Notiziario 2/2020

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IN QUESTO NUMERO

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EDITORIALE

VETTE IN SLOW MOTION

Le restrizioni anti-covid suggeriscono un modo diverso di avvicinarsi alla montagna: facciamone tesoro di Alberto Pirovano, presidente CAI Lecco

VITA DI SEZIONE - SPECIALE

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PER STARE AL PASSO

Gli interventi previsti nei rifugi di proprietà del CAI Lecco di Alberto Pirovano

SENTIERI E PAROLE

IL PROFUMO DELLA MONTAGNA Dolorose rinunce al tempo del Covid di Sergio Poli

LA TECNICA E LA MAGIA

Come si arrampicava cinquant’anni fa in un saggio d’epoca di Pino Panzeri di Angelo Faccinetto

LA LEGGENDA DEI FRATELLI EREMITI

…e le chiesette a loro dedicate sulle montagne della Valsassina di Annibale Rota

...E CHI NON LA SA?...

Canto popolare e cori popolari in Italia: situazione, senso e prospettive di F. Bussani e G. M. Taccagni

UN AMORE NEI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Hannelore e Carlino, quasi una fiaba di Raimondo Brivio ALPINISMO e ARRAMPICATA

QUANDO IL CERCHIO SI CHIUDE

La “Leap of Faith” al Poncione d’Alnasca in Val Verzasca di Matteo Della Bordella PERSONAGGI

ESPLORATORE DELLE ROCCE

Ivo Mozzanica se ne è andato a novembre, ucciso dal covid. Aveva 74 anni di Alberto Bernini

GIUSEPPE SPREAFICO PER TUTTI “PEPETTO”

Ci ha lasciato Giuseppe Spreafico, per tutti “Pepetto”, l’uomo delle cose fatte bene di Alberto Bernini

CIAO DOTTORE!

Un ricordo di Sandro Liati, medico di tante spedizioni dei Ragni di Carlo Aldé

QUEI RACCONTI DI STORIA E DI BELLEZZA

In memoria di Erminio Ferrari, alpinista e scrittore di Alberto Bernini L’INTERVISTA

ALPINISTI O TURISTI?

Come cambia la frequentazione dei rifugi. Parla Della Rodolfa, gestore della Marinelli di Adriana Baruffini ALPINISMO GIOVANILE

LA MAGIA DELLE NOSTRE MONTAGNE

Notiziario quadrimestrale della sezione di Lecco “Riccardo Cassin”del Club Alpino Italiano N° 2/2020

Redazione: Adriana Baruffini, Angelo Faccinetto Direttore responsabile: Angelo Faccinetto Impaginazione e Grafica: BitVark - Pavia Tipografia: A.G.Bellavite Missaglia - Lecco

Testata di proprietà del Club Alpino Italiano sezione di Lecco “Riccardo Cassin” Sede: via Papa Giovanni XXIII, 11 23900 Lecco Tel: 0341363588 Fax: 0341284717 www.cai.lecco.it sezione@cai.lecco.it Autorizzazione Tribunale di Lecco N. 5/78 del 20/06/1978

Spedizione in A.P. -45%- Art. 2 Comma 20/b legge 662/96

Tiratura 2300 copie Chiuso in redazione 11/01/2021

Stampato secondo la filosofia GreenPrinting® volta alla salvaguardia dell’ambiente attraverso l’uso di materiali (lastre, carta, inchiostri e imballi) a basso impatto ambientale, oltre all’utilizzo di energia rinnovabile e automezzi a metano.

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ZeroEmissionProduct® A.G. Bellavite ha azzerato totalmente le emissioni di Gas a effetto Serra prodotte direttamente o indirettamente per la realizzazione di questo prodotto.

La luce dell’inverno al rifugio Cazzaniga. Foto di Mauro Lanfranchi ZeroEmissionProduct® A.G. Bellavite ha azzerato totalmente le emissioni di Gas a effetto Serra prodotte direttamente o indirettamente per la realizzazione di questo prodotto.
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Quanto è importante e quanto ci manca salirle insieme ai nostri ragazzi di Alessia Losa SPELEOLOGIA 64 QUESTIONI DI LIVELLI Esplorazione in val d’Astico alle sorgenti profonde del Rio Torretta di Gigi Casati ESCURSIONISMO 68 LE GITE AL TEMPO DELLA PANDEMIA Una annata buca e un futuro incerto di Domenico Sacchi GEO 69 SLALOM FRA I DIVIETI La difficile stagione del GEO tra “settimane” mancate e uscite ridotte di Claudio Santoro 71 RECENSIONI 74 VITA DI SEZIONE 59 64 27 LA MAGIA DELLE NOSTRE MONTAGNE QUESTIONI DI LIVELLI UN AMORE NEI TEMPI DEL CO RONAVIRUS 35 QUANDO IL CERCHIO SI CHIUDE 49 ALPINISTI O TURISTI?

Lo confesso: ogni tanto soffro di antipatia preconcetta. Tra le vittime di questa mia debolez za c’era in passato lo scrittore Paolo Cognetti. In realtà più che di antipa tia, effettivamente difficile da spie gare verso un perfetto sconosciuto, sarebbe più giusto parlare di gelosia. La gelosia verso qualcuno che invade il nostro mondo privandoci di quella effimera soddisfazione di conoscere qualcosa di esclusivo. Se poi l’invaso re provenisse da un mondo ritenuto estraneo... Quando da ragazzi scor razzavamo tra i pascoli, i boschi e le montagne tra Artavaggio e il Pizzo dei Tre Signori, noi, figli di “capanat” e di “bergamini”, guardavamo con suffi cienza, ma con curiosità – soprattut to verso le ragazze – turisti che da

Milano e Roma salivano ai rifugi per passare il Ferragosto e in molti casi l’intero mese feriale. Il nostro mondo era fatto della conoscenza di detta gli, di piante e radure, ma anche degli animali e, cosa affascinante per le ra gazze di cui sopra, della capacità di girovagare a notte inoltrata, alla luce delle stelle, tra le malghe in cui con versare con i mandriani di argomenti che erano solo nostri. Eravamo i “Bru no” de Le otto montagne di Cognetti Dopo aver letto questo libro e aver colto la capacità dell’autore di de scrivere così bene quel “mio” mondo, ecco palesarsi la gelosia con una vena di rabbia perché aveva “spoilerato” quelli che ritenevo, a torto, piccoli se greti.

Qualche giorno fa ho letto alcuni passaggi dell’autore su diversi giorna li in cui interveniva sull’opportunità o meno di aprire gli impianti di sci stan te la situazione pandemica e, in una

riflessione più ampia – ed aggiunge rei lungimirante -, sintetizzava così: «Le piste da sci stanno alla montagna, come le spiagge attrezzate al mare», precisando poi il riferimento agli im pianti di risalita: «Scendere con gli sci non è vietato. Le piste ci sono. Ormai sono quasi battute. Il problema è un altro: che non si può salire con gli im pianti. Pazienza, ci si può comunque arrangiare in tanti altri modi...». Nella sua analisi approfondita ar riva al vero nocciolo della questione, espresso forse in modo un po’ trop po tranchant, «in montagna c’è una monocoltura dominante, quella del lo sci da pista. Non va bene, bisogna diversificare. Per esempio, nessuno impedisce lo sci di fondo. Oppure di muoversi con le ciaspole. Ci sono tanti modi, più economici più naturali, per fare una bella vacanza in montagna».

Processo ineluttabile

Che le scelte unidirezionali alla lunga non si rivelino mai un buon affare è cosa nota in ogni ambito, tuttavia deve far riflettere come intere aree alpine siano ancor oggi economicamente dipendenti da un’unica pratica spor tiva. Del resto, non sono mancati ne gli anni scorsi i campanelli di allarme. La Svizzera che da lustri non finanzia stazioni sciistiche di bassa quota; la progressiva dipendenza delle imprese di settore dall’innevamento artificia le con conseguente aumento di costi e necessità di iniezione continua di capitali, spesso pubblici… È così che il Covid-19, come in altri settori, sta ac celerando processi probabilmente già ineluttabili.

In questo la Montagna non è vit tima, bensì protagonista alla riscossa. Se quest’estate ha avuto più visitatori di sempre, sperando nella trasforma zione degli escursionisti fai da te da scopritori occasionali a veri appas sionati, l’inverno e la primavera, con l’ormai evidente cancellazione della stagione dello sci da pista, sta avvi

cinando sempre più persone ad una montagna in slow motion. Ciaspole e sci da alpinismo sono tra gli oggetti più regalati o acquistati e, anche tra i nostri monti, si vedono sempre più spesso volti nuovi, spesso, purtroppo, non sempre preparati ad un mondo magico, ma anche pericoloso. Era un fenomeno prevedibile, così come pre vedibile, nonostante le sollecitazioni di associazioni come la nostra e dello stesso Soccorso Alpino, è l’assenza di una campagna informativa istitu zionale. Sta a noi appassionati un po’ più esperti il compito di guidare questi nuovi amici mettendoli in guardia dai pericoli ed indirizzandoli verso una frequentazione consapevole. Ancor più oggi quando l’organizzazione del la formazione tradizionale con i no stri corsi è sospesa in un limbo da cui pare non poter scappare. Dai social, dai quali si pensa di poter imparare tut to e dove tutto appare facile e sicuro, non traspare la notte incombente nelle brevi giornate invernali – ed ecco le persone perse nel buio -, né il rischio delle valanghe indotte da una traccia

di ciaspole maldestra, ma neanche il freddo pungente di una giornata “da cartolina”. Facciamoci ambasciatori di una montagna da vivere pienamente, anche nei rischi, che se presi con sapevolmente possono essere anche elemento di crescita e di esperienza, ma segnando tutte le tappe necessa rie.

Come sezione guardiamo avanti. Più avanti trovate un articolo sui lavori in programma per i nostri rifugi. Sono lavori necessari per proiettare le no stre strutture in un futuro non molto remoto, un futuro con meno turismo usa e getta, ma con più persone de siderose di vivere la montagna pie namente, avvicinandosi con tempi della natura umana, e trascorrendo più tempo nella magica atmosfera di un luogo caldo e sicuro anche in inverno. Noi ci crediamo e cominciamo ad at trezzarci. Buon anno.

di Alberto Pirovano*
VETTE IN SLOW MOTION
Le restrizioni anti-covid suggeriscono un modo diverso di avvicinarsi alla montagna: facciamone tesoro
Editoriale4
Bivacco Riva-Girani ai Comolli, Grigna settentrionale, foto di Mauro Lanfranchi. Motto di Olano (Val Gerola), sullo sfondo il Pizzo Olano e il Pizzo dei Galli; Val Lunga di Tartano, foto di Mauro Lanfranchi.

PER STARE AL PASSO

Comeho anticipato nell’e ditoriale di questo numero abbiamo in programma per quest’anno importanti lavori nei nostri due rifugi: Lecco e Stoppani.

A dire il vero la necessità di alcuni interventi era già evidente da alcuni anni, ma la pandemia ha imposto una riflessione con conseguente aggiu stamento delle scelte.

I nostri rifugi sono nati come punto di appoggio per l’alpinismo ed hanno variato la propria funzione con il cam biare delle abitudini e delle condizioni di contorno.

La Stoppani nel 1895 era concepita come tappa intermedia per la salita al Resegone e mantenne questa funzio ne fino alla costruzione della funivia e degli impianti da sci ai Piani d’Erna.

Inevitabilmente diminuita la frequen tazione degli escursionisti diretti al Resegone, già negli anni Settanta del secolo scorso si evidenziava la tra sformazione in meta per escursionisti di bassa quota. Questo cambiamento portò alla sua riedificazione nelle for me attuali privilegiando la ristorazione dei camminatori di giornata, pur man tenendo una capacità di pernotta mento di 25 posti. Chiusi gli impianti da sci si è avviato, dopo un periodo di crisi riflessiva, un processo di tra sformazione dei Piani stessi. L’altipiano è divenuto meta per famiglie, runner e potrebbe, con una migliore gestio ne dell’impianto funiviario, divenire un giardino pensile fruibile, anche nelle pause quotidiane, dall’intera città. In futuro ci aspettiamo un aumento della frequentazione del rifugio agevolata

dalla vicinanza alla città, dalla sistema zione della rete escursionistica e della ferrata Gamma 1.

Le motivazioni all’origine dell’idea di costruire la Lecco – decisione presa fin dal 1900 e fatta propria dal CAI Lecco nel 1906 – furono le medesi me della Capanna Stoppani. Il gruppo dei Campelli era meta privilegiata degli alpinisti di inizio secolo attratti dalle caratteristiche dolomitiche delle pareti rocciose, in particolare di quelle che si affacciano sul Vallone dei camosci.

Per oltre quaranta anni il rifugio fu base per le ascensioni dei Campelli in estate e meta per i primi sciatori che salivano a “pelli” dalla Valsassina e, in misura minore, dalla Valtorta.

Con l’avvento della stazione sciistica con gli impianti di risalita da valle e la fortunata ubicazione a bordo pista il

Gli interventi previsti nei rifugi di proprietà del CAI Lecco di Alberto Pirovano La capanna Lecco domina in posizione panoramica i Piani di Bobbio. Foto di Raimondo Brivio

rifugio, in veste invernale, diviene ri ferimento per gli sciatori che limitano la fruizione alle ore diurne. Nella bella stagione resta meta privilegiata per gli escursionisti di giornata, tra cui i sali tori delle ferrate Pesciola e Minonzio, e per gli arrampicatori, di cui mol ti i partecipanti ai corsi CAI, ritornati a frequentare le pareti dei Campelli dopo la rivalutazione e messa in si curezza degli itinerari. I pernottamenti, limitati alla stagione estiva, contano i trekker degli itinerari di lunga percor renza come il sentiero 101 o la DOL.

Interventi alla Stoppani

Con le prospettive prima evidenzia te gli interventi saranno focalizzati su alcune azioni di manutenzione straor dinaria e di adeguamento alle nuove esigenze.

Sul piano manutentivo sarà rifatto completamente il sistema di chiarifi cazione delle acque reflue unitamen te ai bagni del piano primo. Come da normativa regionale sarà inoltre rea lizzato l’alloggio per la famiglia del ge store con un bagno dedicato. Conte stualmente verrà sostituita la centrale termica – risalente alla fine degli anni Settanta – con un sistema a pellet a maggior rendimento e più facilmente modulabile. Il camerone, ormai poco richiesto e di difficile gestione per via delle normative anti-pandemiche, sarà suddiviso in due camere famigliari.

Ci si attende così una fruibilità com pleta per i pernottamenti anche nella stagione invernale oltre alla moder nizzazione di un rifugio da cui il CAI si attende molto per gli anni a venire. Gli interventi sono stimati per € 84.210,01 finanziati per € 66.525,90 –pari a circa l’80 per cento - dai fondi regionali L.R. 1° ottobre 2015 n° 27, a cui si sommano alcuni bonus compa tibili con il bando.

Da sottolineare che anche il CAI Centrale aveva concesso un contribu to per il 60 per cento del costo degli interventi. Non essendo compatibile con il bando di regione Lombardia, si provvederà alla rinuncia per i contri buti destinati a coprire i lavori già fi nanziati da Regione Lombardia.

Interventi alla Lecco Più complessa la situazione del ri fugio Lecco. La struttura, nella parte energetica, ed in generale per l’intera zona diurna, è stata completamente rinnovata dieci anni fa. Come ben sap piamo però il rifugio soffre della ca renza di spazi tecnici, depositi ed an che la ricettività per il pernottamento è decisamente insufficiente tanto da impedire, nonostante la forte richiesta, l’ospitalità di gruppi e scuole di una certa consistenza. In inverno la ca pacità di pernottamento è pressoché nulla in quanto alcune camere devono essere convertite a dispense.

Per sopperire in parte a queste ca

In queste due pagine, da sinistra: La capanna Lecco vista dall’arrivo del sentiero degli Stradini. Foto di Emilio Aldeghi; La capanna Stoppani in veste invernale nelle foto di Tiziano Riva, al centro, e Assunta Cesana, a destra

renze sono usati i volumi originaria mente destinati ai WC esterni e ad altri manufatti inefficienti ed archi tettonicamente disomogenei. L’idea di recuperare questi volumi, sottostanti la facciata a sud, quella dell’ingresso, oltre agli spazi occupati dalla vecchia cisterna del gasolio e dal terrazzo at tiguo alla vasca di accumulo, permet terà di mantenere la morfologia del rifugio e la sua atmosfera.

Una sfida non semplice a cui si ag giunge la forte volontà del direttivo e del gestore di continuare sulla strada della sostenibilità ambientale. La sfi da è stata colta dal polo lecchese del Politecnico di Milano facendone og getto di tesi magistrale sotto la gui da del professor Graziano Salvalai. Ci aspettiamo soluzioni allo stato dell’arte in un’architettura, seppure d’avanguar dia, capace di dialogare con l’ambiente circostante.

Al termine degli interventi avremo

una capacità ricettiva per il pernot tamento di circa quaranta posti, oltre i gestori, unita alla possibilità di avere ospiti nella stagione invernale. In que sto modo sarà possibile accogliere un gruppo CAI o una scuola che si muo vessero in autobus. L’alloggiamento avverrà con le camerette – oggetto di futuro intervento di sistemazione – dell’attuale edificio, e con camere di capienza maggiore, ma modulabili, nei nuovi spazi.

Gli interventi sono stimati per € 220.400,00 finanziati per € 100.000 – pari a circa il 45 per cento - dai fondi regionali L.R. 1° ottobre 2015 n°

27. La rimanenza sarà finanziata vin colando circa il 50 per cento del ca none di affitto con un tempo di rientro inferiore ai 10 anni.

Per i lavori al piano primo dell’edi ficio esistente si parteciperà al bando ordinario emesso dal CAI centrale in questi giorni.

Conclusione

Come avete potuto leggere c’è molto da fare e voglio già ringrazia re l’intero consiglio direttivo per aver colto lo spirito di fiducia nel futuro insita in queste scelte, la segreteria e la tesoreria – preziose nel formulare le domande di partecipazione ai ban di di finanziamento ed a monitorare i flussi – ed i gestori a cui affidiamo il successo dei nostri rifugi e che ci ripagano con la soddisfazione di un vero spirito collaborativo non sempre scontato tra portatori di interessi di versi.

Come sempre auspico la disponi bilità di diversi soci ad aiutarci, anche operativamente, a portare a termine queste e le altre sfide quotidiane.

8 Vita di sezione - Speciale
9Vita di sezione
- Speciale

Inquesto sanguinoso 2020 non si può non parlarne, prima o poi, anche se non si vorrebbe. Sarebbe stato come non parlare della guerra nell’autunno 1945, quando era appe na finita; peccato che, a quanto pare, questa guerra finita non lo sia ancora.

Il Covid ha talmente pervaso la vita di tutti i giorni che ha finito per coin volgere anche la vita dei finesettima na, gite in montagna comprese. Alcuni soci CAI, fra cui il sottoscritto, durante questa primavera sono stati chiama ti dal Comune di Lecco ad apporre cartelli monitori – o per meglio dire dissuasivi – alle partenze dei sentie ri della nostra città, appunto per dis

Sentieri e Parole

DELLA MONTAGNA

Dolorose rinunce al tempo del Covid

suadere gli escursionisti dall’andare in montagna.

Esprimo qui un parere assolutamen te personale, non del CAI Lecco né tantomeno della Commissione Sen tieri sezionale, della quale faccio inde gnamente parte. Confesso che è stata una di quelle volte in cui ho – abbia mo – fatto una cosa per puro dove re, ma senza esserne affatto convinti. Se infatti per evitare contagi è meglio stare all’aria aperta, distanziati, evitan do assembramenti, perché ci è stato impedito di andare in montagna, cioè all’aria aperta e distanziati?

Lo so, era una misura eccezionale e in un certo senso esemplare, ma il dubbio era legittimo. E poi, con tut ta la sofferenza che c’era in giro, e purtroppo in buona parte c’è ancora, questa nostra rinuncia è stata dav vero poca cosa, quasi da vergognar sene. Ma chi sta bene non ci pensa, vede solo le proprie piccole esigenze;

chiedo pertanto un po’ di indulgenza, sperando che presto ci sia da sorride re anche di queste righe, scritte in un momento così particolare.

Insomma, avendo tanto tempo per meditare, grazie appunto al riposo forzato, sono venute fuori alcune ri flessioni oziose ma –forse- non pri ve di una loro dignità, che possiamo condividere.

Questione di fiuto

Abbiamo imparato che uno dei primi sintomi della malattia è la perdita del gusto e dell’olfatto. Si sa che l’olfatto è forse il più ancestrale dei sensi, quello che più degli altri è in grado di rie vocare sensazioni, ricordi antichissimi; quando si sente un odore familiare, immediatamente ci riporta indietro nel tempo, magari all’infanzia, sorvolando in un attimo decenni di vita.

Se abbiamo il privilegio di stare bene, e di avere ancora il nostro naso a po

sto, cerchiamo di apprezzare questo suo oscuro lavoro, quasi sempre tra scurato a discapito dell’onnipresente vista: migliaia di foto di bei paesaggi, del foliage di selfie che ci abbagliano da ogni parte, facendoci dimenticare gli altri quattro sensi.

Ogni età ha il suo odore, profonda mente impresso nella nostra memoria: quello di latte dei neonati – di cui si vive un bel ripasso quando si diventa genitori; quello di carta, matite, astuc cio dei tempi della scuola; l’odore di miscela quando si è ragazzini e si fan no primi emozionanti giri in moto … E poi, quelli legati indissolubilmente alla montagna. L’odore assolutamente unico delle mani quando si arrampica: un misto di sudore, zolfo, terra, ferro che si sente forte quando si è fermi in sosta e si recupera (nel mio caso quando si dà corda) il compagno.

Vorrei trovare un sinonimo per l’o dore – per molti è puzza, ma non per i pastori o i malgari - che si sente quando si passa d’estate in alpeggio accanto a un gregge o a una man dria al pascolo. Nobilissimo odore, apprezzato anche da Papa Francesco quando ha ricordato che un sacerdote deve essere “un pastore con l’odore delle pecore”. Per chi ha passato qual cuna delle sue vacanze scolastiche in montagna, magari facendo il cascìn quello è il vero profumo dell’estate, tanto quanto quello della crema solare al cocco per chi ha avuto il privile gio di passarle al mare. C’è anche il profumo dell’erba e del fieno, per non parlare dei fiori, ma qui si va sul facile.

Altro profumo – questo però in dissolubilmente legato anche al sapo re- è quello misto di fumo di legna, caldarroste e vino rosso, aspro ma

insostituibile, che meglio di qualunque altro evoca l’atmosfera intima e dolce dell’autunno.

Ancora l’autunno viene in men te quando si passeggia nei boschi in un giorno di pioggia: odore di terra bagnata, muschio e funghi, perché la pioggia ha un suo odore, quello della vita che fermenta e che si rigenera. Risalendo con le pelli sotto gli sci un versante innevato fino alla vet ta, si sente invece un altro profumo, quello dell’inverno: aria sottile, puris sima, secca che asciuga la gola. Forse è l’ozono, energico ossidante, o forse più semplicemente è l’assenza di tutto quello che ci buttiamo dentro - gas di scarico, polveri sottili, miasmi vari –

IL PROFUMO
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di Sergio Poli
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Sentieri e Parole Nella pagina precedente: ...Restiamo a casa! Qui sopra da sinistra: Profumo d’estate; Primavera vera

che rende quell’aria così speciale, gra zie all’inversione termica che tiene giù la caligine.

Risentiamo i profumi

Si sa che le cose si apprezzano nel loro vero valore quando non si hanno più. Mai come in questo periodo così travagliato ci mancano le cene con gli amici, le sere al cinema, le camminate in montagna: perché non le possiamo più fare, almeno per ora.

Sappiamo anche – l’abbiamo im parato nel lock-down di questa pri mavera - che sopportare la rinuncia per qualche settimana può ridarci la possibilità di uscire, di tornare alla vita normale, fatta di relazioni, di movi mento, di contatti “in presenza” e non solo virtuali.

Risalire sui sentieri che circondano la città, nel silenzio del primo matti no, sentendo l’odore dell’erba secca,

dell’aria che via via si fa più leggera, come leggera si fa la testa. Quello, quello è il profumo della montagna, che somiglia molto al profumo della libertà.

Cerchiamo allora di impegnarci a stare tranquilli perché, con un breve periodo di sacrificio in casa, possiamo presto tornare a sentirlo.

LA TECNICA E LA MAGIA

Dall’alto: Sopra la caligine; La magia dell’inverno Come si arrampicava cinquant’anni fa in un saggio d’epoca di Pino Panzeri di Angelo Faccinetto Pino Panzeri davanti al bivacco CozzolinoAgner nel 1978. Foto di Alfredo Mira D’Ercole.

Le montagne, quelle, non sono cambiate. E nemmeno le pareti, al netto dell’erosione e (nel caso delle vie più frequentate) dell’usura. Il modo di salirci, quello sì, è cambiato. L’evoluzione dei materiali ha avuto il suo peso, ma non è tanto quello. Per ché alla fine i materiali si evolvono in funzione delle esigenze e delle idee di chi li usa. Esigenze e idee sempre diverse, sempre nuove. Come sem pre diverse e sempre nuove sono le pareti che gli scalatori si sono andati a cercare. Dalle grandi Nord ai mas

si dei fondovalle, dalle guglie calcaree della Grigna o delle pareti del Verdon e delle Dolomiti, al granito del Masino o dello Yosemite, al misto del Bian co, al ghiaccio dell’Himalaya, alle rocce asimmetriche delle coste della Sarde gna.

Il mondo gira così. Si testano nuovi materiali e si studiano nuove tecniche. Scalare pareti con le scarpe chio date o con le pedule di feltro cucite a mano, con gli scarponi dalle suole “carrarmato” Vibram o con le scar pette superaderenti di mescola mor bida che quasi si incollano alla roccia, non è la stessa cosa. Non è la stessa cosa nemmeno fare assicurazione a spalla e stare appesi a una corda di canapa annodata in vita o disporre

di una imbragatura dotata di dissipa tori di energia. Così, nel tempo, con i materiali è cambiato l’approccio alla montagna, l’atteggiamento di chi scala. Sono cambiati gli stessi movimenti, è cambiata le tecnica.

“Alpinismo moderno”

Può essere allora interessante, per chi ama l’arrampicata ed è incurio sito dalla sua evoluzione, dare uno sguardo a come si arrampicava una volta. Nel nostro caso, non agli albori del Novecento, ma negli anni Settanta, cioè cinquant’anni fa. Che sembrano tanti ma sono volati in un amen

Ad aiutarci in questo viaggio nella memoria è un saggio di Pino Panzeri – il Panzerin – Ragno della prima ora e per molti anni direttore della scuola di roccia del Gruppo. Non un saggio qualunque, ma un testo pubblicato nel 1970 – cinquant’anni fa, appunto - sul volume a più voci “Alpinismo moder no” curato da Giancarlo Del Zotto e stampato dall’editrice milanese Il Ca stello. Accanto alla sua, firme del ca libro di Riccardo Cassin, Pierre Maze aud, Kurt Diemberger, Cesare Maestri, Bepi De Francesch… Gente cha ha fatto la storia dell’alpinismo e che all’oc correnza sapeva usar la penna. Un li bro di prestigio, a riprova della stima goduta dai Ragni e dal direttore della loro scuola. Il quale, detto per inciso, ai corsi non si presentava armato solo della propria esperienza e delle proprie competenze, ma anche con un fascio di dispense ciclostilate scritte di suo pugno, la summa del suo pensiero ar rampicatorio.

Al nostro, nel libro, è affidato il com pito di introdurre l’aspirante rocciatore all’arrampicata libera su calcare e do lomia. E lui lo svolge con la compe

tenza e la precisione di un didatta di lungo corso e, insieme, con la cultura e l’arguzia che sempre sono state la sua cifra riconosciuta. Il risultato, una trentina di pagine che lette oggi si aprono come una finestra sul passa to, ma contengono anche sprazzi di modernità e – per chi le sa coglie re - sensazioni immutate nel tempo. Perché, lo ricorda, scalare montagne è tecnica, è vigore atletico, è avventura, ma è anche magia, stupore. Davanti a un riflesso di luce, a un panorama, a un passaggio difficile superato in modo inatteso.

Scrive il Panzerin nel suo saggio: “Io ricorderò sempre con emozione il momento in cui, ancora ragazzo, mentre stavo dando svogliati colpi di martello (quello che allora si portava infilato nella tasca posteriore dei cal zoni alla zuava al posto del portafoglio, ndr) su una roccia delle mie Grigne, con la mente dietro chissà quali fanta sticherie, uno scheggione si staccò di colpo rivelandomi lo stampo perfetto di una piccola conchiglia marina. Se qualcosa del genere capitasse anche a voi, se qualcosa come un trasalimento, un senso di tenerezza, un desiderio di sottomissione vi prendesse… ebbene sappiate che quello è ‘un momento magico’ nel quale comunicare senza intermediari con la Natura (…)”.

dinare l’equilibrio della persona, anche se poi, quando aumentano le difficoltà, alle mani è richiesta una funzione au siliaria “per vincere la forza di gravità”. (Ancora non si usavano i balzi felini verso appigli irraggiungibili).

Punto due, conseguenza del pun to uno: “gli appoggi devono essere sfruttati solo e sempre con la parte anteriore della scarpa: si deve cioè arrampicare di punta”. Un principio fondamentale, in tempi di rigide suo le Vibram e di scarponi monumentali, che “può essere esteso, al massimo, alla parte anteriore del piede, quando ciò torni eccezionalmente più como do”. Specie se l’appoggio a gradino è

un po’ inclinato verso il basso. “Ap plicando con determinazione questo principio – ripeteva da istruttore ai suoi allievi – sarete costretti ad ar rampicare bene”.

Oggi, anche sulle nostre pareti le cose vanno diversamente. Le mescole morbide delle suole parlano di ade renza, ispirano altri movimenti. Ma al lora … Così, ad esempio, Panzeri ricor da che “un appoggio assai redditizio è, molto spesso, l’incontro di due facce di roccia ad angolo convenientemente acuto: la punta della scarpa tenderà a incastrarsi, venendo così a creare un appoggio più consistente di altri (…)”. Altro discorso per gli appigli, dove

“Di punta”

Ma per tirare colpi di martello in mezzo a una parete e magari ripor tare alla luce un fossile, bisogna pri ma arrivarci. Ecco allora la tecnica. E le differenze con l’arrampicare di oggi.

Esiste, scrive il nostro, “un primo ba silare inderogabile principio: si arram pica con le gambe”. Le braccia, quelle, servono solo per mantenere e coor

14 Sentieri e
Parole

si va a tastoni, cioè usando “gli oc chi delle mani”. “Quante volte la nostra mano è incappata in una presa che gli occhi non avevano potuto individuare! (e che respiro di sollievo accompagna queste gradevolissime scoperte). (…)

Un caso particolare da segnalare è quello di prese per le mani aventi forma di un piccolo gradino, magari sfuggente verso il basso e ad orlo ar rotondato: la mano deve esservi ap poggiata a dita ben strette, cercando la sfumatura della roccia che permetta anche solo un minimo di contrappo sizione dita/palmo”. Ma mano che il corpo si eleva, però, “la tenuta di que sti appigli diminuisce e, all’altezza del le spalle, si annulla”. Allora ci si deve accertare che “per non rovesciarsi indietro bastino gli altri tre arti”. Che “devono essere sempre fermi, mentre il quarto compie il movimento neces sario alla progressione”. E se gli appigli sono rovesci? Basta afferrarli da sotto contrapponendo la forza delle gam be. Perché, con la dovuta attenzione e con muscoli e tecnica, tutto è scala bile. Anche la roccia verticale e liscia. In fondo, spiega Panzeri, arrampicare significa semplicemente trasferire sulla roccia la serie di movimenti che com piamo camminando o correndo. Solo che il terreno di progressione, anziché stare sotto i piedi, è lì davanti agli oc chi. E’ sempre solo una questione di equilibrio. Cosicché, conclude, “è raro che un uomo giovane risulti total mente negato all’arrampicare”.

La Duelfer

Non sempre però la parete si pre senta come un’enorme tavola più o meno liscia, più o meno verticale. La

montagna è tormentata. Torri, campa nili, guglie presentano fessure, spigoli, tetti, diedri, camini. Ognuno di questi aspetti richiede una particolare tec nica per essere superato. Ecco allora – giusto per fare un esempio - che si infila lo scarpone nella fessura fino a sentire la roccia che “morde la scarpa, costituendo così un appoggio sicuro”, oppure si opera una torsione punta/ tacco o, persino, coscia/ginocchio. “O si applica la cosiddetta tecnica Duelfer che consiste nell’afferrare il bordo della fessura con le mani contrapponendo i piedi sull’altro bordo”. Su diedro, fes sura, camino, si deve andare sempre così, “con la tecnica della contrappo sizione”. E’ molto più faticosa e im pegnativa – sottolinea - del normale procedere su appoggi a gradino, ma alla fine è anche di maggiore soddi sfazione. Su uno spigolo, invece, si può procedere addirittura “cavalcandolo” –a condizione che sia sufficientemente acuto - sfruttando “l’attrito della parte interna dello scarpone e quello delle mani a palme aperte”. E via di esempio in esempio. In traversa ta (e non solo) si deve essere cauti nella ri cerca degli appoggi laterali. Perché “si deve evitare assolutamen te – avverte – di fare dei saltelli cercando di sostituire al volo un piede all’altro. In questo modo, per un momen to, si rimarrebbe ap pigliati alle sole mani”. E proprio non si deve. Qualcosa di diverso da quello cui ci hanno abituato i climber dei nostri giorni.

L’essenziale, aderendo alla roccia, è sempre l’equilibrio. Inteso come “il raggiungimento di un perfetto a piombo del corpo” e come una per fetta distribuzione del proprio peso sugli appigli e gli appoggi.

Calcare o granito, un ulteriore aspetto riguarda la psicologia dello scalatore. “Prima, durante e dopo l’ar rampicata – spiega il Panzerin – ci si deve studiare con cura, comunicando (in caso di corso di roccia, ndr) all’i struttore le proprie reazioni”. Perché “la prudenza è uno dei doni più preziosi dell’alpinista, la paura, invece, è il difet to più pericoloso”. “Chi ha commesso l’errore di interpretare in senso spor tivo deteriore l’alpinismo, non ha mai avuto una carriera molto lunga: o lui si è stancato della montagna o – peggio – la montagna si è stancata di lui”.

Altri tempi o concetti su cui sarebbe bene continuare a meditare?

LA LEGGENDA DEI FRATELLI EREMITI

...e le chiesette a loro dedicate sulle montagne della Valsassina di Annibale Rota

Una

delle leggende più cono sciute nel territorio lecchese è legata a sei fratelli e una sorella, che vivevano in Valsassina, di ventati eremiti e santi dopo la morte del loro ottavo fratello.

Anche l’ingegner Pietro Pensa, si curamente il più documentato storico del territorio lariano, riporta una delle versioni di questa leggenda, ne esi stono almeno tre, nella sua ponderosa trilogia “L’Adda, il nostro fiume”.

Dopo la morte del fratello, avvenuta in circostanze tragiche, gli altri decise ro di ritirarsi a pregare in luoghi solita ri sulle montagne circostanti, venerati dalle popolazioni per la loro santità. Ogni sera un fuoco di saluto veniva acceso sul monte più alto e veniva

ritrasmesso a tutti gli altri. Lo stesso mezzo di avviso era utilizzato da cia scuno per chiedere l’aiuto del fratel lo più vicino per soccorrere qualche montanaro in pericolo o malato. Tutti erano ritenuti protettori contro le ca lamità naturali: siccità, alluvioni, eson dazioni dei torrenti, grandine, fulmini e incendi dei boschi.

Questi i nomi attribuiti dalla leg genda agli eremiti: Sfirio, Calimero, Ulderico, Grato, Defendente, Fedele e Margherita, l’unica sorella.

Passarono gli anni e i fuochi ini ziarono a spegnersi. Per ogni fuoco che si spegneva però una stella si ac cendeva in cielo e nei luoghi dei loro romitaggi vennero edificate chiesette dedicate al santo eremita, che lì aveva

posto la sua dimora.

Va subito premesso, e lo vedremo di seguito, che i santi ai quali sono dedi cate le chiesette non avrebbero potu to essere, per i tempi e le località in cui sono vissuti, tra di loro fratelli come detto nella leggenda. Sono però tutti accomunati da un culto molto diffuso sin dall’antichità in Valsassina e in Val varrone, e per alcuni anche nei paesi dell’Alto Lario.

Sfirio, il più anziano dei fratelli, scel se la cima del Legnoncino, a 1714 metri di altezza in un punto con una vista eccezionale sul lago e sulla Val varrone. Lì nel XIII secolo venne edi ficata una chiesetta. Distrutta da un fulmine, venne ricostruita nel 1709 e restaurata nel 1965. Su questo santo,

Fotografie di pagina 14, 15 e 16: Scuola di arrampicata. Foto tratte dal libro L’alpinismo moderno Editrice Il Castello, Milano 1970 La chiesetta di San Sfirio sul Legnoncino, meta di un’escursione del 1979 dell’Alpinismo Giovanile del CAI Lecco
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Sentieri e Parole

elevato agli altari dalla de vozione popolare, non ci sono molte notizie. Il suo culto in Valvarrone risale a tempi molto antichi e il 17 di agosto la chiesetta viene raggiunta con una proces sione molto partecipata.

A 1500 metri sulle pen dici della Grigna Setten trionale, sopra Pasturo, è la chiesetta di San Calimero, consacrata nel 1343 e più volte ristrutturata. Attual mente, con muri bianchi e il tetto in lamiera verni ciata di rosso, la chiesetta è facilmente visibile anche da lontano. L’ubicazio ne, secondo una leggenda, sarebbe stata indicata dal le rondini, che avrebbero portato lì del materiale da costruzione depositato più in basso. Nato da nobi le famiglia, San Calimero è vissuto nel terzo secolo ed è stato Vescovo di Milano

dal 270 al 280 d.C. e il quadro posto all’interno della chiesetta lo raffigura con la mitria e il pastorale. E a Milano, dove è stato poi decapitato, c’è una basilica a lui dedicata. Il santo è molto venerato e la sua festa si celebra l’ul tima domenica di luglio.

Sulle pendici settentrionali del Mon te Muggio, a 1392 metri con una vista grandiosa sulla Valvarrone, il Legnone e il centro lago, è la chiesetta roma nica di Sant’Ulderico, risalente all’XI secolo e citata anche nel “Liber Noti tiae Sanctorum Mediolani” di Goffre do da Busseno. E’ stata praticamente riedificata e stravolta nel XVI secolo e nel 1969 una manutenzione straor dinaria ha visto anche il rifacimento del tetto pericolante. Difficile dire chi fosse questo santo: alcuni lo identi ficano con Gualderico, un martire mi lanese, altri con Olderico vescovo di Augsburg in Germania. Ed è anche difficile dire come si sia originato il suo culto in Valvarrone e in Valsassina.

Ancora sulle pendici del Muggio, sul versante occidentale a 950 metri con uno spettacolare panorama sul lago e sui monti della sponda opposta fino alle Alpi, è la chiesetta di San Grato, consacrata nel XIII secolo e pesan temente ristrutturata nel 1680. Vi era conservata una preziosa antica statua lignea del santo: negli anni cinquanta la soprintendenza l’ha sottoposta a un restauro conservativo e l’ha trasferi ta alla Pinacoteca di Brera, mettendo nella chiesetta una copia. San Grato è vissuto nel quinto secolo ad Ao sta, di cui è stato il secondo vescovo. Le sue spoglie sono conservate nella cattedrale di Aosta ed è stato scelto come patrono della città e della dio cesi. Il santo era molto conosciuto in

Valsassina e nella Muggiasca ed ave va fama di proteggere la campagna e i raccolti dal maltempo: temporali e grandine. Vicino alla chiesetta c’è un ristoro aperto il sabato e la domenica da marzo a novembre e tutti i giorni in luglio e agosto.

Sulla cima del Monte Cavedino, oggi Monte San Defendente, a 1321 metri, con una vista che spazia su tutto il La rio e sulle montagne della Valsassina e dell’altra sponda del lago, sorgeva una chiesuola dedicata a San Defenden te, che lì aveva posto la sua dimora. Disastrata dalle intemperie, venne so stituita nel 1677 da una cappella, ulte riormente restaurata attorno al 1850. Quando anche questa venne distrutta dai fulmini, abituali su una cima tanto isolata, si decise di installare l’attua le croce in ferro e di chiamare San Defendente il monte. Militare romano martirizzato nel III secolo nei pressi

Nella pagina precedente dall’alto: La chie setta di San Calimero; La chiesetta di Sant’Ulderico. In questa pagina dall’alto: La chiesetta di San Grato; La chiesetta romanica di Santa Margherita a Somadino.

di Marsiglia, questo santo, venerato in tutta l’Italia Settentrionale, protegge va dai lupi e dagli incendi dei boschi, frequenti nella parte alta di Esino e sul monte. La sua festa a Esino e a Perledo si tiene la terza domenica di settembre.

Margherita, l’unica sorella, era andata a vivere poco fuori dell’abitato di So madino, a 865 metri, appena sotto il valico di Piazzo tra la Valsassina e la Valvarrone. I fratelli le facevano visita a turno e lei li aggiornava sugli altri. Lì, su uno sperone di roccia detto il Sas so della Guardia, venne edificata alla fine dell’XI secolo la graziosa chieset ta romanica dedicata al suo nome. Le ristrutturazioni intervenute nel corso dei secoli non hanno modificato l’o riginaria struttura romanica di questa chiesa, che è la più antica della Valsas sina e conserva al suo interno un ciclo di affreschi del XII secolo, più antichi di tutto il territorio. Santa Margherita fu martire in Antiochia, dopo aver su bito atroci torture in carcere ad opera del governatore romano.

Fedele viveva in un romitorio po sto sopra il passo di Piazzo, a poca distanza da Margherita, che andava a trovare portandole notizie dei fratel li. In quel posto venne costruita una chiesetta a lui dedicata: caduta in ro vina, a differenza delle altre, non ven ne più ricostruita e col tempo sono spariti anche i ruderi. San Fedele è un santo storicamente noto. Era riuscito a fuggire dal carcere di Milano con alcuni altri soldati, imprigionati perché cristiani. Inseguito, venne raggiunto a Samolaco e ivi decapitato e sepolto. Nel 964 le sue spoglie furono trasfe rite a Como nella chiesa paleocristiana di Santa Eufemia, poi a lui dedicata, mentre nel luogo del martirio fu eret to lo splendido tempietto romanico, conosciuto oggi con il nome di San Fedelino. La pietà popolare col tempo fece anche di San Fedele, come aveva fatto con gli altri, uno dei fratelli ere miti.

eremita sarebbe San Gerolamo Miani, patrizio veneziano trasferitosi a So masca nel 1511, dopo essere fuggito miracolosamente dai Francesi, che lo avevano imprigionato. Da Somasca, dove si era dedicato al servizio dei poveri, dei malati e degli orfanelli, e dove una salita con una serie di cap pelle con episodi della sua vita porta al suo santuario, il culto di questo santo si diffuse in tutto il territorio circo stante e in particolare nella Muggia sca, tanto che il parroco di Noceno nel 1803 fece erigere una chiesetta a lui dedicata all’Alpe di Camaggiore. E la popolazione lo aggiunse agli altri ere miti.

...E CHI NON LA SA?...

Una seconda versione della leggen da aumenta a nove i fratelli e a otto gli eremiti ritiratisi sulle montagne dopo la morte di fame del fratello. L’ottavo

Secondo la terza versione di que sta leggenda i fratelli eremiti sarebbero stati mandati sul Lario da Sant’Am brogio vescovo di Milano per evan gelizzare quella popolazione, che però non li accolse bene, costringendoli a scappare sulle montagne, dove tra scorrevano il tempo pregando e me ditando, accendendo un falò ogni sera per salutarsi.

Nelvariegato mondo della co ralità contemporanea italiana, ad un’indagine qualitativa non troppo approfondita risulta evidente l’importanza che cori che dichiara no di affrontare repertorio popolare ricoprono ancora nel panorama corale del Bel Paese. Analizzando randomi camente i dati presenti sul sito italia cori.it, portale italiano della coralità1 rileviamo però sostanzialmente una doppia situazione che contrappone il Nord al Centro-Sud. Se al Nord la presenza dei cori popolari è molto si gnificativa (si va da circa un quarto dei cori in Lombardia, ad un terzo dei cori in Veneto fino alla metà in Valle

d’Aosta e Trentino) lo stesso non si può dire per il Centro-Sud, in cui si passa da circa il nove per cento di cori popolari in Lazio, al sei per cento in Toscana, fino allo zero in Sicilia. Quel lo contemporaneo è un quadro che non desta alcuna particolare sorpre sa; piuttosto fotografa una situazio ne storica per la coralità italiana. Se il mondo corale al Centro-Sud ha subìto una sostanziale impennata, quantita tiva e qualitativa, in seguito al lavoro profuso da FENIARCO (1) negli ultimi trent’anni, al Nord, seppur sia in corso un progressivo innalzamento del livel lo medio della coralità, la tradizione corale affonda le sue radici perlopiù

nel primo dopo guerra, nel desiderio dei “coscritti” di ritrovarsi per cantare insieme quell’esperienza totalizzante, ancorché distruttiva, che era stata la loro partecipazione al conflitto. Realtà corali quali la SOSAT prima e la SAT poi, divenute oggi campioni di un mo dello di canto popolare diedero inizio proprio a cavallo tra le due guerre ad un’ampia diffusione della coralità. La spinta di queste formazioni corali del Nord-Est, sostenuta da un con testo socio-culturale già propenso

Sentieri e Parole

Fotografie di Annibale Rota.Panorama dalla chiesetta di San Grato
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Canto popolare e cori popolari in Italia: situazione, senso e prospettive
Lo spartito di “Ai preat la biele stele”, canto po polare friulano armonizzato da Luigi Pigarelli di Francesco Bussani* e Giulia Maria Taccagni**

nel Nord Italia e assente invece nel Centro-Sud, ha creato le condizioni per realizzare tale disparità tra le varie aree regionali italiane.

Abbiamo parlato fin qui di real tà corali e canto popolare Per inciso va detto che il canto popolare non si identifica completamente con la sua realizzazione nel canto corale “in di visa”. È dato di fatto che espressioni di canto popolare esistono anche, e forse soprattutto, al di fuori della real tà organizzata. Da questa considera zione potremmo ad esempio rilevare un altro elemento che potrebbe aver contribuito a generare lo scenario descritto sopra: il canto popolare au

tonomo è fortemente differenziato nelle varie aree italiane, dando origi ne a prodotti con qualità proprie dei vari stili regionali di canto popolare Generalizzando, se il mondo popolare del Nord si caratterizza per brani di contenuto epico-narrativo con temi ricorrenti tra il quotidiano e il fiabe sco in forma strofica, il Centro-Sud è caratterizzato perlopiù da brani soli stici e/o di carattere improvvisativo e spesso monostrofici, meno adatti ad una successiva “restituzione” corale2

In altre parole se al Nord è un popo lo che canta al Centro Sud si canta al popolo

In questo contributo pertanto, con

sapevoli della difficoltà e della vastità dell’argomento, formuleremo le nostre considerazioni nel campo della mu sica popolare soprattutto per quanto concerne le sue forme corali, diciamo così, “istituzionalizzate”.

Varie idee di popolare Questo articolo nasce come alter nativa ad una conferenza che si sa rebbe dovuta tenere presso la sezione CAI di Lecco sul tema Cori popolari tra passato e futuro e che poi, causa la difficile situazione che stiamo vi vendo, non si è potuta svolgere. Nel prepararla, risultò subito chiaro un fondamentale problema di natura ter minologica. In realtà la richiesta, per come era formulata, sembrava riguar dare più la situazione dei cori ama toriali maschili del territorio, piuttosto che l’effettivo stato di salute del canto popolare. Evidentemente il problema è dato proprio dal significato che al ter mine popolare si può e si vuole dare. L’analisi qualitativa condotta nel para grafo precedente è rivelatrice; è im pressionante, e in questo senso desta anche un qualche sospetto, la quantità di cori che dichiara di affrontare un repertorio popolare soprattutto con frontando organici e repertorio effet tivamente eseguito. Va indubbiamente detto che il termine popolare non è univoco e che, nel corso del secolo scorso, si è caricato di una serie di significati molto diversi, cosicché il termine ha assunto un ventaglio così ampio di possibilità da renderlo quasi una categoria onnicomprensiva.

Limitandoci ad una descrizione del la situazione, popolare è innanzitutto il canto del popolo, legato alla sponta neità del cantare. Semplificando molto, si canta in occasioni di socialità, ricor

renze, cerimonie, contesti lavorativi, di dopolavoro ecc.: si pensi al repertorio conviviale di tanti “dopo concerti”.

Popolari sono anche i canti di guer ra; con l’avvento delle guerre mondiali, primo melting-pot italiano, vengono adattati e/o inventati nuovi canti, a tema guerresco; nascono una gran de quantità di brani che diventano espressione di un nuovo modo d’es sere. Si assiste poi ad una parziale so vrapposizione tra questi canti guerre schi e il corpo militare che li ha poi resi famosi e conosciuti: gli Alpini. Nasco no così i canti alpini di cui il Convegno in difesa del canto alpino di Lecco del 1965 si premurerà di definire la vera forma.3

Tradizionalmente con popolare si intendono poi anche i canti di mon tagna, siano essi di autore anonimo o conosciuto, espressione di quel mondo di appassionati che vede nella

montagna una ragione di vita. Il tema della fatica, della natura, della mor te e della vita trovano in questi canti straordinaria espressione. Il CAI è in prima linea per la diffusione di questa cultura principalmente su due fronti; in primo luogo con i suoi cori: attual mente sono 764 le formazioni co rali CAI impegnate sul suolo italiano. Inoltre dal novembre 2014 il sodalizio ha costituito una struttura operativa denominata Centro Nazionale Coralità (CNC) “con l’intento di valorizzare il grande patrimonio della coralità inter na e di dare maggior voce alla cultura delle montagne e di tutti coloro che le vivono”.5

Popolare ha assunto poi anche il si gnificato di conosciuto, noto al popolo, e allora sono entrate in questo reper torio brani d’autore che di popolare inteso come tradizionale del popolo, e quindi normalmente anonimo, hanno

Il Coro Alpino Lecchese davanti al Teatro della Società di Lecco nel 2016

poco o nulla. Porto un esempio per sonale: a Premana, dove ho la fortuna di aver toccato con mano l’esperienza di un canto del popolo ancora estre mamente vivo e produttivo, è consi derata di tradizione comune, e quindi popolare La miniera brano scritto ne gli anni Trenta da B. Cherubini e C.A. Bixio, e portato, anni dopo, al successo, da Claudio Villa.

Quando poi il popolo diventa sem pre più pubblico, da attore diventando spettatore, molti cori popolari hanno inglobato nel proprio repertorio po polare brani… pop da un lato convinti che fosse la strada giusta per avvici nare un nuovo pubblico a quel mondo corale e dall’altro perché persuasi di una certa popolarità di questi brani. E così dai Pooh, a Davide Van de Sfroos, passando per Branduardi e le armo nizzazioni di canti gospel, spiritual o africani, tutti, o quasi, i cori popolari hanno “aggiornato” il proprio reper torio.

Lo spartito de “La Montanara”, canto d’ispirazione popolare scritto e musicato da Toni Ortelli

Un tentativo di chiarificazione

Non è ovviamente facile dire che cosa sia autenticamente popola re perché in effetti popolare è tutto questo: è la spontaneità del canto, è l’appropriazione di canto d’autore, è il canto di guerra, è il canto di montagna, è il canto pop … Quando però parliamo di canto popolare come genere, allo ra forse alcune indicazioni andrebbero offerte, anche per evitare, in eventuali concorsi o rassegne dedicati al canto popolare di trovarsi di fronte a reper tori estremamente diversificati e con pochi, o nessuno, elementi di contatto. Piccolo passo indietro. Nell’affron tare questo discorso noi già abbia mo dato però per scontato un fatto: e cioè che sia lecito a) trascrivere un canto popolare b) armonizzarlo e realizzarlo per renderlo eseguibile da un coro polifonico “istituzionale”. Non possiamo qui affrontare questa duplice questione spinosa; ci limitia mo ad evidenziare alcuni dati. Il canto popolare è, indipendentemente dalla provenienza, un canto spontaneo che appartiene alla memoria viva e non li

Sentieri e Parole

bresca di un popolo. Certo la trascri zione di questi canti rende possibile una conservazione e uno studio ed è quindi fondamentale come fatto sto rico-culturale, ma, di certo, non salva guarda il canto popolare Dall’altro lato l’armonizzazione o l’adattamento di un canto popolare, necessariamente, lo modifica e lo snatura, almeno per il fatto che lo rende non più spontaneo. Merito però di questo lavoro, laddove condotto con quella “umiltà vera” pro posta da Dionisi in un magistrale in tervento a proposito delle armonizza zioni popolari6 è quello di nutrire una memoria ormai stanca, soprattutto in

questo fenomeno. Non è certamente un caso se, paradossalmente, si fa più fatica a trovare coristi in città che non in piccoli paesi: il vivere civile e sociale è mutato, la città non ha più bisogno del canto per “stare insieme” (dice).

Contesti di campagna e di montagna invece favoriscono questi momenti di aggregazione. Conta dunque una certa dimensione rurale7 perché oggi ci sia una tradizione popolare ancora viva.

Importante è in secondo luogo l’appartenenza alla terra. Il canto è espressione di un modo di vivere, di un mondo culturale, di una tradizione.

mondo, materiale per gli “archeologi della musica”.

Il canto è allora popolare quan do rurale (nel senso non geografico, ma culturale, come espressione di un modo di vivere), vivo ed espressione di una comunità che in esso si rico nosce.

Cori popolari e dunque?

Dunque? Ha ancora senso oggi l’e sistenza di cori popolari? Certamente sì, e almeno per una duplice ragio ne. Da un lato essi si fanno testimoni di una cultura che, oggettivamente, non è ancora completamente venuta meno, anche se in forte crisi, e così facendo salvaguardano un patrimonio di ricchezza di straordinaria impor tanza. Dall’altra parte, essi feconda no il terreno in cui si muovono. Oggi l’incontro con un coro popolare può, e dovrebbe, far nascere il desiderio di riconoscere quel repertorio come proprio anche se in parte dimentica to. Esso è occasione di diffusione, con la speranza che questa realtà torni ad essere viva, anche se in forme inedite.

Vangeli e spiegarlo filologicamente, di esso non dice altro che il fatto che c’è ed è fatto in un certo modo: questo racconto nulla dice sulla dimensio ne viva che questa preghiera assume nella vita di un fedele.

La vera sfida dunque, al limite dell’impossibile, è quella di risentire, come società, l’esperienza del can tare insieme spontaneamente come autenticamente propria e necessaria dell’essere umano.

Dionisi, Elementi costitutivi della canzone al pina, tecniche e stili delle armonizzazioni, in E. Casagrande-L. Daniele (a cura di), Symposium sul canto alpino tradizionale Associazione Na zionale Alpini_Sezione di Vittorio Veneto, 1981, pp. 29-37.

7. Con rurale non si vuole necessariamente vincolare il canto popolare alla campagna o alla montagna come zone geografiche, ma piuttosto come modelli sociali di vivere, contrapposti ad un genericissimo urbano.

*Francesco Bussani classe 1995, è un musi cista lecchese. Da Francesco Sacchi, cantore e custode del canto popolare specialmente lom

alcune regioni italiane, e testimoniare la storia della nostra cultura.

Sono dunque individuabili elementi propri del canto popolare? Se sì, qua li? Partiamo da una puntualizzazione. L’esperienza del canto popolare na sce indubbiamente come elemento caratterizzante occasioni di socialità, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare. Il contesto storico-eco nomico-sociale ha indubbiamente un ruolo non irrilevante nel predisporre l’humus in cui poi questo si sviluppa. L’attuale contesto urbano, così segre gativo e anti-comunitario, impedisce oggettivamente la realizzazione di

Per un lombardo non è popolare Baba yetu o Down to the river to pray o almeno non lo è ancora: la tradizione è sempre pronta ad accogliere la no vità e a farsi modificare dalla storia: è aperta poiché viva.

Popolare ha infine un sostanziale rapporto con la vita: dice cioè di una storia viva in cui un popolo si rico nosce e intorno alla quale, come ad una bandiera, si identifica come uni tà. Un canto non più cantato, di fatto, non è più un canto popolare perché di quel popolo non dice più nulla. È un reperto, magari meraviglioso, ma certamente appartenente ad un altro

Va in ogni modo però tenuto pre sente che il lavoro del coro popolare è un lavoro artistico-musicale e quindi culturale. Lo scopo di queste realtà corali dunque non è quello di man tenere vivo il canto popolare, perché esso è vivo solo se contestualizzato, come abbiamo cercato di dire sopra, ma piuttosto è quello di racconta re una cultura offrendo un prodotto artistico. Il fatto che poi da questa occasione nasca un’autentica forma di canto popolare è conseguenza non necessaria e nemmeno prevista. Per fare un paragone, è la stessa differen za che intercorre tra la fede e il co noscere le preghiere: leggere il testo del Padre nostro, contestualizzarlo nei

NOTE

1. Il sito, proposto e gestito da Feniarco, vorrebbe essere il punto di riferimento per la coralità italiana. In esso si trovano tutti cori associati, i loro direttori, eventi e pubblicazioni connesse. È chiaro che vi sono censiti solo cori aderenti alla Federazione, che però si sta sempre più affermando e diffondendo.

2. Cfr. C. Nigra, Canti popolari del Piemonte Einaudi reprints, Torino 1974, pp. XXXV-LXVII.

3. Il Convegno nasce con lo scopo di deter minare il “modo migliore da seguirsi nella ese cuzione dei canti alpini” e “per tutelare questi canti nella loro tradizionale originalità quanto a testo e musica”. Cfr. Atti del Convegno in difesa del canto alpino Associazione Nazionale Alpi ni_Sezione di Lecco, 26-27 giugno 1965.

4. Così è riportato sul sito cai.it, sotto la voce Cultura-Coralità.

5. Cfr. archivio.cai.it, sotto la voce Organi Tecnici Centrali: Centro Nazionale Coralità.

6. Si rimanda alla lettura dell’illuminante in tervento di Renato Dionisi al Symposium del canto alpino tradizionale del 1979 sul corretto approccio al lavoro dell’armonizzatore. Cfr. R.

bardo, eredita la passione per il canto popolare e con essa due cori, Coro Alpino Lecchese e Nives di Premana, con cui il compianto maestro era stato attivo protagonista della vita dei cori popolari italiani. Diplomato in Pianoforte, diplo mando in Direzione di coro e composizione corale, è studente della classe di Composizione del Conservatorio di Como.

**Giulia Maria Taccagni mezzosoprano brianzola di origini laghée eredita dal padre e dalla Corale Bilacus di Bellagio l’amore vi scerale per la musica classica e il mondo po polare, e dalla madre la fedeltà al CAI, di cui è socia dalla nascita e Consigliere Sezionale da dieci anni. Già corista presso il Teatro alla Scala di Milano, sta collaborando con FENIAR CO per la raccolta e la cernita di canti po polari lombardi destinati al volume dedicato alla Lombardia del progetto Voci e tradizioni

Sentieri e Parole

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Copertina (fronte e retro) dell’album registrato dal Coro Grigna dopo il convegno “i veri canti degli alpini” svoltosi a Lecco nel giugno 1965 (vedi nota 3). Sul retro una foto del Coro Grigna. Nello stesso album, dopo la prefazione, due vignette interpretano il destino di tali canti, “assassinati” da esecuzioni lontane dal loro spirito
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Da sinistra: Foto stampata sulla custodia del LP registrato nel 1966 dal coro della SAT, a 40 anni dalla fondazione; copertina del disco La Valle registrato dal Coro alpino lecchese

di Raimondo Brivio

Ipossente costone contornato da alte vette che oltrepassano i tre mila metri divide due ampie val late. Sullo spartiacque, come un filo invisibile, si srotola il confine di stato. Villaggi edificati nei luoghi più solivi lungo gli alvei dei fiumi di fondovalle vivacizzano il paesaggio e in tutte le stagioni attraggono turisti, escursioni sti, sciatori o alpinisti.

Al di qua vive Carlino, al di là Han nelore.

Sono giovani, sono sportivi, sono

UN AMORE NEI TEMPI DEL

26 Sentieri
e Parole
CORONAVIRUS
Hannelore e Carlino, quasi una fiaba
Il possente costone contornato da alte vette che oltrepassano i tremila metri divide due ampie vallate

belli e si vogliono bene. Con l’auto ci si può frequentare puranco in inverno con strade innevate o ghiacciate. E fin qui nulla di strano e nemmeno sareb be il caso di scriverne.

Ma di botto, nel bel mezzo dell’ulti mo inverno si ferma tutto.

Confinamento nelle case. Divieto di uscire, di frequentare amici, parenti, “morose” e “morosi”.

Chi è di qua è qua, chi è di là è là.

Hai voglia parlarsi, salutarsi, guar darsi con lo smartphone…

Pezzi di vita, storie, leggende, sono da sempre racconti di nonni, zii, madri o vecchi del villaggio nelle lunghe sere invernali trascorse a baita. Talvolta ne troviamo i segni sotto forma di cro ci e santelle lungo le vie e i sentieri; oppure nelle chiesette artisticamente decorate da quadretti e ricami “per

grazia ricevuta”.

I montanari scavalcavano in ogni stagione passi fin su ai tremila sfidan do bufere, valanghe e guardie di con fine per arrotondare le magre entrate della vita silvopastorale con guadagni di un modesto traffico illecito.

Oggi le vie dei contrabbandieri fan parte del colore e vengono percor se senza pathos con mountain bike o di corsa con le scarpette tecniche.

Nessuno passa più notti insonni pen sando agli uomini di casa che stan no rischiando la vita o la prigione per comperare cibo, scarpe, abiti.

I nostri due innamorati, piuttosto arditi, hanno metabolizzato raccon ti sull’epopea dei contrabbandieri e, pensano: “potremmo giocarci questa carta”.

Serve qualche complicità. E chi me

glio delle proprie famiglie?

Detto e fatto. Carlino ha studiato il piano.

Lui salirà di qua, lei di là, in una not te senza luna, con venti gagliardi ma non troppo; quel tanto che basta per cancellare le tracce nella neve. Usci ranno di casa infilandosi subito nel bosco girovagando senza senso af finché qualche guardia troppo zelante non venga condotta alle loro porte.

Si incontreranno al valico; niente luci, dimenticare il telefono. Nessuno deve accorgersi che in alto, violando leggi e decreti, qualcuno stia scavalcando monti senza altro ausilio che l’ardi mento. Entrambi sono esperti alpini sti, ma non si devono lasciare orme.

Come per secoli han fatto i contrab bandieri, seguiranno il più possibile le piste degli animali selvatici.

Per la partenza, parola d’ordine via

…al di là vive Hannelore. Nella pagina successiva: I montanari scavalcavano in ogni stagione passi fin su ai tremila metri sfidando bufere…

Come per secoli han fatto i contrabbandieri, seguiranno le piste degli animali selvatici. Nella pagina successiva dall’alto: Lui salirà di qua, lei di là...; Il manto nevoso alterna passaggi gelati ad altri farinosi…

telefono: al buio, ci si avvia.

Le due famiglie, quella di qua e quella di là, affidano ai due giovani le ultime raccomandazioni e i rituali inviti alla prudenza al pari delle antiche benedi zioni e rimarranno in trepida attesa.

In estate la traversata richiede al meno sei ore di un buon camminatore allenato; nella neve alta come andrà?

Si attacca la salita. Il manto nevoso alterna passaggi gelati ad altri farino si ove si sprofonda. Poco prima della mezzanotte Carlino giunge ai 2.900 metri del passo. I cartelli segnaletici affiorano appena dalla neve. Qualche richiamo senza risposta. Allora lenta mente scende per l’opposto versante.

Sentieri e Parole

Una mezzora di cammino e intrav vede muoversi qualcosa. Il qualcosa parla. E’ una voce di donna.

Pochi minuti e sono uno fra le brac cia dell’altro.

Non avvertono né il freddo né il vento.

Poi su, al passo; e giù veloci. Sono felici.

“Andrà tutto bene” era lo slogan au gurale che campeggiava alle finestre delle case in quei tempi.

“Sta andando tutto bene” sussur ra lei. “Ja” risponde lui sorridendo. E avanti, sperando che il vento dia una mano facendo il suo dovere.

Giunti al bosco ridisegnano ara beschi fra gli alberi per simulare una discesa lontano dalla casa dove sono attesi. Vi arrivano prima dell’alba.

Entrano dalla porta dietro, quella che dà sulla legnaia.

La mamma al primo rumore ha messo sul fornello un abbondante caffè. Scende subito anche papà che al piano sopra era in attesa ancora vestito. Li guarda orgoglioso.

Tre squilli di telefono per segnalare la positiva conclusione della traversata a chi è di là.

Scendono pure la sorella maggiore e il più piccolo dei tre fratelli. Emozio ne, abbracci. Festa grande. Anche per Ceo, il gatto, che vedendo apparec chiare la tavola suppone ci sarà qual cosa pure per lui.

Gerstensuppe, pane, bresaola, for maggi, torta. Si stappano le bottiglie buone.

La mamma non brontola quando vede tagliare una generosa fetta di bresaola per Ceo.

30

Si rimandano all’indomani i racconti e le cronache della notte. Tutti a nanna.

Bisogna restare nascosti. Non deve trapelare la presenza di un ospite nella casa. Hannelore e Carlino dormiranno nella stanzettina dei bambini sotto il colmo del tetto; la tenda resterà sem pre tirata.

La cameretta è piccola e si sta stretti. Per due innamorati non è un problema. E così trascorrono i giorni, custoditi nel guscio degli affetti della famiglia di qua.

Appena sveglio Carlino si collega in videochiamata con la vecchia nonna che vive nella casa giù al fiume, vi cino alla “resgia”. La nonna scruta il viso di Carlino e vi legge tutto. “Saidice – io sono vecchia, non so come funzioni questo miracoloso aggeggio,

però conosco la vita delle persone; la capisco e la comprendo. Ho letto il tuo sguardo, che mi piace sempre, ma oggi ancor di più. Non dirmi niente, perché non si può, ma io ti ho letto negli occhi e nel cuore. Siate felici”.

Una settimana scorre veloce. L’a more è una cosa meravigliosa e una casa sigillata lo custodisce bene.

La vita però ha le sue dinamiche: Hannelore e Carlino devono ripren dere gli studi e preparare gli esami universitari. Si impone il ritorno alla normalità prima che la luna metta in risalto l’insolito andirivieni sui ripidi pendii bianchi.

Un pomeriggio Carlino chiama la nonna: “Domani non posso scendere da te per la spesa, verrà mia sorella Betty”. La nonna con un dolce sorriso

risponde: “Sì, va bene. Vi abbraccio, a presto, pregherò per voi…”.

Il rientro avverrà con le solite ceri monie. Carlino accompagna Hannelore fino alla bella casetta al di là dei monti. Oramai è tardi, perciò la risalita sarà per la nuova notte. Scollinerà per altro passo piuttosto defilato, lungo un iti nerario più breve e difficoltoso.

Raggiunto il valico, lontano a Est, scorge le prime luci orlare il profilo dei monti. Si butta a rompicollo verso baita.

La nonna aveva trascorsa la notte in veglia con il rosario in mano e, all’alba, si era assopita lasciando scivolare la corona sul letto.

Fotografie di Mauro Lanfranchi Nella pagina precedente: Poi su, al passo; e giù veloci: Qui sopra: Raggiunto il valico, lontano a Est, scorge le prime luci orlare il profilo dei monti

QUANDO IL CERCHIO SI CHIUDE

Matteo Della Bordella, Andrea Peron e Alessandro Zeni durante l’avvicinamento alla parete di Matteo della Bordella
La
“Leap of Faith” al Poncione d’Alnasca in Val Verzasca

Hal’aspetto massiccio di una piramide egiziana, la punta aguzza e slanciata come una freccia. La Sud del Poncione d’Alna sca ha stregato generazioni di alpinisti ed arrampicatori, da Comici a Bonatti, da Pedrini a Quirici, tuttavia al di fuori della realtà locale, sono solo una nic chia gli appassionati che la conoscono. Il compianto Erminio Ferrari scri veva a proposito di questa parete “E più che di una montagna, questa è una storia di uomini. Al Poncione d’Alna sca si può salire, con le gambe, con il cuore, le braccia, l’ingegno, la forza,

l’amore, la rabbia, il dolore. I sogni.”

Mi piace pensare che questa vol ta siamo stati noi ad aggiungere un piccolo tassello a questa bella sto ria, noi con i nostri sogni e le nostre ambizioni, noi che abbiamo condiviso fatiche, gioie, lunghi voli, notti appesi a bivaccare sotto le stelle, noi che ci siamo disidratati sotto il sole cocente di maggio ed abbiamo battuto i denti aspettando l’alba a dicembre.

La nostra “Leap of faith” rappresen ta, per me, la bellissima chiusura di un cerchio. Un cerchio che si era aperto ancora prima di piantare il primo spit

di questa via, in anni in cui conside ravo le pareti del Canton Ticino, un mondo nuovo tutto da esplorare; un vero e proprio terreno d’avventura a due passi da casa, dove si andava con gli amici per mettersi in gioco, diver tirsi e scappare dalle nostre routine quotidiane.

Per tutti noi, la Sud dell’Alnasca era la regina delle pareti, la si guardava dal basso verso l’alto, temendo la vertica lità di quei 500 metri di granito ed il lungo avvicinamento che la separano dal fondovalle.

È Luca Auguadri, ticinese di Chias so e, in quegli anni, fido compagno di avventure e di aperture di vie nuove, il primo a parlarmi della possibilità di aprire una via in libera sul lato sinistro dell’Alnasca.

Dalle parole ai fatti, però, passaro no anni. Anni per ripetere e cercare di conoscere questo luogo e questa parete a fondo, per entrare in sintonia con l’ambiente, con le sue placche li sce e con suoi silenzi, ci vollero anni per convincersi che finalmente i tempi erano maturi per provarci, fino a capi re che, se avessimo aspettato ancora, la nostra idea sarebbe svanita come neve al sole.

Nell’autunno del 2015 la via prende forma, oltre a me e Luca, la mia com pagna Arianna Colliard mi accompa gna durante l’apertura del primo tiro, mentre poco dopo è David Bacci a passare due giorni in parete con Luca, fino a raggiungere la cengia dopo il sesto tiro.

Lo stile di apertura è quello che ab biamo negli anni fatto nostro: scalia mo in libera il più possibile cercando di proteggerci con friends e nuts, quin di mettiamo gli spit laddove non ci si può proteggere in altri modi.

Dopo un paio di giorni passati an

cora a lottare su queste ripide placche con David, quelli in cui terminiamo la nostra via insieme a Luca sono indi menticabili: nel mese di dicembre, con un’inversione termica molto marcata, si creano le condizioni perfette per scalare la Sud; sotto di noi il mare di nebbia, che lambisce giusto la base della parete, come onde che si infran gono su una scogliera, sopra di noi il cielo azzurro e terso, l’aria frizzante dell’inverno che sta iniziando.

solo per metà; per chiuderlo manca ancora la salita in libera dell’intera via: 16 tiri in totale per circa 500 metri di arrampicata!

Sedici tiri

Il nostro cerchio è però tracciato

Durante la primavera 2018, la li bera diventa uno dei miei obiettivi di quell’anno ed organizzo svaria te uscite con diversi compagni per studiare e provare a liberare tutte le lunghezze. Con me in parete vengo no (almeno due giorni ciascuno) Luca Moroni, Enzo Scossa-Romano, Fran cesco Deiana e lo stesso Luca Au guadri. Liberare “Leap of faith” è un progetto esaltante, motivante e pieno

di ostacoli, dovuti alle condizioni della parete e ad un’arrampicata estrema mente esigente, ma allo stesso tempo aleatoria. Ci sono un paio di lanci, più unici che rari, dove l’ultima cosa che vorresti fare è proprio dover staccare entrambe le mani e saltare nel vuoto sperando di raggiungere la presa suc cessiva.

Pian piano la stagione 2018 volge al termine ed io me ne torno a casa con poco più di un pugno di mosche: libero tutti i singoli tiri ad eccezione di uno dove, solo dopo svariati tentati vi, riesco a malapena a concatenare il

Ale e Matteo con alle spalle la Sud del Poncione d’Alnasca Serata davanti al fuoco ardente e notte stellata in Val Verzasca

boulder duro con la corda dall’alto.

Mi convinco che forse questa via è troppo dura perché io possa riuscire a salirla in continuità e in libera. Sono un po’ spaesato e non so cosa fare, ho bisogno di un’idea nuova, ho bisogno di cambiare un po’ il mio approccio.

Il 2019 scorre veloce: Bhagirathi, Patagonia, Pakistan, il mio libro, la na scita di mio figlio, occupano i miei pensieri e si prendono il meglio delle mie energie e del mio tempo.

A fine anno arriva un’idea nuova: “invito qualcuno più forte di me, qual cuno che stimo per il suo approccio e con cui vorrei legarmi per fare una bella via… vediamo come va. Se la libera qualcun altro sono contento lo stesso;

chissà mai che vedendo in azione un arrampicatore più bravo, questi mi sia di stimolo per fare di meglio”

Nel variegato e ricco panorama ita liano dei forti e giovani arrampicatori, ai miei occhi Alessandro Zeni, negli ultimi anni, era sempre stato in grado di distinguersi…non soltanto per il suo talento e le sue capacità tecniche, ma anche per il suo percorso di evolu zione e di ricerca nell’ampio spettro verticale. Lo seguivo ormai da tempo e, quando avevamo scalato insieme in falesia, mi aveva subito stregato per la sua capacità di lettura della roccia, per i suoi movimenti, per come stava incollato e danzava sulle più piccole asperità delle placche verticali di cal care. Avevo gioito per il suo grande progetto realizzato qualche mese pri ma a Saint-Loup in Svizzera e, con

sapevole del fatto che fosse aperto e motivato verso esperienze nuove e big walls, avevo pensato che sarebbe stato bello proporre a lui di venire con me su questa via.

Sospettavo che in realtà fosse ben al di sotto del suo limite, ma ero certo sarebbe stata comunque una bella oc casione per vivere un’esperienza in sieme ed imparare qualcosa di nuovo l’uno dall’altro.

Salita d’autunno

Ale ha accettato volentieri il mio in vito e così, dopo aver dovuto salta re la stagione primaverile a causa del lockdown, ci ritroviamo a fine settem bre in una giornata umida e nebbio sa per un primo sopralluogo sulla via.

Lui non ci mette molto ad abituarsi ai 1300 metri di dislivello dell’avvicina

Riposo in parete sulla portaledge, aspettando le condizioni giuste per salire i tiri più difficili. Pagina successiva: Matteo vola durante il primo tentativo sulla settima lunghezza (8a+)
38 Alpinismo

mento, a tirare un saccone di 30 kg o a dormire per la prima volta in parete su una portaledge… ed in un paio di giri viene a capo dei due tiri più duri. Tuttavia, viene fermato dallo strano lancio bagnato del terzo tiro, che quel giorno non vuol sapere di entrargli.

Torniamo un mese più tardi e, que sta volta, ci sono con noi anche Tom my Lamantia, Fulvio Mariani, Nicolò Mariani, Mario Casella e Andrea Peron, con lo scopo di realizzare foto e ri prese per un cortometraggio che rac

Alpinismo

conti la via e la montagna. Passiamo in questo anfratto della Valle Verzasca tre giornate indimenticabili: un perfet to clima autunnale, una leggera brezza, e la luna piena che ci fa compagnia come un faro nella notte in parete.

Ale questa volta azzecca il lancio che lo aveva fermato la volta precedente: si porta a casa, con grande classe, la prima salita in libera di “Leap of faith”.

Io parto dal parcheggio con un at teggiamento un po’ rinunciatario, ma quando vedo lui scalare con tutta la sua precisione e la sua grinta, mi sento di nuovo motivato e mi concentro per spingere al massimo. Alla fine, con mia grande sorpresa, libero tutti i tiri duri

della via, compreso quello che tante volte mi aveva respinto due anni pri ma!! Quando azzecco il lancio chiave del decimo tiro (quello che dà il nome alla via) una scarica di adrenalina per vade il mio corpo ed ancora adesso mi sudano le mani. È solo un peccato che una caduta in un tratto più facile del terzo tiro, macchi la mia perfor mance, ma non c’è il tempo per me di ripetere questo traverso. Non fa nien te, forse questa volta anch’io più che la performance, cercavo l’esperienza. E il nostro cerchio finalmente si è chiuso.

ESPLORATORE DELLE ROCCE

Ivo Mozzanica se ne è andato a novembre, ucciso dal covid. Aveva 74 anni Nell’epoca

in cui Ivo Mozza nica ha debuttato sulle rocce i “grandi problemi alpinisti ci” o si potevano definire tutti risolti o erano ormai appannaggio di pochi super professionisti. E la gara si spo stava all’Himalaya. Ma a guardare bene, paradossalmente, si stava spalancando un enorme terreno di gioco: quello delle pareti senza vetta. Un concetto talmente assodato oggi, cui è andato sovrapponendosi quello di arrampica ta sportiva, che abbiamo finito per di menticarcene. Così come le vie a spit hanno ricoperto e cancellato le tracce di quelle salite nelle quali era impor tante non lasciare traccia.

Le vie venivano battezzate con i nomi di morose (certificate o ancora in cantiere, nella speranza che capi tolassero davanti a un’offerta così in consueta), di parroci, di anniversari, di sezioni del CAI.

Come già era successo 70 anni pri ma il vento del nuovo aveva iniziata a soffiare da Milano e a Lecco era stato guardato con scetticismo e senso di superiorità: cosa avevamo da impara re qui, ai piedi della Grigna, da scalatori dagli atteggiamenti strampalati e sen za un pedigree certificato?

La Val di Mello non esisteva se non come percorso di accesso al Rifugio Allievi e in tutta la costiera fra Lecco e Abbadia si contavano forse cinque vie di arrampicata, nessuna delle quali va leva nemmeno la perdita di una mezza giornata.

Pioniere

Fotografie di Tommaso Lamantia / Karpos

Quando nel 1977 Giovanni Ros si consegnò alle stampe il volume

1 della riedizione della leggendaria Màsino Bregaglia Disgrazia con cui

Aldo Bonacossa nel 1936 aveva defi nitivamente consacrato quella regione come una di quelle di maggior inte resse di tutto l’arco alpino, il nome di Ivo Mozzanica vi compariva insieme a quello di Mariangela Fontana per una via di “dettaglio” sulla Punta En richetta (alias Quota 2.869) tracciata il 15 agosto del 1974. Ma la caccia del suo nome fra le pagine registrava altre ascensioni di maggior rilievo.

Infatti già il 7 settembre 1969 Ivo, con Bruno De Angeli e Rino Zocchi, aveva “scoperto”, tracciandovi una nuova via, la Torre Selene (versante sud-ovest del Cengalo), in omaggio

allo sbarco sulla luna degli astronauti americani nel luglio precedente. E il 15 agosto del 1972 con De Angeli, sempre sullo stesso versante, aveva affrontato e superato (a comando alternato) la torre “Sinistra”. Una nota, apposta da Rossi in calce alla relazione, e che dà conto di un precedente tentativo con Andrea Redaelli, parla di uno “speciale gancio per sfruttare una protuberanza della roccia”. Il primo cliffhanger cer tificato nella collana “Guida dei Monti d’Italia”? Possibile …

In ogni caso due vie difficili an

Personaggi

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Nelle due pagine precedenti: Ale all’uscita del decimo tiro di Leap of faith 8a+b. Qui sopra: Il poncione d’Alnasca illuminato dalla luna piena
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di Alberto Benini Ivo sulla ‘Cascata di ghiaccio fuso’ a Capo Testa in Sardegna. In questo libro potranno espri mersi anche le rocce’ [didascalia originale]- Courtesy A. Gogna

La copertina di 100 nuovi mattini. Ivo figura in 2 delle 3’ri-crea zioni’ (in questo caso vere ‘creazioni’) dedicate alla Sardegna

che se abbastanza brevi, ma attente a valorizzare pareti non ancora prese in considerazione. E fra le due, il 17 agosto del 1971 l’ascensione solita ria della sud della Punta Torelli “in ore 0.35 senza alcun mezzo di assicura zione […] Difficoltà di IV e V, dislivello 200 m circa” per poi cambiare val le e affrontare nei giorni 19 e 20 la classicissima parete nord del Roseg per una nuova via (TD con passaggi fino al IV+ e inclinazione a 80°) sul lo sperone a destra della Diemberger. Dodici chiodi da ghiaccio per superare (in artificiale, visto che la piolet trac tion riposava ancora sulle ginocchia di Giove) il seracco.

Insomma non è difficile individuare fin da subito la cifra dell’attività di Ivo: la ricerca del nuovo, secondo il motto di Mummery: “Il vero alpinista è l’uo mo che tenta nuove ascensioni. Non

Personaggi

importa se vi riesca o no; egli ricava il suo piacere dalla fantasia e dal gioco della lotta”. Proprio questo atteggiamento l’a veva portato già nel 1967 sulle torri della Cresta Segantini con Andrea Redaelli con il quale continuerà un’attività esplorati va in Val Scarrettone nel 1971, sulle anti cime della Grignetta, dedicandosi anche nel 1971-1972 (con Vittorio “Papagone” Faiella e Antonio Porro) alle disertate e remote Guglie del Gerone, sul versante orientale della Grignetta. Un legame con questa montagna che non viene meno col passare degli anni, come te stimoniato dalle viette in Val Tesa nel 1986 con Ruggero Meles e Alberto Marassi.

Ma come avrete capito questo non pretende di essere un catalogo del le vie di Ivo: date un’occhiata in rete confrontando i vari siti che hanno parlato della sua scomparsa (molte cose belle sul Gogna blog) e vi rende rete conto che è un’impresa improba, solo un tentativo di documentare la sua voglia di non lasciare nemmeno un metro inesplorato, come attestano le vie sul Pizzo Boga, quelle con Da niele Chiappa al Nibbio (1969, oggi “Il conte Chiappa”) e al Lancia (1972).

Lecchese atipico

Un lecchese atipico, per la sua capa cità di dare notizia della propria attivi tà alla stampa specializzata, di scrivere. Basti ricordare a questo proposito, fra le altre, le guide escursionistiche de

dicate alle montagne della Lombardia, pubblicate da Electa che non è proprio l’ultima delle case editrici e le sue bril lanti osservazioni consegnate al n° 2 del 2015 di questo nostro bollettino: Ricordi di un vecchio alpinista: appunti su episodi temerari di mezzo secolo fa (pp. 24-27).

Ma ritengo che il suo riconosci mento implicitamente più prestigioso (e proprio più prestigioso perché im plicito, permettete la sottolineatura) venga proprio da un libro e da un libro che più passa il tempo più si dimostra “pietra angolare” per la storia dell’al pinismo italiano: Cento nuovi mattini di Alessandro Gogna. Non serve nem meno aprirlo: in un elegante bianco e nero la quarta di copertina ci resti tuisce Ivo impegnato (ma Ivo non sembrava mai “impegnato” quando scalava) sulle fantastiche strutture di Capo Testa in Sardegna. E se si apre il libro alla pagina 24, si può leggere: “Già nel 1975 Ivo Mozzanica operava nella zona”, riconoscendo quindi una primogenitura nella scoperta arrampi catoria di un’area di cui Gogna scrive: “La superficie di Capo Testa è circa 1 kmq ed è un paradiso per chi vuole arrampicare. Il granito ha le forme più fantasiose (“tafoni”) e una totale man canza di geometria”. E poche pagine dopo, il nome di Mozzanica compare nuovamente come lo scopritore della Punta di Sant’Andrea dove aveva sca lato con sua moglie Mariangela Fon tana (nel dicembre del 1974) e Alfredo Mira D’Ercole, attestando che “Mozza nica è anche l’unico che ha visitato le altre strutture”. Insomma una sorta di pioniere dell’arrampicata nell’isola. Che non è poco, se pensiamo a cosa è ve nuto dopo. E che sommato al resto ci restituisce il profilo di un uomo che ha fatto dell’arrampicata la sua vita, non scordando mai che guardare le cose senza pregiudizi e con curiosità è un buon modo per vivere su questa terra.

Giuseppe Spreafico per tutti “Pepetto”

bia), più esperti il Vittorio Rota (Ba licio) o il Giovanni Ratti. E il Bigio che mordeva il freno dietro al Luigi Ca stagna che torna to dalla Germania, come il Giovanni, aveva tutto il desi derio di riprendersi gli anni perduti della prigionia.

Forse

vale la pena di riprendere per un attimo la tela dei ragni riportando indietro l’orologio agli anni in cui il gruppo si affaccia va senza clamori e proclami, ma con molta concretezza, al proscenio del mondo alpinistico italiano. Figlio di un cavallante del Vellutificio Redaelli, così rancese che più di così è impossibile, Giuseppe Spreafico (Pepetto) era nato in salita. E non per stanca metafora. Le stradette e le scalinate fra le case in castrate le une sopra le altre sono sta te il suo habitat, dal quale era praticamente impossibile non entrare in contatto col mondo della montagna.

Si è ritrovato presto, alla fine della guerra, in quel cro giolo di giovani talenti diver samente ambiziosi e portatori di competenze variegate: più organizzativi il Nino Bartesa ghi e l’Andrea Castelli (Neb

Prima il campeg gio dei Ragni, quello con il Luigi, trom bettiere della banda Manzoni, che scandiva la giornata col suo strumento, poi una moto di se conda mano come prime chiavi per entrare nel mondo dell’alpinismo. Le vie che si “devono” fare e quelle che si fanno per piazzar lì il proprio nome, non per ambizione (quella lasciamola agli altri) ma quel particolare desiderio di affermare di “non essere da meno”.

Ai Denti della Vecchia, trascinati dalla passione del Gigi Vitali, o in Gri gna, sempre con uno spaurito Andrea Castelli come secondo perché biso gnava firmare almeno un paio di pri me per restare nel Gruppo e l’Andrea

da primo non ce la faceva di certo. E Pepetto aveva l’intelligenza per capire che l’Andrea poteva servire al gruppo come “segretario tuttofare” e insieme possedeva la sicurezza da infondere nel compagno. Ma soprattutto Pepetto ha interpre tato quel ruolo di coesione che quan to, e forse più delle grandi imprese ha fatto grande non solo il nome, ma l’anima più profonda dei Ragni. Perché Ragni erano esattamente questo: un’incredibile macchina di rapporti, di conoscenze, di abilità convergen ti, spesso in collaborazione, a volte in strisciante frizione o aperto contrasto fra di loro. Che con un equilibrio dina mico e un’alchimia difficile da riscon trare altrove, erano la sostanza stessa del Gruppo.

Pepetto era sempre attento a co gliere con ironia, ma senza astio, le contraddizioni di questo variegato mondo. Battuta pronta: “Ti sei ricor dato di prender su la bandiera?” ve dendo un amico ragno uscire dal caffè a Chiavenna in compagnia di Cassin e Osio, diretto verso l’Albigna con l’o nore e l’onere di fungere da autista e poi da capocordata ai due personaggi di maggior peso “politico” del nostro mondo alpinistico.

Non è una memoria, quella del Pepetto e di altri come lui, che si possa consegnare alle parole, quanto piuttosto una memoria di cose fatte bene. Impossibile non pensare alla teleferica della Stop pani dove le sue competenze di raffinato meccanico diedero il meglio di sé; alla collaborazione al recupero dei “Tecett” un sen

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di Alberto Benini
Ci ha lasciato Giuseppe Spreafico, per tutti “Pepetto”, l’uomo delle cose fatte bene
Qui sopra: 1983. All’Aiguille de Leschaux, Monte Bianco. Sotto: 1951. Pepetto, a sinistra nella foto, in vetta al Badile con Andrea Castelli. Foto archivio Giuseppe Spreafico

tiero che ha in sé tanta di quella che storia che in qualsiasi altro posto sulla faccia della terra bisognerebbe preno tarsi per poterlo percorrere; al lavoro di attrezzatura del sentiero dedicato al figlio “Riccardo Spreafico” vittima di una sciagurata uscita di scialpini smo: una tragedia che sta lì a ricor darci che si può essere bravi quanto si vuole, preparati, prudenti e ben più che all’altezza della situazione, ma che quando scocca la tua ora non ce n’è per nessuno.

Un peso che chissà quanto ha gra vato su un uomo che “proprio non se lo meritava”, ma che è anche sta

CIAO DOTTORE!

to gratificato da due altri figli alpini sti, che pure con approcci differenti, uno esploratore di percorsi remoti e

dimenticati, l’altro uno dei più bril lanti scalatori lecchesi del XX secolo, sono stati certamente il suo orgoglio.

Non per i valori tecnici espressi, ma per quell’attaccamento viscerale alla montagna che Pepetto ha sempre in terpretato senza ostentazione, ma con profonda coerenza.

Nel prossimo numero raccoglieremo testimonianze ed immagini sulla sua figura, così appartata, ma altrettanto importante per la storia della nostra sezione, della quale è stato consiglie re e responsabile della manutenzione della “Stoppani” negli anni decisivi del suo rifacimento.

QUEI RACCONTI DI STORIA E DI BELLEZZA

In memoria di Erminio Ferrari, alpinista e scrittore

CiaoSandro, Ragno di lunga data e stimato pediatra. Per noi non eri Sandro ma il Dott. Liati.

Ti chiamavamo così perché eri stato il nostro medico in diverse importanti spedizioni: dall’Jirishanca all’Alpamayo, dal Cerro Torre al Nevado Sarapo e dal Cho Oyu all’Ama Dablam.

In tutte queste salite eri stato un punto di riferimento con il tuo otti mismo, il tuo humor e la tua capaci tà di sdrammatizzare nelle situazioni

negative.

Mi ricordo di quando in Nepal ti ar rabbiavi perché al mattino arrivavano i “piccoli” portatori e il tuo occhio da pediatra ti faceva dire che era impos sibile avessero l’età da loro dichiarata per poter lavorare.

La situazione la risolvevi imponen do al loro capo a gesti di “alleggerirgli” il carico. Mi ricordo quando ridendo raccontavi che alla base di una pare te di ghiaccio in Sud America, legato in cordata con Casimiro, ti eri accorto

che i tuoi ramponi non andavano bene per i tuoi scarponi.

Allora i ramponi si regolavano col cacciavite e la chiave inglese. Cono scendo chi c’era legato con te all’al tro capo della corda, penso che avrai usato quintali di piccoli silenzi e di simpatiche battute per farla digerire al Miro che tu ridendo chiamavi “Nervo”.

Ci scommetto che anche in quell’occasione avrai detto in dialetto “L’è nient l’è negot”.

Parlavi in dialetto e in inglese, come quella volta che al Cerro Torre nel 1974, nella tenda alla grotta di ghiaccio dell’Elmo, ti accorgesti che qualcuno stava arrivando e, non rispondendo ai tuoi richiami, avevi urlato ridendo “do you speak english?

Ciao Dott. Liati, riposa in pace

Inun incidente in montagna, certo “un passo falso” come si dice, sul pizzo Marona, nella sua Valgrande se ne è andato Erminio Ferrari, uno dei migliori scrittori di montagna (e non solo) di questi ultimi vent’anni. Per forza non è diventato famoso uno come lui capace di raccogliere le storie degli altri, entrarci dentro con una discrezione totale, annullandosi nella narrazione. Eppure ogni riga del la sua bibliografia distilla conoscenza e amore. E il suo stile, beh direi che perfino le nostre orecchie, foderate di rumori e trascuraggini, riescono an cora a percepirvi una cura antica per le parole, per il modo in cui vengono

disposte, per come sanno interrogare la realtà e restituirla.

Per chi prova ora a dirvene qual cosa, Erminio Ferrari nasce all’ana grafe letteraria alpinistica sul numero 52 (agosto 1989) di “ALP”, quello con il Riccardo in copertina, impegnato in una dulfer al Nibbio, maglione dei Ragni, imbrago grigio intonato ai ca pelli. Per una volta tanto con la corda davanti. A 80 anni è concesso. Fer rari vi compare con un articolo Carte ritrovate: Sempione che varrebbe la pena di andare a rileggersi per l’im pasto sapiente di ricordi personali, pu dicamente sfumati, quasi a costituire il legante delle tessere del mosaico

del testo, costruito su citazioni e ri cordi: Calvino, Gautier, Byron, Dickens, Plutarco, lacerti di antiche cronache e statuti medievali che trasfigurano di nuovo nel racconto dell’autore su e giù per quelle montagne. E sopra tutto si staglia nel cielo l’ala di Geo Chavez, ostinata a non voler lasciare la vallata che la vide vincitrice e sconfitta nel breve volgere di pochi istanti. E proprio dal primo trasvolatore delle Alpi prende le mosse l’articolo: “Mi ri cordo del mio maestro elementare: ci

Un ricordo di Sandro Liati, medico di tante spedizioni dei Ragni
di Carlo Aldé Pepetto in un ritratto del 2015. Foto di Matteo Manente I Ragni al Cerro Torre nel 1974. Il Dott Liati è il terzo da destra accanto a Casimiro Ferrari di Alberto Benini
47Personaggi
Erminio Ferrari al monte Faiè. Foto di Alberto Paleari

condusse, la chiassosa schiera di mar mocchi, sul luogo del fatale atterrag gio del Bleriot che Geo Chavez pilotò nel 1910. In commossa rimembranza del primo trasvolatore delle Alpi, esaltò l’uomo e ne magnificò il gesto. Da Bri ga a Domodossola si dispiegarono le ali del peruviano; e poi più”.

Mescolando suggestioni storiche a trascelte esperienze personali, l’arti colo allinea la strada del Sempione, villaggi di minatori, gli scalatori (Paleari & co e le loro vie sulle Pale di Gondo), le gite familiari, mulattieri e posti glioni, l’Ospizio: “Conosco pochi edifici che esprimano la forza e la sicurezza come l’Alte Spittel al Sempione…”; un minuscolo, magico alpeggio, Figina:

“Andateci con la moro sa a Figina. Se la nuo va strada del Sempione non rende giustizia alla Gondoschlucht, il sen tiero che dal fondovalle si inerpica verso l’alpe, ricostruisce l’esatta, or rida visione della forra. Sorvola l’abisso e pon dera il cammino”. Ed ecco che chiu dendo il pezzo, l’autore torna a nascondersi in una nota: “Ho rinvenu to fra la polvere alcuni anonimi fogli ricoperti di calligrafia minuta e oscura. Li ho trascritti e ne sono sortite le an notazioni che avete let to. Dell’autore nessuna traccia”.

Uno stile di composi zione che arricchito e distillato, ma sempre riconoscibile diventerà la sua inconfondibile firma.

di cui diamo qui di seguito un breve elenco, anche per dimostrare come la montagna, ancora oggi, possa offrire argomenti di scrittura e lettura fuori dalla banalità di imprese sempre più straordinarie che tuttavia faticano a scaldarci il cuore.

ALPINISTI O TURISTI?

Italiano di confine, nato a Canob bio nel 1959, Ferrari era un giornalista della testata ticinese “La regione” per la quale si occupava prevalentemen te di esteri. Sul sito del giornale sono numerosi gli interventi (anche quello di Teresio Valsesia) che lo ricordano, offrendo il ritratto di un professionista serio e appassionato. Uno che aveva seguito da inviato la guerra nella ex Jugoslavia. Ma che suonava nella ban da del paese e faceva parte del Soc corso Alpino. Una persona “per bene” colta e appassionata. Competente nel suo lavoro. Come era possibile intu ire dalla semplice lettura dei suoi libri

Non una rassegna completa solo qualche suggerimento: partiamo con Contrabbandieri: uomini e bricolle tra Ossola, Ticino e Vallese (1988), mentre Passavano di là (2002) ha per prota gonista un vecchio “passatore”. Sem pre sul confine si tiene Fransé (2003) che fa pensare un po’ per ambien tazione e tematiche a Biamonti. Più legato al mondo dell’alpinismo Una valanga sulla est: 1881, la “catastrofe Marinelli” al Monte Rosa curato insie me a Alberto Paleari (2006). Si ritor na alla narrazione storica con Cielo di stelle: Robiei, 15 febbraio 1966 (2017) dedicato alla tragedia che uccise 17 persone in una galleria dell’impianto idroelettrico fra la Val Bedretto e la Val Bavona. E poi ci sono i racconti e ricordi di Porporì: Zapotec, la ban da e altre storie (1999). Mi ricordo la Rossa: storie e luoghi dell’Alpe Deve ro (2009), Scomparso (2013), Valzer per un amico uscito proprio in questo sciagurato 2020. Il resto cercatelo voi sui siti di Casagrande e Tararà. Chiudo con due guide: I 3900 delle Alpi scrit to con Alberto Paleari e Marco Volken nel 2016 e Ossola quota 3000: tutti i 75 tremila con Alberto Paleari (2019).

Insomma bisogna sempre aspettare che uno muoia per avere l’occasio ne di conoscerlo. A me piace pensare che ancora un po’ può vivere in quel che ha scritto e che forse anche lui, come Geo Chavez, abita ora cieli di quelle valli piene di storie e di bellezza.

Giuseppe

Della Rodolfa, 53 anni, nato e residente a Caspoggio (SO), è sempre vissuto fra le montagne della Valmalenco. All’età di 4 anni ha incominciato a mettere gli sci, verso i 16 anni le prime esperienze alpinistiche, e poi una frequentazione assidua della montagna anche come volontario del Soccorso Alpino. Dal 1996 è Guida alpina. Operativo su tut to l’arco delle Alpi in particolare quel

le occidentali, ha avuto sempre come terreno di gioco preferito le montagne della Valmalenco, in primis il gruppo del Bernina. Dal 2009 è gestore della Capanna Marinelli, di proprietà del CAI Sezione Valtellinese.

Mi è capitato spesso negli ultimi anni di parlare con lui della sua esperienza di rifugista e più in generale della si tuazione e delle prospettive dei rifu gi di alta montagna come la capanna Marinelli. L’ultima volta è stata a luglio

di quest’anno: un’occasione del tutto speciale per me, invitata da una coppia di amici (nonché soci del CAI Lecco), Chiara Spinelli e Raimondo Brivio, che alla Marinelli hanno voluto festeggia re i loro 50 anni di matrimonio. Giu seppe ha poi aderito alla richiesta di raccogliere in un’intervista e informa zioni, i progetti, i pensieri che fino a quel momento ci eravamo scambiati a ruota libera. Alla recente chiacchierata telefonica ha partecipato la compagna

* * *
48 Personaggi
Come cambia la frequentazione dei rifugi. Parla Della Rodolfa, gestore della Marinelli L’elicottero di servizio è atterrato sul piazzale del rifugio. Foto di Mauro Lanfranchi. Erminio Ferrari sulla Cresta del Pizzo Cingino Sud. Foto di Alberto Paleari Sta per calare la notte e la capanna si illumina. Foto di Mauro Lanfranchi

La lapide con dedica a Damiano Marinelli sopra la porta d’ingresso della capanna. Foto Adriana Baruffini. Pagina successiva: La stufa di pietra ollare nell’accogliente sala da pranzo. Foto di Giuditta Scola

di Giuseppe, Maria Luisa Nodari, che con lui collabora nella gestione della Marinelli e ha espresso il suo punto di vista di antropologa. Ecco quanto ne è uscito.

mo che ho accolto l’opportunità che mi offriva il CAI di Sondrio come una sfida, nello stile proprio degli alpinisti”.

In che condizioni hai trovato il rifu gio?

ascensioni. Da qui l’idea della sauna e il progetto della sala congressi, realizzata con la ristrutturazione dell’ultimo piano.

poteva essere percorso in sicurezza con i soli scarponcini anche il mese di agosto. Ora invece a stagione avanzata non c’è neve in superficie e la traver sata avviene su ghiaccio, richiedendo un’attrezzatura adeguata. Inutile dire che non sempre i miei inviti alla pru denza vengono ascoltati da escur sionisti incompetenti e a volte un po’ arroganti”.

Veniamo alla tipologia degli ospiti della Marinelli.

La Marinelli è stata il primo rifugio di cui hai assunto la gestione?

“Sì, è stata la mia prima esperienza. Di solito ci si fa le ossa con strutture più piccole, più facili da raggiungere, meno complesse. Fra l’altro nel 2009 si av vertivano già segnali di crisi dei rifugi. Ho sentito anche la responsabilità di mettermi alla guida di una capanna carica di storia, alla quale si erano ap poggiati tanti alpinisti famosi, a comin ciare dai pionieri dell’esplorazione del Bernina, ma questo è stato per me uno sprone e un motivo di orgoglio. Dicia

“Dal punto di vista della struttura è stato necessario intervenire subito con un rifacimento della zona ingresso e altre modifiche o messe a norma come porte di sicurezza e adeguamento del vano scale. Successivamente con il CAI Sezione Valtellinese abbiamo realizza to lo spostamento all’interno dei bagni al pubblico e la sistemazione delle ac que reflue, grazie ad un bando regio nale. Poi ho pensato alla creazione di qualcosa di nuovo. Si era alla fine del glorioso ciclo dell’alpinismo e la voca zione del rifugio si avviava ad essere sempre più orientata verso l’escursio nismo. La Marinelli era vista dalla mag gior parte dei frequentatori come meta e non come punto di partenza per altre

Una sala spaziosa, bella, confortevole che potrebbe ospitare esperienze la vorative (riunioni, corsi di formazione aziendale) o culturali (concerti, confe renze, workshop ad esempio di foto grafia di montagna). Purtroppo c’è la difficoltà del trasporto di chi non è in grado di raggiungere il rifugio a piedi, e l’uso sia pure occasionale dell’elicotte ro sembra problematico soprattutto dal punto di vista ambientale”.

A proposito di ambiente, in questi 11 anni sei stato spettatore privilegiato delle trasformazioni dovute al surri scaldamento del pianeta…

“Ho assistito al fenomeno vistoso del ritiro dei ghiacciai, sempre più eviden te da un anno all’altro. Primo fra tutti lo Scerscen, e poi il piccolo ghiacciaio di Caspoggio che fino a pochi anni fa,

“Come ho già accennato la quota di alpinisti si è sensibilmente ridotta, nelle ultime stagioni sono stati il 15 per cen to. Arrivano in prevalenza escursionisti, spesso con abbigliamento inadeguato alla quota. Non dico di mettere nello zaino un camicione alla Carlo Mauri, ma un indumento caldo a 2800 metri è indispensabile. Invece vedo compa rire ragazzi in pantaloncini corti e ca nottiera che si incollano infreddoliti alla stufa e si lamentano perché la sala da

pranzo non è mai calda a sufficienza. Noto talvolta anche comportamen ti poco consoni all’ambiente e al limite della maleducazione: norme igieniche trascurate, abbandono di rifiuti, luci la sciate accese, poco rispetto nei con fronti degli altri ospiti soprattutto man tenendo il silenzio nelle ore destinate al riposo. E poi, cellulare sempre acceso. Fra gli ospiti ci sono anche famiglie con bambini e devo dire che in que sto caso comportamenti sono me diamente più corretti. In generale nella fruizione del rifugio prevale un bisogno di privacy: la gente si adatta con fatica all’uso dei cameroni e preferisce con sumare i pasti in compagnia del proprio gruppo ristretto di famigliari o amici. La condivisione del tavolo da pranzo con persone estranee viene vissuta come una costrizione e non come un’op portunità di conoscenza e scambio di esperienze, come avveniva in passato fra gli alpinisti.

Mi accorgo ahimè che sto diventan do brontolone e scorbutico come le

guide di una volta, ma devo aggiun gere un’altra annotazione forse più di sostanza. La caratteristica comune dei frequentatori del rifugio è la fretta. Non mi riferisco agli sky runner che arri vano in allenamento e ripartono quasi subito, ma agli escursionisti “tranquilli” che si trattengono per la notte. Nessu no si ferma per il piacere di stare lì, si svegliano all’alba, chiedono un caffè e iniziano subito a scendere, per arrivare il più presto possibile a Campo Moro e infilarsi in auto. Sarò un nostalgico, ma non posso fare a meno di pensa re che così facendo perdono il meglio di un luogo come la Marinelli: le albe, i tramonti, le stellate, la contemplazione silenziosa di quello splendido anfiteatro di montagne”.

Le considerazioni fatte finora im pongono una riflessione sul futuro della Marinelli in termini di appetibilità e so stenibilità...

52 L’intervista
“I costi di gestione sono alti: oltre

all’affitto pesano gli adempimenti fiscali (sono stato il primo fra i gestori della Valmalenco a introdurre un registra tore di cassa) e il costo del personale (contributi, sicurezza, assicurazioni): una problematica che molti impren ditori sentono oggi in Italia. Penso ovviamente che questi siano requisi ti essenziali e che non si possa farne a meno, sono scrupoloso al riguardo e sensibile al tema, ma l’errore è for se equiparare un rifugio alpino ad una struttura alberghiera in bassa quota. Le presenze in rifugio, che alla fine de gli anni Ottanta erano dell’ordine di 4-5mila all’anno, nell’ultima stagione sono scese al di sotto di 2mila. Non dimentichiamo che il gestore, al di là della componente sentimentale che ha guidato la sua scelta professionale e lo porta a vivere il rifugio come casa sua, è un lavoratore, e come tale deve po tersi garantirsi un reddito.

A mio parere la capienza della Marinelli (280 posti in origine, 150-200 alla fine degli anni Ottanta) dovrebbe scendere a 100 posti. Detto questo, si impone una riflessione sull’idea stessa di rifu gio. Personalmente lo vedo come isola per staccare dalla quotidianità, punto di partenza per esperienze di silenzio, tranquillità, godimento dell’ambiente naturale, scuola di umiltà e sobrietà, momento educativo alla conoscenza, all’amore e al rispetto della montagna. Ma questo presuppone un salto cultu rale verso una diversa concezione del turismo di montagna che contempli in ogni stagione un’offerta diversificata”.

flessioni, arriviamo inevitabilmente a collocare il tema dei rifugi all’interno di quello più ampio e profondo del rap porto fra uomo e natura, dello spazio che l’uomo può occupare nel territorio.

Se andiamo oltre con le nostre ri

L’intervista

“Forse i rifugi – interviene Ma ria Luisa – diventano degli avam posti dove ripensare proprio al rapporto uomo/natura, uno dei temi antropologici fondamentali. L’antropologo francese Philippe Desco la (2013) si è chiesto se fosse possibile pensare al mondo senza una distinzio ne tra culture e natura. La nozione di cultura (un insieme di valori e di con cetti di un determinato gruppo sociale) è spesso vista come essenzialmen te differente dall’idea di natura, che è spesso rappresentata come il mondo non umano fatto di piante, animali, for ze geologiche e naturali appunto. La domanda che un antropologo spesso si pone è “come ci relazioniamo alla natura?” Sicuramente noi occidentali (e anche noi italiani frequentatori della montagna) siamo figli di illuminismo e romanticismo; come suggeriva Desco la, studiando questo rapporto e chie dendoci se il nostro modo di pensare è sempre binario, possiamo forse capire che può esistere un modo di relazione alla natura molto più complesso (nella nostra ed in culture altre) che può rap presentare anche un modo complesso di organizzare i pensieri umani. Se penso agli spazi alpini, ad esem pio, mi vengono in mente le possibilità di analisi delle diverse visioni del con cetto di natura: l’idea della wilderness (il mantenimento della natura al suo stato originario non contaminato dalla presenza dell’uomo) oppure la profon da antropizzazione del nostro territo rio che abbiamo ereditato dai tempi dei

Romani; la natura come rappresentata nell’illuminismo (pensiamo alle prime ascensioni sulle Alpi e alle misurazioni scientifiche delle montagne) o l’idea di natura come concepita nel romantici smo (l’orrido e sublime rappresentato dalle montagne, iniziato con i Voya ges dans le Sud); il turismo di massa figlio del boom economico, o le nuove tendenze di turismo consapevole che cerca di innescare meccanismi di mi croeconomia locale per chi nelle valli alpine vive e lavora. I rifugi potreb bero essere dei luoghi al margine di questi due mondi (naturali e culturali come dicevamo prima) che ci possono aiutare a riflettere su questi temi, sugli stessi concetti di natura e cultura, sul nostro modo di pensare e di organiz zare il nostro pensiero. Questa rapida riflessione meriterebbe sicuramente di essere approfondita. Bisogna parlarne”.

Giuseppe, a conclusione di questa chiacchierata, vuoi ricordare una per sona o un fatto che ti hanno partico larmente segnato?

“Una persona desidero ricorda re, Ignazio Dell’Andrino, classe 1930, scomparso di recente, custode per anni della capanna Marco e Rosa. Per me è stato maestro di montagna e di vita: mi ha accompagnato nelle prime ascensioni nel gruppo del Bernina e ha saputo consolarmi quando, reduce da un soccorso sfortunato, mi disperavo per avere portato a valle per la prima volta un alpinista morto”.

Pagina successiva dall’alto: Stambecchi si avvicinano curiosi al rifugio. Foto di Giuditta Scola; Gruppo in sosta davanti alla cappelletta antistante la capanna, affacciata sul vallone di Scerscen. Foto Mauro Lanfranchi; Il vallone dello Scer scen, con ciò che rimane dei ghiacciai. Foto di Giuditta Scola.

LA LODOLA SUL

GHIACCIAIO

La Capanna Marinelli al Bernina, punto d’ap poggio per generazioni di alpinisti

“Una lodola di rupe, presso la Ca panna Marinelli, mandava nell’aria il saluto al nuovo giorno, e le creste del Disgrazia e del Roseg leggermente tinte di rosa, spiccavano sull’azzurro purissimo del cielo […] Un’enorme di stesa di ghiaccio stendevasi davanti a noi e si perdeva lontano, al di là del Pizzo Palù. Era una superficie legger mente ondulata, quasi senza crepac ci, e non mai interrotta da rupi su cui riposare gli occhi affaticati da tanto candore. Man mano si risaliva verso la Forcola di Bellavista, un panorama stupendo andava svolgendosi sotto di noi. Era una serie infinita di monti bril lanti nella luce del sole e che sembra vano emergere da un vasto mare di bianche nebbie che penetravano nelle valli come nei fiordi”.

Così Bruno Galli Valerio descri ve in Punte e Passi (1) il paesaggio che si presenta ai suoi occhi, durante la prima delle ascensioni compiute nel gruppo del Bernina facendo base alla capanna Marinelli nel luglio del 1895, meta Sella dello Zupò e Piz d’Argent.

L’autore si colloca nella storia dell’e splorazione pionieristica del Bernina, accanto (citando per brevità solo due nomi legati all’ambiente valtellinese) ad Alfredo Corti che ha lasciato un incre dibile archivio fotografico attualmente di proprietà del CAI di Sondrio e ad Antonio Cederna, che si adoperò per

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l’ampliamento della capanna dotandola nel 1906 di un servizio di alberghetto.

La Capanna Marinelli, di proprietà del CAI valtellinese, inizialmente chiama ta rifugio Scerscen dal nome del val lone in cui è ubicata, a 2813 metri di altezza sopra uno sperone della Cresta Guzza, fu uno dei primi rifugi costruiti nelle Alpi Retiche, inaugurata l’1 set tembre 1880.

Il merito di averne stimolato la costruzione va a Damiano Marinelli (1843-1881), viaggiatore e alpinista iscritto alla sezione fiorentina del CAI, morto nel 1881 durante un’ascensione alla parete Est del Monte Rosa travolto da una valanga. Convinto che la rea lizzazione di rifugi fosse una condi zione imprescindibile per esplorare le montagne e promuovere lo sviluppo delle valli alpine, stimolò la Sezione Valtellinese del CAI a costruire una capanna in quota sul versante italiano del Bernina, dove il punto di appog gio più alto era all’epoca rappresentato dalle baite della Musella (2021 m).

Nel 1879 la direzione del CAI di Sondrio accolse le sue idee, ne valu tò suggerimenti e disegni, e iniziò tra i propri soci (un’ottantina appena) la raccolta di fondi che furono rapida mente implementati da altre sezioni italiane più ricche, fino a raggiungere la quota necessaria per dare inizio ai lavori. Il primo manufatto fu una “ca panna abbastanza spaziosa con due camere separate e soffitto per le guide […] tutta rivestita in legno, pavimento, assi, tramezzo, soffitto e tetto in legno. Più ha un muro largo un metro com

In questa pagina dall’alto: Crepuscolo sulle cime della Musella da una finestra della sala da pranzo. Foto di Giuditta Scola; Giusep pe Della Rodolfa, al centro, con Chiara e Raimondo Brivio che indossano la sto rica maglietta del rifugio. Foto di Mauro Lanfranchi; Giuseppe Della Rodolfa, a destra nella foto, con Mauro Lanfranchi. Foto di Giuditta Scola.

posto di grandi pezzi di pietra e tetto di lastre per proteggerla … Ha un foco lare e una bella stufa” (da una lettera di Damiano Marinelli del 5 ottobre 1880, citata da Antonio Boscacci)(2).

L’anno dopo la scomparsa di Da miano Marinelli, la stessa sezione de cise di intitolare a lui il rifugio, e il 10 luglio 1882, per iniziativa della sezione Valtellinese e di quella Fiorentina, fu posta sulla capanna una lapide ricordo.

La frequentazione del rifugio da parte degli alpinisti si andò rapida mente incrementando e le modeste dimensioni iniziali si rivelarono ben presto inadeguate. Così iniziò la serie degli ampliamenti (1906, 1915, 1917, 1925, 1938) e degli adeguamenti che resero la struttura sempre più grande, accogliente e sicura, fino a farle assu mere l’aspetto attuale.

Tragedie

Due avvenimenti tragici costellano la storia del rifugio. Il primo si verifi cò durante la prima guerra mondiale. Nel 1915 la sezione Valtellinese ave va consentito che un reparto di alpini sciatori del 5°Reggimento Alpini fosse ospitato alla Marinelli. Il 2 aprile 1917,

durante un avvicinamento, un gruppo di soldati fu travolto da una valanga poco dopo la bocchetta delle Forbici, e 16 di loro morirono sepolti sotto la neve. Nel vallone di Scerscen, punto di arrivo del la slavina, fu costruito un piccolo cimitero del quale si sono quasi perse le tracce; più in alto, alla fine della guerra, fu collocato un monumento ricordo.

La seconda tragedia risale al 1957, quando un elicottero in volo verso la Ma rinelli sopra il ghiacciaio di Caspoggio urtò contro un cavo della teleferica e si abbatté al suolo; vittime, il pilota e l’alpinista Luigi Bombardieri (1900-1957) che tanto si era speso per il miglioramento del rifugio e il cui nome figura da allora accanto a quello di Marinelli nella dedica della capanna.

Le altre storie raccontano di frequen tazioni individuali o di gruppo; di radu ni, come il congresso delle guide e dei portatori del 1906; di gite sociali, come quella dell’agosto 1922 organizzata per i 50 anni della sezione Valtellinese; di guide alpine; di custodi che alla Marinelli hanno trascorso anni e anni, a volte tramandan dosi l’incarico da una generazione all’altra, come Giacomo Mitta (dal 1906 al 1919), suo figlio Cesare (dal 1919 al 1942) o Ce sare Folatti (dal 1942 – al 1973).

Le vicende della Capanna Marinelli si intrecciano con quelle della Marco e Rosa alla Forcola di Cresta Guzza, 3609 m di quota, inaugurata nel 1913. Per la storia di questa capanna e per altre sintetiche informazioni sull’e splorazione pionieristica del Bernina dalla parete sud, rimandiamo a un’altra pubblicazione del CAI Sezione Valtel linese (3).

Bibliografia

1) Bruno Galli Valerio. Punte e Passi. Ascensioni e traversate tra le Alpi della Valtellina, dei Grigioni e del Tirolo (1888 – 1910) A cura di Luisa Angelici e Antonio Boscacci. Edito da CAI Sezione Valtellinese. Stampa Ti pografia Bettini, Sondrio 1998

2) Antonio Boscacci. La Capan na Marinelli – Bombardieri nel grup po del Bernina. Edito da CAI Sezione Valtellinese nel 1982 e ristampato con aggiornamenti nel 1992. Stampa Tipo grafia Bettini, Sondrio

3) Giuseppe Miotti. 100 anni sul Bernina. Capanna Marco e Rosa De Marchi-Agostino Rocca 3609 m. Edi to da CAI Sezione Valtellinese, Stam pato da A.G. Bellavite, Missaglia, 2013

SALITE ED ESCURSIONI La capanna Marinelli, per la sua posizione centrale nel versante sud del Bernina può essere un ottimo punto di partenza per escursioni e gite nella zona, dalle salite più semplici agli itinerari alpinistici su neve e roccia, alle traversate che portano in Svizzera. Ci limitiamo a elencarne alcune, senza entrare nel dettaglio dei percorsi e delle difficoltà: Pizzo Bernina, 4050 m Pizzo Palù, 3906 m Pizzo Roseg, 3937 m Punta Marinelli, 3182 m Passo di Scerscen, 3122 m Forcola di Bellavista, 3688 m Passo Sella, 3269 m La Marinelli è anche un punto di sosta nell’Alta via della Valmalenco ed è collegata ai rifugi Marco e Rosa, Bignami, Carate, alla Chamanna Coaz e ai bivacchi Parravicini e Pansera.

Siamo

Ragazzi e accompagnatori del gruppo di AG davanti alla baita Tri Amis, in occasione della rassegna Monti Sorgenti 2015. Foto di Marco Giudici LA MAGIA DELLE NOSTRE MONTAGNE Quanto è importante e quanto ci manca salirle insieme ai nostri ragazzi
quasi alla fine dell’anno e in questo periodo si respira aria di attesa e di preparativi. Si iniziano a decorare le proprie abi tazioni insieme ai fratelli/sorelle, alla mamma e al papà addobbando l’albero di Natale, allestendo il presepe e vi vacizzando la casa con molti colori generati dalle luci ad intermittenza. Anche la città immersa nella oscurità di Alessia Losa

della notte sembra illuminata a gior no e alle solite insegne pubblicitarie si aggiungono le decorazioni natalizie: alberi, fiocchi di neve, pacchetti regalo, campanelle e renne con slitta guidata da Babbo Natale.

All’orizzonte, oltre alle stelle, si per cepiscono altre luci che hanno una particolare capacità, sanno rilevare ciò che non si vede nell’oscurità, mostran done la presenza. Durante il giorno ciò che è mascherato di notte gioca un ruolo rilevante nello skyline della città. Nelle ore notturne si nascondono, ma in questo periodo dell’anno si perce piscono attraverso le loro croci illumi nate che sembrano stelle fluttuanti in cielo; in realtà le croci saldamente si ancorano sulla loro sommità. Sto par lando delle nostre montagne: il Ma gnodeno, il Resegone, il pizzo d’Erna, il

Due Mani, la Grigna, il Coltignone, il San Martino, il Moregallo e il Barro. Tut te insieme delimitano il perimetro di Lecco, del lago e del territorio.

Il lock down

In questo anno surreale, nel qua le siamo stati chiusi in casa a causa del “lock down”, le abbiamo cercate, ci sono mancate e loro ci hanno accolto alla riapertura.

In tarda primavera e soprattutto questa estate gli appassionati, le fami glie e gruppi di amici hanno popolato i sentieri, i prati e i boschi delle no stre magnifiche montagne, ma qual cosa in questi ambienti è mancato.

Quest’anno, la natura e i paesaggi che le contraddistinguono non sono stati scoperti, apprezzati e vivacizzati dal vociare, dalla allegria e dalla spen sieratezza dei bambini e dei ragazzi dell’Alpinismo Giovanile (AG) del CAI Lecco. Qualcosa ha bloccato l’AG (e non solo), una macchina ben oliata e pronta per partire con la bella sta

gione come ogni anno da più di 55 anni. Tutto quello che era già stato programmato a tavolino e scritto sui pieghevoli è stato bruscamente inter rotto. I pieghevoli non hanno mai rag giunto i bambini tramite le scuole, due settimane mancavano alla presenta zione annuale di inizio corsi, ma tut to è rimasto nel vago, senza una data definita da comunicare per poter così ricominciare le attività rivolte ai piccoli e giovani appassionati di montagna. Chi si sarebbe immaginato mai uno scenario così surreale? Anche una persona con una fervida immagina zione non sarebbe riuscita a descri vere nelle pagine di un libro fantastico quello che avremmo potuto vivere nel 2020. A causa di una entità mi croscopica, subcellulare ed evoluti vamente molto più elementare della nostra specie, ma altamente conta giosa, siamo stati messi in ginocchio, mostrando le nostre debolezze e so prattutto sottolineando che non è solo un problema italiano, ma globale. Così

abbiamo dovuto modificare le nostre abitudini e modi di agire soprattutto in ambito relazionale.

Credo che condividiate le seguenti parole chiamando in causa non solo le persone attive ed espansive ma an che quelle molto riservate e solitarie e quelle pantofolaie e sedentarie: “nei due mesi di “lock down” abbiamo ca pito appieno quanto il genere umano abbia bisogno di una vita sociale in mezzo alle altre persone ed alla na tura, svolgendo attività all’aria aper ta”. Inoltre, vorrei anche valorizzare il nostro territorio non ci dobbiamo di menticare e dobbiamo ripeterlo anche ai nostri bambini: “quanto noi siamo fortunati a vivere in una zona alta mente antropizzata, ma nella quale la natura è ancora ben visibile e presen te, caratterizzata dalla fauna, dalla ve getazione e dai rilievi, che per la gente di pianura, non abituata a vederli e vi verli, sono semplicemente un ostacolo alla visione dell’orizzonte. Mentre per noi lecchesi sono un elemento intrin seco nel contesto urbano, li possiamo osservare, scoprire e vivere, peccato che i ragazzi dell’AG quest’anno non

abbiano potuto goderseli con altri loro coetanei e con gli accompagnatori del CAI Lecco.

Noi accompagnatori non possiamo sapere cosa possa essere mancato ai bambini che da anni hanno frequenta to corsi di AG e che quest’anno non hanno potuto partecipare alle uscite, avranno sentito nostalgia delle gite, degli amici, degli accompagnatori e/o della natura? Non ci resta che aspet tare e chiederglielo di persona quando li rivedremo.

L’invernale al Grignone

Sicuramente nei ricordi delle espe rienze vissute negli anni precedenti a quelli di quest’anno i bambini avran no un “gap” di molti mesi. Sappiamo quando è stata fatta l’ultima gita, ma non sappiamo ancora quando se ne potrà organizzare e realizzare una nuova. Quello che è certo, fissato nella mente dei partecipanti e nelle foto scattate, è che se riavvolgiamo il nastro di 11 mesi ci accorgiamo che l’attività di Alpinismo Giovanile del CAI Lecco era iniziata nei migliori dei modi con un buon auspicio. A metà

gennaio 2020, tutti i partecipanti alla gita del gruppo over 14 hanno con quistato la cima del Grignone (Grigna Settentrionale, 2400 m) in invernale. Questa ascesa alpinistica è stata pos sibile grazie alla determinazione dei ragazzi, che con il loro entusiasmo hanno superato il mal di piedi, la sete, il freddo in cima, la stanchezza della discesa e l’impaccio dell’uso dell’at trezzatura (piccozza e ramponi, per molti alla prima esperienza), e grazie alla complicità del meteo favorevole e delle buone condizioni del manto ne voso. I 1700 metri di dislivello sono stati percorsi con il solito spirito alle gro e vivace che caratterizza i ragazzi dell’AG. Partendo dalle auto alle prime luci della giornata nessuno sembrava assonnato o titubante sulla riuscita a causa della pesantezza dello zaino e del notevole dislivello da percorrere. Un buon ritmo è stato tenuto sul ri pido pendio nel bosco sotto il rifugio

60 Alpinismo Giovanile
In queste pagine da sinistra: Davanti al sito archeologico di Barra. Foto di Barbara Daprà, febbraio 2020; Allestimento di una mostra dedicata al bosco lungo il sentiero didattico curato dal Gruppo di AG, ai Grassi (Magnodeno). Foto di Marco Giudici, 2016; Il gruppo over 14 in cammino verso la vetta del Grignone. Foto di Francesco Nolasco, gennaio 2020.
61Alpinismo
Giovanile

Pialleral; finalmente raggiungiamo la neve sopra il rifugio, e camminia mo calpestandola senza ramponi fino alle baite dei Comolli. Qui facciamo una breve tappa per bere e mangiare qualcosa, seguita da una spiegazione sull’uso della attrezzatura che abbiamo portato con noi nello zaino: piccoz za, ramponi, imbraco e casco. Li in

dossiamo anche se lungo il tracciato ci sono escursionisti/alpinisti che ci guardano in modo divertito, poiché si domandano: “questo gruppo dove pensa di andare?” Molto probabilmen te sono persone che non ritengono importante insegnare e trasmettere ai ragazzi il corretto modo di anda re in montagna e di saper prendere la decisione di quando è fondamentale usare l’attrezzatura o se ne può fare a meno. In questo caso le condizioni sono ottimali e l’utilizzo dell’attrezza

tura è servito a far prendere familia rità e padronanza ai ragazzi. Da ac compagnatrice di alpinismo giovanile è stata per me una gita emozionante sotto diversi aspetti, come se fosse la prima volta in cima ad una montagna considerando che di ascese alpinisti che ne ho fatte tante. In questa gita quello che più mi ha colpito è stato il paesaggio, la montagna, i colori del la stagione invernale e soprattutto il calore del gruppo, chissà cosa hanno provato i ragazzi una volta giunti las sù e cosa si sono portati a casa dopo quella lunga giornata?

In questo racconto/resoconto dell’attività di AG svolte nel 2020 non bisogna dimenticare che il 23 febbra io è stata anche organizzata una gita rivolta ai bambini del corso base ed ai ragazzi del corso perfezionamento, che si è rivelata una piacevole e so leggiata gita invernale al monte Barro, passando prima dalla baita di Pescate poi da pian Sciresa, al cippo degli al pini, per giungere ai piani di Barra. Una novità molto gradita è stata il connu bio tra il gruppo AG del CAI Lecco e quello della sottosezione di Ballabio.

In quella rilassante domenica il nostro nemico invisibile aleggiava già nell’aria, infatti tra gli accompagnatori si par lava del caso zero e ricorderò sem pre la felicità di alcuni bambini quan do un genitore del gruppo li informò che il lunedì non sarebbero andati a scuola per una settimana. L’euforia del momento non poteva far presa gire la chiusura obbligata delle città e quindi l’impossibilità di uscire di casa senza valide esigenze. La magra con solazione era che almeno a gennaio e febbraio con l’aiuto del bel tempo il nostro gruppo era riuscito a svolgere le gite programmate.

La voglia di ricominciare

In quel periodo gli accompagnatori hanno cercato di colmare la distanza fisica tra loro e i ragazzi con l’aiuto dei social network (WhatsApp e Zoom) condividendo con loro momenti vis suti insieme. Il gruppo accompagnatori, inoltre, si è sempre tenuto aggiornato sulle indicazioni dettate dal governo e sulle direttive del CAI centrale ri guardanti lo svolgimento delle attività e si è confrontato su come agire in sicurezza. Le persone appassionate di montagna ed anche accompagnato ri di alpinismo giovanile sanno molto bene cosa vuol dire muoversi in si curezza e salvaguardare i ragazzi in ambiente alpino, ma nei mesi passati, ed anche ora, si chiede una sicurez za sanitaria, per prevenire il contatto con qualcosa che non si vede. Perciò dopo lunghe riflessioni e considera zioni “online” ed in presenza presso la baita dell’AG in zona Grassi ai piedi del Magnodeno, gli accompagnatori han no preso a malincuore una importante decisione: non svolgere nessuna atti

vità con bambini e i ragazzi in questo 2020 surreale.

Come si sa ricominciare non sarà facile, ma c’è una grande voglia di ri partire con nuove motivazioni. Dopo circa 10 mesi nei quali siamo rimasti a distanza bisognerà agire sul con solidamento del gruppo rafforzando le relazioni tra gli accompagnatori per poi accogliere ed in seguito ac compagnare i magnifici bambini che partecipano ogni anno ai corsi. Dob biamo pensare, quindi, positivamente per agire e realizzare qualcosa nella primavera 2021 che soddisfi la voglia dei piccoli alpinisti di scoprire, esplo rare e giocare tra le nostre montagne che ci hanno fatto compagnia con la loro maestosità e forma anche quan do non potevamo salirle, comunican doci che ci avrebbero aspettato. Così anche le mete del trekking 2020 ci stanno aspettando per concatenarle nell’estate 2021.

per stimolare i bambini e i ragazzi a partecipare alle prossime avventure, escursioni che il gruppo di alpinismo giovanile del CAI Lecco proporrà, così che si possano avvicinare alla monta gna e apprezzare il nostro territorio in compagnia.

“È sulle montagne che ho capito che arrampicare è anche un modo per conoscersi meglio”.

Ed è tra le montagne che Federica Mingolla ha sviluppato l’algoritmo della sua vita “Fidati, agisci, rischia, esplora”. - fidati perché non sei sola; - agisci perché non puoi aspettare che qualcun altro faccia le cose per te; - rischia perché non devi mai smet tere di credere di potercela fare; - esplora perché la curiosità e l’av ventura sono l’ossigeno degli alpinisti.

E io aggiungo: queste parole valgo no non solo nell’alpinismo ma anche nella vita di tutti giorni.

Chiudo questo racconto con le parole di una forte arrampicatrice

62 Alpinismo Giovanile
Intreccio di sentieri al Monte Barro, meta dell’unica gita effettuata nei corsi AG di base e perfezionamento del 2020 Foto di Barbara Daprà Qui sopra, da sinistra: L’emozione di salire una montagna in abito invernale, sperimentando le attrezzature e godendo del calore del gruppo. Foto di Francesco Nolasco, gennaio 2020; Lavori di manutenzione del sentiero di accesso alla baita Tri Amis. Foto di Marco Giudici, 2016

Gli

obiettivi che ci stuzzica no, non si dimenticano con il tempo e, appena l’occasio ne si ripresenta, è normale ricomin ciare a inseguirli: così, dopo un po’ di anni, ritorna l’opportunità e la voglia di esplorare la sorgente di Rio Torretta in Val d’Astico. È una sfida interes sante da un punto di vista tecnico per via dei problemi logistici legati, come spesso accade, alla situazio ne ambientale e meteorologica. Per raggiungere l’ingresso della sorgente, bisogna percorrere il greto del fiume normalmente asciutto ma che si attiva durante le piene dovute a forti tem porali o allo scioglimento della neve in quota. Per quanto riguarda l’interno della sorgente, il livello dell’acqua varia notevolmente a seconda delle condi zioni atmosferiche. Per la mia espe rienza, il momento migliore è quando il livello scende di circa una decina di

metri dallo sfioratoio, perché allora le condizioni di visibilità sono idea li e le profondità massime diminui scono in rapporto al livello più basso della sorgente. Se il livello fosse alto, ci troveremmo in una condizione li mite, perché una minima variazione della temperatura, cioè scioglimento di neve, o una pioggia, inneschereb bero una piena. Per contro, con un livello basso, si devono percorrere le due zone aeree che si formano tra un sifone e l’altro, molto scomode da fare all’asciutto. Un altro problema le gato al livello basso dell’acqua, esiste tra il secondo e il terzo sifone dove la camera aerea che si forma fra questi due, rimane completamente isolata da scambi d’aria con l’esterno e quindi tende a riempirsi con l’anidride car bonica emessa dalla respirazione di chi vi sosta. Si crea inoltre una sorta di sovra pressione paragonabile a una profondità in acqua di -1m/-2m. La condizione migliora quando il livello dell’acqua si abbassa abbastanza da ingrandire gli spazi aerei e formare un passaggio che permette ancora il rie

quilibrio delle pressioni e una minima circolazione di aria.

Quando esplorai Rio Torretta nel 2011, raggiunsi i -74 m di profondità a 1650 m dall’ingresso, e lo sviluppo to tale del complesso era di circa 181 m. Riprendere l’esplorazione dopo questo intervallo di tempo, alimenta buone speranze, sia per l’esperienza comun que acquisita in un’attività mai sospe sa, sia per le innovazioni che hanno subito i materiali, diventando più leg geri, performanti e meno ingombranti.

Il 13 febbraio, dopo una prima ri cognizione e una rimessa in ordine del filo guida nei primi due sifoni, de cido di aspettare ancora una decina di giorni per permettere all’acqua di scendere ancora al livello che ritengo ottimale, e alle condizioni all’interno della grotta, di stabilizzarsi.

Ovviamente per questo tipo d’im mersioni è importante che esista un gruppo affiatato di speleo sub, che si divida i compiti di trasportare i nu merosi materiali necessari là dove saranno utilizzati, cioè fino al terzo

sifone. Nel mio gruppo, formato da amici sia del posto che esterni, non ci sono difficoltà nel dividere equamen te i compiti di ciascuno, accordandosi sulle giornate dedicate alle immersioni per il trasporto e il collocamento del le bombole e degli scooter nei punti strategici. Grazie alle nuove tecnolo gie, si è deciso di dedicare alcune im mersioni alle riprese video, per poter condividere le immagini della grot ta con tutti. Le immersioni di lunga durata, per ragioni di sicurezza sono intercalate da un giorno di riposo, ne cessario alla completa de-saturazione dei tessuti nel corpo e al ripristino delle attrezzature necessarie per la progressione. Si intercalano, come in un puzzle, le esigenze di riposo fi siologico con le giornate disponibili di ciascuno, di modo che tutti possano avere delle giornate libere.

Sifoni e strettoie

Si riprendono le attività il 24 febbra io e in un paio di giorni, tutto è pronto per le immersioni nel terzo sifone. Per agevolare il trasporto aereo tra il pri mo e il secondo sifone si installa una teleferica sulla quale agganciare e ti rare i materiali più pesanti e delicati.

I primi due sifoni non sono molto lunghi e hanno una caratteristica in comune che è quella di passaggi non molto ampi. Il terzo sifone per i pri mi 500 m di sviluppo, ha un paio di strettoie e la galleria è spesso bassa, con passaggi obbligati e rallentamento della velocità di percorrenza. All’inter no di questo sifone il filo è sistemato fino a circa 200 m dal suo ingresso, oltre è un groviglio di vecchi fili tutti rotti che, in alcuni posti, si sono intrec ciati formando pericolose ragnatele. Infide trappole per chi passa carico di materiali ingombranti. Necessaria perciò una bella pulizia e, eliminandole, una messa in sicurezza dei passaggi.

Questa operazione richiede delica tezza, molto tempo e attenzione: le immersioni, in una prima fase, sono state limitate alla stesura del nuovo filo d’Arianna durante la progressione e alla rimozione di parte dei vecchi, durante la fase di rientro. Sospetta vo che, dopo nove anni, nei quali si sono alternate considerevoli piene con correnti di forte portata, avrei trovato fili spezzati e aggrovigliati ma la re altà aveva superato l’immaginazione. La costrizione a rallentare la progres sione, mi ha comunque agevolato nel

memorizzare meglio alcuni passaggi angusti, affinando la tecnica per svi colarmi all’interno di essi e alla fine, ri uscire a percorrere la galleria in minor tempo.

Una volta bastavano relazioni, to pografie e qualche foto, oggi si può fare di più: le tecnologie di ripresa, con micro camere per esempio, e sistemi illuminanti, agevolano le possibilità di fare ottimi filmati. Ai giorni dedicati alla progressione si alternano, quando possibile, giorni riservati alle riprese. La fortuna ci assiste perché la visi bilità è ottima e si ha tutto il tempo necessario affinché, insieme al came raman, si possano scegliere i migliori e più interessanti punti per piazzare strategicamente le luci e ottenere im magini di grande effetto. Non è pro prio così semplice come dirlo perché è necessario effettuare più passaggi per ottenere la migliore inquadratura, e siamo comunque sempre sott’acqua e in grotta.

Si è così impegnati, che le giornate volano via e l’alta pressione che ave va mantenuto il tempo bello, inizia a cedere. È una situazione allarmante perché l’esplorazione programmata ri chiede ancora tempo. L’inverno, per la

QUESTIONI DI LIVELLI
Esplorazione in val d’Astico alle sorgenti profonde del Rio Torretta
64 Speleologia
Qui sopra: La prima strettoia. Pagina successiva: Ricarica bombole.

più parte delle sorgenti del nord Ita lia, è da sempre la stagione migliore, ma in questi ultimi 15/20 anni tutti noi ci siamo resi conto di come sia cambiato il clima, con temperature più alte e piogge inaspettate anche in quota. Una piena in questo mo mento significherebbe dover lasciare materiali costosi all’interno per chissà quanto tempo e questo crea un po’ di apprensione. Si consultano le pre visioni che sono al limite, poiché una minima variazione di pressione, vento o temperatura potrebbe trasformare in pioggia la neve prevista. Si decide tuttavia di rischiare, di lasciare passare la buriana, per poi finalmente riuscire a fare le due immersioni che manca no per concludere il programma. Alla sorgente il 6 marzo, ci si accorge che il livello si è alzato solo di un metro, perché ha piovuto solo fino a 300 m di quota e che la visibilità è diminuita ma non in maniera tale da compro

mettere le immersioni.

In solitaria

Il team mi fornisce un considere vole aiuto fino all’inizio del terzo si fone da dove proseguirò in solitaria com’è giusto che sia per ottenere il massimo della concentrazione. Tut te le bombole e lo scooter di emer genza che avevo riportato a 500 m dall’ingresso, in previsione delle cattive condizioni meteo, ora sono costretto a ricollocarli. La visibilità si riduce gra dualmente e, da circa 10 m che avevo all’inizio del terzo sifone, scende a 3 m. Non è proibitiva ma rispetto ai venti e più metri che c’erano a inizio spedi zione, diventa più difficoltoso trovare passaggi. Raggiunto il punto limite del 2011, proseguo di un metro per la pura soddisfazione di aver fatto qual cosa in più e rientro. Il prossimo giro sarà l’immersione di punta. Domenica si prospetta essere il grande giorno ma non tutte le ciam belle riescono col buco. Non potendo prevedere lo sviluppo dell’esplorazione e temendo di patire troppo il freddo, indosso una muta più pesante e più

vecchia, scelta che si rivela sbagliata perché sono limitato nei movimen ti nei tratti senz’acqua e il neoprene che ha perso un po’ della sua origina ria elasticità, mi impedisce di respirare agevolmente. Dopo avere valutato la situazione, umilmente riconosco che non sarebbe opportuno continuare. Nel mio team trovo conforto perché almeno due persone sono disponibili a dedicarmi anche il giorno seguente. Lunedì quindi, parto per l’esplora zione che vorrei fosse la definitiva: per l’ennesima volta raggiungo il terzo sifone, a mio agio con l’attrezzatura che uso di solito. Sentendomi in una situazione confortevole, anche lo spi rito è determinato a dare il massimo.

I passaggi già fatti li conosco a me moria e sono molto veloce perché ho con me solo una bombola di riserva mentre le altre sono collocate lungo la galleria. Scendo fino a -55m per poi risalire a – 10m con una serie di su e giù che teoricamente non sono auspi cabili per una corretta decompressio ne; raggiungo nuovamente i -50 m, e percorro ancora 400 m di galleria per raggiungere il luogo dove ho lascia to lo svolgi sagola e che sarà il punto d’inizio della nuova esplorazione. Ho con me quattro mini telecamere che gestirò lungo il tragitto: una di queste la posso spostare, orientare a piaci mento le altre stanno posizionate su punti fissi.

Un po’ di emozione mi assale quan do inizio a percorrere l’ignoto. La vi sibilità non è buona ma la voglia di vedere più in là è preponderante. Se guo la parete per esser più veloce ed evitare inutili cambi di direzione. La profondità aumenta, ma questo non mi preoccupa perché sono abitua to a quote maggiori e la galleria ha una dimensione di almeno 7m per 5m; percepisco che sto girando un paio

di volte di circa 80 gradi, Intravedo possibili passaggi, ma scelgo sempre a intuito quella che mi sembra la via migliore. La sorpresina non tarda ad arrivare: noto un grosso accumulo di sabbia e argilla, come se la corrente facesse una morta, e subito dopo le pareti si avvicinano tra loro chiuden domi in un cul de sac Sono incredulo, dispiaciuto, mi guardo in giro e non vedo nessun pertugio per continuare. Esplorazione finita.

Meno 89

Il bilancio è soddisfacente: ho per corso 120 m di nuove gallerie e ho raggiunto la profondità massima di -89 m. La galleria misura 1770 m dall’ingresso della sorgente e lo svi luppo totale della grotta supera 2000 m. Rio Torretta si sta rivelando, a piccoli passi, un importante sistema. Al rientro mi carico con le bombole e col propulsore di emergenza che ave vo lasciato lungo il percorso. Mi man

Sopra: Interstrato. Sotto: La seconda strettoia

ca di affrontare la decompressione a più di un chilometro dall’ingresso, poi ridiscendere fino a -55m e raggiun gere le zone dove sarò costretto a ri fare un po’ di decompressione prima di uscire dalla galleria. Mentre ritorno verso l’ingresso del sifone, raccolgo una parte dei materiali che ho deposto lungo il cammino, così che con una immersione finale, relativamente poco impegnativa, potrò andare a recupe rarli. Seleziono le bombole da lasciare in acqua per garantirmi una sicurez za per l’ultima immersione e una volta superate le strettoie, trascinando tutto il resto del carico dietro di me, lo con segno ai miei compagni di avventura che così potranno iniziare a traspor tarlo all’esterno della grotta.

Sono sicuro che Rio Torretta non può finire così: troppo bella la grotta e molto attiva. I fili vecchi rotti, lun go tutta la galleria, dimostrano che ci sono state correnti impetuose prove nienti da qualche parte, la prosecuzio

ne che cerco. Le immagini delle micro camere, possono aver fissato quel lo che sfugge durante la complessità dell’immersione. L’inverno mi darà il tempo necessario per osservare con attenzione il percorso. Ci ritrovere mo tutti per aprire quella porta che mi porterà nuovamente verso l’ignoto all’interno della montagna.

Team

Andrea Arabi, Adriano Ballarin, Bep pe Frison, Davide Basile, Diego Massi gnan, Francesco Boaria, Franco Gior dani, Matteo Caccaro, Marco Morando e Stefano Bergonzi.

Sponsor

Coltri, Digital Movie, Diving Techni cal Center, Easy Dive, Parisi Sub, PSS, Suex, Tecnodive, Xdive, Vicenza sub

Il video della spedizione: https:// www.youtube.com/watch?v=CqWOVrzIs4

66 Speleologia
Primi tratti nel terzo sifone

La Commissione Gite aveva pre parato per il 2020 un program ma ricco e variegato, come è possibile consultare sul sito del CAI Lecco alla voce “Gite Sociali”. Veniva no toccate mete interessanti e inusuali, dal Veneto alla Valsesia, dal Cuneese all’Appennino Parmense, oltre all’im mancabile Svizzera; una due giorni nelle Alpi Liguri e una facile cammi nata nelle Langhe con pranzo finale per finire in gloria. In realtà, appena si è allentata la stretta per il Covid, si è potuta concretizzare una sola gita nel Parco del Gran Paradiso da Cogne al lago di Loie, con vista sul Monte Bian

DELLA PANDEMIA

co. E’ stata una camminata importante e di soddisfazione, ma l’unica, col bus riempito a metà per il distanziamento e quindi un costo quasi raddoppiato. Per non rimanere inerte la Commissione ha passato parola dove si poteva e ha proposto delle gite con l’auto, che sono state effettuate nel Triangolo Lariano e sopra Gravedona al Lago Darengo, dove c’era già la neve, ma naturalmen te non si è potuta coinvolgere troppa gente per non creare grossi assem bramenti. La Commissione ha poi ten tato di proporre la gita al Colle d’Egua in programma per il 20 settembre con possibilità di riempire il bus, ma la paura del Covid ha fatto novanta e le adesioni non giustificavano l’impegno del pul lman, gita annullata. Insomma, l’annata è andata buca e non si sa come sarà

l’anno prossimo. In ogni caso il pro gramma è già bell’ e pronto.

La novità di quest’anno è stata l’i stituzione del CAI Famiglia, maturan do una proposta già dibattuta gli anni scorsi anche con l’amico Beppe Ferra rio, allo scopo di offrire delle gite adatte a genitori con figli dai 6 ai 10 anni circa per condividere la frequentazione della montagna. Il programma pubblicato sul sito non era male, ma anche in que sto caso il Covid non ha permesso un regolare svolgimento dell’attività. L’anno prossimo si spera di poter partire con una migliore preparazione dell’iniziativa così da coinvolgere un gruppo di fa miglie in cui genitori e figli trovino oc casioni per socializzare e apprezzare i vantaggi offerti dalle Terre Alte.

Il2020 ha accumulato disastri e sciagure tali da farlo ricordare per molti anni a venire. Fra questi spicca la diffusione della pandemia del COVID 19 che, a tutt’oggi, non sem bra proprio aver esaurito la sua spinta negativa che ha già prodotto morti e sofferenze nel mondo intero.

Questo è il primo livello di attenzio ne, ma fra gli effetti secondari, vuoi a causa del periodo di clausura, e poi con le limitazioni nei movimenti e nei momenti di socialità, ci sono gli effetti negativi vissuti da molte associazioni. Non poteva esserne esente il GEO (Gruppo Età d’Oro) che coordina Se niores del CAI di Lecco.

L’anno era iniziato bene con le con suete uscite invernali che avevano richiamato nuovi soci (almeno una

trentina) e con le adesioni all’uscita del mercoledì che avevano reso ne cessario l’utilizzo di un secondo bus per soddisfare le richieste di tutti.

Sembrava di essere avviati verso le consuete 50 uscite annuali, imprezio site dalla settimana bianca, da quella verde e da quella azzurra.

L’ultima uscita, invece, è stata quella del 19 febbraio, seguita dalla laboriosa “settimana bianca” in Val Pusteria dei primi di marzo, resa possibile grazie alla collaborazione della sezione (Al berto Pirovano e Andrea Spreafico in primis) e del presidente del gruppo (Michele Bettiga) che erano riusciti ad ottenere le doverose autorizzazioni prefettizie.

A distanza di diversi mesi possiamo affermare che le splendide giornate

trascorse sulla neve di San Candido e dintorni, non hanno avuto alcun ef fetto negativo sulla salute dei parte cipanti.

Dopo ha avuto inizio il periodo di “lockdown” cui hanno fatto seguito le ti mide riaperture dei primi di maggio e le istruzioni della CCE (Commissione Cen trale Escursionismo) del CAI nazionale che ai primi di giugno hanno consen tito un cauto riavvio dell’attività sociale, ponendo dei paletti molto stringenti che non hanno permesso - in particolare per ciò che riguarda il numero dei parteci panti (max 10 persone) - una ripresa delle uscite sociali del GEO.

LE GITE AL TEMPO
Una annata buca e un futuro incerto
Sosta durante la traversata da Cogne a Loie nel Parco del Gran Paradiso con vista sul Monte Bianco. Foto di Domenico Sacchi, luglio 2020
68 Escursionismo
SLALOM FRA I DIVIETI
La difficile stagione del GEO tra “settimane” mancate e uscite ridotte
Un gruppo di seniores durante la settimana bianca a San Candido. Foto di Lina Astorino, marzo 2020
69Geo

Spartani

Solamente a fine luglio, nel pieno del periodo estivo, sono stati aperti degli spiragli che hanno consentito di pro grammare – nel rispetto delle regole - alcune uscite che hanno ottenuto un buon consenso, a riprova che, no nostante la loro età media (72 anni), Seniores stavano scalpitando.

Il consiglio direttivo del gruppo, in considerazione di questo elemen to anagrafico, si è mosso con grande prudenza, scartando l’utilizzo dei bus (dapprima utilizzabili al 50%, ma con inevitabili ripercussioni sul costo del trasporto) che male si configurano in termini di assembramento e di durata del viaggio con mascherina.

Si è preferito optare per uscite con mezzi propri o con il treno, privile giando, come consigliato dalla CCE,

luoghi del territorio che non richie devano lunghe trasferte e percorsi ad anello. Lo stesso si può dire del ricorso alla colazione al sacco che ha evitato assembramenti ed eccessive pressioni sui rifugi. Un po’ un ritorno alle origini del GEO, spartane ed essenziali.

Durante i tragitti sono state rispet tate le distanze; ogni partecipante si è dovuto munire di gel disinfettante ed ha dovuto rilasciare una dichiarazione sul suo stato di salute oltre che impe gnarsi al rispetto delle regole.

La consueta assemblea di ottobre, nel corso della quale doveva esse re presentato il programma dell’anno successivo, è stata annullata, essen dosi dovuto optare per una program mazione sul breve periodo (3/4 set timane). Anche il pranzo sociale (120 i partecipanti a quello dello scorso

anno) è stato con dispiacere annulla to. La consueta “giornata del ricordo” dei primi di novembre, dedicata ai Soci che non ci sono più, grazie all’ospitalità del Prevosto di Lecco, don Davide Mi lani, si è potuta svolgere nella capien te Basilica di San Nicolò, in grado di garantire un adeguato distanziamento fra i partecipanti.

Oltre alle uscite, sono mancati momenti di socialità e di inclusione, elementi cardine per l’assegnazio ne della benemerenza civica che due anni fa è stata conferita al GEO.

Oggi è molto difficile e complicato progettare il futuro, se non su scenari di breve periodo. Ma una cosa è certa: quando il Covid 19 sarà passato, il GEO sarà pronto per intraprendere nuove escursioni ed esplorare nuovi territori.

RECENSIONI

DAGLI ANNI QUARANTA AGLI ANNI ZERO, UNA NUOVA STORIA DI RAGNI

Con una narrazione scandita per decenni, questo libro di Serafino Ripamonti pro pone una rilettura e un completamento della storia del Gruppo Ragni, attingendo alle più autorevoli fonti bibliografiche, al web, ad archivi fotografici pubblici e privati che ne giustificano il sottotitolo di “storia per immagini”. Ogni capitolo è introdotto da un breve testo che riassume le connotazioni del decennio narrato. Così gli anni Quaranta, quelli delle origini, sono “uno spaccato dell’Italia del primo dopoguerra”, povera ma piena di speranza; in quel clima i giovani lecchesi delle classi popolari scoprono “i paracarri di roccia che si innalzano sopra i tetti delle case e delle fabbriche” e le montagne lecchesi diventano il laboratorio dell’alpinismo lombardo. E poi, via via, si passano in rassegna gli anni Cinquanta, dall’apprendistato in Grigna all’esplorazione delle Alpi; gli anni Sessanta, che con la conquista del McKinley, significano la “consacrazione dei Ragni nel gotha dell’alpinismo mondiale”; gli anni Settanta, quelli della Patagonia e del suo re Casimiro Ferrari, ma anche quelli in cui nell’alpinismo come nel resto della società incomincia a soffiare il vento del rinnovamento e della contestazione, “un vento che parla di fiori nei cannoni e di pace con l’Alpe”. Crollano i miti delle precedenti generazioni, si affermano spinte innovative nello stile, nelle tecniche, nei materiali dell’arrampicata e, per quanto riguarda l’alpinismo lecchese, si registra un mo mento di rottura all’interno del gruppo Ragni che, a distanza di qualche anno, sfocerà nella fondazione dei Gamma. Negli anni Ottanta, “i giovani climber non hanno l’aspetto dell’alpinista eroico, ma quando portano in montagna le cose che hanno imparato sui sassi della valle, polverizzano record del passato e riscrivono gli standard delle difficoltà e le regole con cui affrontarle”: in un contesto di autonomia dei singoli alpinisti, il gruppo rimane come “terreno di coltura, architettura che rende possibile trasformare i loro progetti in realtà”. Questo processo si accentua negli anni Novanta quando diventa evidente che le più grandi montagne e pareti possono essere affrontate in stile alpino da singole cordate di due o tre alpinisti. E mentre viene sancita la fine dell’alpinismo di gruppo, proprio alle soglie del terzo millennio si assiste a un nuovo “strappo nella ragnatela” e ad una profonda crisi di identità dei Ragni. Fortunatamente nei primi anni Duemila entra a far parte del sodalizio un bel gruppo di giovani, molti dei quali non lecchesi, che si collocano in un giusto punto di equilibrio fra tradizione e nuovi modi di vivere l’alpinismo: “ragazzi fortissimi a scalare ma con un gusto dell’avven tura di altri tempi, guidati da una chiara idea di stile e di etica: arrampicata libera e stile alpino. Grazie a loro - commenta l’autore – “l’attività alpinistica del gruppo negli ultimi anni è diventata impressionante, pari solo a quella degli anni Settanta”. Chi avesse letto la prima storia dei Ragni, quella scritta da Alberto Benini che ragno non è ma ha assimilato lo spirito del gruppo attraverso l’amicizia e la frequentazione assidua di molti protagonisti (Ragni di Lecco.50 anni sulle montagne del mondo Vivalda editore 1996), e avesse conservato dei ricordi, a questo punto perde le tracce e si trova immerso nel nuovo.

Serafino Ripamonti ha il merito di avere ricostruito nei dettagli gli anni Duemila, nome dopo nome, spedizione dopo spedizione, organizzando e dando forma scritta a un materiale che, in piccola parte pubblicato su riviste, era per lo più stato divulgato solo attra verso social e web. Ed è riuscito a farlo senza perdere di vista il patrimonio storico dei sessant’anni precedenti, anzi facendo apparire il presente come l’evoluzione naturale, sia pure costellata da momenti critici, di un inarrestabile processo inter-generazionale. I testi sono completati da un ricco apparato iconografico e da schede di approfondimento di carattere storico o biografico. Nelle ultime pagine, una bibliografia essenziale e un utile elenco delle grandi prime dei Ragni.

Serafino Ripamontit

I Ragni di Lecco. Una storia per immagini. Rizzoli Editore, aprile 2020

Recensioni

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Un gruppo di seniores in gita al lago Sgrischuss in Engadina, nel settembre 2019. Foto di Lina Astorino

LA GRIGNA E L’ALPINISMO MONDIALE

Nella sua lunga ed apprezzata professione come scrittore e giornalista, Giorgio Sprea fico si è distinto per l’appassionato interesse e competenza in tutto ciò che riguarda il mondo della montagna. Non ha comunque mai nascosto la preferenza, diciamo pure l’amore intenso che riserva per le montagne e i grandi alpinisti della sua città. L’attrat tiva e il fascino delle sue montagne li ha intravisti, anzi anche visti personalmente, negli alpinisti di fama mondiale, ai quali è bastato un semplice invito per accorrere a Lecco, dove sono stati accolti in saloni sempre gremiti di appassionati desiderosi di vederli e ascoltarli. Per lui pure un privilegio e una rara fortuna, perché è certo difficile poter incontrare un tanto cospicuo numero di celeberrimi alpinisti, lungo l’arco di quattro decenni. Tanti sono stati i protagonisti dell’alpinismo mondiale che sono intervenuti a Lecco dai primi anni ottanta fino ai nostri giorni: e lui tutti li ha accostati per conoscerne le più intense imprese, ma anche per approfondire gli aspetti più sensibili e umani della loro personalità. È così che ne ha ricavato un volume unico nel suo genere, perché ci fa incontrare tutte insieme “cinquanta stelle della scena alpinistica mondiale che si raccontano ai piedi della più amata montagna lombarda”, regalandoci la straordinaria occasione di conoscere pressoché tutti gli arrampicatori stranieri che hanno scritto la storia dell’alpinismo di questi ultimi quarant’anni.

Renato Frigerio

Giorgio Spreafico

IL RICHIAMO DELLA GRIGNA

Cinquanta stelle della scena alpinistica mondiale si raccontano ai piedi della più amata montagna lombarda Teka Edizioni 2020

si possano ritrovare”.

Nel libro, la montagna occupa un posto di primo piano, intrecciandosi con la storia di Luciano Tenderini, forte alpinista (quello della prima invernale sulla via Bonatti al Grand Capucin, tanto per fare un esempio), guida e istruttore di arrampicata, molto vicino all’am biente alpinistico lecchese che negli anni ‘50 si raccoglie ai piedi della Grigna. Il libro di Mirella, spesso fra le righe, fornisce molti spunti per conoscere questo personaggio “nemico dell’alpinismo di competizione”, all’interno di una storia corale che vede sfilare tanti nomi anche famosi, ma soprattutto tanti amici. Una storia che inizia e finisce ai Resinelli, intervallata da esperienze di gestione di vari rifugi in anni ancora “eroici”, nei quali le asperità della vita quotidiana e l’isolamento erano per fortuna mitigati da rapporti umani limitati ma autentici. Storia di una “famiglia randagia”, come Mirella definisce la propria, ma nella convinzione che “cambiare ogni tanto un lavoro e uno stile di vita – sempre che si possa – allarga gli orizzonti e arricchisce. Noi cambiammo tante volte e anche il mondo e la società cambiarono con noi”.

LA “ROTTA ALPINA”

STORIE DI VITA E DI MONTAGNA

Mirella Tenderini, autrice e curatrice di molte pubblicazioni e particolarmente inte ressata al tema della montagna, in quest’ultimo libro racconta una storia che abbraccia cent’anni, snodandosi attraverso brevi capitoli, ovvero le lettere ai nipoti che forniscono il sottotitolo. Fogli scritti in ordine sparso che potrebbero avere ciascuno una vita a sé, se non fosse per quel filo conduttore che li riconduce tutti alla storia della famiglia di Mirella, milanese, e della famiglia del marito, Luciano Tenderini, originario della Valsassina. Si inizia dai bisavoli con storie lontane sentite raccontare dai nonni e dai genitori o le gate a ricordi personali: vicende che hanno come sfondo gli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, le guerre, il fascismo, il dopoguerra, gli anni difficili della ricostruzione e quelli della ripresa, arrivando agli anni Novanta. Piccole storie che si svolgono all’interno della grande storia, in un mondo che subisce continui cambiamenti. Mirella non perde occasione per contestualizzare il suo racconto citando fatti storici o di cronaca, e pre stando molta attenzione ai risvolti sociali e di costume; i lettori un po’ avanti negli anni si ritrovano nella sua narrazione, i più giovani scoprono il mondo di nonni e avi, difficile da immaginare per loro che distano anni luce dalla quelle realtà, anche quando si parla “di poco più di mezzo secolo fa”. “Ciascuno di noi vive una vita diversa da quella degli altri - scrive l’autrice nella prefazione – ma noi tutti abbiamo qualcosa che ci accomuna e che può far piacere riesumare di tanto in tanto. Per questo ho pensato di raccogliere tutti fogli in unico libro dove non solo i miei nipoti ma anche amici e semplici lettori

Quando sentiamo parlare di migranti, il nostro pensiero va immediatamente al mare, ai barconi, ai naufragi, ai centri di raccolta che periodicamente balzano all’attenzione della cronaca. È più difficile per noi, che pure le abbiamo vicine, pensare alle montagne come via di fuga per tante persone alla ricerca di un nuovo inizio. Maurizio Pagliassotti, scrit tore e giornalista, squarcia questo velo di ignoranza o indifferenza e racconta la “rotta alpina”, ovvero quei dodici chilometri che separano Clavière, l’ultimo paese italiano pri ma del confine, dalla cittadina francese di Briançon attraverso il passo del Monginevro. “Qui l’armata dei migranti si trova a dodici chilometri dall’arrivo di un viaggio lungo anni che ha attraversato mari, deserti, catene, schiavitù, barconi, violenza, razzismo, stupri, morte”. Dopo aver setacciato per anni quei sentieri per “spirito di cittadinanza” oltre che per il suo mestiere di cronista, l’autore si abbandona a una narrazione dove piccolezze, miserie, violenze lasciano spazio anche a grandi gesti d’amore e di giustizia. Sullo sfondo, piccoli paesi di montagna ormai spopolati, sciatori e seconde case, in un paesaggio di ghiaccio e neve. Inevitabile il richiamo ad altri tempi, quando erano italiani i migranti della “rotta alpina” ed efficace la citazione di un film del 1950, Il cammino della speranza (diretto da Pietro Germi e sceneggiato da Federico Fellini e Tullio Pinelli), protagonisti un gruppo di siciliani che, spinti da una miseria “nera e disperata”, arrivano proprio ai “dodici chilometri “del Monginevro. Il pensiero dell’autore del libro, in contrasto con i proclami di inflessibilità e la “speranza” di alcuni di poter respingere i migranti a forza di leggi e decreti, è sintetizzato nelle parole che chiudono quel film recitate da una voce fuori campo: “[…] i confini sono tracciati sulle carte, ma sulla terra come Dio la fece per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi e si frughi lungo il corso dei fiumi e sul crinale delle montagne non ci sono confini su questa terra”.

ANCORA DODICI CHILOMETRI. Migranti in fuga sulla rotta alpina. Prefazione di Andrea Bajani Bollati Boringhieri editore, 2019

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NOTIZIE IN BREVE

Il bollino del CAI, quello che ogni anno riceviamo al momento dell’i scrizione e che collezioniamo sulla nostra tessera, nel 2021 è dedicato alla spedizione al McKinley del 1961.

La montagna più alta del Nordamerica (alla quale è stato recentemente re stituito il nome indiano originario di Denali), ubicata come tutti sanno in Alaska poco al disotto del Circolo po lare artico e all’epoca uno dei proble mi alpinistici irrisolti di quella regione, fu scalata sessant’anni fa dal versan te sud attraverso una delle pareti più grandi del pianeta: più di 3000 me tri di dislivello fra ghiacciai, seracchi, compatte fasce rocciose, temperature che anche d’estate possono scende re di decine di gradi sotto lo zero. A raggiungere la vetta, guidati da Ric cardo Cassin, furono i Ragni Gigi Alippi, Annibale Zucchi, Luigino Airoldi e Ro mano Perego, ai quali si unì Jack Canali, guida alpina di Albavilla.

La spedizione fu organizzata dalla sezione di Lecco del CAI, con intensa partecipazione di tutta la città ed ebbe un’enorme risonanza sulla stampa ita liana e internazionale.

Lanfranchi premiato al concorso “Mario Rigoni Stern”

“Sentieri nella neve” è il titolo della sesta edizione del con corso fotografico ideato e organizzato per il 2020 dal Comitato scientifico centrale del CAI (in collaborazione con il Comitato scientifico VFG e le sezioni CAI di Asiago, Bassano del Grappa, Mantova, Mestre e Mirano), dedicato a Mario Rigoni Stern, uomo e scrittore di montagna con un rapporto speciale con la neve che lo ha accompagnato per tutta la vita.

Le edizioni precedenti del concorso, “I grandi animali selvatici delle montagne italiane”, “Arboreto Salvatico”, “Stagioni”, “Rac conti di Guerra” e “Uomini, boschi e api sono state seguite da

mostre itineranti, richieste dalle varie sedi CAI, che hanno avuto molto successo portando in giro per l’Italia immagini di grande bellezza e significato naturalistico o antropologico.

Al concorso 2020 ha partecipato Mauro Lanfranchi, noto fo tografo lecchese appassionato di montagna e di neve: una delle sue fotografie, Scolpita dal vento si è collocata al secondo po sto fra le tre vincitrici; un’altra, La traccia è stata segnalata con menzione.

Riportiamo di seguito le motivazioni:

SCOLPITA DAL VENTO

L’immagine ha per protagonista la neve, che elemento ete reo e delicato, per sua stessa natura vocata ad assumere le forme degli oggetti su cui si posa, pur modificandola, diviene in questo caso forma, scultura, decorazione e disegno essa stessa. Opera di notevole pregio grafico, in cui la figura dell’e lemento umano conferisce la giusta dimensione alla suggesti va opera d’arte creata dalla neve e dal vento.

LA TRACCIA

Suggestiva immagine in cui volumi e linee concorrono a costruire una composizione di mirabile equilibrio e di raffinata delicatezza. La sommità del colle, cui fa da sfondo l’intricata tessitura del bosco, appare come una meta cui tendere. Perché è da quel punto che lo sguardo potrà spingersi ad orizzonti lontani.

Dall’alto: Cartolina ricordo (fronte e retro) della spedizione con la firma autografa di tutti i componenti. Collezione Annibale Rota; Il bollino CAI 2021

A Mauro, che in più occasioni ha generosamente messo a disposizione del nostro notiziario qualcuno dei suoi scatti e che, in particolare, ha contribuito a illustrare questo numero, i ringraziamenti e le congratulazioni del CAI Lecco.

La spedizione “Città di Lecco” al McKinley sul bollino Cai 2021
74 Vita di sezione
A Giancarlo Riva, ex presidente del Gruppo Gamma e uno degli scalatori lecchesi più innovativi degli anni ‘70, vittima qualche tempo fa di un incidente in bicicletta e ora in via di ripresa, va il più caldo augurio della nostra sezione.

Nell’ambito dello sviluppo delle sue attività di comunicazione, il CAI Sezione di Lecco - Riccardo Cassin ha programmato il restyling e l’implementazione del proprio sito internet.

Per rendere il sito uno strumento funzionale a disposizione dei Soci e di tutti gli appassionati di montagna, così come per tutte le nostre attività, è fondamentale il contributo da parte dei volontari che sostengono i progetti della Sezione, mettendo ge nerosamente a disposizione tempo e competenze.

Al fine della revisione del sito e della sua gestione ordinaria, stiamo cercando uno o più Soci con le necessarie conoscenze informatiche di base, interessati ad inserirsi nel gruppo dei vo lontari che gestiscono le attività di comunicazione.

Sareste disponibili a dare un contributo ma volete saperne di più?

Scrivete alla Sezione all’indirizzo comunicazione@cai.lecco.it

LUTTI

Negli ultimi mesi ci hanno lasciato:

Ivo Mozzanica, alpinista e guida alpina. Di lui traccia, su questo numero, un bel profilo Alberto Benini, evidenziandone la preparazione alpinistica di alto livello e il carattere pionieristico dell’arrampicata; uno scritto di Ivo “Ricordi di un vecchio alpinista: appunti su episodi temerari di mezzo secolo fa”era stato pubblicato sul numero 2/2015 di questo nostro notiziario

Alessandro Liati, appartenente al Gruppo Ragni e medico di tante spedizioni alpinistiche in giro per il mondo. Carlo Aldé, che lo ha avuto accanto in diverse avventure, ci ha consegnato di lui un ricordo pieno di commozione pubblicato su questo numero del notiziario

Giuseppe Spreafico Pepetto, socio CAI Lecco, impegnato in varie attività sezionali, guida alpina e Ragno fin dalla nascita del gruppo di cui ha sempre avuto a cuore la coesione e la crescita. Anche di lui, su questo numero, Alberto Benini ha scritto un sintetico profilo biografico e alpinistico. Un’intervista curata da Matteo Manente è stata invece pubblicata sul numero 2/2015

Giovanni Carcianiga Stizza, così soprannominato per il suo carattere non proprio morbido. Iscritto al CAI Lecco dal 1946 e appartenente al Gruppo Ragni, era nato e cresciuto a Rancio. Aveva iniziato ad arrampicare da giovane sulle montagne di casa esplorando la zona del San Martino e della Medale, avendo come compagni di cordata Giovanni Ratti, Antonio Castelnuovo Nisa, Giuseppe Spreafico Pepetto e Vittorio Rota. Intensa l’attività alpinistica successiva che l’ha portato a partecipare anche a spedizioni extraeuropee come quella all’Ama Dablam (Nepal) organizzata nel 1985 dal CAI Ballabio e guidata da Casimiro Ferrari, o due puntate in Sudamerica, una in Patagonia nella zona del Cerro Torre, l’altra in Cile al San Valentin. Dino Piazza che condivise queste due spedizioni, dice di lui che era una persona colta e di grande onestà.

Giorgio Benassedo, socio Cai Lecco dal 1970

Angelo Castagna, iscritto al CAI Lecco dal 1970

Ai famigliari delle persone scomparse l’abbraccio affettuoso di tutta la sezione

Contribuisci al rinnovo dell’immagine della Sezione, appello ai soci
BELLAVITE

CONVENZIONI

CLINICA SAN MARTINO - MALGRATE

Malgrate, Lecco. Via Selvetta angolo via Paradiso - tel. 0341 1695111 - Internet: clinicasmartino.com

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Garanzia delle prestazioni di diagnostica per immagini in 12/24 h dalla richiesta.

MEDINMOVE

Lecco via Balicco, 109 - Internet: www.medinmove.it

Centro di Medicina Preventiva, Riabilitativa, Genetica. Prezzi convenzionati sulle prestazioni concordate (vedi www.cai.lecco.it).

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SPAZIOTEATRO INVITO Lecco, via Ugo Foscolo 42 tel. 0341 158 2439 Ai soci CAI riduzione del 20% sul costo del biglietto per tutti gli spettacoli e concerti della propria stagio ne, quindi da € 15 a € 12. Info al sito: http://teatroinvito.it/spazio-teatro-invito/calendario-stagione/ Per ottenere gli sconti indicati è necessario esibire la tessera del CAI Lecco regolarmente rinnovata. Possono usufruire delle convenzioni anche i soci delle sottosezioni del CAI Lecco: CAI Barzio, CAI Ballabio, Strada Storta.

NB: Per le società commerciali o aziende che volessero attivare iniziative di promozione o sponsorizzazione con il CAI

RINNOVO ONLINE

A partire dalla campagna di tesseramento 2021, la sezione di Lecco ha attivato la modalità di pagamento della quota associativa attraverso il sistema di rinnovo online: un modo facile e veloce per rinnovare la propria adesione al sodalizio comodamente da casa! Come funziona? Il primo passo è accedere al sito www.soci.cai.it attraverso le proprie credenziali oppure registrarsi seguendo la procedura indicata (è necessario inserire il proprio codice fiscale). Una volta entrati, il sito mostra tutte le informazioni sulla propria posizione come socio. Cliccando sulla voce “rinnovo” sulla sinistra, il sistema automaticamente farà un riepilogo della propria posizione e di quella di eventuali soci dello stesso nucleo familiare: si potrà così scegliere se procedere al rinnovo solo per sé oppure anche per gli altri soci. Scorrendo la pagina, basterà cliccare sul simbolo di Paypal per concludere la procedura effettuando il pagamento.

N.B. Questa procedura permette di effettuare il rinnovo delle quote associative e degli eventuali massimali integrativi senza modifiche rispetto all’anno precedente. Qualora sia necessario apportare modifiche oppure si volesse richiedere una polizza assicurativa, è neces sario contattare la segreteria sezionale nelle modalità indicate alla pagina “Informazioni dalla segreteria”.

INFORMAZIONI DALLA SEGRETERIA - TESSERAMENTO

QUOTE SOCIALI 2021

Le quote sociali per il 2021 sono le seguenti:

Socio Ordinario €46,00 Socio Ordinario* €24,00 (nati dal 1995 al 2002) Socio Familiare** €24,00 Socio Giovane*** €16,00 (nati nel 2003 e anni seguenti) Socio Vitalizio €20,00 Tessera per i nuovi Soci € 5,00 Duplicato Tessera € 2,00

*Al Socio ordinario di età compresa tra i 18 e i 25 anni viene applicata automaticamente la quota dei soci familiari. Tale Socio godrà di tutti i diritti del socio ordinario.

** Possono essere soci familiari solo i residenti al medesimo in dirizzo del socio ordinario di riferimento.

***Socio giovane: a partire dal secondo figlio giovane in poi, il socio giovane verserà la quota di € 9,00. Si precisa che per poter usufruire dell’agevolazione prevista, il socio giovane dovrà avere un socio ordinario di riferimento (capo nucleo) in regola con il tesseramento dell’anno in corso ed appartenere ad un nucleo fa miliare con due o più figli giovani iscritti alla Sezione.

Ricordiamo che a partire dal 1 novembre 2020 si è aperto il tes seramento 2021. Per non perdere i benefici dell’iscrizione al CAI il rinnovo deve essere effettuato entro il 31 marzo 2021. Per pro cedere con il rinnovo è possibile passare in segreteria (si prega di verificare sul sito www.cai.lecco.it le aperture considerato il pe riodo che stiamo vivendo) oppure attraverso bonifico bancario o paypal (come da istruzioni riportate sul nostro sito alla voce “CAI Lecco – quote e assicurazioni – tesseramento 2021).

IL RINNOVO DELLA TESSERA PUÒ ESSERE EFFETTUATO:

pagina facebook Cai Sezione di Lecco “Riccardo Cassin”) per sapere se la sede è aperta al pubblico e in quali orari. Non ci è possibile, infatti, prevedere l’andamento della situazione e poter dare indicazioni certe al riguardo. In ogni caso, è sempre possibile contattare la segreteria inviando una mail al seguente indirizzo: segreteria@cai.lecco.it.

AGEVOLAZIONI E BENEFICI PER I SOCI

Agli associati è garantita la copertura assicurativa per infor tuni che si verifichino nell’ambito di iniziative organizzate dal Sodalizio, ivi compresi i corsi e le scuole, oltre alla copertura assicurativa del Soccorso Alpino per attività sia sociali che personali.

- I soci possono essere assicurati per gli infortuni in attività personale richiedendo la copertura assicurativa presso la se zione di appartenenza.

- Il socio ordinario riceverà al proprio domicilio la rivista mensile del Cai “Montagne 360” e la rivista quadrimestrale sezionale ”CAI Lecco 1874”.

- Tutti gli associati, con la presentazione della tessera ripor tante il bollino relativo all’anno in corso potranno usufruire degli sconti previsti dalle convenzioni indicate nell’apposito riquadro.

- Tutti gli associati potranno usufruire gratuitamente dei ser vizi offerti dalla sezione: accesso alla documentazione pre sente nella biblioteca sezionale, utilizzo di internet, lettura dei periodici e delle riviste presenti in sede.

- Tutti gli associati otterranno sconti sull’acquisto di libri o pubblicazioni del CAI.

DIMISSIONI E MOROSITA’

In sede:

Tutti i martedì non festivi dalle ore 20:30 alle 22:00. Tutti i venerdì non festivi dalle ore 18:00 alle 20:00 In alternativa, il pagamento potrà essere effettuato a mezzo: a) Bollettino c/c Postale n. 12049227 intestato a C.A.I. Sezione di Lecco.

b) BANCA POPOLARE DI SONDRIO, Agenzia di Piazza XX Set tembre a Lecco, sul conto corrente intestato a C.A.I. Sezione di Lecco IBAN IT07 J056 9622 9020 0000 2154 X06.

Si ricorda di indicare nella causale il nome e la data di nascita di tutti i soci per i quali viene effettuato il tesseramento. Il pagamento tramite Bonifico Bancario o Bollettino di c/c Postale prevede un contributo, per socio o per nucleo familiare, di € 2,00 per spese postali (Esempi - Singolo socio: quota + 2,00€ - Nu cleo Familiare: somma delle quote + 2,00€).

Il bollino verrà spedito per posta al domicilio del socio.

CALENDARIO CHIUSURA SEDE

Considerata la situazione di emergenza sanitaria che ha coin volto il nostro territorio nel corso di questi mesi, consigliamo di mantenersi aggiornati sui nostri canali web (www.cai.lecco.it;

Il socio può dimettersi dal Club Alpino Italiano in qual siasi momento; le dimissioni devono essere presentate per iscritto al Consiglio Direttivo della Sezione, sono irrevoca bili ed hanno effetto immediato, senza restituzione dei ratei della quota sociale versata.

Il socio è considerato moroso se non rinnova la propria adesione versando la quota associativa annuale entro il 31 marzo di ciascun anno sociale; l’accertamento della morosità è di competenza del Consiglio Direttivo della Sezione; non si può riacquistare la qualifica di socio, mantenendo l’anzianità di adesione, se non previo pagamento alla Sezione alla quale si era iscritti delle quote associative annuali arretrate. Il so cio di cui sia stata accertata la morosità perde tutti i diritti spettanti ai soci.

Lecco tele fonare allo 0341-363588 (orari apertura sede) o al 3393216291 oppure scrivere un’email a sezione@cai.lecco.it.
79Vita di Sezione

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