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di Rossana Sisti
Carlo e Renzo Piano narrano l’architettura ai ragazzi
Alla ricerca della bellezza
di Rossana Sisti
Geometra. Gli amici lo chiamano spesso così e lui ci ride su. Nessun affronto per Renzo Piano, architetto di lungo corso che non nasconde il divertimento di una mania di vecchia data che fa sempre sorridere figli e nipoti: misurare, misurare, misurare. Tutto, le cose e le distanze, dalla lunghezza di un’onda alla larghezza di una trave, l’altezza di un edificio o di un albero, l’arcata di un ponte, ieri i figli, oggi i nipoti.
Del resto per lui quella del geometra (non per niente in greco significa “misuratore della Terra”) è un’arte nobile, perché misurare equivale a conoscere, sapere, capire. E dove non arriva il metro giallo avvolgibile che tiene sempre in tasca, arriva l’occhio allenato da anni di mestiere, che vede e immagina anche quel che non si vede. Le forze e gli sforzi in gioco, le dimensioni di una struttura che ancora deve prendere forma in uno schizzo. Ed è qui che il Geometra incontra l’Esploratore e il Costruttore in quel tutt’uno che è l’architetto. Mestiere antico, avventuroso, di frontiera, che non teme di contaminarsi con scienza, natura, musica, poesia, militanza, in una continua lotta contro la forza di gravità, cercando la leggerezza con materiali pesanti. La sfida di una vita per Renzo Piano – archistar di fama mondiale, senatore a vita dal 2013, vincitore del Pritzker (il Nobel dell’architettura), firma di grandiose opere in tutto il mondo –che a 83 anni, attraverso la penna di suo figlio Carlo e nei panni di nonno si racconta alla nipotina tredicenne Elsa, durante un viaggio virtuale in mare ai quattro capi del mondo, dove ha costruito le sue opere. È nato così Alla ricerca di Atlantide.Viaggio nell’architettura per ragazzi sognatori (Feltrinelli; pp.160; 18 euro), un percorso a tappe che, attraverso l’inseguimento della mitica città ideale, sogno di ogni architetto e metafora della vera bellezza, entra nel vivo di cosa significa costruire, sentirsi parte di un lavoro collettivo e al centro di un’avventura che a piccoli passi cerca di migliorare luoghi e persone. Nonno e nipote partono lasciandosi alle spalle l’aria di casa del nuovo ponte San Giorgio e del Porto Vecchio, raggiungono il Giappone dell’isola che non c’è, il mondo del popolo Kanak in Nuova Caledonia, la Grande Mela del New York Times dove un grattacielo di cristallo dimostra la forza della trasparenza e dell’informazione contro il terrorismo. E ancora la Scheggia londinese che buca le nuvole, il cuore di Berlino senza il Muro, l’ospedale ugandese dei bambini nel cuore dell’Africa, l’infuocata California temperata dal verde, la grande fabbrica gioiosa di cultura nel centro di Parigi, che è il Beaubourg. E tanto altro ancora. «Tutti edifici pubblici – racconta Carlo Piano – Luoghi in cui ci si incontra e ci si confronta, si sta assieme come cittadini mentre le differenze si stemperano. Luoghi che materializzano l’idea che edificare è sempre un gesto di pace e solidarietà. Non dimentichiamo che è anche la radice di “edificante”, nel senso di ciò che induce al bene. Mio padre ha bazzicato i cantieri fin da bambino, al fianco di mio nonno che a Genova aveva una piccola impresa edile. Fin da piccolo ha giocato sui mucchi di sabbia, respirato la fatica del lavoro ma anche l’orgoglio del costruire insieme. È cresciuto scoprendo il cantiere come un luogo magico non solo per i numeri; un luogo di pace e di convivenza felice. L’atmosfera che è stata palpabile durante i lavori per la costruzione del Ponte Genova San Giorgio». Un progetto sentito come un imperativo etico, figlio di una tragedia, i 43 morti che non si possono dimenticare, che Renzo Piano ha donato a Genova perché la sua città ritrovasse orgoglio e riscatto. Un ponte smart, ma semplice e parsimonioso, come si è detto, in linea con il carattere dei genovesi. «Per il ponte – continua Carlo – hanno lavorato oltre mille persone, italiani e stranieri assieme, 24 ore su 24, Natale e Pasqua compresi, in un cantiere sempre in bilico tra orgoglio e cordoglio ma in cui hanno sempre prevalso solidarietà e passione». Così che in due anni il ponte è tornato a vivere per durare, come dice
IL GIORNALE DEI GENITORI | Renzo Piano, migliaia di anni. Perché i ponti, fatti per unire, non possono e non devono cadere. «I muri che dividono, quelli sì devono cadere. A Berlino, per la ricostruzione di Potsdamer Platz trent’anni fa, hanno lavorato cinquemila operai, di cui solo cinquecento tedeschi. C’era il mondo intero là, una società multietnica, una babele di persone da venticinque nazioni a rimettere in piedi in soli cinque anni quel quartiere che era stato completamento raso al suolo dalle bombe dell’ultima guerra mondiale. Eppure non c’è mai stato alcun problema di comunicazione. Le differenze miracolosamente si stemperavano in quell’esperienza piena di entusiasmo». E di avventure di cui ogni cantiere abbonda. Renzo Piano ricorda che quando si scava per costruire si trova di tutto e si affrontano imprevedibili eventi: a Berlino dove per le fondamenta lavoravano anche i palombari si trovarono bombe inesplose, granate e armi. A Los Angeles invece dei giacimenti di petrolio previsti dai geologi vennero alla luce scheletri di mammut, a Beirut capitelli e muri di origine fenicia. Nei trentotto mesi del cantiere dell’aeroporto del Kansai, nella baia di Osaka in Giappone, costruito su un’isola che non esisteva e che si è creata dal nulla, si registrarono trentasei terremoti, anche quello devastante di Kobe. In Nuova Caledonia per il centro culturale dedicato alla civiltà kanak i conti si fecero con i tifoni e le tempeste tropicali che colpiscono almeno due volte l’anno. Lì occorreva inventare ma preservare la memoria, tenere le tracce del passato e insieme innovare; e cercare la forza della costruzione nella flessibilità. «La leggerezza – racconta ancora Renzo Piano – è la chiave di lettura di questi luoghi, perciò un architetto deve diventarne abitante. Io sono stato di volta in volta parigino, berlinese, newyorchese, londinese e kanaki». «Bisogna confrontarsi con altri popoli e territori, soprattutto quelli che non si conoscono – fa eco Carlo – la regola numero uno prima di fare uno schizzo è calpestare il suolo e mettersi in ascolto, cercare quei suggerimenti che qualsiasi territorio può dare. Mai trascurare il genius loci». Per la California Academy of Sciences, grande museo di scienze naturali di San Francisco, un tetto verde grande come tre campi da calcio coltivato a graminacee locali, capaci di sopravvivere meglio senza bisogno di essere innaffiate, ha permesso di realizzare per la prima volta un edifico pubblico senza spreco di acqua e senza aria condizionata. In una zona dove nessuno ne fa a meno. Ma se l’architetto deve immergersi nel mondo in cui costruisce, deve dare anche forme ai cambiamenti, ascoltare il passato guardando al futuro come ogni esploratore, «come chi vive sulla frontiera e ogni tanto va a vedere cosa c’è dall’altra parte». Il Beaubourg di Parigi ne è l’eclatante esempio. «Mio padre e Richard Rogers inventarono una specie di parco divertimenti della cultura allegro e colorato, ribellandosi all’idea che i musei dovessero continuare a essere luoghi paludati, tristi e polverosi e destinati a pochi. C’era stato il Sessantotto e quei due ragazzacci avevano voluto costruire una disubbidiente macchina capace di offrire e produrre cultura». Non la passarono liscia quanto a critiche e polemiche. «Del resto quando l’architettura costruisce il futuro e interpreta i cambiamenti, è fatalmente bersaglio di critiche». Che vanno anche quelle ascoltate ma di cui non si deve avere paura. Atlantide, la città in cui bellezza, giustizia e onestà erano tutt’uno, va ricercata nonostante tutto, anche se sono in molti a dire che non esiste. Questo è un insegnamento che l’Esploratore consegna ai giovani, un mònito oggi più che mai urgente con la pandemia che ha colpito il mondo nell’anima oltre che nel fisico. Ricercare la bellezza, sottraendola a coloro che l’hanno umiliata facendone un frivolo elemento estetico è un dovere, perché estetica ed etica non possono disgiungersi. «Una nazione –conclude Renzo Piano – ha bisogno di speranza, di luoghi d’incontro e di bellezza. Quella bellezza che per gli antichi non andava intesa in maniera superficiale. E che si riassume nell’espressione greca kaloskagathòs, dove bello e buono si uniscono in un unico ideale di bellezza e di valore morale. Bello e buono sono bisogni e sogni che camminano insieme». Per questo, come sosteneva Dostoevskij, la bellezza ci salverà.