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Introduzione

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Mezzo secolo di deforestazione in Amazzonia

La distruzione della foresta pluviale amazzonica è nuovamente in crescita, vanificando anni di sforzi per la sua conservazione

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Nonostante le promesse, le dichiarazioni di intenti e gli accordi stipulati nelle varie Conferenze delle Parti (COP) – giunte a Glasgow alla 26° edizione – la deforestazione, gli incendi e il degrado continuano a erodere la foresta amazzonica, procedendo a un ritmo che ha conosciuto una forte accelerazione negli ultimi anni. L’attacco sistematico all’immensa foresta pluviale amazzonica iniziò nel 1972 con l’apertura della Rodovia Transamazônica, ambizioso progetto stradale che, partendo dall’estremità orientale del Brasile, si snoda per quattromila chilometri verso l’interno. Per gran parte del suo percorso era una pista di polvere e fango, ma favorì l’accesso a enormi territori intatti dove fino ad allora l’unica via erano i tortuosi corsi dei fiumi. L’abbattimento della foresta per ricavarne legname pregiato aprì la strada agli insediamenti agricoli, che però dovevano scontare la scarsa fertilità del terreno; ben presto si imposero enormi fazendas per l’allevamento del bestiame, in seguito affiancate da piantagioni industriali prevalentemente di soia destinata alla produzione di mangimi. Fra il 1970 e il 1990 la sola foresta pluviale brasiliana (che ammonta a poco meno di due terzi del totale), perse il 10% della sua estensione, più dell’intera superficie della Germania. Negli anni a cavallo del secolo il tasso di deforestazione aumentò fino a raggiungere, nel 2004, l’impressionante cifra di 27.400 chilometri quadrati, poi cominciò a calare grazie all’introduzione di politiche di tutela richieste con insistenza dall’opinione pubblica internazionale. Fu varato un vasto programma governativo di incremento dei parchi e delle riserve per le popolazioni indigene, furono rinforzate le agenzie di sorveglianza, anche sulle esportazioni di merci prodotte illegalmente, e fu avviato un sistema di monitoraggio satellitare affidato all’agenzia spaziale brasiliana (Inpe). La riduzione nella perdita di foreste fu significativa, ma durò pochi anni: dal minimo del 2012 (4560 kmq) si passò rapidamente ai 7536 del 2018. Nel gennaio 2019 divenne presidente del Brasile Jaime Bolsonaro, che fin dalla campagna elettorale aveva auspicato l’apertura di nuovi territori all’allevamento, all’agricoltura industriale e allo sfruttamento minerario. Da allora disboscamento e incendi si sono moltiplicati raggiungendo livelli allarmanti. L’occhio implacabile dei satelliti dell’Inpe ha rilevato la perdita di 13.235 chilometri quadrati fra l’agosto 2020 e il luglio 2021; e altri 430 nel solo gennaio 2022, cifra insolitamente alta perché in gran parte dell’Amazzonia il mese corrisponde al culmine della stagione delle piogge. Negli ultimi cinquant’anni la foresta amazzonica brasiliana si è ridotta del 20% e cifre simili riguardano la parte boliviana; in Perù, Ecuador e Colombia i danni sono stati più contenuti, in parte legati alle piantagioni di coca e all’escavazione aurifera illegale. Rimangono ancora circa 6 milioni di chilometri quadrati di foresta, che svolgono il loro ruolo nell’assorbimento dell’anidride carbonica, nella preservazione di una straordinaria biodiversità e di una variegata umanità che comprende le ultime popolazioni native "intatte", che rifiutano il contatto con il mondo esterno. E la foresta, nella sua compattezza, modifica il clima rendendolo più umido e meno instabile. Già adesso nelle regioni meridionali, maggiormente accessibili e colpite da incendi, il clima è diventato più secco e le temperature sono in aumento; tendenza che, assieme all’estensione dei pascoli, sta portando la vegetazione a evolvere verso ambienti di savana.

A sinistra, incendi al confine fra gli stati brasiliani di Amazonas e Parà

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