi provengono in larga parte da questi secondi) che prosegue da oltre un ventennio, e intrecciandosi a doppio filo con gli interessi economici che Kigali nutrirebbe nei confronti delle risorse di cui sono ricche le aree orientali del Congo (oro, diamanti, coltan, cassiterite, legname e acqua), il Ruanda è sospettato (insieme con l’Uganda) di supportare e addestrare gli M23. Rapporti dell’ONU e di Human Rights Watch confermerebbero il diretto coinvolgimento di elementi di spicco nell’esercito ruandese, incluso il Ministro della Difesa James Kabarebe. In occasione dell’ultima crisi, il governo di Paul Kagame ha annunciato una possibile apertura del fuoco qualora i combattimenti avessero oltrepassato i confini, per poi cercare di ritornare a mantenere un atteggiamento distaccato (al contrario dell’opinione pubblica nazionale che ha accusato l’ONU di esser venuta meno al principio di neutralità schierandosi apertamente con il Congo) chiaramente a causa della pressione della comunità internazionale e, soprattutto, degli Stati Uniti che, dopo aver interrotto la scorsa estate gli aiuti militari per l’anno in corso, lo scorso 3 ottobre per voce della nuova Segretaria di Stato aggiunto per l’Africa, Linda Thomas-Grennfie, ha annunciato di aver posto sanzioni contro Kigali per il reclutamento di bambini soldato per la ribellione del M23. Stesso dicasi per l’Uganda (il cui esercito, UPDF, è stato più volte impiegato a Busanza, vicino al confine di Kitagoma, a supporto dei guerriglieri) che nel corso del suddetto Vertice dei Grandi Laghi si è posto come un inaspettato alleato del Sud Africa: il Presidente Museveni non solo ha ribadito la necessità di imporre una road map per la stabilizzazione del Kivu, ma si è detto disponibile a creare una forza militare di pronto intervento puramente africana per gestire le crisi del Continente. Lo spettro di una guerra regionale sembra dunque per il momento allontanato.
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SUDAN/SUD SUDAN – Dal 27 al 29 ottobre nella regione di Abyei si è svolto il referendum organizzato dal residenti del gruppo tribale Ngok Dinka per decidere l’appartenenza al Sudan o al Sud Sudan. Il risultato del voto, ampiamente prevedibile, è stato un plebiscito a favore del passaggio dell’area in questione sotto la sovranità di Juba. La percentuale di elettori che ha votato a favore dell’adesione al Sud Sudan è stata del 99,9%: solo 12 voti sui 63.433 espressi sono stati a favore del Sudan. Tim Flatman, un osservatore indipendente presente ad Abyei durante il referendum, ha sottolineato che le elezioni si sono svolte regolarmente, con riscontri positivi superiori persino a quelli delle votazioni del gennaio 2011 che hanno sancito l’indipendenza del Sud Sudan. Di fatto, soltanto un gruppo tribale ha partecipato al referendum: l'area di Abyei è la terra in cui risiede il gruppo tribale Ngok Dinka, non-arabi, cristiani e tradizionalmente legati al Sud Sudan. L'altro gruppo tribale che insiste nella regione è un gruppo nomade, quello dei Misseryia che sosta nell'area sei mesi all’anno, per pascolare i propri animali nelle fertili terre di Abyei: sono arabi, musulmani e legati a Khartoum. Il risultato del referendum è stato respinto naturalmente dal governo di Khartoum, ma anche dal governo di Juba, dall’Unione Africana e dalle Nazioni Unite che sono presenti nell’area con circa 4000 peacekeepers (UNISFA). Secondo il Presidente della Commissione dell’Unione Africana, Nkosazana Dlamini-Zuma, il rischio è che questo voto possa innescare un’escalation di disordini e violenze tra le due comunità di Abyei, generando nuovi attriti tra i due governi. Il contenzioso tra Khartoum e Juba sulla spartizione dell’area, ricca di risorse petrolifere, è già sfociato in passato in conflitti aperti mettendo a rischio il già precario equilibrio regionale, tanto da spingere il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a minacciare a più riprese l’adozione di pesanti sanzioni contro entrambi gli Stati. Tutti hanno contestato la scelta del gruppo tribale Ngok Dinka di agire unilateralmente, mettendo a repentaglio i progressi fatti nel processo di normalizzazione dei rapporti tra Juba e Khartoum. Mahboub Maalim, Segretario esecutivo regionale dell’IGAD, l’Intergovernmental Authority on Development, ha condannato l’utilizzo unilaterale dello strumento referendario che potrebbe esacerbare gli animi e riaccendere nuovamente le tensioni in una regione che si fa fatica a pacificare. Il destino di Abyei è uno dei problemi non risolti dagli accordi di pace del 2005 che hanno segnato la fine della ventennale guerra civile sudanese e portato al referendum del gennaio 2011, che ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan. Il Comprehensive Peace Agreement del 9 gennaio 2005, che include al suo interno il Protocollo di Abyei siglato nel 2004 tra Sudan e Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), ha definito con chiarezza alcune questioni chiave, tra cui i pagamenti degli oneri per il passaggio del petrolio da uno Stato all'altro e il riconoscimento della doppia cittadinanza a coloro i quali non vivono nel Paese di origine, ma ha reso complicato un accordo sullo status della regione dell'Abyei, un’area grande quanto il Libano. Lo stallo che si è creato deriva dal fatto che né il Sudan né il Sud Sudan vogliono lasciare all’altro i diritti su quest’area ricca di petrolio. Subito dopo l’indipendenza del 2011, il Presidente del Sud Sudan Salva Kiir ha intavolato dei colloqui con il Presidente del Sudan Omar al-Bashir; decisione motivata dal fatto che se
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è vero che gran parte del petrolio si trova all’interno del territorio sud-sudanese, praticamente tutte le infrastrutture per la raffinazione e per il trasporto si trovano a nord. Questi tentativi di compromesso e i continui rifiuti da parte di Khartoum di accettare che fossero solo gli effettivi residenti a partecipare ad un referendum per decidere lo status di Abyei, programmato proprio per l’ottobre 2013 dall’Unione Africana, ha portato i Ngok Dinka a decidere unilateralmente di svolgere la votazione. Nonostante l’evidente esito del voto, la questione è tutt’altro che vicina ad una conclusione: mentre i Misseryia hanno proclamato di voler effettuare una propria contro-votazione, l’Unione Africana ha annunciato di aver chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il sostegno per organizzare ufficialmente un nuovo referendum.
Photo credits: The Economist, Yedioth Ahronoth.
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Coordinamento editoriale a cura di Maria Serra, Giuseppe Dentice, Davide Borsani, Danilo Giordano
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