WALTER MAURO - ELENA CLEMENTELLI
Alberti Neruda Baldwin Goytisolo Vassilikos Gombrowicz Scorza Fuentes Marquez Moravia
Montale Sartre Mauriac Ehrenburg Asturias Böll Vargas Llosa Levi Roth Sabato McCarthy
EQUIPèCO Carmine Mario Muliere Editore
© 2010 by EQUIPèCO CARMINE MARIO MULIERE EDITORE Tutti i diritti riservati E-book 4 ISBN 978 - 88 - 904667 - 2 - 4 Via Donnicciola 25 - 00030 San Cesareo - RM Telefono: 06 9570723
www.equipeco.it In copertina Muliere, opera digitale, 2006
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WALTER MAURO - ELENA CLEMENTELLI
LA TRAPPOLA E LA NUDITÀ Intellettuale e Potere
EQUIPèCO CARMINE MARIO MULIERE EDITORE
Walter Mauro_Elena Clementelli
LA TRAPPOLA E LA NUDITÀ - Intellettuale e Potere
INDICE pagina Introduzione............................................................................................................................ 9 Rafael Alberti.......................................................................................................................... 55 Pablo Neruda.......................................................................................................................... 82 James Baldwin......................................................................................................................... 93 Vassilis Vassilikos.................................................................................................................... 105 Juan Goytisolo......................................................................................................................... 116 Witold Gombrowicz............................................................................................................. 133 Heinrich Böll............................................................................................................................ 144 Ilja Ehrenburg.......................................................................................................................... 154 François Mauriac.................................................................................................................... 167 Jean-Paul Sartre…………................................................................................................... 177 Eugenio Montale…………................................................................................................ 189 Miguel Angel Asturias.......................................................................................................... 199 Carlos Fuentes......................................................................................................................... 213 Gabriel Garcìa Marquez...................................................................................................... 234 Ernesto Sabato........................................................................................................................ 254 Mario Vargas Llosa.................................................................................................................281 Manuel Scorza........................................................................................................................ 293 Carlo Levi................................................................................................................................. 307 Alberto Moravia.....................................................................................................................335 Mary McCarty......................................................................................................................... 356 Philip Roth................................................................................................................................ 372 Ringraziamenti........................................................................................................................ 390
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Raul, ti ricordi? Ti ricordi, Rafael? Federico, ti ricordi sotto terra... Pablo Neruda
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Bastava la Tua corposità a opprimermi... Acquistasti ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero.
INTRODUZIONE
Dalla Lettera al padre di Franz Kafka
Prima di affrontare il problema del rapporto fra lo scrittore e il potere, che costituisce l’epicentro dal quale si diparte la struttura di questo libro di incontri e di confessioni di alcuni fra i maggiori scrittori del nostro tempo, sarà opportuno chiarire il senso e il significato che il termine potere è andato assumendo sotto vari aspetti, ma soprattutto attraverso la triplice distinzione di Max Weber fra potere razionale, tradizionale e carismatico. Di fronte a tale problema, può risultare importante il recupero del concetto di interconnessione del sociale che ha improntato tutta l’opera weberiana, anche come sforzo di intendere il potere sia quale «rapporto interpersonale sia come attributo di una collocazione o posi1 zione oggettiva giuridicamente o informalmente codificata». E tale puntualizzazione può riuscire ancora piú utile se si riflette intorno all’incertezza terminologica che ha accompagnato il vocabolo potere fin dai tempi piú antichi, da Platone si potrebbe dire al punto da giustificare la definizione di Ferrarotti di concetto-paravento come diretta conseguenza di una tradizionale ambiguità concettuale e di una utilizzazione pericolosamente acritica.
1- Franco Ferrarotti Introduzione a La sociologia del potere Laterza editori Bari 1972
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2- Max Weber Economia e Società Edizioni di Comunità Milano 1961 ed. or. 1922
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Nella triplice distinzione weberiana dunque, se da un canto può individuarsi l’esigenza di una lettura correttamente storica, localizzabile cioè al momento della crisi della Germania guglielmina, come sostiene legittimamente il Ferrarotti, d’altro lato può riconoscersi un indice di lettura in grado di fornire la chiave per penetrare al vivo degli infiniti, talvolta insolubili problemi che il rapporto stesso pone, sia sul piano della vita e della sopravvivenza del cittadino che dell’artista e dell’intellettuale. Quando Max Weber parla dei tre tipi puri del potere legittimo o razionale, tradizionale e carismatico, tende evidentemente a realizzare una interconnessione, si diceva, in grado di conglobare e diversificare al contempo, e anche di affrancarla da qualsiasi possibile suggestione psicologica, malgrado qualche non corretta interpretazione del suo pensiero, ma d’altronde c’è da aggiungere, e si avrà modo di chiarire meglio la natura accattivante della sua concezione, che nei riguardi dello scrittore, ed è questo il punto focale della nostra indagine, non si può del tutto escludere l’incidenza che un approccio psicoanalitico del problema finisce per determinare, al di là ovviamente delle intenzioni weberiane. Il potere razionale si definisce come tale, evidentemente, «quando poggia - afferma Weber - sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi», laddove invece si può parlare - prosegue Weber - di potere tradizionale «quando poggia sulla credenza quoti2
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diana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità» e infine di carattere carismatico «quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa». È chiaro che nel primo caso la forma di obbedienza si instaura sulla base di una legalità formale delle prescrizioni, mentre nel secondo la forma del rapporto risulta piú a monte dell’altra, lungo l’arco cioè di una obbedienza fondata sulla persona del signore in virtú di una designazione affidata alla tradizione e da questa consegnata alla realtà di una esistenza, e nel terzo caso infine, il senso della mediazione finisce per assumere il carisma, appunto, della fiducia personale consegnata dalla rivelazione, dall’eroismo, dall’esemplarità. Ha ragione Weber ovviamente quando sottolinea che il potere carismatico, in quanto straordinario, finisce per contrapporsi frontalmente sia al potere razionale soprattutto di tipo burocratico, sia a quello tradizionale, soprattutto quando quest’ultimo assume le connotazioni della patriarcalità e della patrimonialità: è come contrapporre razionalità ad irrazionalità. Ma il carattere coercitivo, e repressivo in senso lato, assume via via configurazioni sempre piú coinvolgenti, fino ad una totale inglobazione dei tre momenti, nella vita dell’individuo. Per tornare al concetto di potere legale, è evidente che il problema si pone in termini di razionalità, secondo l’intui3
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3-ibidem 4-ibidem
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zione di Weber, e ciò consente di liberare immediatamente il terreno della discussione da tutte quelle forme di potere, fascismo e nazismo soprattutto, che fondano la propria dottrina sull’irrazionale, su quella degenerazione vale a dire dell’idealismo romantico che conduce diritto al dramma, dell’annientamento della ragione. Il problema invece diventa importante, e come sappiamo angoscioso, quando si affronta sul versante di una concezione liberatoria, e quindi razionale, come il socialismo. Nella disamina che fa Lenin intorno alla società classista nei rapporti con lo Stato, egli ricorda certe affermazioni di Engels oltremodo interessanti, poiché centrano il problema dell’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato in quanto prodotto e manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Secondo Engels dunque - il brano, nella traduzione di Lenin, è tratto dall’opera del 1894 L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato - «lo stato non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno la realtà dell’idea etica, l’immagine e la realtà della ragione, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Perché questi antagonismi queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una
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sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre piú da essa, è lo Stato». Lo Stato quindi come momento liberatorio, e non come fenomeno di estinzione: a tale proposito, è nell’ambito di questa dicotomia, il discorso di Lenin si fa polemico nei confronti di coloro che riducono il pensiero di Engels e di Marx ad una formula secondo la quale lo Stato si estingue in contrapposizione alla dottrina anarchica dell’«abolizione dello Stato»: il che significa ridurre la concezione stessa dello Stato marxista entro i confini di un opportunismo «utile solo alla borghesia», sostiene Lenin. Una chiarificazione del problema, in un senso piú moderno ed anche per le ricche e numerose implicazioni che comporta nel rapporto che piú ci compete al momento fra intellettuale e potere, ci viene da Gramsci, quando affronta il problema di fondo della relazione stato-cittadino alla luce di una lucida interpretazione del pensiero di Machiavelli, non rivisitato grossolanamente come teorico di una tirannide irrazionale, ma come fruizione di un pensiero critico che finisce per porre il problema essenziale del moderno principe. Esiste infatti un cesarismo progressivo e uno regressivo, e mentre il prima si verifica quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trianfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria, il secondo si realizza 5
5- Vladimir Ilijc Ulianov (Lenin) Stato e Rivoluzione Editori Riuniti Roma 1970 ed. or. 1917
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«quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi campromessi e limitazioni che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non neI caso precedente». E Gramsci prosegue citando gli esempi di Cesare e di Napoleone I come momenti di un cesarismo progressivo, Napaleone III e Bismarck come fenomeni di cesarismo regressivo. Ma laddove il filosofo marxista riesce ancor meglio a chiarire il suo pensiero, anche nei confronti della distinzione di Engels, è nella polemica con Curzio Malaparte, quando a proposito della pubblicazione del volumetto malapartiano sulla Tecnica del colpo di stato, al concetto dello scrittore toscano: «Tutto nello stato, nulla fuori dello stato, nulla contro lo stato» (in simbiosi coI concetto «dove c’è la libertà non c’è lo stato», egli contrappone la distinzione del termine di libertà non come necessità ma nella sua accezione comune di libertà politica, ossia di stampa eccetera: per cui appare chiara la consequenzialità dalla proposizione di Engels sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Di qui la definizione gramsciana di Statoveilleur de nuit o Stato-carabiniere, occupato soltanto a mantenere l’Ordine e a garantire il rispetto delle leggi, secondo 6- Antonio Gramsci una definizione di Lassalle. Note sul Machiavelli Un concetto questo, che finisce talvalta per coincidere con sulla politica e sullo Stato moderno il concetto dello Stato etico, e che costringe l’intellettuale a Einaudi porsi l’interrogativo gramsciano: «La concezione dello Stato Torino1966 gendarme-guardiano notturno non è poi la concezione dello 7-ibidem. stato che solo superi le estreme fasi corporativo-economi6
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che?». A questo punto subentra l’altro problema della necessità storica che coinvolge per intero la figura dell’artista e del suo rapporto con il potere, sul quale si ritornerà fra poco, ancora con il sussidio di Gramsci, che ha posto il tema in modo estremamente moderno e attuale. Si deve ancora sottolineare, a proposito del concetto di transiziane dalla democrazia formale a quello della democrazia sostanziale, la dicotomia metodologica fra Lenin e Gramsci che ha fornito al Ferrarotti Io spunto per interessanti considerazioni. Anzitutto iI sociologo contesta la tesi di Salvadori, secondo il quale «sia Gramsci che Lenin che Trotsky affermarono, contemporaneamente alla libertà di pensiero delle masse e degli intellettuali, il compito del partito rivoluzionario di tenere a bada, per mezzo di un’azione di lotta e di direziane ideologica, le espressioni dell’arte e della scienza che nelle loro implicazioni dessero luogo a tendenze conservatrici e reazionarie»; e poi, muovendosi dalla convergenza dei due intorno alla fiducia che nutrono nella via e nel metodo rivoluzionario della lotta di classe, marca i toni e le sfumature del loro volontarismo e della loro convinzione della rivoluzione come compito storico, finisce per connotare chiaramente le profonde divergenze lungo gli stadi intermedi che a quelle comuni conclusioni debbano portare, sottolineando lo strumentalismo del partito di fronte alla rivoluzione nella concezione leninista, laddove invece Gramsci centra l’intero suo discorso sul partito politico rivoluzionario inteso 8
8- Massimo L. Salvadori Politica, potere e cultura nel pensiero di Gramsci in Rivista di storia contemporanea N.1, gennaio 1972
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come novello principe nel significato che Machiavelli si sforzava di dare al tema centrale dell’ascesa al potere, e conclude: «Mentre in Lenin la questione fondamentale è in primo luogo la presa del potere politico centrale, per Gramsci la questione fondamentale consiste nel garantire il farsi del processo rivoluzionario come lotta quotidiana che tende alla conquista del potere, ma nel contempo socializza alla base il potere stesso, spostando i termini di forze reali a poco a poco, nelle lotte su scala aziendale e comunitaria, a favore delle grandi maggioranze oppresse». Di qui il rifiuto gramsciano di ogni atteggiamento dogmatico o fideistico che conduce diritto a formulazioni irrazionali e prevaricanti, e l’assunziane invece, come fa giustamente notare ancora il Ferrarotti, della forte richiesta gramsciana di una nuova cultura, richiesta che ha subìto le piú singolari deformazioni e alterazioni nel giudizio critico intorno al pensiero del filosofo comunista. Per tornare al discorso piú generale, e indirettamente alla triplicità weberiana, sarà interessante introdurre il concetto di arena del potere cui allude Harold Lasswell, il quale definendola come «la situazione composta da coloro che domandano il potere o che fanno parte del campo del potere» finisce per allargare l’area di giudizio e di definizione ad una sfera d’azione piú vasta di quanto non comporti il solo problema del potere politico, o almeno la presenza indispensabile di uomini politici, in ciò convalidato e dal concetto di preminenza come formulazione del cosiddetto go9
9- Franco Ferrarotti Introduzione a La sociologia del potere op. cit. 10- Harold Lasswell A. Kaplan Potere e società Etas Kompass Milano 1969
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dimento del potere e da talune sollecitazioni di Tawney quando osserva come la discussione dei problemi che il potere determina e provoca è risultata il piú delle volte condizionata, e pregiudicata, «dal fatto che si è concentrata l’attenziane su alcune delle sue manifestazioni ad esclusione di altre». Il Tawney infatti, lungo l’arco di un tracciato speculativo fortemente decentrato, arriva a concludere: «I fondamenti del potere variano da età a età, col variare degli interessi che motivano gli uomini, e col variare degli aspetti della vita ai quali essi attribuiscono un’importanza preponderante. Fonte del potere è stata la religione, il valore e il prestigio militare, la forza dell’organizzazione professionale, il controllo esclusivo di certe forme di conoscenza e di abilità, come quelle del mago, dello stregone, del giurista». Quando Max Weber parla di potere tradizionale come legittimità che si fonda sulla base di antichi ordinamenti e poteri di signoria, accanto ad altre forme di compressione che interessano in misura minore il nostro discorso, introduce i concetti di gerontocrazia, di patriarcalismo e di patrimonialismo, laddove soprattutto i primi due finiscono per fondersi all’interno del nucleo domestico assommandosi nella figura prevaricante, in senso tradizionale, del padre cui si deve rispetto e reverenza, al punto da condividerne le idee e cedere passivamente alla sua volontà. Fa notare giustamente Weber come «non disponendo di un apparato, egli è ancor piú dipendente dalla volontà di obbedienza dei membri del 11
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11- R. H. Tawney Equality London 1931 12-ibidem 13. Max Weber Economia e Società op. cit.
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gruppo», e quindi si deve parlare di consociati piú che di sudditi. E d’altro canto, proprio in virtú di queste connotazioni, tale tipo di potere è l’unico a non possedere in sé quel carattere liberatorio insito invece nel potere politico di tipo socialistico o in quello religioso di tipo cristiano, nella preistoria evidentemente del loro progressivo degenerare. «Padre e figlio si incontrano sulla stessa strada troppo stretta per due uomini. Bisogna che uno ceda il posto all’altro» : da tale considerazione si è mosso l’intervento di René Girard nel corso del Convegno organizzato nel 1965 a Royaumont dall’Istituto di Sociologia della Université Libre di Bruxelles e dall’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, durante il quale il momento di interdisciplinarità fra Marx e Freud, attraverso la spirale hegeliana, è venuto fuori lungo l’arco di un concreto raffronto problematico. Sul filo dell’incontro e della verifica fra l’individuale e il sociale, le strutture antropologiche dell’immaginario hanno rintracciato un fertile terreno d’incontro e di comunicazione con la concretezza e il realismo su cui si muove la concezione marxistica della vita e dell’arte. Di qui la legittimazione di talune facoltà di individuazione delle caratteristiche repressive del patriarcalismo come capacità di proiezione su un versante molto piú vasto e pregnante del paleomarxismo schematico e pregiudiziale. Ma torniamo a René Girard: per le sue affermazioni riguardanti il rapporto padre-figlio, egli si muove dal mito di Edipo Re, e precisamente dal momento in cui, ispirato dall’oracolo, 14
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Laio allontana con la forza Edipo per paura che questi prenda il suo posto sul trono di Tebe e nel letto di Giocasta; e di conseguenza, ancora su ispirazione dell’oracolo, Edipo allontana altrettanto violentemente Laio e prende il suo posto sul trono di Tebe e nel letto di Giocasta. Tale parabola conduce Girard alla considerazione primaria che «desiderando ciò che desidera il padre, e possedendo poi ciò che egli possiede, per sempre e dovunque, il figlio vuole impadronirsi dell’essere del padre»: il rapporto fra il sé e l’Altro appare evidente e va collocato alle radici stesse del dissidio: il che significa che il momento della pietà filiale e quello della rivolta finiscono per legarsi ad una stessa origine. Il clima sotteso di angoscia che circola all’interno della Lettera al padre di Kafka si deve identificare anche in tale condizione della psiche del soggetto nei confronti del patriarca: «Avrei avuto bisogno di qualche incoraggiamento, di un pó di gentilezza, che mi si aprisse un poco il cammino, invece tu me lo nascondevi, sia pure con la buona intenzione di farmene imboccare un altro». E Montale dirà, nel corso del nostro colloquio: «La mia famiglia non è stata tirannica, anzi potrei fare un appunto che lo è stata poco, troppo poco, perché si sono completamente disinteressati di me...». Il padre quindi finisce per muoversi entro un’area mediata di felicità e di infelicità nei confronti del figlio, i due si ritrovano in luoghi differenti, e soprattutto agiscono in due regioni assolutamente distinte o separate dell’esistenza. La loro 14
14- René Girard Una analisi di Edipo re in La critica tra Marx e Freud Guaraldi ed. Firenze 1973
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divergenza può anche assumere il carattere di provvisorietà, soprattutto laddove va a collocarsi la circolarità del mito, afferma ancora Girard, per cui all’inizio c’è un padre della vita quotidiana, ed è Polidio, e un padre del desiderio e del divieto, ed è Laio: una struttura questa che finisce per rovesciarsi al momento della fuga, convalidando cosí il concetto della continua inversione sulla quale si fonda, appunto, la circolarità del mito. Non solo: l’insistenza con cui Sofocle sottolinea i difetti di Edipo, un carattere aggressivo e collerico, serve a configurare il rapporto lungo un arco di mediazione fra meccanicità e dialettica che non è in grado di compiere una precisa scelta, e deve perciò muoversi entro quella sfera di ambiguità per cui «il figlio non sa mai di essere per suo figlio esattamente ciò che suo padre fu per lui». Il momento di maggior frizione, e quindi di piú arduo rapporto, sta nel mezzo, nella facoltà cioè di possedere il dominio del passaggio oppositivo dal meccanico al dialettico, in questo frangente, il pericolo prospettato da Girard risulta chiaro e indubitabile: «Instaurare l’ordine dialettico, vedere in tale ordine se non una realtà per lo meno una esigenza fondamentale nell’ordine culturale, porre il principio di una reciprocità senza limiti è come destinare gli uomini ai piú spaventosi conflitti». È abbastanza facile, a questo punto, concludere che «amare il figlio in quanto figlio significa vedere in lui un possibile rivale, venerare il padre in quanto padre è già meditare sulla 15
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sua scomparsa». È a questo punto, a tale svolta della statuizione, che intervengono quelli che Girard definisce possibili palliativi, ma che non possono essere ritenuti soltanto come tali, pena lo scadimento di tutto il livello di guardia del discorso. È vero infatti, come sostiene Girard, che «possiamo considerare il sacrificio di Abramo come momento essenziale della fondazione di una cultura patriarcale», per cui Abramo stesso finisce per identificarsi in un altro Laio, ma è altrettanto vero che la matrice stessa del potere carismatico cristiano si muove entro un’area diversa e pertanto possiede in sé ulteriori ragioni di verifica. Nel momento stesso in cui l’adolescente sfuggito al potere tradizionale, si intrica nelle spire del potere carismatico finisce per reperire nuove e diverse ragioni di esistere, e lucidamente è già in grado di individuare la violenta dicotomia fra il Cristianesimo originario e le sue forme degeneranti e controriformistiche. La testimonianza piú evidente di questo passaggio, il lettore potrà trovarla nelle parole drammatiche di Mary McCarthy: ma al di là della documentazione di una scrittrice, risulta evidente il momento del passaggio da un rapporto diretto e depurato da ogni inquisitoria manifestazione repressiva, ad una stagione, invece, in cui proprio tali componenti prevaricanti finiscono con il prendere il sopravvento. Malgrado ogni buona intenzione di estendere il discorso, è ancora ad uno scrittore che dobbiamo ricorrere: e mentre Mary McCarthy
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ci fornisce i dati di un rapporto che via via traligna nell’intimidazione, François Mauriac a sua volta rappresenta la testimonianza di un recupero totale delle origini come matrice spirituale in grado di restituire alla fede religiosa tutto il suo carattere liberatorio, socialistico. Il tempo presente, il cattolicesimo dissenziente e le piú avanzate forme di insegnamento religioso, si configurano come una precisa documentazione dello sforzo di liberazione e di affrancamento da un rituale e da una sacralità che aveva finito con il fuorviare le coscienze, provocando problemi e crisi drammatiche, comparabili appunto alle degenerazioni del socialismo. Superato il momento del quia dantesco come invito dogmatico all’acquiescenza, e il tragico momento inquisitorio della Controriforma, l’insegnamento religioso tende oggi a liberarsi proprio di quella prevalenza carismatica che per secoli lo aveva caratterizzato come riconoscimento falsamente spontaneo dei dominati, concesso, sottolinea Weber, in base alla prova che nasce dalla fede nella rivelazione, dalla venerazione dell’eroe e dalla fiducia nel capo. È quindi il presupposto del dovere ad alterare i termini del rapporto. E se è vero quanto afferma Lasswell che «la costrizione è l’esercizio di influenza attraverso la minaccia di privazioni, e l’allettamento I’esercizio di influenza attraverso la promessa di vantaggi», allora il carattere drammatico che viene ad assumere il rapporto carismatico traspare in tutta la sua violenta prevaricazione, come minaccia di punizione e
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come promessa di premio. Né si deve trascurare, al di là del puro e semplice rapporto merito-premio, il carattere emozionale del rapporto stesso, anche quando l’ordine gerarchico si individua nella dualità profeta-discepolo, poiché viene a mancare la sequenza, logica nel potere politico, dell’assunzione e della destituzione, per cui non resta che la resa o la fuga. Non pochi saranno i nostri amici che nel corso delle conversazioni parleranno di fuga a proposito del potere religioso, proprio in virtú dell’assenza di regole che possano governarlo. Ha ragione perciò Weber ancora, quando sottolinea la contrapposizione del potere carismatico, in quanto straordinario e irrazionale, a quello legale-politico, di tipo razionale e ancor di piú a quello tradizionale-patriarcale e patrimoniale o di ceto. C’è da chiedersi, infine, a conclusione del discorso teorico inteso come necessaria premessa al tema che ci siamo proposto, per quale ragione la ribellione al potere carismatico ha trovato, nel mondo moderno, una maggiore possibilità di sviluppo, un’area piú malleabile di quanto non sia accaduto, tutto sommato, nei confronti del potere politico e patriarcale: la ragione sta forse nel carattere permanentemente rivoluzionario che il concetto di carisma ha finito per avere, in obbedienza alla sua stessa origine che si identificava con un vero e proprio rovesciamento del passato: «A differenza della forza egualmente rivoluzionaria della ratio, il carisma può rappresentare - sottolinea Weber - una trasformazione dall’interno, può cioè costituire un mutamento, fondato sulla
16- Max Weber Economia e Società op. cit.
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necessità o sull’entusiasmo, delle direttrici di pensiero ed azione in base ad un orientamento del tutto nuovo delle posizioni di fronte a tutte le singole forme di vita e di fronte al mondo». Al cospetto delle forme di democrazia diretta e di partecipazione di base che caratterizzano il nostro tempo, il potere carismatico ha finito per cedere ad un maggior potenziale di scardinamento di quanto sia stato possibile alle manifestazioni del potere burocratico, piú soggetto a regole di tornaconto e di strategia politica, o patriarcale, fortemente legato al potere politico, almeno nelle sue interne strutture. «Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato»: dal celebre avvio del racconto forse piú sconvolgente della letteratura moderna, Il processo di Kafka, ha cominciato a prendere forma e coscienza il senso di smarrimento, e di incredulità, dell’intellettuale di fronte alla repressione che il potere ha esercitato su di lui, in ogni tempo. Al di là di precedenti, e successive forme apparenti di collaborazione, identificabili via via attraverso i mutevoli e problematici aspetti del mecenatismo o del cortigianesimo, il nodo del problema ha sempre finito con il riconoscersi nello sdegno di Alfieri quando alla corte di Vienna assistette alla metastasiana genuflessioncella d’uso. Mai tuttavia una presa di coscienza, fondata sulla propria capacità di marcatura dell’attività deformante del rapporto scrittore-potere, aveva rintracciato un cosí vasto e incisivo indice di angoscia esisten16
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ziale come nel caso dello scrittore praghese, e nei confronti del potere familiare e al cospetto dell’ottusità, e del rifiuto della ragione e dell’intelligenza, da parte del potere politico. C’è da aggiungere che certi recenti studi psicocritici hanno fornito strumenti di conoscenza e di individuazione della realtà fenomenica del rapporto quanto mai utili all’indagine strutturale intorno a tutta la vasta e possibile conglobazione di elementi adatti all’interpretazione degli stati d’animo e dei riflessi della coscienza dell’artista. Ancora al Convegno di Royaumont del 1965, Charles Mauron affrontò il tema della formazione del mito personale nello scrittore, giungendo a conclusioni oltremodo interessanti che servono anche a penetrare piú profodamente nei risvolti dell’opera d’arte come rispecchiamento freudiano e marxista al contempo in questo caso, di una prevaricante realtà esterna. Il discorso di Mauron è molto chiaro e vale la pena di riferirlo almeno in quella parte che riguarda la funzione deI mito personale nella creazione letteraria: «Esso afferma il Mauron- rappresenta un campo di forze psichiche, una specie di matrice immaginativa se vogliamo, spogliando però l’espressione di tutto ciò che ha di statico». La matrice attira, accoglie, ordina tutta una serie di materiali, ricordi od oggetti, provenienti dai contenuti della coscienza 17- Charles Mauron La formazione e, quindi, dalla esperienza del mondo proprio dell’artista; del mito personale nello scrittore nel caso dello scrittore essi possono riguardare anche le sue in La critica tra letture e le sue osservazioni. Bisogna inoltre sottolineare che Marx e Freud op. cit. il fantasma dominante vive nella interiorità dello scrittore e 17
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si evolve nel tempo, di opera in opera, secondo influenze esterne o interne». Il che significa, in virtú del rifiuto del concetto di staticità nella matrice immaginativa, collocarsi al di là dell’idea romantica di intellettuale di categoria nietzschiana, e individuare invece al vivo del rispecchiamento dell’umano il senso drammatico delle cose che l’artista soffre e vive fra le pieghe della coscienza. Non soltanto: ma vuol dire anche fornire all’immaginazione, al sogno, quei connotati di sovversione che liberano automaticamente la fantasia poetica da ogni possibile compromissione narcisistica e reazionaria, in funzione di una dinamica liberatoria in grado di inserirla di diritto nella facoltà dialettica della storia. Per tornare ancora per un momento a Mauron, resta da sottolineare l’importanza che egli attribuise agli scritti giovanili dell’artista, localizzabili proprio alla svolta durante la quale l’adolescente mette in opera meccanismi particolari di difesa contro l’angoscia, in forza dei quali riesce a crearsi una barriera, un muro di cinta fondato sull’acquisizione di una autonomia materiale e morale (e Carlo Levi insisterà fortemente sul termine di autonomia nel nostro incontro), che rappresenta il primo passo verso la conquista di uno status sociale e la fondazione di un focolare privato, prospettive queste angosciose che sottolineano il difficile, tormentoso passaggio dall’ambiente familiare, quasi sempre repressivo, a quello di gruppi piú estesi che servono ad ingigantire il concetto di repressione. «L’immaginazione - afferma ancora Mauron fonte di disegni ideo-affettivi ne viene necessariamente sti-
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molata. I fantasmi formatisi in questo periodo paiono anche piú pregni di significato e piú durevoli di qualsiasi altro. Non dobbiamo neanche dimenticare, poi, che la spinta puberale riattiva l’Edipo e con esso tutte le precedenti fissazioni, tutta la serie dei conflitti che portarono all’Edipo», a condizione tuttavia, e lo stesso Mauron convalida questa esigenza, che si tenga nel debito conto l’ambiente sociale e culturale entro cui si sviluppa tale consapevolezza, con tutto l’universo dei suoi stimoli e dei suoi divieti, dei desideri e delle paure che popolano di incubi la fase incubatrice dell’artista, ci si perdoni il voluto bisticcio. A tale proposito, e per entrare ancora piú nel vivo della materia di questo libro, ci soccorrono due brani autobiografici che Peter Weiss scrisse fra il 1961 e il 1962, Abschied von den Eltern e Fluchtpunkt, poiché essi forniscono alcune chiavi interpretative di estremo interesse per comprendere e individuare ancor meglio le ragioni di una liberazione, di una sorta di anarchia verbale che nell’attività drammaturgica di Weiss hanno trovato la loro piú compiuta espressione. Nell’arco di un complesso conflitto privato e familiare, Weiss finisce per andare ancora oltre il dramma del rapporto kafkiano tra padre e figlio, poiché accentua i termini del divario e della rottura lungo le strutture di una diversificazione sociopolitica, oltre che umana. In tal senso l’illuminismo e la lucidità razionale di Weiss risultano abbastanza consequenziali alla natura stessa della sua condizione di ebreo e di antiborghese, vissuto all’indomani della stagione kafkiana, alle ma18
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18-ibidem 19- Peter Weiss Congedo dai genitori e Punto di fuga Einaudi Torino 1965-67
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trici dolorose della piú cupa notte d’Europa, quella del nazismo e delle persecuzioni politiche da esso messe in opera. Ecco quindi che il conflitto privato diventa in lui pubblico e impegna tutte le componenti del vero e del reale, in un determinato distacco dalle ambiguità del monologo e della contemplazione interiore. Il senso primordiale deII’educazione, con tutti i sobbalzi di coscienza e la durezza sconvolgente di brutali scoperte sessuali e psicologiche, si confonde lungo piú ampie spirali, sí da impegnare a fondo tutti i comportamenti esterni dell’uomo. La rivolta che lo spingerà fino al punto di fuga nasce e si sviluppa irrazionalmente, senza quelle componenti filosofiche che ad esempio agiscono sulla ribellione camusiana. In Weiss infatti, il contingente già filtra e si dissolve allo stato dell’immaturità infantile, per cui l’assurdo e la ribellione all’equivoco balzano fuori da una situazione e da una condizione preistorica che non possiede piú àncore di salvezza, dal momento che vive e si muove lungo i paesaggi allucinati di una terra bruciata e senza orizzonti. La reazione, letteraria senza dubbio ma anche umana e psicologica, e perciò piú fredda e decantata pur nelI’onda calda del sentimento, alla morte del padre, è abbastanza sintomatica di un’abdicazione totale, di un rifiuto tenace a misurare i termini della realtà con un metro diverso da quello irrazionale dell’adolescenza (e tale condizione ritroveremo nelle parole di Monique Lange, nel nostro incontro con lei e con Goytisolo, a proposito della morte della madre), e di una lu-
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cidità ormai acquisita, poiché ha trovato proprio nell’infanzia gli strumenti della consapevolezza. Lungo tale difficile incrocio, insolubile in termini filosofici, si inserisce la realtà solutoria della seconda parte dell’autobiografia, il punto di fuga che va subito a confondersi con l’individuazione dell’io nascosto dietro il muro dell’incomprensione sociale e ideologica. «Arrivai a Stoccolma l’8 novembre 1940», ricorda Weiss ad apertura del secondo tempo della sua educazione sentimentale. Qui, liberatosi della famiglia e apparentemente affrancato da ogni sorta di tirannide, finisce per ritrovarsi subito ingabbiato fra le spire delle contraddizioni e delle piú difformi sollecitazioni. A chi osservi la sua pittura in quegli anni appare chiaro come l’ansia della ricerca sia di continuo frenata e svariata da esigenze evasive che inutilmen-te lo scrittore si sforza di comprimere entro i confini della logica e della dialettica: è l’Europa con tutto il grande fardello di dolore e di crisi che si sta trascinando dietro. La dialettica del vano e dell’assurdo riesce allora a prendere il sopravvento su ogni possibile concretezza della vita e delI’impegno politico, e la preistoria, nel momento stesso in cui diventa storia e contemporaneità operante, si traduce in egoismo puro, in una sorta di individualismo che ha ormai superato in pieno il superomismo romantico, e va invece a riconoscersi nell’esigenza di fondo di reperire una libertà assoluta lungo le strutture mitiche del pensiero. Sarà vano l’amore, come sarà vano il ricordo struggente della tragedia del popolo ebraico in cui va a naufragare la propria matrice
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domestica, e a nulla servono le parole deIl’amico Hoderer, una sorta di socratica punta del dilemma e della silloge quest’ultimo, per veder di sradicare l’intellettuale e l’uomo dal proprio connaturato egoismo. La liberazione sarà il linguaggio, punto di fuga che recupera il punto di partenza: nel momento in cui Peter Weiss restituisce alla memoria le sue facoltà di rimarginazione, isolandole al contempo da ogni deteriore attività contemplativa, anche l’autobiografia viene meno per cedere il posto alla biografia e alla nascita primordiale dello scrittore. Alla ricognizione e all’individuazione del linguaggio, autentica e sola ragione di vita e di sopravvivenza, si chiarisce il passato e si determina il presente e il futuro, attraverso una via di recupero e di riscatto che si riconosce nell’acquisizione stessa della libertà: «La libertà era assoluta, io potevo perdermi in essa e in essa potevo ritrovarmi, potevo abbandonare tutto, ogni sforzo, ogni solidarietà, e potevo cominciare a parlare. E la lingua che ora veniva spontanea era quella che avevo imparato all’inizio della mia vita, la lingua naturale che era il mio strumento, che sola ancora mi apparteneva e che non aveva piú niente a che fare col paese nel quale ero cresciuto. In quel momento la guerra era superata e io avevo ormai alle mie spalle gli anni della fuga ai quali ero sopravvissuto. Potevo parlare, potevo dire ciò volevo dire e forse qualcuno mi ascoltava, forse altri mi avrebbero parlato e io li avrei capiti». Tale condizione di creatività artistica, collocabile in una sfera di mediazione fra conscio e inconscio, con la fase 20
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del linguaggio interpretata come momento liberatorio conclusivo, ha le sue matrici fondamentali in certa psicologia classica dell’Ottocento tedesco, e massimamente in talune proposizioni estetiche di SchelIing, proiettate poi, ad esempio, nell’opera poetica di Schiller, il cui sforzo creativo, intermediato nell’arte come gioco, finiva poi per riconoscersi nell’esigenza primaria di rintracciare il filo segreto del cosiddetto istinto sensibile condizionato in modo assoluto dal cerchio razionale condotto dalle forze dominanti. L’urto fra soggettività e realtà assume connotazioni dialettiche ben precise nel momento in cui si giunge all’intuizione hegeliana della necessità delI’arte come derivazione e conseguenza della precarietà del reale: un filone questo, che da taluni essenziali presupposti della Scuola di Francoforte finisce per penetrare nei congegni del pensiero di Marcuse, soprattutto in Eros e civiltà, laddove egli considera «l’arte come una liberazione simbolica in forme sublimate di bisogni repressi». Ha ragione Vittorio Saltini quando rivendica appunto alla filosofia tedesca classica la paternità del concetto di ritorno del represso che invece Francesco Orlando attribuisce globalmente a Freud, privandola in tal modo di quelle facoltà di sviluppo di un’estetica scientifica che deve rintracciare ragioni di incontro e di derivazione piuttosto che motivi di isolamento. D’altro canto, c’è da rilevare il carattere a volte illuminante del lavorio critico svolto da Orlando già in un saggio precedente dedicato ad una pregnante lettura freudiana della 21
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21- Vittorio Saltini Regressione, inconscio e letteratura in L’Espresso 23 dicembre 1973
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22- ibidem 23- Francesco Orlando Per una teoria freudiana della letteratura Einaudi Torino 1973
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Phédre: e proprio muovendosi da quelle posizioni, il critico sviluppa il concetto del bisogno non soltanto di recuperare il represso da parte della letteratura, ma anche la conseguente esigenza di trasgredire, attraverso l’individuazione di taluni punti essenziali, fra i quali basterà sottolineare da una parte «il ritorno del represso come presenza di contenuti censurati dalla represssione sociale che grava sul sesso», dall’altra «il ritorno del represso come presenza di contenuti censurati da una repressione ideologico-politica». Il caso di Fedra, il cui desiderio di peccato risulta di continuo azionato dalla molla di una repressione sociale che finisce per proiettarsi in una forma di repressione ideologica, può ritenersi esemplare ed esemplificante, come d’altronde sostiene Orlando, e si configura senz’altro come forza propedeutica suscettibile di ulteriori sviluppi di una direzione non isolatamente freudiana, ma in grado invece di arricchirsi dei contributi essenziali di altre forze di convergenza. Proprio tale facoltà di irradiazione legittima la necessità di ritornare al primitivo rapporto fra scrittore e potere, nella sua triplice accezione, soprattutto all’impatto che l’idea di letteratura ha subìto di fronte al rifiuto della trasgressione, e alla punizione di essa massimamente quando si configura come privilegio dell’immaginazione. Sgomberato il terreno dalla possibilità di un rapporto scrittore-potere politico in una società di tipo capitaIistico che slitta verso forme di perversione come il nazismo e il fascismo (poiché in questi casi la repressione dell’intellettuale nasce e si sviluppa come 24
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struttura connaturata al carattere stesso che il potere è andato assumendo), è chiaro che gli sviluppi di piú drammatico interesse sono reperibili nel rapporto, e nell’urto illogico e sorprendente, fra scrittore e potere socialista, cosí come è andato configurandosi nel periodo postrivoluzionario e ancora oggi nei paesi retti a democrazia popolare. Nel fitto dialogo fra Renato e Bruno, dietro i quali si celano in realtà i due protagonisti della sinistra hegeliana Max Stirner e Bruno Bauer, Marx ed Engels tendono ad individuare le strutturazioni di fondo dell’arte socialista entro margini molto piú vasti, tutto sommato, di quanto poi certi fedeli e ortodossi difensori del realismo non si preoccuperanno di fare: «La concentrazione esclusiva del talento artistico in alcuni individui e il suo soffocamento nella grande massa, che ad essa è connessa, è conseguenza della divisione del lavoro. Anche se in certe condizioni sociali ognuno fosse un pittore eccelIente, ciò non escluderebbe che ognuno fosse un pittore originale, cosicché anche qui la distinzione tra lavoro umano e lavoro unico si risolve in una pura assurdità. In una organizzazione comunistica della società in ogni caso, cessa la sussunzione dell’artista sotto la ristrettezza locale e nazionale, che deriva unicamente dalla divisione del lavoro, e la sussunzione dell’individuo sotto questa arte determinata, per cui egli è esclusivamente un pittore, uno scultore: nomi che già esprimono a sufficienza la limitazione del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista non esistono pittori, ma
25- K. Marx e F. Engels Scritti sull’Arte a cura di C. Salinari Laterza Bari 1967
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tutt’al piú uomini che, tra l’altro, dipingono». Quel tipo di possibilismo e di apertura, che nei casi piú drammatici finirà poi per risolversi in frustrazioni autocensorie, evidenziato da Marx e da Engels nella prima parte del brano riportato, risulta poi esplicitamente frenato dalle conclusioni che tendono a proporre risoluzioni socialistiche nel campo dell’arte che piú direttamente investono il problema di fondo dell’autonomia espressiva, vale a dire il rapporto fra quella che Gramsci definisce sintomaticamente arte coatta e l’anarchia liberatoria che di continuo si insinua al nodo vitale di qualsiasi espressione artistica, senza escludere neppure una progettazione di categoria strettamente aderente al vero e al reale. Il problema si pose per la prima volta in tutta la sua tragica evidenza nel corso del famoso Primo congresso degli scrittori sovietici svoltosi a Mosca nel 1934, quando le singole posizioni andarono a convergere intorno ad un’idea centrale che fu esasperata e radicalizzata al massimo grado, fino a diventare una sorta di verbo infallibile nella creazione artistica. I due punti di vista estremi potrebbero sintetizzarsi nelle strutture ideologiche espresse da una parte dai seguaci di Blok, difensori della teoria secondo la quale non era possibile, né conseguente, imporre alla massa una determinata cultura, frutto di cieca acquisizione, e dall’altra degli intellettuali cosiddetti zdanoviani, che presero appunto nome e ideologia dal loro capo spirituale, Andrej Zdanov, tipico prodotto della piú ottusa e refrattaria ortodossia. Nel suo sforzo di sta-
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bilire una precisa continuità tra umanesimo tradizionale e cultura delle masse, individuabile d’altronde anche nel pensiero di Gramsci e nel suo legame con la fase piú avanzata del pensiero crociano, Blok individuava nelle masse la nuova forza motrice della storia, e pertanto una entità in grado di ereditare appieno la grande cultura umanistica e di farla propria. Di qui il concetto di fondo di Blok: «Noi non siamo i pastori, il popolo non è il gregge. Noi siamo soltanto compagni piú informati», cui Zdanov contrappose la teoria staliniana dello scrittore ingegnere di anime: «Essere ingegnere di anime significa stare con entrambi i piedi sul terreno della vita reale. E questo a sua volta significa rottura col romanticismo di vecchio tipo, col romanticismo che raffigurava una vita inesistente ed eroi inesistenti, portando il lettore dalle contraddizioni e dall’oppressione della vita nel mondo dell’irrealizzabile, nel mondo delle utopie». Né Massimo Gorkij parve meno drastico nell’occasione: «Lo sviluppo sociale e culturale dell’umanità procede in maniera normale solo quando le mani insegnano al cervello, poi il cervello, reso piú scaltro, insegna alle mani, e infine le mani, ormai abilissime, condizionano nuovamente e con intensità ancora maggiore lo sviluppo del cervello...». E ancora Gorkij, in un’affermazione sintomatica, matrice di infinite e tragiche crisi coscienziali: «La realtà ci fornisce una materia prima sempre piú ricca su cui operare delle generalizzazioni artistiche, eppure né un dramma né un romanzo ci hanno offerto ancora una raffigurazione abbastanza convin26
26-Rivoluzione e letteratura, dibattito al Primo Congresso degli scrittori sovietici del 1934 a cura di V. Strada Laterza Bari 1967 27- Massimo Gorkij ibidem
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cente della donna sovietica che agisce liberamente ed egregiamente in tutti i campi della edificazione della vita socialista». Il dissidio di fondo arte-potere nasce proprio su queste strutture, e non è casuale il fatto che proprio da Ilija Ehrenburg, il quale fornirà una drammatica testimonianza in questo libro, cominciano ad affacciarsi a quel Congresso i primi dubbi intorno aI problema, all’interno dell’universo socialista, mai rifiutato e isolato, ma piuttosto coinvolto in pieno nel dissenso, laddove egli sottolinea, sulla scia dell’intervento dolente di Bucharin, che «la creazione di un’opera d’arte è un processo individuale, anzi un processo intimo», coinvolgendo in tale discorso la difesa della poesia di Pasternak che da quel Congresso uscí ovviamente con le ossa rotte, e considera ancora «atteggiamento burocratico nei confronti della letteratura» scrivere «questa determinata cosa in questa determinata maniera». Tutto ciò non esclude affatto, a giudizio di Ehrenburg, la validità e la sostanza dell’edificazione di una società socialista, anzi ne convalida le strutture e ne definisce i termini: «La nostra società è profondamente democratica. Il pastore di ieri oggi è ingegnere. Il livello culturale delle grandi masse si sta elevando ogni giorno di piú, ma ci troviamo davanti a una massa tutt’altro che omogenea. Abbiamo i colcosiani, appena usciti dall’analfabetismo, e abbiamo scienziati presso i quali vengono ad imparare americani ed europei. Naturale quindi che da noi anche la letteratura si proponga fini diversi». 27
28- Ilija Ehrenburg ibidem
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Se la posizione di Ehrenburg può essere indicativa del dramma di un intellettuale cosmopolita e socialista al contempo, la testimonianza che a quel Congresso forní Jurij Karlovic Oleša, una confessione che vale la pena di riportare, ad integrazione di tutte le confessioni che compaiono in questo libro, si configura come comprendere i motivi di fondo di un complesso di inferiorità di fronte alla realtà rivoluzionaria, e soprattutto del senso di incubo e di sgomento che tale condizione comporta in uno spirito educato ad un piú aperto tipo di cultura: «Un personaggio può uccidere l’artista. Sei anni fa - racconta Oleša - scrissi il romanzo Invidia. Il personaggio centrale del racconto era Nokolaj Cavalarov. Mi dissero che in Kavalarov c’era molto di mio, che era un personaggio autobiografico, che ero io stesso. Sí, Kavalarov guardava il mondo con i miei occhi. Le tinte, i colori, i personaggi, le similitudini, le metafore, le conclusioni di Kavalarov mi appartenevano. E, erano i colori piú puri, piú luminosi, ch’io abbia visto... molti di essi mi son venuti dall’infanzia, snidati dall’angolino piú nascosto, dal cassetto delle osservazioni che non si ripetono. Come artista ho profuso in Kavalarov tutte le mie energie migliori, le energie della prima opera, quella in cui si narrano proprio le prime impressioni. A questo punto mi hanno detto che Kavalarov era banale e insignificante. Sapendo che in Kavalarov c’è molto di mio, ho considerato come rivolta a me stesso quest’accusa di banalità, di nullità, e me ne sono sentito offeso. Non ci ho creduto e mi sono chiuso in me stesso. Non ho creduto che un uomo 29
29- Jurij Oleša Invidia e I tre grassoni ed. it. a cura di V. Strada Einaudi Torino 1969
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giovane, attento, capace di vedere il mondo in maniera tutta sua, potesse essere banale e insignificante. Mi sono detto: allora, questa tua capacità, queste cose assolutamente tue, tutto ciò che tu stesso consideri come una forza, non sarebbero altro che insignificante banalità? Com’è possibile? Eppure, volevo credere che i compagni che mi avevano accusato (erano critici comunisti) avessero ragione, e ho creduto. Ho cominciato a pensare che ciò che a me sembrava ricchezza, realmente è solo miseria. Cosí è nata in me l’idea della miseria. Ho immaginato di essere io stesso un mendicante. La vita di un uomo al quale sia stato tolto tutto me la sono figurata come estremamente difficile, dolorosa. La fantasia creatrice mi è venuta in aiuto e sotto il suo soffio vitale la nuda idea dell’inutilità sociale ha cominciato a trasformarsi in invenzione poetica, e ho deciso di scrivere la storia di un mendicante. Ecco, ero stato giovane, avevo avuto un’infanzia e un’adolescenza. Adesso vivo, inutile a tutti, essere insignificante, volgare. Che fare? Divento un mendicante, un autentico mendicante. Me ne sto sui gradini davanti alla farmacia, chiedo l’elemosina ed ho un nomignolo: scrittore. È una storia commovente, per me; compatire se stessi dà un piacere straordinario. Toccato il fondo dell’abiezione, scalzo, con un vecchio giubbotto imbottito, me ne vado a zonzo per il paese e la notte passo accanto alle fabbriche. Le ciminiere, il fuoco, e io vado scalzo. Una volta, nella fresca purezza di un mattino, passo vicino il un muro. Capita, ogni tanto, che fra i campi, non lontano da
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un centro abitato, si incontri un muro diroccato. Un prato, qualche albero, un cardo, un pezzo di muro, e l’ombra del muro sul prato è ancora piú netta, piú geometrica del muro stesso. Comincio a camminare partendo da uno degli angoli, e vedo che nel muro c’è un arco, una stretta apertura con la parte superiore arcuata, come se ne vedono nei quadri del Rinascimento. Mi avvicino a quest’arco, vedo una soglia e davanti ad essa alcuni gradini. Do un’occhiata dentro, e vedo un verde straordinario... Forse ci pascolano le capre. Oltrepasso la soglia, entro, guardo me stesso e vedo la giovinezza che è tornata. Improvvisamente, chissà perché, mi è venuto incontro di nuovo la giovinezza. Vedo la pelle fresca delle mie mani, ho la maglietta, sono tornato giovane, ho sedici anni, ho tutta la vita davanti a me». Oleša voleva scrivere questa storia, ma dopo lunghe riflessioni ha capito che il sogno piú grande era quello di conservare il diritto ai colori della giovinezza; a questo punto subentra il tragico complesso di inferiorità di fronte alla realtà socialista, si fa strada in lui la spirale della rinuncia. Mentre medita intorno alla storia del mendicante, mentre cerca la giovinezza, il suo paese costruisce fabbriche, al tempo del piano quinquennale per l’edificazione di un’industria socialista: «Non era un tema per me» confessa drammaticamente lo scrittore dinanzi all’assemblea degli scrittori sovietici. «Di fronte a un tema del genere, non potevo essere un artista autentico. Avrei mentito, avrei inventato; mi sarebbe mancata quella che si suole chiamare ispirazione. Mi è difficile ca30
30- Jurij Oleša in Rivoluzione e letteratura op. cit
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pire il tipo dell’operaio, il tipo dell’eroe rivoluzionario. Io non posso essere loro. Sarebbe superiore alle mie forze, superiore alIa mia comprensione. Per questo non tratto soggetti del genere. Ho avuto paura e ho cominciato a pensare che non sono utile a nessuno, che le particolari capacità artistiche che mi sono proprie non possono trovare sbocco, e per questo è nata in me l’immagine tremenda della miseria, un’immagine che lentamente mi uccideva». Ecco come il dramma di Oleša finisce per localizzarsi al nodo del duro rapporto fra l’arte e il potere in una società socialista, nello sforzo brutale di una ricerca alternativa di identificazione dell’altro, momento cruciale e irrinunciabile per uno scrittore: «La Rivoluzione d’Ottobre - ricorderà altrettanto tragicamente Mandel’stam - non ha potuto non influire sul mio lavoro perché mi ha tolto la biografia, l’importanza personale». Era abbastanza naturale che la critica piú angosciosa a tale tipo di rapporto, il piú tormentoso appello alla coerenza socialista nascesse e si sviluppasse all’interno del socialismo stesso, fatte le debite eccezioni. Ci soccorre a tal proposito il pensiero di Gramsci, laddove egli getta il dubbio dell’eterodossia affermando che «la letteratura non genera letteratura, cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano super-strutture altro che come eredità di inerzia e passività». Se è vero che, sostiene Gramsci, che l’attività rivoluzionaria genera l’uomo nuovo, allora diventano prevalenti e privilegiati il momento e il metodo dialettico come propulsori e creatori di una piú concreta immagine della realtà e dei
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suoi problemi di fondo. Dialettica, quindi, come matrice di libertà: di qui, oltre che da certe fruibili matrici crociane, si dipartono le strutture che spingono Gramsci fino al rifiuto di fondo, estremamente attuale, dell’arte coatta, di una progettazione vale a dire, che nasca e si sviluppi come conseguenza e contraccolpo di una particolare condizione politica prevaricatrice, e in quanto tale non piú in grado di governare gli intelletti e di stabilire quella novità dei rapporti da cui si genera la nuova cultura. Gramsci aveva già premesso che «lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali», il che è assurdo, aveva aggiunto, «poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti»: il rifiuto quindi di un’arte governata dall’alto e orientata verso ben definite ortodossie è condannabile da ogni punto di vista: «Che l’uomo politico faccia una pressione perché l’arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica: se il mondo culturale per il quale si lotta è un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d’accordo con loro». Di qui la netta e inequivocabile distinzione gram- 31- Antonio Gramsci Letteratura e sciana tra artista e uomo politico, donde nasce la difficile provita nazionale blematica del rapporto fra intellettuale e vita pubblica, fra Einaudi Torino 1950 arte e potere. Nel dichiarare esplicitamente che la diver31
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genza piú sensibile fra i due poli consiste nell’interpretazione dell’immagine per l’artista e per l’uomo politico, nel senso che per quest’ultimo «ogni immagine fissata a priori è reazionaria», poiché il politico considera tutto il movimento nel suo divenire, mentre per l’artista la rappresentazione investe realisticamente «ciò che c’è», Gramsci perviene ad una conclusione che, negli anni successivi, diventerà problema essenziale dell’intellettuale nei suoi duri rapporti con il potere, laddove afferma e sottolinea l’inconciliabilità dei due punti di vista, dal momento che il politico troverà l’artista sempre in arretrato con i tempi «sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale». Da tale affermazione alla deflagrazione violenta del problema dei rapporti fra intellettuale e potere individuabile nella realtà politica del proprio tempo, il passo è tanto breve che Gramsci stesso ne avverte l’incalzare quando sottolinea con forza la propria convinzione che «il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia», anticipando di parecchi anni, come fa giustamente notare Alberto Giordano, talune affermazioni venute alla luce durante il memorabile IV Congresso dell’Unione Scrittori cecoslovacchi del 1967, soprattutto di Milan Jungmann che riferendo le parole del poeta comunista Nazim Hikmet, ne sottolineava il senso quando questi aveva fermamente dichiarato che «lo scrittore può e deve dire al politico sul conto della vita qualcosa che ancora non è nata, qualcosa che egli è riuscito a intuire e a cogliere nello scorrere del tempo, e che pertanto il suo compito non deve limitarsi 32
32- Alberto Giordano Gramsci Accademia Sansoni editori Milano 1971 33- Gianlorenzo Pacini La svolta di Praga Nuove Edizioni Roma 1968
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ad illustrare delle tesi già note». La definizione del concetto di cultura, lungo tali versanti di pensiero, risulta in Gramsci tipicamente leninista, e di conseguenza si realizza in lui, nel momento stesso in cui si pone il problema del rapporto fra intellettuale e società, il rifiuto netto delI’intellettuale arcade e narcisista, tutto impregnato di formalismi stilistici e di sovrastrutture astratte. Muovendosi da tale definizione, e nel solco della progettazione di un intellettuale nuovo e diverso, Gramsci finisce per polemizzare duramente contro la pretesa dell’intellettuale di presentarsi come struttura portante di una ipotetica libertà di pensiero fondata sulle definizioni e sulle categorie della filosofia idealistica. Stabilito come dato illusorio l’autonomia degli intellettuali, si pone per lui il problema indilazionabile dell’estensione del concetto di intellettuale, poiché la polemica risulta troppo facile nell’acquisizione di una continuità del concetto tradizionale: di qui l’esigenza prevalente di prevenire ad una definizione funzionale degli intellettuali e della letteratura stessa, in una sorta di equazione categorica con le altre discipline, l’architettura ad esempio: «Cosa corrisponde in letteratura al razionalismo architettonico? Certamente la letteratura secondo un piano, cioè la letteratura funzionale, secondo un indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un equivoco. Forse che l’architettura sola ha scopi pratici? Certo, apparentemente cosí pare, perché l’architettura co-
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struisce le case d’abitazione; ma non si tratta di questo; si tratta di necessità. Si dirà che le case sono piú necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di cultura. Si dovrebbe concludere che proprio i pratici si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini, di rendere tutti artisti». A questo punto Gramsci sta correndo sul filo teso dello zdanovismo, e quindi di un’idea dell’arte asservita alla propria funzionalità razionale, con l’esclusione pericolosa dell’estro e di una libera incidenza dell’autonomia creativa. Nell’affermare che «quando l’arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è industriale, ma disinteressata, cioè arte», Gramsci perviene al momento cruciale del suo esclusivismo, al nodo del problema della coercizione sociale sul quale il discorso si chiarifica e in parte si riscatta: «La coercizione, l’indirizzo, il piano sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla piú: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate... La questione non verte quindi sulla coercizione ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale funzionalità, o di atto d’arbitrio, ecco tutto». Il discorso è capzioso, come si vede, e si presta ad una infinità di equi34- Antonio Gramsci voci che i tempi si occuperanno di chiarire lungo l’intero arco Letteratura e del rapporto scrittore-potere: ma resta il fatto che tutte le divita nazionale op. cit. vergenze, le dicotomie, i dibattiti, le ingenue difese e le al34
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trettanto ingenue accuse che tale rapporto ha provocato hanno avuto origine dalla difficoltà, da parte del marxismo, di giungere ad una identificazione precisa dei confini entro i quali l’arte può e deve muoversi, confini e limiti, d’altronde, che oggi risultano fortemente dilatati e ampliati, proprio sul filo di una piú corretta lettura dei testi del paleomarxismo. Ci siamo piú a lungo soffermati sull’elaborazione gramsciana, perché sintomatica di un tormento intellettuale che si sforza di reperire, all’interno del congegno, un’area di respiro autonomo per lo scrittore di fronte al potere. Il problema è tutto qui, tragico nella sua semplicità, poiché finisce per costringere ad uno scontro frontale la logica dell’arbitrio di cui parla Solzenitsyn da una parte, e i perseguitati oggetto della narrazione letteraria dall’altra, in un impatto violento e angoscioso fra significante e significato. Nel riferire, in tutte le sue opere, la crudeltà del processo degenerativo che si determina in tutti quelli che vanno a far parte degli apparati di sicurezza dello Stato, Solzenitsyn pone un duplice problema, storico e assoluto: e se nel primo caso una parvenza di giustificazione può sussistere nel concetto di difesa di una società nuova, e quindi nella gelosa preservazione della legalità socialista contro i tentativi di slittamento ideologico (e lo stesso scrittore si pone tale problema in termini realistici), nel secondo, il problema si pone da un punto di vista eticoreligioso, come fa giustamente osservare Lombardo Radice, e allora il tema del perseguitato finisce per assumere contorni e sembianze cristiane che spostano i termini del pro-
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blema, e lo riportano alla sua matrice storica. Né meno insistente e drammatico risulta il problema del rapporto di fronte al dilagante progresso scientifico che caratterizza in questi anni la vita e la civiltà delle democrazie popolari. È sintomatico il fatto che i due poli del dissenso culturale sovietico siano lo scienziato Sacharov e lo scrittore Solzenitsyn: ciò significa che la comune lotta per la libertà d’espressione si pone su due piani morali abbastanza diversi, e divergenti, laddove l’uno, lo scienziato combatte per una libertà dello sviluppo scientifico, l’altro, lo scrittore, pone il problema nella sua globale drammaticità, sul piano cioè di una pura libertà di pensiero. Il motivo di fondo del pensiero gramsciano ancora una volta riemerge nella sua sostanziale struttura, e nella configurazione di quell’intellettuale organico in rapporto al partito politico che finisce per diventare una sorta di Capo delle Tempeste dell’intero discorso: poiché mentre chiaro ed esplicito risulta il discorso leninista intorno al salto quantitativo, lo stridore della contraddizione risulta bene in evidenza quando si passa al salto qualitativo, fra spontaneità appunto, e coscienza di classe, il cui momento di raccordo dovrebbe configurarsi nella facoltà di persuasione insita nell’intellettuale organico. La primavera praghese aveva posto tali problemi in modo perentorio, risolvendoli, pur fra tante ingenuità e rischi, con la completa acquisizione del concetto di autonomia espressiva, diritto inalienabile dell’artista: «Il nuovo corso cecoslovacco mi riempí di entusiasmo, - afferma Lucio Lombardo
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Radice - vidi, nel suo decorso e nel suo sviluppo, la prova del fatto che forze capaci di compiere il passaggio a una forma di democrazia socialista esistevano non solo nel paese, ma anche in un partito comunista che pure era stato tra i piú lacerati, straziati, deformati da arbìtri, persecuzioni, illegalità. Vidi che quel passaggio, quella trasformazione di fondo del socialismo si poteva compiere senza tragedie, senza rotture totali, anche se - certamente - non senza scosse, conflitti, squilibri». Le conclusioni del discorso di Lombardo Radice sono pessimistiche, anche se un filo di speranza pare sorreggerne l’ansia: «ll tempo a disposizione per battere ancora la strada, relativamente pacifica e indolore, di un nuovo corso, è poco. È difficile che la storia si ripeta: è difficile perché una situazione storica non è mai statica. Si logorano rapidamente le istituzioni, i partiti, le coscienze degli uomini quando un cambiamento dall’interno avvertito come indispensabile, e storicamente necessario!, fallisce o viene fatto fallire, come è accaduto nel 1968 in Cecoslovacchia. Poiché quella trasformazione è inevitabile (nei limiti entro i quali tale aggettivo ha senso fuori dal mondo naturale), avverrà, ma di anno in anno, di mese in mese, diventa sempre piú probabile che avvenga con una rottura, tanto piú radicale, dolorosa e costosa, quanto piú la situazione è stata prolungata da una violenza antistorica». La lunga trafila di scrittori che abbiamo incontrato nei nostri viaggi, è un nugolo di vittime in lista d’attesa per il volo aperto, senza speranza, verso la storia: Carlo Levi 35
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35- Lucio Lombardo Radice Gli accusati Editrice De Donato Bari 1972 36-ibidem
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che chiede notizie di Pablo appena ci vede (e Neruda era già morente a Santiago, la sua casa già profanata e devastata dai fascisti), e Rafael Alberti che diventa un bersaglio fisso per l’anonimo speaker della radio, inconsapevole nunzio di tragedie, e Ilija Ehrenburg che parla della propria vita, tutta vissuta nell’incubo di sentir picchiare alla porta gli sbirri che indagano spietatamente, senza sosta, e James Baldwin che parla di una trappola entro cui sono tutti insieme, e si difendono tutti alla stessa maniera, contrapponendo al mostro la propria nudità, una congenita sprovvedutezza, una amara precarietà d’astuzia, rappresentano solo alcuni casi, ai quali se ne potrebbero aggiungere degli altri, e poi altri ancora, per una verifica all’infinito. A seguirli nel racconto della propria vita, e soprattutto nel brutale passaggio da un potere all’altro, nella maggior parte dei casi in una lotta senza respiro, che non trova vuoti né pause, ci si accorge come una battaglia secolare, combattuta certo fin dai tempi di Platone, ha subìto nel nostro secolo una dura accentuazione, forse come riflesso di una mutata condizione umana nel rapporto fra scrittore e società. C’è da aggiungere che la dura notte vissuta dall’Europa durante il nazismo, e l’ansia, la facoltà di abnegazione con cui lo scrittore europeo ha cercato rifugio nell’universo liberatorio del marxismo, ottenendone in cambio il veleno dello stalinismo e le scudisciate del XX Congresso, hanno significato per lui la realtà di ferite difficilmente rimarginabili, che restano a marcare la pelle per sempre, e che finiscono poi per consentire una
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percezione piú dura e impetuosa, piú lucida, nei confronti della propria adolescenza. Ecco perché per molti di loro, soprattutto per gli esuli (ma esuli lo sono un pó tutti: non è un esule in patria Baldwin, e non lo è Mary McCarthy, e ancora Levi o Moravia, e perfino Montale ?), l’universo dell’infanzia assume contorni di assuefazione psicologica talvolta capaci di proiettare il mondo futuro all’indietro, verso un passato senza fine, lungo i crinali di una preistoria sulla quale agiscono come fantasmi il padre o il sacerdote. Molti di loro ne parlano con ironia e talvolta con divertimento, come di un incubo da cui ci si è liberati, ma basta che il passato si riversi nel presente, perché il recupero della durezza, il rigurgito del dolore raffiori netto e implacabile, come monito di una condizione di fuga continua, in cui ogni area di parcheggio è un terreno minato, ogni incrocio apparentemente libero finisce per tradursi in tranello, in inganno. Neanche tutti gli attentati alla propria dignità di uomini riescono a rendere adulti e guardinghi gli scrittori, i poeti soprattutto: c’è in loro una condizione di virginale candore che li rende del tutto indifesi di fronte al potenziale di prevaricazione del potere: per questa ragione l’indice di incredulità, di perplessità, di stupore diremmo, finisce per mostrarsi identico di fronte ai tre poteri, malgrado le debite differenze di peso specifico con cui si prospettano nella vita di un uomo. C’è un’arma di difesa che essi posseggono e alla quale non intendono rinunciare a nessun costo; è qualcosa che li rende sorprendentemente duri e inflessibili, ed è la letteratura, la
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fantasia poetica, in una parola il riscatto dell’immaginazione. Il prezzo della parola si erge a difesa della propria precarietà politica come alternativa dell’onestà all’inganno, come antidoto del proprio recupero all’universo dissolto. Quando si parla dello scrittore come forza, capacità contestataria innata e congenitamente unita alla natura stessa dell’artista, si deve stare attenti a liberare l’espressIone da quel senso di nietzschiana superiorità dell’intellettuale creatore, e quindi deificato, che tanti lutti e disgrazie ha recato agli uomini, ma al contempo è doveroso restituire a colui che ha scelto l’arma, apparentemente innocua, della letteratura, la propria capacità di autonomia liberatoria, diremmo di anarchismo interpretativo delle strutture della realtà. Il sobbalzo di coscienza, il risveglio dal torpore ideologico che la marcatura fantastica può produrre nell’artista è inevitabile quando lo scrittore, il poeta si accorge che la propria area di libertà creativa risulta minacciata ed invasa (gli esempi di poeti come Eluard, Aragon, Alberti sono probanti al riguardo, insieme a quelli altrettanto sintomatici e dolorosi di Neruda, di Quasimodo: «E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore...») non solo, ma offeso violentemente risulta il proprio senso comunitario della vita, di fronte allo spettacolo dell’universo di distruzione che il tiranno provoca fra gli agglomerati umani già prima soggetti al gioco della fantasia poetica. Sono momenti in cui scendere sulle piazze e per le strade diventa problema di coscienza cui non è possibile rinunciare, e l’artista vi si sottopone in continuità, senza ope-
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rare fratture all’interno della propria creazione, in virtú di una forza motrice che lo spinge automaticamente verso una lotta che diventa una forma di riscatto, e di riconquista del bene perduto, la libertà vale a dire di riprendere il proprio dialogo fantastico con il mondo. La fantasia, l’immaginazione dello scrittore d’oggi tuttavia è sovversione, non assuefazione: è un concetto che era stato accennato poco fa, ed ora va ripreso alla luce delle tante testimonianze che il lettore incontrerà nel corso degli incontri e dei colloqui con gli scrittori del mondo. Il concetto di evasione, di disimpegno, e quindi di fuga dalla realtà ha accompagnato, diremmo perseguitato l’artista per secoli. Non solo: ma talune perversioni ideologiche, come lo stalinismo ad esempio, hanno finito per accentuare il divario fra i due tipi di immaginazione, condannando alla crocifissione tutti coloro che osavano distrarsi da un concetto inflessibilmente aristotelico dell’attività creatrice dell’individuo. Una sorta di imposizione pareva aver sbalzato di nuovo l’artista entro i gorghi della triplice unità aristotelica, restituendolo sbalordito alla preistoria inquisitoria del Santo Uffizio: ne abbiamo saputo qualcosa anche noi in tempi di neorealismo. Il moto liberatorio, il sobbalzo di coscienza dal quale l’immaginazione poetica ha riacquistato le proprie connotazioni di libertà e di autonomia dell’ingegno, non ha avuto una matrice letteraria, si deve riconoscere, bensí è stata la conseguenza del forte movimento di ribellione giovanile che ha preso l’avvio dalla svolta del 1968. I ragazzi del Maggio Fran-
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cese hanno contribuito a ridestare molta gente, compresi gli scrittori: il grido, uno fra i tanti, che ha accompagnato per giorni e giorni la loro lotta nei meandri dei Metro o fra gli alberi dei boulevards del Quartiere Latino, che oggi sembra cosí lontano: «L’imagination au pouvoir» ha assunto un significato ben preciso, riducendo le distanze e ponendo l’intero rapporto scrittore-realtà su basi nuove e diverse. È balzato fuori cioè qualcosa che pur dominava e forse vegetava nell’inconscio, e che aveva finalmente trovato una vera ragion d’essere, probabilmente sulla spinta di tutto quanto di esaltante e di rigenerante possiede il grido giovanile, scagliato da una generazione senza colpe. Repentinamente lo scrittore, il poeta ha reperito nuovamente la propria ragione di sopravvivenza, ha compreso che la fantasia, lungi dall’essere vuoto narcisismo, rispecchiamento in se stesso del proprio dissolto edonismo, finiva per configurarsi in lui come attività rigeneratrice di vita e di ispirazione, una matrice rivoluzionaria insomma, sulla quale l’universo dei linguaggi avrebbe potuto operare piú liberamente. La facoltà di proiezione verso il clima primordiale delle grandi avanguardie storiche, congenitamente rivoluzionarie, quali il surrealismo, il futurismo russo, la letteratura come gioco e spettacolo sotteso nella filigrana del dolore, della pena di esistere, ha finito per prevalere come naturale alternativa ad ogni forma di tirannide, ad ogni categoria di prevaricazione. Dal concitato raccontare di tanti scrittori, nelle pagine che se-
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guono, tale rigenerazione balza fuori con evidenza, anche se il salto generazionale, pure all’interno di quella singolare comunità umana che sono gli artisti, balza fuori senza equivoci, al vivo dell’inevitabile divario tra vecchia concezione della letteratura e nuove frontiere della libera creazione artistica. Ma il salto generazionale significa anche dicotomia biografica, momento storico diverso e divergente: ecco perché Rafael Alberti, Pablo Neruda, Ilija Ehrenburg, François Mauriac, Levi, preferiscono raccontare il proprio dramma umano di perseguitati, mentre i piú giovani marcano i toni di un discorso che finisce per essere piú teorico, in mancanza di una piú diretta, drammatica esperienza. All’interno del grande oceano della letteratura, il lettore troverà un’isola di difficile approdo, ma che oggi ha assunto l’aspetto di una terra di conquista sulla quale i nuovi colonizzatori dell’industria editoriale sono sbarcati, saccheggiandone i tesori nascosti: il Sudamerica. Il loro contributo a questo libro è massiccio, ma si giustifica, e non con ragioni di comodo. È stato detto piú volte che la narrativa latino-americana rappresenta oggi il fenomeno piú interessante che la cultura contemporanea possa vantare. Ciò è vero, ma a condizione che se ne verifichino le ragioni di fondo, la maggior parte delle quali tuttavia emergono dalle dirette testimonianze degli scrittori incontrati. Il ritardo secolare dovuto ad una colonizzazione che ha finito per assumere la misura odiosa di un vero e proprio ricatto economico, matrice di infiniti lutti e rovine in Cile come in
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Brasile, in Uruguay come in Guatemala, proliferando in tal modo la trista genia del militare-quisling-killer che non perdona, ha localizzato questa letteratura, pur fra le evidenti diversità, su posizioni di rivolta che si traducono nell’urgenza della parola come forza rivelatrice e come potenziale rivoluzionario: «Bisogna aver fretta - dirà fra poco il messicano Fuentes - perché domani può arrivare Pinochet e distruggere la casa di Neruda e mettere in carcere gli scrittori e uccidere mezzo mondo...». Una realtà, quest’ultima, che anziché isolare questi scrittori, finisce per accomunarli a tutti quelli del resto del mondo, poiché tutti oggi, dovunque si trovino a vivere ed operare, anche in paesi apparentemente liberi, si trascinano nella fuga senza speranza, nell’insicurezza e nell’incubo che il passo chiodato di un generale qualunque si riprenda con la violenza un dono recuperato, l’immaginazione, la libera attività creatrice dell’uomo.
POST SCRIPTUM Non si aspetti il lettore di trovare nelle pagine che seguono tutti gli scrittori del mondo: il presente libro infatti è nato da occasioni di incontro e di amicizia che ragioni di lavoro giornalistico hanno provocato. Ci pare tuttavia di aver fornito un panorama esauriente. Restava il problema della disposizione in sequenza: obbedire al criterio alfabetico o a quello del peso specifico? Sarebbe stato impossibile sia l’uno che l’altro. E allora, rifiutando sia la fortuna che la virtú di machiavellica memoria, si è scelto il concetto di fraternità, di comunità, che rappresenta anche la tensione di fondo degli uomini del nostro tempo.
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Ringraziamenti Un vivo ringraziamento è dovuto agli amici Italo Alighiero Chiusano, Claude Couffon, Marco Forti, Giosi Lippolis, Cesare Milanese, Dario Puccini, Rolando Renzoni per avere, attraverso i canali di specifica competenza, collaborato alla realizzazione di questo libro.
Edizione multimediale - Giugno 2011 EQUIPèCO Carmine Mario Muliere Editore www.equipeco.it
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Con Questo libro gli autori focalizzano il problema del rapporto fra l’intellettuale e il potere. Altresì, chiariscono il senso e il significato che il termine potere ha assunto sotto vari aspetti e soprattutto attraverso la triplice distinzione di Max Weber tra potere razionale, tradizionale e carismatico. Perciò, può risultare importante il recupero del concetto di interconnessione del sociale che ha improntato tutta l’opera weberiana, anche come sforzo di intendere il potere sia quale «rapporto interpersonale sia come attributo di una collocazione o posizione oggettiva giuridicamente o i nfo rm al m ente codificata», (F. Ferrarotti, introduzione a La sociologia del potere, Laterza ed., Bari 1972). . E tale puntualizzazione può riuscire ancora più utile se si rifletta intorno all’incertezza terminologica che ha accompagnato il vocabolo potere fin dai tempi più antichi, da Platone si potrebbe dire, al punto da giustificare la definizione di Ferrarotti di concetto paravento come diretta conseguenza di una tradizionale ambiguità concettuale e di una utilizzazione pericolosamente acritica, […]. Da qui le domande poste ad alcuni fra i più grandi scrittori contemporanei che hanno risposto con testimonianze, giudizi e azioni. (Nota dell’editore)
Walter Mauro nato a Roma nel 1925, è tra i più noti esponenti della critica militante ed è consigliere centrale della Società Dante Alighieri. Ha pubblicato numerosi saggi sia di carattere monografico (ricordiamo gli Inviti alla lettura di Alvaro, di Fenoglio, di Soldati, di Gramsci, di Sartre e di Dante Alighieri, pubblicati da Mursia) che di sintesi storiografica (Cultura e società nella narrativa meridionale, Realtà mito e favola nella narrativa italiana del Novecento, La progettazione letteraria tra formalismo e realismo). È inoltre critico musicale. Collabora ai programmi di musica jazz della Rai. Ha pubblicato numerosi testi saggistici sul jazz fra i quali: Jazz e universo negro, Il blues e l’America negra, una biografia, Louis Armstrong il re del jazz, e per la Newton Compton, Gershwin, la vita e l’opera, e due antologie, Il Blues e Gli Spirituals, in collaborazione con Elena Clementelli. È inoltre autore della voce Jazz dell’Enciclopedia Treccani e ospite fisso del programma RAI L’Appuntamento di Gigi Marzullo.
Nata a Roma, Elena Clementelli si laurea nel 1946 in Lettere Moderne. Poetessa, studiosa delle lingue e delle letterature iberiche e anglosassoni, svolge al contempo un'intensa attività poetica sfociata nella pubblicazione di vari volumi di versi: Il mare dentro, Le ore mute, Questa voce su noi, La breve luce. Ha vinto diversi premi di poesia tra i quali il Lerici-Pea, il Marina Velca, il Premio Scanno; nel 1987 il Premio Teramo per un racconto inedito e nel 1993 il premio Piombino Betocchi per la traduzione de Il Teatro di Federico Garcia Lorca. Oltre ad aver curato la traduzione italiana di opere fondamentali di Kenneth Allisop: Ribelli e vagabondi nell’America dell’ultima frontiera, e di Arnold Toynbee: Le città aggressive, ha fatto conoscere in Italia il poeta basco Blas de Otero, il canto flamenco e i tados. Ha collaborato e collabora alle pagine culturali di vari giornali e riviste e a programmi RAI. Sue poesie sono uscite su molteplici riviste e figurano in diverse antologie italiane e straniere.