ANTICHI PERCORSI IN MUGELLO E VAL DI SIEVE Dall’antichità al Novecento
ANTICHI PERCORSI IN MUGELLO E VAL DI SIEVE Dal Medioevo al Novecento di B RUNO SANTI
A cura di Bruno Santi Da un’idea di Edoardo Speranza Enti promotori
In collaborazione con Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana Supervisione generale Antonio Gherdovich Coordinamento organizzativo e comunicazione Marcella Antonini
Autori dei testi Cristina Acidini Luchinat Anna Bisceglia Mirella Branca Lia Brunori Cianti Luca Fedeli Gabriele Morolli Leonardo Rombai Maria Matilde Simari Renato Stopani Coordinamento redazionale Paola Petrosino Progetto grafico Edizioni Polistampa Referenze fotografiche Archivio del Gabinetto fotografico della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Paolo Brandinelli Elena Cintolesi Fototeca Memoria Ecclesiae, Firenze Fototeca della provincia di Firenze Archivio Edizioni Polistampa
Il volume si inserisce nell’ambito dei progetti Cento Itinerari Più Uno e Piccoli Grandi Musei Tutte le riproduzioni di opere conservate in Musei e Gallerie statali sono riprodotte su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali. © 2009 E DIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) info@polistampa.com - www.polistampa.com ISBN 978-88-596-0584-3
L’editore rimane comunque a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile individuare. In copertina Pianta degli Spedali dello Stato di Toscana, Archivio di Stato di Firenze, Piante delle R. Fabbriche, n. II-v-5 E/3 (particolare)
Dedica
Premessa
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uesta nuova iniziativa editoriale è finalizzata a incrementare un ciclo di esperienze maturate in termini di migliore conoscenza e valorizzazione del patrimonio ambientale e artistico diffuso sul territorio grazie ai progetti promossi dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze: «Piccoli Grandi Musei», sul quale si innestava la precedente pubblicazione di Liletta Fornasari, Antichi Percorsi in Valdarno, e «Cento Itinerari + uno», al quale ora viene associato il presente volume, Antichi Percorsi in Mugello e Val di Sieve di Bruno Santi. Mugello e Val di Sieve sono due aree limitrofe ma con proprie caratteristiche che ci danno la misura della varietà dei paesaggi e delle comunità locali, lungo itinerari che si snodano tra vallate e rilievi in cui le stratificazioni storiche si presentano in tutta evidenza anche negli aspetti più stridenti e meno romantici, soprattutto in relazione alla rete viaria e agli insediamenti industriali, come viene opportunamente sottolineato. In un momento in cui il dibattito sullo sviluppo sostenibile passa attraverso la discriminante tra la necessità di salvaguardare il territorio e le esigenze dell’economia alle prese con difficoltà oggettive prodotte dalla crisi internazionale, forse non è superfluo indugiare su ‘percorsi’ che ci aiutano a migliorare il nostro approccio con realtà specifiche talora solo in apparenza lontane dai grandi temi di cui si parla abitualmente, ma dalle quali possono scaturire risposte in termini di risorse e valore aggiunto. La conoscenza del territorio è elemento propedeutico anche di accorte e oculate politiche di intervento che devono essere portate avanti da chi è preposto a farlo. Antichi Percorsi è un ritorno e una scoperta allo stesso tempo: è desiderio e curiosità di approfondire radici e rapporti identitari, mentre intorno tutto corre troppo veloce. Sono grato a Bruno Santi per aver messo a disposizione del progetto editoriale il valore aggiunto della sua straordinaria esperienza umana e professionale.
P RE M E S SA
M ICHELE G REMIGNI Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze
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presentazione Il Mugello e la val di sieve tra itinerari e presenze artistiche
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iccola ma importante cerniera tra la prima regione dell’Italia continentale (l’Emilia-Romagna) e la prima tra quelle peninsulari (la Toscana), appartenente linguisticamente – in alcune zone – a entrambe, quale conseguenza ancor oggi avvertibile della sua vicenda storica articolata, il Mugello (in cui possono esser sinteticamente comprese anche le sue due subregioni, l’alto Mugello – o quel che resta di ciò che una volta era la Romagna toscana – e la Val di Sieve), può vantare non solo un’antica antropizzazione, ma anche una griglia di itinerari che l’attraversano da nord a sud e da occidente a oriente, segnando di passaggi attraverso la sua piana e le sue montagne il territorio, e conseguentemente assistendo alla costituzione di cittadine, paesi e borghi dove numerose sono le testimonianze architettoniche, artistiche, culturali in genere di non secondaria rilevanza, e che ne fanno – al di là delle varie componenti che si è appena cercato d’individuare – una delle zone più compatte e coerenti (anche per quanto riguarda l’aspetto paesaggistico) della pur variegata Toscana. Da questa caratteristica è scaturita la presente pubblicazione, che ha il compito di opportuno supporto all’iniziativa di valorizzazione del patrimonio locale che si inserisce nel quarto episodio del progetto «Cento Itinerari più Uno», nato grazie all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, instancabile animatore e indispensabile patrono delle testimonianze di cultura artistica nel territorio toscano. Il progetto, con l’obiettivo generale di promuovere tra i giovani la conoscenza delle tradizioni, della storia e della cultura del proprio territorio, è ormai alla sua quarta edizione: le prime due hanno interessato rispettivamente la zona dell’Empolese-Valdelsa e il Chianti e dintorni, la terza il Valdarno superiore e attualmente la quarta – quella che presentiamo – è in corso nelle aree del Mugello e della Val di Sieve. L’interazione tra le ‘due dimensioni’, le risorse locali da una parte e le giovani generazioni dall’altra, intende creare il terreno favorevole per dare vita a nuove opportunità di sviluppo economico e a nuove forme di valorizzazione del patrimonio locale. Come simbolo del progetto è stata scelta la Tabula Peutingeriana che, quale antichissima testimonianza cartografica del mondo, intende proporre ai giovani il viaggio e gli itinerari come vera e propria modalità per scoprire il territorio. La riscoperta del proprio territorio in termini di storia, antica e recente, nonché in termini di risorse da valorizzare appare come una modalità efficace per favorire un dialogo costruttivo tra le diverse generazioni, per conservare le memorie e le tradizioni del I L M U G E L L O E L A VA L D I S I E V E T R A I T I N E R A R I E P R E S E N Z E A RT I S T I C H E
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passato e per favorire al contempo la costruzione, da parte dei giovani, di una concreta autonomia da pensare e realizzare nella propria area di origine. Si è giunti, quindi, attraverso la volontà di documentare con questi propositi di conoscenza (e non si dimentichi, di aggiornamento scientifico e di intervento di tutela) tutto il territorio provinciale del capoluogo toscano, a coinvolgere il vero Hinterland di Firenze, quel Mugello che tanto ha dato e ricevuto dalla Dominante (è un termine questo che si ritroverà spesso nei testi degli autori che hanno voluto partecipare all’iniziativa coi loro contributi); che è stato strappato nel momento topico del Medioevo – quello che ha visto scaturire i poteri dei Comuni cittadini – ai feudatari locali, proprio per la sua importanza strategica, e che ha vissuto con Firenze un significativo, pregnante, produttivo scambio di personalità di grande rilievo nella politica (non vengon forse di qui i Medici?), nell’arte (è la terra di Giotto, di fra Giovanni Angelico e di Andrea del Castagno; vi han trovato rifugio e residenza Andrea del Sarto e Benvenuto Cellini); nella pratica della decorazione artistica (qui si è costituita e ha operato la sede di una delle più importanti manifatture italiane di questo settore, quella dei Chini). Ecco dunque che le strade del Mugello e della Val di Sieve si animano accosto ai suoi tanti centri abitati, di pievi, di conventi, di monasteri e abbazie, di palazzi civici, di ville gentilizie (i cui nomi si collegano fortemente – il Trebbio, Cafaggiolo – con quelli dei vari rami della dinastia che avrà poi valenza regionale e addirittura europea), di chiese, di oratori e tabernacoli, con tutto il loro arredo d’arte figurativa, sopravvissuto a tutt’oggi ai devastanti terremoti che periodicamente hanno tormentato questo territorio e sua popolazione, sempre pronta a ricostruire, nonché alle richieste – autorevoli o autoritarie, da parte dei sovrani delle due principali dinastie che hanno governato la regione, i Medici, per l’appunto, e gli Asburgo-Lorena – dei capolavori che ancora si mostravano nella loro integrità in questa zona così fortunatamente e sfortunatamente prossima alla capitale dello Stato toscano. Questo volume vuol dare una testimonianza il più possibile compiuta degl’itinerari e delle conseguenti presenze di testimonianze d’arte nel territorio mugellano (ci sia permesso ancora una volta di definire così sinteticamente questa terra nelle sue componenti topografiche e amministrative), e vi trovano ospitalità coi loro contributi personalità del mondo accademico (Leonardo Rombai con la sua introduzione che dà una significativa sintesi della situazione geografica e delle vicende storiche che l’hanno interessata; Gabriele Morolli con la sua compiuta e quanto mai brillante illustrazione delle emergenze architettoniche che la caratterizzano significativamente; Luca Fedeli con le più antiche vestigia della sua viabilità), nonché i funzionari di soprintendenza che, con la loro conoscenza dovuta non solo alla frequentazione professionale dei luoghi, ma anche ai propri interessi scientifici, ne restituiscono la facies, la presenza, la cospicuità storico-artistica: Cristina Acidini con un’ammirevole sintesi delle opere d’arte del Rinascimento; Lia Brunori Cianti che ne descrive le vestigia medievali; Maria Matilde Simari che affronta vari argomenti, da alcune rilevanti testimonianze medievali ad altre di epoca rinascimentale e seicentesca; Anna Bisceglia che ne scèvera le caratteristiche dell’età moderna, fino a Mirella Branca, informata, accurata e sensibile illustraB RU NO SANTI
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trice delle presenze dell’arte contemporanea, con particolare attenzione alle creazioni dei Chini (non va trascurata l’osservazione che queste ultime tre – ma anche l’attuale soprintendente del Polo museale fiorentino e del patrimonio storico-artistico della città di Firenze, Cristina Acidini – si sono dedicate proprio al Mugello nel loro impegno istituzionale all’interno degli uffici di tutela). Tali contributi vanno a costituire un quadro rigoroso e quanto mai articolato delle tante attrattive della terra mugellana e della Val di Sieve: ne scaturisce un contributo di indubbia validità alla sua storia e all’arte che vi si è conservata: esso si affianca fruttuosamente alle altre pubblicazioni che si sono realizzate nell’ambito di questa iniziativa: il catalogo della mostra e le guide aggiornate dei musei che qui si son formati, fino a offrire ai suoi abitanti e a coloro che saranno richiamati dalla indubbia validità dell’iniziativa uno strumento indispensabile per fruire soddisfacentemente delle sue risorse. Non mi sembra inopportuno – anzi, direi davvero doveroso – dare un grato riconoscimento a tutti coloro che hanno reso possibile l’iniziativa: la Presidenza e la Direzione generale dell’Ente Cassa; il determinato e scrupoloso staff quivi operante che instancabilmente ha seguito ogni stadio della sua realizzazione; gli enti locali che vi hanno contribuito; la casa editrice Polistampa per la cura delle pubblicazioni: insomma, un insieme di professionalità che hanno garantito al progetto nelle sue varie fasi un èsito positivo, allo scopo di affermare ancora una volta l’importanza di una politica culturale voluta da varie istituzioni e vòlta a valorizzare il patrimonio culturale dei nostri territori, in molti casi malauguratamente trascurato, ma che costituisce indubbiamente la risorsa più consistente della nostra regione e che ci auguriamo possa esser costantemente custodita come una preziosa testimonianza della nostra vicenda di civilizzazione nei suoi vari aspetti.
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mugello, val di sieve e romagna toscana Morfologia e assetto del territorio
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’intera valle della Sieve – ovvero le terre che dalle sorgenti del fiume Sieve, ubicate nel versante orientale della Calvana (area di Montecuccoli) (Fig. 1), inviano le loro acque, tramite un denso reticolo di torrenti e borri, al medesimo fiume fino alla confluenza in Arno a Pontassieve – rappresenta una delle più tipiche regioni geografiche della Toscana. E questo, in primo luogo, per evidenti caratteri fisici, dati dall’essere l’area un vero bacino oro-idrografico e per di più un’ampia conca tettonica nella sua parte alta e media, grosso modo fino al restringimento ubicato fra Vicchio e Dicomano, con i confini naturali chiaramente individuabili sui crinali spartiacque. Verso nord dalla dorsale appenninica, scandita da rilievi alti mediamente 700-800 e fino a oltre 1000-1100 metri, hanno origine i tanti fiumi romagnoli: Setta, Savena, Idice, Sillaro, Santerno, Senio, Lamone, Montone ecc.; verso est, il monte Falterona e i rilievi della Consuma dividono la valle della Sieve dall’alto corso dell’Arno o Casentino (Fig. 2); verso sud il variegato e più basso sistema collinare tra monte Giovi, monte Senario e monte Morello separa la Sieve dall’Arno nel bacino fiorentino; verso ovest la Calvana costituisce il diaframma fra il Mugello e la Val di Bisenzio con il Pratese. Ma la valle della Sieve spicca con chiarezza anche per certi suoi specifici connotati umani che rappresentano i molteplici segni culturali impressi dalla plurimillenaria azione dell’uomo sui quadri fisico-naturali: cioè sull’articolazione in verticale dei tre ambienti morfologici M U G E L L O , VA L D I S I E V E E R O M A G N A T O S C A N A
LEONARDO ROMBAI Università degli Studi di Firenze Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Studi Storici e Geografici
1. La chiesa di Montecuccoli, piccola frazione di Cantagallo (Prato), sul versante orientale della Calvana: nei pressi vi è la sorgente della Sieve.
2. Il laghetto degli Idoli sul Falterona: il monte, ove si trova la sorgente dell’Arno, divide a oriente, coi rilievi della Consuma, la Val di Sieve dal Casentino (Foto di Matteo Tani).
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Sopra: 3. Panoramica di Borgo San Lorenzo, centro più importante del Mugello, adagiato nel fondovalle della Sieve.
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A lato: 4. Uno scorcio di Pontassieve, alla confluenza della Sieve con l’Arno, il centro principale della Val di Sieve.
ivi presenti, dati dal fondovalle, con la sua più o meno ampia pianura bordata da modesti e dolcemente ondulati terrazzi di sedimenti formatisi per accumulo nel fondo dell’antico lago, poi prosciugatosi all’inizio della nostra età quaternaria, e dalle soprastanti fasce collinari petrose (formate soprattutto di arenarie) che poi, almeno a nord, trapassano nella montagna vera e propria. Tuttavia, l’identità regionale è percepibile anche riguardo alle stesse funzioni territoriali più ragguardevoli dello spazio geografico, che sono date dalle vie di comunicazione – vale a dire strade statali e provinciali specialmente di scavalcamento dell’Appennino e di congiunzione della valle e dell’oltremonte padano-adriatico con Firenze, autostrada del Sole, ferrovie Faentina e Borgo San Lorenzo-Pontassieve, ferrovia Bologna-Firenze ad alta velocità, da anni in costruzione con costi ambientali e paesistici purtroppo non esigui – e dalla rete dei capoluoghi comunali posti per lo più nel fondovalle o anche in posizione di versante, più raramente di sommità collinare. Questi centri fungono da poli di gravitazione secondaria (per lavoro, commercio e servizi i più essenziali), con ai vertici Borgo San Lorenzo e Pontassieve, vere e proprie piccole città e capoluoghi rispettivamente per il Mugello e per la Val di Sieve (Fig. 3, Fig. 4), mentre Firenze, con la sua area metropolitana, rappresenta il centro di gravitazione di primo ordine per tutto il territorio. La valle della Sieve e la sua appendice oltremontana romagnola, autentica ‘testa di ponte’ della nostra regione estesa a settentrione tra i valichi del Citerna e del Muraglione, costituiscono da circa due millenni e mezzo un ‘corridoio stradale’ dalla rilevante importanza strategica per il controllo politico-militare nonché del movimento commerciale e dei flussi di traffico per le comunicazioni stradali (e dalla fine del XIX secolo anche ferroviarie), con i tanti valichi per l’attraversamento dell’Appennino sulla direttrice tra Bologna e Firenze, tra l’Italia centrale e quella padano-adriatica. Questa duplice funzione fu valorizzata dai Lorena con l’apertura di svariati percorsi rotabili, a partire dalla Bolognese della Futa, ed è rimasta viva fino all’unità d’Italia, quando si è ridotta a quella di trasporto, divenuta nell’ultimo mezzo secolo sempre più importante grazie all’apertura dell’autostrada del Sole che costituisce la spina dorsale della Penisola (Fig. 5). LE O NAR D O RO M BAI
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In effetti, innumerevoli sono le antiche strade di attraversamento delle barriere appenninica a nord e subappenninica a sud, per lo più ridotte oggi a sentieri, mulattiere o carrabili (generalmente versanti in stato di precarietà, e pertanto bisognose d’interventi di ripristino con inserimento nella rete degli itinerari escursionistici), per congiungere la regione con Firenze e il suo bacino, con Prato e la Val di Bisenzio, con il Bolognese e la Romagna e con il Casentino, che consentono o possono consentire la fruizione capillare e la valorizzazione di ambienti, paesaggi, monumenti, beni culturali e prodotti della natura e dell’uomo riferibili a luoghi oggi marginali o disagiati. All’azione sociale e all’azione politica del lungo periodo storico si deve poi il senso culturale di appartenenza degli abitanti della valle ad un mondo unitario e relativamente omogeneo, ‘aperto’ ai contatti con l’esterno (grazie al passaggio di tanti viaggiatori e alle migrazioni stagionali per la transumanza di molti allevatori montanini), un mondo di tramite con tanti altri spazi anche lontani: sono anche questi i fattori di un’identità di valle, in qualche modo riconosciuta nei vari luoghi, seppure articolata nelle tre varianti subregionali del Mugello, della Val di Sieve e della Romagna e in quelle dei tanti campanili e municipi che danno corpo alle numerose comunità. Ma tale identità specifica di valle risulta forgiata alla base da Firenze e dalla sua cultura urbana a partire dai secoli XIII-XIV; una cultura riflessa in questa sezione del contado, che fu anche la terra di origine dei Medici, attraverso il sistema delle ville medicee primigenie (Trebbio, Cafaggiolo, Pratolino), con a seguire il sempre più fitto stuolo di residenze padronali di campagna delle grandi famiglie e istituzioni fiorentine (in gran parte divenute poi centri di fattoria e fulcri di riorganizzazione dell’agricoltura median-
5. Una cartolina dei primi anni Sessanta illustra il viadotto Aglio appena terminato, con la corsia nord in fase di asfaltatura, sul tratto Firenze-Bologna dell’Autostrada del Sole, spina dorsale della Penisola.
6. Una suggestiva immagine della villa medicea di Cafaggiolo imbiancata dalla neve: il Mugello fu la terra d’origine della dinastia che resse Firenze e la Toscana. M U G E L L O , VA L D I S I E V E E R O M A G N A T O S C A N A
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7. La badia benedettina del Buonsollazzo a Tassaia, presso Polcanto, fondata nel XII secolo e rimaneggiata dal Foggini nel Settecento, collocata come molte altre del territorio in prossimità di un valico.
te la mezzadria poderale) (Fig. 6). E la valle è anche l’area delle tante e regolari «terre nuove» o cittadine pianificate, o comunque dei «borghi mercatali» fiorentini appositamente costruiti o riadattati, specialmente nel fondovalle (tra le prime Scarperia, Firenzuola, Casaglia e Pontassieve, tra i secondi Barberino, San Piero a Sieve, Borgo San Lorenzo, Vicchio, Dicomano, Londa, Pelago ecc.), delle abbazie o dei conventi e dei santuari della regola benedettina o di altri ordini riformati che – con le pievi in larga misura dai caratteri romanici più o meno puri (Sant’Agata, Cornacchiaia, San Giovanni in Petroio ecc.) – punteggiano in buon numero i luoghi prossimi ai valichi collinari e montani, agli attraversamenti fluviali e agli incroci stradali (San Godenzo, Moscheta, Vigesimo, Razzuolo, Buonsollazzo, Luco, Monte Senario, Bosco ai Frati, Madonna del Sasso, Madonna di Quadalto ecc.) (Fig. 7). Il comprensorio qui considerato comprende, come si è detto, il corpo oltremontano dei tre comuni romagnoli di Firenzuola, Palazzuolo sul Senio e Marradi – che rappresenta poi il ritaglio occidentale della «grande Provincia» della Romagna fiorentina o granducale che, dal tardo Medioevo fino al 1923, allorché venne inglobata nella Provincia emiliano-romagnola di Forlì, si dilatava come una fascia cuscinetto dai valichi appenninici occidentali di Citerna, Futa e Raticosa fino al Montefeltro e al confine mar-
8. Nei dintorni di Montebonello, in comune di Pontassieve, sono stati trovati resti di ragguardevoli insediamenti neolitici.
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chigiano ad est – e complessivamente è area vasta e popolosa: si estende per 1528 chilometri quadrati e conta circa 111.500 abitanti. Nella preistoria e protostoria, la valle della Sieve fu abitata da non poche comunità di agricoltori, come dimostrano i ritrovamenti di ragguardevoli insediamenti neolitici a Montebonello ed a Poggio di Castellonchio, in comune di Pontassieve, e d’un insediamento dell’età del bronzo a Marroneta Tonda, in comune di Scarperia (Fig. 8). Ma è più tardi, nell’età più propriamente antica, che essa dovette far parte – come spazio prettamente agricolo – del contado della città etrusca di Fiesole (si vedano, tra gli altri, i resti di Poggio di Frascole in comune di Dicomano, di Poggio Colla in comune di Vicchio e de I Monti in comune di San Piero a Sieve, tutti in posizione dominante), coi romani che poi provvidero ad espandere ed infittire la trama degli insediamenti agricoli con la grande operazione della centuriazione nel fondovalle e della fondazione del centro di Anneianum (attuale Borgo San Lorenzo), lungo la via Faentina. Già in età antica, la valle – grazie proprio ai suoi tanti passi montani facilmente valicabili – attrasse appunto alcune importanti strade di collegamento fra l’Italia tirrenica e quella adriatica, come nella fase romana la Flaminia minore, la Faentina e la diversione dalla Cassia-Clodia detta Clodiola: percorsi che probabilmente furono tra i principali fattori dell’intensa romanizzazione dell’area, tuttora dimostrata da dense evidenze archeologiche e toponomastiche, con creazione di un sistema di piccoli centri di servizio e commercio lungo strada, in un’area rimasta fino ad allora rurale e incentrata su una fitta rete di poderi e ville-fattorie: Filippo Bellandi ha elencato dalla Carta d’Italia in scala 1:25.000 dell’Istituto geografico militare, in una sua recente pubblicazione, ben centoventitre toponimi prediali, cioè derivati dai proprietari fondiari (Gagliano, Grezzano, Lutiano, Lucigliano, Marcoiano, Nipozzano, Ponzano, Barbiana, Mezzalla, Ponzalla, Terzalla ecc.; Fig. 9). Nell’alto Medioevo, la regione – come l’oltremonte romagnolo – tornò a rappresentare, come doveva essere prima dell’assetto etrusco-romano, una campagna organizza-
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9. Vigne e uliveti a Nipozzano, fra Pontassieve e Pelago: il toponimo è, come numerosi altri nel territorio, di tipo prediale, ossia derivato dai proprietari fondiari.
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10-11. Il sito del castello ubaldinesco di Montaccianico presso Scarperia, distrutto dai fiorentini nel 1306, e la raffigurazione delle aree censite nella campagna di scavi del 2007 (dal sito Internet www.montaccianico.it).
ta per specifici frammenti economico-sociali e particolarismi locali: quali le molteplici signorie feudali laiche ed ecclesiastiche, tra cui primeggiarono gli Ubaldini nell’alta valle e i Guidi nella bassa, incardinate all’assetto agricolo-curtense, con le centinaia di casali e di piccoli villaggi (in parte poi incastellati) che riunivano misere famiglie di agricoltori in gran parte fittavoli. La conquista fiorentina nei secoli XIII-XIV può essere esemplificata dalla profonda riorganizzazione del sistema agrario (l’assetto dell’agricoltura feudale di sussistenza, detta curtense, fu sostituito da quello dell’agricoltura di mercato incentrata sul podere mezzadrile) e del sistema insediativo, con le case coloniche isolate e i nuovi borghi di mercato che – come già enunciato – presero il posto di tanti castelli signorili d’altura, alcuni dei quali furono distrutti da Firenze, come avvenne nel 1306 per il possente Montaccianico degli Ubaldini (Scarperia), i cui cospicui resti in questi ultimi anni si stanno riportando alla luce da parte degli archeologi fiorentini (Fig. 10-11). In breve tempo, sotto il ‘buon governo’ cittadino, la valle divenne una delle aree più prospere e popolate del contado, tanto che il cronista Giovanni di Pagolo Morelli, tra XIV e XV secolo, arrivò a definirla «il giardino di Firenze». La Repubblica non operò comunque l’unificazione politico-amministrativa della valle (come non creò un’unica provincia romagnola) – come si vedrà l’unità amministrativa di tipo provinciale sarà garantita solo nel 1982 – e anzi, dai tempi medievali comunali, la valle venne suddivisa in tre piccole province giudiziarie o vicariati (Scarperia, San Godenzo e Pontassieve), con la prima circoscrizione che sostanzialmente abbracciava tutto il Mugello, vale a dire l’alto e medio bacino idrografico: del resto, pure l’intera Romagna fiorentina o granducale venne articolata in parecchi vicariati, a partire da quelli di Firenzuola e Marradi. E anche sul piano religioso l’area fu frazionata – come tuttora continua ad essere – fra diverse diocesi (Fiesole, Firenze e Modigliana). Come già enunciato, solo nel 1982 fu creata la Comunità montana Mugello-Alto Mugello-Val di Sieve che provvedeva a unificare l’intera valle della Sieve insieme all’appendice oltremontana della Romagna toscana con i suoi tre comuni. L’unità amministrativa del bacino della Sieve (sempre con l’integrazione dei tre comuni romagnoli) è durata però pochi anni perché, nel 1999, la bassa valle o Val di Sieve vera e propria (i sette comuni di Dicomano, San Godenzo, Londa, Rufina, Pontassieve e PelaLE O NAR D O RO M BAI
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go, con l’appendice valdarnese di Reggello), vale a dire l’area propriamente valliva le cui forme ambientali sono il prodotto esclusivo delle dinamiche fluviali, si è organizzata nella nuova Comunità montana della Montagna fiorentina. Dimodoché, la vecchia Comunità montana, ora ribattezzata del Mugello-Alto Mugello, abbraccia solo l’alta valle della Sieve, da tempi antichi caratterizzata dal nome regionale di Mugello (i sette comuni di Barberino di Mugello, Scarperia, Borgo San Lorenzo, San Piero a Sieve, Vaglia e Vicchio che occupano l’area della conca tettonica vera e propria; Fig. 12), insieme con i soliti tre comuni residui dell’antica Romagna toscana (Firenzuola, Palazzuolo sul Senio e Marradi). Fermo restando il ruolo commerciale e artigianale storicamente svolto dai principali centri di fondovalle – con Scarperia che, grazie anche alla sua collocazione su quella che fra i secoli XIV e XVIII fu la principale strada per Bologna (la via del Giogo), fin dal tardo Medioevo seppe elaborare un’innovativa «arte dei ferri taglienti» oggi tornata in auge – per molti secoli il modello di sviluppo della valle della Sieve è stato quello agricolo, organizzato sulla mezzadria poderale e sul sistema di fattoria, incentrato sia sulla classica policoltura toscana (cereali e altri seminativi, viti e – in forma minoritaria – olivi per forti ostacoli climatici), sia sull’allevamento bovino e ovino, che qui ha sempre avuto un ruolo maggiore rispetto alle altre aree della mezzadria fiorentina e toscaM U G E L L O , VA L D I S I E V E E R O M A G N A T O S C A N A
12. Panorama di Vicchio: con Barberino di Mugello, Scarperia, Borgo San Lorenzo, San Piero a Sieve e Vaglia, nonché i tre comuni residui dell’antica Romagna toscana (Firenzuola, Palazzuolo sul Senio e Marradi), forma la Comunità Montana Mugello-Alto Mugello.
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13. Gregge al pascolo presso Barberino del Mugello. Nelle aree appenniniche del territorio l’allevamento, soprattutto ovino, è stato una risorsa fondamentale unitamente alla castanicoltura.
na, grazie anche a un clima relativamente umido e favorevole alle colture foraggere. Solo in alcune aree appenniniche (presenti, oltre che nei comuni romagnoli, in quelli di Barberino, Scarperia, Borgo San Lorenzo, Vicchio, Londa, Rufina, Pelago e specialmente a San Godenzo, decisamente il territorio più alpestre), ove l’imbasamento produttivo era costituito dalla piccola proprietà a coltivazione diretta, la cura del bosco e del castagno assumeva un carattere fondamentale, in integrazione con l’allevamento soprattutto ovino (Fig. 13). Anzi, la rilevanza dell’allevamento era tale da obbligare molti allevatori ad esercitare, fra l’inizio dell’autunno e la fine della primavera – com’è avvenuto in forma sempre più residuale fino alla metà del XX secolo –, la pratica della transumanza in Maremma, per fruire del pascolo ivi abbondante grazie alle ben più miti temperature invernali. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, con l’avvio del miracolo economico italiano, anche nella nostra valle si è verificata una grande trasformazione dell’assetto territoriale, con la crisi della povera agricoltura di sussistenza o comunque basata su sistemi ormai arcaici e messi fuori mercato (condizione diffusa sia tra le piccole aziende familiari montane che tra quelle mezzadrili), con tanto di abbandono delle terre ed esodo della popolazione rurale dalle campagne, specialmente appenniniche, verso i capoluoghi comunali e gli altri centri minori, soprattutto del fondovalle (Fig. 14).
14. Dopo lo spopolamento delle campagne del secondo dopoguerra, l’agricoltura si è riconvertita su basi prevalentemente zootecnico-foraggere, anche se nel fondovalle si coltivano ancora i cereali. LE O NAR D O RO M BAI
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15. L’outlet di Barberino del Mugello, costruito nello stile di un villaggio toscano rinascimentale lungo il corso della Sieve per la gioia dei patiti dello shopping.
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Nell’ultimo mezzo secolo, mentre la riconversione dell’agricoltura su basi essenzialmente zootecnico-foraggere ha coinvolto le parti migliori della montagna (ove ci si sta adoperando anche per il recupero del castagneto da frutto), della collina e della pianura, anche lungo il corso della Sieve, e quindi soltanto lungo i piani del fondovalle, si sono registrati i processi della diffusione della piccola industria e dell’urbanesimo. Tale processo è stato favorito dal decentramento produttivo (industriale e poi soprattutto commerciale, con centri e outlet di marca) dell’area fiorentina e dal crescente valore residenziale acquisito dal nostro territorio (Fig. 15): quasi a dispetto del sistema delle comunicazioni che continua a penalizzare migliaia di pendolari giornalieri con l’economia e la qualità della vita di tutta la valle e a maggior ragione dell’ancora più periferica appendice romagnola; e ciò in considerazione dei caratteri di una viabilità panoramica ma antiquata (fatta eccezione, ovviamente, per l’Autosole che lambisce a ovest la valle, servendola essenzialmente con la stazione-casello di Barberino) e di ferrovie (linea Faentina e linea Borgo San Lorenzo-Pontassieve-Firenze), ugualmente inadeguate o comunque poco funzionali e malamente inserite nel sistema del ferro a scala metropolitana. Nonostante questa grave penalizzazione, di recente, non solo l’agriturismo, ma anche il turismo residenziale ed escursionistico sta dimostrando uno sviluppo incessante, grazie a un’offerta e ad una promozione accorta delle due comunità montane e degli operatori del settore, ma grazie anche ad altri innovativi fattori territoriali: come la crescente attrazione esercitata dal grande lago artificiale di Bilancino sulla Sieve, la creazione di varie aree naturali protette (anche il parco nazionale delle Foreste casentinesi conM U G E L L O , VA L D I S I E V E E R O M A G N A T O S C A N A
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16. Il grande lago artificiale di Bilancino sulla Sieve, importante riserva idrica e risorsa di regimazione fluviale, oltre a riqualificare il paesaggio alimenta un notevole indotto turistico.
fina ad ovest col comune di San Godenzo) e del sistema museale territoriale della valle della Sieve e della Romagna, una realtà che serve a far conoscere sempre più i suoi tanti musei e il suo ricco patrimonio di beni non solo artistici e architettonici-archeologici, ma anche etnoantropologici, ambientali e paesistici. organizzati a rete e con specifici itinerari tematici che si snodano nel territorio. L’ambiente vallivo risulta oggi molto verde, agreste e ameno, anche per il ritorno spazialmente rilevante della foresta che – con le diffuse pinete, abetine, cipressete, coi boschi misti di querce decidue, faggi e conifere, con gli stessi vasti castagneti da frutto – è un prodotto in gran parte artificiale dell’uomo, modificato e costruito nel tempo in base alle mutevoli necessità economiche e da ultimo anche ambientali (difesa del suolo); ma soprattutto è il prodotto dell’età contemporanea, quando i rimboschimenti pubblici e privati si sono accompagnati all’abbandono agricolo-forestale e alla rinaturalizzazione spontanea, prima della montagna, organizzata soprattutto dalla piccola proprietà coltivatrice, e poi del piano-colle, organizzato dalla mezzadria poderale. Il carattere largamente boschivo della valle non si traduce però in aspetti esclusivamente positivi, ma esprime pure delle criticità che devono essere censite, affrontate e per quanto possibile risolte. La situazione che l’osservatore attuale percepisce quasi ovunque, almeno nella montagna e nell’alta collina del Mugello, della Val di Sieve e della Romagna toscana, ovviamente al di fuori dei centri abitati e delle coltivazioni ancora ben curate, è sì quella di una distesa di vegetazione arborea, solo spezzata qua LE O NAR D O RO M BAI
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17. La conca mugellana dai colli sovrastanti Sant’Agata: nella montagna e nell’alta collina del territorio, come anche in Val di Sieve e Romagna Toscana, prevale la copertura arborea, configurando un paesaggio boschivo tornato dopo molti secoli alla densità che aveva forse nell’alto Medioevo.
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e là da radure invase dalle sterpaglie, o da distese coltivate a prato od a cereali nei pressi dei cascinali ancora abitati, in altri termini di un paesaggio appenninico in gran parte ricoperto di vegetazione boschiva come non lo era stato da molti secoli, forse dall’alto Medioevo (Fig. 17); ma l’altissima boscosità e il verde che domina il paesaggio rivelano anche aspetti negativi, dati dall’abbandono e dall’incuria o dalla rovina di gran parte del patrimonio storico minore, prodotto dell’azione umana e oggi ridotto a beni archeologici: edifici rurali e antichi opifici, vie, sistemazioni idraulico-agrarie e forestali e tanti altri manufatti ancora (fontane, muretti di contenimento, piazze carbonaie, tabernacoli e croci devozionali); un ricco patrimonio che per le scolaresche, per le popolazioni e per le istituzioni locali, per gli stessi turisti cittadini sarebbe necessario riscoprire e conoscere, quale strumento di educazione e bene identitario, e insieme quale eredità di valori che può e deve essere oculatamente considerata a fini di manutenzione e di restauro, di salvaguardia e di valorizzazione anche economica.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI BARBIERI 1953; MORELLI 1969; PINTO 1980; STOPANI 1980; DE MARINIS 1982; I beni culturali 1983; PAZZAGLI 1984; B ECATTINI, G RANCHI 1985; Le antiche leghe 1988;
Immagini del Mugello 1990; CALZOLAI 1991; Preistoria e storia antica 1993; Scarperia settecento anni 2006; B ELLANDI 2007.
M U G E L L O , VA L D I S I E V E E R O M A G N A T O S C A N A
la viabilità della val di sieve dal medioevo all’età moderna
N
ello statuto del capitano del popolo della Repubblica fiorentina del 1322-1325, in un frammento di capitolo risalente con ogni probabilità alla seconda metà del Duecento, viene menzionata la «strata per quam itur ad Pontem de Sieve et vadit versus Decomanum et incipit a Burgo Sancti Petri Maioris».1 Si trova annoverata tra le dieci principali vie di comunicazione dello stato fiorentino (le «strate et vie mastre»): era cioè parte di quel sistema di circolazione di tipo radiale facente perno su Firenze, affermatosi nel corso del XIII secolo, che esprimeva a livello territoriale il potere polarizzante della città sul suo contado. Non a caso, in un documento di pochi anni successivo, lo «Statuto dell’Arte degli Albergatori della città e contado di Firenze», del 1334, troviamo il percorso della stessa via, indicata come «strata Pontis Sevis», in un altro elenco di strade importanti, quelle che servivano a raggruppare le località del contado, sedi di alberghi, in «Contrate autem cirche».2 All’inizio del XIV secolo la via che metteva in comunicazione Firenze con la Val di Sieve costituiva, con le altre «vie mastre», un tracciato stradale oggetto di particolari cure da parte della Signoria fiorentina, per l’importanza che esse rivestivano per l’economia cittadina. In un capitolo dello «Statuto del Podestà», anch’esso del primo Trecento, viene infatti affermato: «et cum pulcrum sit et utilitati reipublice bene conveniat stratas publicas, et maxime illam per quam victualia et mercantie deferentur ut plurimum in civitatem Florentie».3 La strada iniziava dal borgo formatosi all’esterno delle mura del 1171 e che aveva preso nome dalla chiesa cittadina di San Pier Maggiore. Fonti più tarde la fanno invece iniziare dalla porta delle mura duetrecentesche: il quattrocentesco Libro Vecchio di Strade denomina infatti la via «Strada dalla Porta alla Croce a San Godenzo».4 All’inizio il tracciato si snodava parallelamente al corso dell’Arno e aveva dato vita, nell’area periurbana, a tutta una serie di picL A V I A B I L I T À D E L L A VA L D I S I E V E DA L M E D I O E V O A L L ’ E T À M O D E R N A
RENATO STOPANI Geostorico
1. Le gualchiere di Remole, impianto per la follatura dei pannilani costruito attorno alla metà del Trecento, si trovava sulla sponda sinistra dell’Arno. Dal villaggio di Remole, sorto sulla riva destra, transitava il tracciato della «Strata dalla Porta alla Croce a San Godenzo» nominata nel Libro Vecchio di Strade.
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2. Un suggestivo scorcio di Pontassieve, chiamata un tempo Sant’Angelo a Sieve, nodo viario di primaria importanza sul secondo ramo dell’antica strada della Val di Sieve, divenuto il principale all’inizio del Trecento: superata la Sieve, di qui si dipartivano due strade, dirette rispettivamente verso il Casentino e ad Arezzo.
3. L’abitato di San Godenzo: un ramo della medievale «strata pontis Sevis» metteva in comunicazione Firenze, via Pontassieve, col borgo appenninico, e di qui, oltre il crinale, con il forlivese.
coli agglomerati nei quali avevano sede quelle strutture ricettive e assistenziali richieste dalle necessità di chi percorreva la via. Rispetto all’odierna statale 67, sua erede, la via medievale proseguiva caratterizzandosi però per un percorso pedecollinare che la portava a transitare per i villaggi di Quintole, Terenzano, Compiobbi, San Donato a Torri e Remole (Fig. 1). Qui si ramificava dando luogo a due tracciati: il primo (probabilmente il più antico) lasciava la vallata dell’Arno in direzione nordest, passando per San Martino a Quona, la pieve di Montefiesole e San Pietro a Strada (il toponimo è significativo!), e raggiungendo il crinale delle colline che fanno da spartiacque con la Val di Sieve; digradava poi verso il fondovalle di quest’ultima, che raggiungeva all’altezza di Rufina, attraversava la Sieve con un ponte, di cui però non rimangono tracce, e procedeva verso Dicomano. Il secondo ramo, che già all’inizio del XIV secolo doveva aver soppiantato l’altro, si manteneva invece parallelo all’Arno dirigendosi verso il villaggio di Sant’Angelo a Sieve (la futura Pontassieve), sorto in corrispondenza di un ponte che attraversava la Sieve, e poi risaliva il corso del fiume, mantenendosi sulla sua destra, sino a Rufina, dove si ricongiungeva col primo tracciato.5 Sant’Angelo a Sieve-Pontassieve (Fig. 2) si configurava come un vero e proprio nodo viario poiché, poco dopo aver superato la Sieve, dal nostro percorso si staccavano due strade che conducevano, rispettivamente, in Casentino e ad Arezzo. La prima risaliva le pendici della «Montagna fiorentina» (il Pratomagno) e valicava al passo della Consuma, dopo essere transitata per Diacceto e Borselli; la seconda continuava a seguire il corso dell’Arno almeno sino a Sant’Ellero, per poi raccordarsi alla cosiddetta «strada del sette ponti» che portava ad Arezzo e che si sviluppava a mezza costa del Pratomagno, oppure attraversava l’Arno a Incisa e s’immetteva nella via sulla sinistra del fiume che conduceva egualmente ad Arezzo.6 Come si vede, la viabilità che si diramava da Firenze verso est rivestiva grande importanza poiché, oltre a collegare la città con la Val di Sieve e a consentire di raggiungere la regione casentinese e l’Aretino, metteva in comunicazione con la Romagna toscana. A monte di Dicomano, infatti, la «strata pontis Sevis» proseguiva il suo percorso in R E N AT O S T O PA N I
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direzione di San Godenzo (Fig. 3), risaliva l’Alpe di San Benedetto, superava il crinale appenninico e digradava verso il forlivese seguendo l’asse vallivo del Montone. A partire dalla seconda metà del Duecento, col notevole incremento della popolazione cittadina e il conseguente accrescersi delle necessità di approvvigionamento della stessa, aumentarono considerevolmente a Firenze le importazioni di prodotti alimentari, e in particolare di grano, fuori dei confini del contado.7 La Romagna era una delle aree dalle quali provenivano le più cospicue forniture di cereali: di qui la necessità sempre più sentita di curare quelle vie, come la strada di Pontassieve, per le quali transitavano le derrate indispensabili a coprire il fabbisogno alimentare della città. Non mancano al riguardo le testimonianze documentarie; ad esempio nelle Provvisioni della Repubblica fiorentina si legge, relativamente ai transiti per la Romagna, che «maxima gentium moltitudo consueta erat de partibus Romandiole et circostantium venire ad civitatem Florentiae per dictam partem cum frumento et blado et oliis necessariis» (ASFi, Provvisioni, 7, c. 142, anno 1297). Lo stesso si verificava per la strada che da Pontassieve conduceva verso il Valdarno superiore e Arezzo, che è detta essere utilizzata per «reduci victuaglia ad civitatem» (ASFi, Provvisioni, 10, c. 107, anno 1299). Tra Duecento e Trecento il Comune creò quindi uffici e magistrature addette alla manutenzione e al controllo della rete viaria, preoccupandosi anche della sicurezza e del miglioramento delle principali strade, specie dando impulso alla costruzione di ponti in muratura, costituendo il superamento dei corsi d’acqua il principale ostacolo alla circolazione. Tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, per la strada di collegamento di Firenze con la Val di Sieve, è documentata la costruzione di diversi ponti: nel 1297, per l’attraversamento del Borro delle Sieci, in prossimità della pieve di Remole; nel 1327, sul fiume Dicomano, nell’omonima località; nel 1354, sulla «strata qua itur de Sancto Gaudentio versus Casentinum». Genericamente al Trecento è poi imputata la realizzazione del ponte sul fiume Corella, presso San Bavello, che è detto trovarsi sulla «strata qua itur de Florentia Romandiolam».8 Con ogni probabilità risaliva agli stessi anni anche l’antico ponte di Pontassieve, più volte rovinato in occasione delle ricorrenti piene della Sieve, ma puntualmente ricostruito, data l’importanza che aveva per la viabilità di tutto il settore nordorientale del contado fiorentino. L’ultima distruzione a causa di eventi naturali fu quella conseguente alla disastrosa alluvione del 1547; i lavori per la ricostruzione iniziarono ben presto, ma occorsero ben otto anni per il loro compimento che ebbe luogo nel 1555, come ricordava l’iscrizione di una lapide il cui contenuto, riportato dal Repetti, così recitava:9 COSM . MED. FLOR. REIP. DUX II. HUNC PONTEM AB INGENTI AQUARUM INUNDATIONE MAGNA CUM LABE FUNDITUS EVERSUM REFICIENDUM CURAVIT. ANNO DOMINI MDLV
Il ponte mediceo esiste tuttora e ha conservato sostanzialmente integra la struttura del manufatto cinquecentesco, nonostante i danneggiamenti subiti nel corso dell’ultima guerra (Fig. 4). L A V I A B I L I T À D E L L A VA L D I S I E V E DA L M E D I O E V O A L L ’ E T À M O D E R N A
27 4. Il ponte mediceo di Pontassieve, ricostruito nel 1555 dopo il crollo nell’alluvione del 1547. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato gravemente danneggiato, ma non tanto da compromettere la struttura cinquecentesca.
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5. I dintorni di Corella, sulle colline sopra San Bavello, fra Dicomano e San Godenzo: qui sorgeva uno dei numerosi spedali per l’ospitalità e l’assistenza ai pellegrini sulle vie fra l’Appennino e la Val di Sieve.
28 6. Una dimora signorile a Dicomano, antico mercatale sul torrente Comano, tributario della Sieve: il borgo crebbe notevolmente in conseguenza dell’aumentato volume di traffici e commerci sulla via tra l’Appennino e la Val di Sieve.
Si andarono anche moltiplicando lungo la principale via della Val di Sieve le strutture ricettive e assistenziali. Riguardo alle prime, esse si addensavano soprattutto a Pontassieve, località sulla quale, si è visto, convergevano più strade: nel XIV secolo vi è testimoniata l’esistenza di più alberghi e osterie.10 Circa gli spedali, essi erano distribuiti lungo tutto il percorso: uno, documentato sin dal 1201, era a San Pietro a Quintole (spedale del Girone), e uno, dedicato alla Madonna e documentato dal 1342, sorgeva a Pontassieve.11 Si ha poi notizia dal 1326 di uno spedale che si trovava nel «burgo» di Dicomano,12 località nella quale, in prossimità del mercatale, «un gruppo di devoti si riunì nel 1480 e fondò un ospizio per i pellegrini che erano in procinto in inerpicarsi sull’Appennino».13 Spedali erano poi nel tratto di strada che risaliva l’«Alpe»: uno era a Corella (Fig. 5), intitolato a San Bartolomeo e documentato dal 1340,14 e un altro, espressione di una «Societatis pro alendis Christi pauperibus», sorgeva sin dal 1301 a San Godenzo.15 Naturalmente, la sempre maggiore importanza assunta dalla viabilità della Val di Sieve determinò la crescita di quei centri abitati che si trovavano nei punti nevralgici del sistema viario del distretto. In primo luogo di Pontassieve, il nuovo nome assunto dall’antico villaggio di Sant’Angelo. La posizione di controllo strategico di strade importanti, sia dal punto di vista economico (l’approvvigionamento della città), che da quello militare (la funzione di antemurale a difesa di Firenze per eserciti che provenissero dal Valdarno superiore), fecero acquistare rilevanza all’abitato, che si accrebbe considerevolmente e venne dotato di un sistema di fortificazioni che ne fecero una «terra murata» tra le maggiori del contado fiorentino. Matteo Villani ricorda la decisione della Repubblica fiorentina di rafforzare le fortificazioni di Pontassieve (anno 1363), evidenziandone soprattutto le finalità militari: fu posta «una porta di nuovo con gran torre di difesa là dove si dice Filicaia, la quale torre era più per ridotto di una guerra, che per abitazione o per mercato che vi potesse allignare».16 Una località della Val di Sieve che risentì dell’incremento generale delle comunicazioni, e in particolare dei sempre più intensi traffici e transiti in direzione della Romagna toscana, fu anche Dicomano (Fig. 6), antico mercatale ricordato come tale sin dal XII secolo, che si caratterizzò sempre per il «gran concorso di grani, di bestiame vaccino e porcino, di pollami e di mercerie».17 Oltre Dicomano, tuttavia, la viabilità della Val di Sieve nel Medioevo assumeva caratteri del tutto diversi da quelli, ad esempio, del tratto di strada fra Firenze e Pontassieve, che già all’inizio del Trecento doveva essere barrocciabile. Procedendo in direzione dell’«Alpe» per il superamento della stessa, la circolazione si distribuiva infatti in una moltitudine di piccoli canali, più assimilabili a piste che a strade, senza una gerarchia tra i vari percorsi. Si trattava di una maglia di tortuosi tracciati, percorribili solo da animali da soma, che però riuscivano comunque ad attuare il collegamento tra gli opposti versanti dell’Appennino. Alcuni anni fa, sulla base delle ricerche sul campo condotte dal Gruppo archeologico dicomanese, sono stati ricostruiti gli itinerari di quattro percorsi transappenninici che nel tratto di crinale a monte di San Godenzo mettevano in comunicazione la Val di Sieve col versante romagnolo:18 ciò valga a darci un’idea della grande varietà numerica dei tracciati e della vivacità del transito appenninico (Fig. 7). Dal Medioevo sino almeno alla metà del XVIII secolo la rete stradale della Val di Sieve rimase sostanzialmente inalterata, anche se non dovettero mancare gli interventi R E N AT O S T O PA N I
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volti a sistemare, e talvolta a migliorare, i tracciati e le infrastrutture su di essi esistenti: vedi ad esempio, in età medicea, la citata ricostruzione del ponte sulla Sieve a Pontassieve. Con l’inizio del periodo lorenese, già all’epoca della Reggenza (1737-1765), e ancor più sotto Pietro Leopoldo (17651790), nel quadro del generale rinnovamento della rete viaria del Granducato, anche le strade della Val di Sieve vennero migliorate al fine di adeguarle alle mutate esigenze dei transiti. Ciò comportò non tanto l’apertura di nuovi percorsi, quanto la realizzazione di lavori per rendere le strade esistenti carrozzabili e percorribili in ogni stagione. Fu nell’ultimo decennio del governo di Pietro Lepoldo che venne messa mano a grossi lavori di adeguamento delle strade che per la Val di Sieve conducevano in Casentino e in Romagna, nell’intento di collegare meglio la capitale con due regioni tra le più appartate dello Stato. Gli interventi riguardarono solo marginalmente il tratto fra Firenze e Pontassieve, già carrozzabile, abbiamo visto, bensì i percorsi cui la strada dava luogo una volta superato il ponte sulla Sieve. Nella relazione di un viaggio da lui fatto nel settembre 1777 in più zone del Granducato, Pietro Leopoldo già aveva avuto occasione di rilevare il pessimo stato in cui si trovava la strada per la Romagna, specie nel tratto appenninico.19 Questa venne quindi per prima messa in cantiere e nel 1782 si cominciò a costruire, sotto la direzione degli ingegneri Zocchi e Salvetti, una rotabile da Pontassieve a San Godenzo, località quest’ultima ritenuta la più adatta come punto di partenza per la penetrazione in Romagna. La strada, che avrebbe dovuto rappresentare il primo tratto di una vagheggiata via rotabile per Forlì, fu compiuta in poco più di quattro anni e si arrestò a Ponticino, non lontano da San Godenzo (Fig. 8). Il granduca, che la ispezionò nel 1787, la trovò «troppo sontuosa»: aveva «ponti grandiosi» e la massicciata superava i quattro metri e mezzo, oltre alle banchine, per cui era stata fatta più larga delle stesse strade regie.20 I lavori si fermarono poiché andava risolto il problema del percorso di valico dell’Appennino: a tal uopo il granduca incaricò il matematico Pietro Ferroni, uno dei migliori periti dell’epoca, perché studiasse le possibili soluzioni. Il Ferroni esaminò il tratto appenninico in questione e presentò le sue conclusioni,21 ma il proseguimento non venne realizzato poiché terminò il governo di Pietro Leopoldo, andato a ricoprire il ruolo di imperatore a Vienna. Prima del 1790 ci si limitò soltanto a perfezionare il tronco Pontassieve-Ponticino: la rotabile per L A V I A B I L I T À D E L L A VA L D I S I E V E DA L M E D I O E V O A L L ’ E T À M O D E R N A
7. Sentieri che, salendo da San Godenzo e Castagno d’Andrea, valicano l’Appennino verso le valli romagnole in una mappa della Regione Emilia Romagna: molti di essi ricalcano antiche vie pedonali risalenti alla remota antichità. 8. Pietro Leopoldo di Lorena, innovatore e riformatore, volle migliorare anche le comunicazioni con la Romagna, avviando nel 1782 il cantiere di una rotabile da Pontassieve a San Godenzo: in soli cinque anni la strada raggiunse la frazione di Ponticino, non lontano dalla meta, ma il granduca, ispezionatala, la trovò «troppo sontuosa».
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9-10. Il passo del Muraglione, così chiamato per l’alta muraglia che difende i viaggiatori dai venti: la lapide fattavi apporre dal granduca Leopoldo II ricorda l’opera dell’ingegnere Alessandro Manetti.
la Romagna toscana sarebbe stata conclusa soltanto sotto Leopoldo II dal celebre ingegnere Alessandro Manetti che, tra il 1832 e il 1846, realizzò la transappenninica superando l’Alpe di San Benedetto al passo che detto «del Muraglione», a motivo dell’alta muraglia innalzata in corrispondenza del valico per difesa dai venti (Figg. 9-10). Nasceva così la «Via Regia Forlivese» che, oltrepassato il valico appenninico, s’inoltrerà per la valle del Montone, transitando per Portico, Rocca San Casciano, Dovadola, Castrocaro e Terra del Sole, sino a raggiungere lo Stato Pontificio. I lavori per la strada che portava in Casentino vennero iniziati nel 1788 e due anni più tardi, alla partenza del granduca Pietro Leopoldo per Vienna, era stato ultimato il tratto da Pontassieve sino al passo della Consuma. I lavori si arrestarono e oltre il valico la strada continuò a essere «cattiva anche per le some»:22 anch’essa sarebbe stata portata a termine nel secolo successivo col proseguimento nel Valdarno casentinese, transitando per il Borgo alla Collina e consentendo di raggiungere tutte le principali località del Casentino. Il compimento del percorso fu progettato e diretto dall’ingegnere Anastagi, con la soprintendenza del matematico Ferroni; stavolta la larghezza della carreggiata fu limitata a sei braccia (circa tre metri e mezzo), oltre naturalmente alle banchine.23 Altri lavori, impostati sotto Pietro Leopoldo, ma conclusi solo assai più tardi, nel 1817, riguardarono la strada che da Pontassieve si dirigeva verso Ponte a Rignano per poi, a Incisa, attraversare l’Arno e immettersi sulla via per Arezzo. avrebbe costituito, con il tratto da Firenze a Pontassieve, il primo tronco della nuova «Via Regia Postale Aretina», che sostituì l’antica «via postale aretina», il cui percorso si manteneva sin dal suo inizio, a Firenze, sulla sinistra dell’Arno, transitando per il valico di San Donato in Collina. Nei primi decenni dell’Ottocento Pontassieve andò così configurandosi come uno dei principali gangli del sistema viario del Granducato, tanto che fu deliberato di costruire un nuovo ponte sulla Sieve, realizzato tra il 1837 e il 1840, in sostituzione del vecchio ponte mediceo, punto di transito obbligato per tutti gli itinerari.24 Assieme al ponte fu realizzato, in corrispondenza di Pontassieve, un nuovo percorso della «Regia Postale Aretina», che non passava più all’interno dell’abitato, ma transitava esternamente alle mura. Oltre il ponte, poi, furono costruiti i raccordi con la «strada regia forlivese» e la «strada regia provinciale del Casentino», con una sistemazione del nodo viario che R E N AT O S T O PA N I
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verrà modificata solo ai nostri giorni. L’ammodernamento della rete viaria attuato nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento ebbe effetti benefici su tutta la Val di Sieve. L’economia della regione ne fu stimolata, e in specie lo furono le attività commerciali e manifatturiere; la generale crescita economica si rifletté poi sui più importanti centri della regione, che furono interessati da una forte crescita demografica e urbanistica. I principali luoghi di mercato (Pontassieve, Dicomano, Pelago, Rufina) videro accrescere il numero degli acquirenti e dei venditori provenienti da Firenze, così come dalle località del Casentino e della Romagna toscana (Fig. 11). Ne fruì in particolar modo il mercatale di Pontassieve, centro sul quale, come si è visto, convergevano tutti i percorsi rinnovati; ma considerevole fu anche la crescita degli altri mercatali, specie di quello di Pelago, che per l’innanzi rimaneva isolato, non disponendo di strade barrocciabili che lo collegassero col Casentino e con la stessa Pontassieve. Fu altresì favorita la nascita delle attività manifatturiere, che ricevettero un forte impulso, accentuatosi con l’ulteriore vitalizzazione dell’economia della Val di Sieve che si ebbe dopo l’Unità d’Italia con la costruzione delle ferrovie. Sul finire dell’Ottocento Pontassieve divenne anche un nodo ferroviario, oltre che stradale, poiché venne a trovarsi lungo la strada ferrata che univa Firenze a Roma e all’inizio della linea che, risalendo l’asse vallivo della Sieve, conduceva a Borgo San Lorenzo, proseguendo poi sino a Faenza. La presenza della ferrovia sollecitò la fioritura delle iniziative industriali le cui tracce, a livello di archeologia industriale, sono ancora rilevabili sul territorio, a Pontassieve soprattutto, ma anche nelle località toccate dalla linea per Faenza: non a caso Rufina conseguì nel 1915 l’autonomia comunale, proprio a motivo della considerevole crescita economica, demografica e urbanistica che caratterizzò l’abitato.
NOTE 1 Statuti della Repubblica Fiorentina 1910-1921, I, 1910, libro IV, capitolo VIII, pp. 175 e ss. 2 Statuti dell’arte degli albergatori 1953, pp. 154-159. 3 Statuti della Repubblica Fiorentina 1910-1921, II, 1921, libro V, capitolo CI, p. 428. 4 Libro Vecchio di Strade 1987, pp. 105-110. 5 Ibidem. V. inoltre DE LA RONCIÈRE 2005, pp. 28-29. 6 Nel Trecento la principale via che serviva a collegare Firenze con Arezzo transitava sulla destra dell’Arno: dal pian di Ripoli saliva al valico del San Donato, quindi digradava verso il fondovalle dell’Arno, toccando Incisa, Figline, San Giovanni e Monte-
varchi. Nel già citato capitolo dello «Statuto del Capitano del Popolo» del 1322-1325, è compresa anch’essa tra le «strate et vie mastre» ed è indicata come la «via et strata que summitur a porta seu Burgo Sancti Niccholai per quam itur in Vallem Arni» (v. Statuti della Repubblica fiorentina 1910-1921, I, 1910, loc. cit.). 7 Sembra addirittura che il grano prodotto dal contado fiorentino bastasse appena a nutrire gli abitanti della città per soli cinque mesi dell’anno (cfr. Libro del biadaiolo 1978). 8 DE LA RONCIÈRE 2005, pp. 88-89. 9 REPETTI 1833-1843, IV, p. 517. 10 DE LA RONCIÈRE 2005, pp. 102-103.
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11. L’abitato di Pelago: il centro, al pari di altri luoghi di mercato come Pontassieve, Rufina e Dicomano, si avvantaggiò molto dello sviluppo della maglia stradale nei primi decenni dell’Ottocento, anche perché in precedenza isolato.
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Per lo spedale del Girone, crf. CALZOLAI 1970, p. 342; su quello di Pontassieve, crf. PIRILLO 2005, I, p. 261. 12 Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Notarile antecosimiano, 9499, c. 64r, 23 novembre 1326, dove l’atto si dice rogato «prope hospitale Sancte Marie Decomano, in strata poublica» (citato in PIRILLO 1995, p. 64, nota 108). 13 C HINI 1875-1876, II, 1875, p. 118. 14 DE LA RONCIÈRE 2005, IV, pp. 110-111. 15 Ivi, p. 315. Probabilmente doveva trattarsi dello stesso «spedaletto sotto il titolo di San Michele» menzionato in REPETTI 1833-1843, V, p. 63, «sottoposto al Magistrato del Bigallo di Firenze, restato in attività anche nel secolo XVIII perché designato ai pellegrini che facevano la strada del Montone per venire da Castrocaro a Firenze e rammentato nel regolamento fatto a tale uopo nel 18 novembre 1751 dalla Reggenza del Granduca Francesco II». 16 VILLANI 1825-1826, capitolo 45, libro VII. 17 REPETTI 1833-1843, II, p. 6. 18 Gruppo archeologico dicomanese, Gli itinerari per il passaggio dell’Appennino. I segni sul terreno, in Strade fra Valdisieve e Romagna 1995, pp. 11-26. 19 Relazioni sul Governo della Toscana 1969-1974, II, 1970. p. 356. 20 La Pontassieve-Ponticino fu assai criticata anche per l’enorme spesa richiesta (circa duecentomila scudi in sole sedici miglia), oltre che per la spropor-
zionata grandiosità di molte opere (v. STERPOS 1977, p. 33). Lo stesso granduca ebbe a osservare (v. Relazioni sul Governo della Toscana 1969-1974, II, 1970, p. 34) che la strada «fu fatta con eccessiva spesa e magnificenza, con molti ponti, archi e muri, ed in specie due ponti sul fiume Rufina e Moscia, essendo stata fatta più larga delle strade Regie, quando non doveva servire che di strada barrocciabile per andare in Romagna; e colla spesa con cui fu costruita, che fu anche maggiore, perché vari pezzi e muri che rovinarono più volte per la negligenza degl’impresari e cottimanti bisognò rifargli, si poteva fare tre volte più di lavoro, che poi è stato sospeso per non essere stata fissata e decisa la direzione da darsi a quella strada ulteriormente in Romagna, essendovi inoltre seguite molte mangerie per negligenza degl’ingegneri». 21 Frutto della missione Ferroni sono due splendidi volumi, attualmente conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze (BNCFi, Palatino Str. 1422), con grandi vedute dei luoghi che il perito visitò ed esaminò. 22 Così si era espresso nei riguardi della strada il granduca Pietro Leopoldo (vedasi Relazioni sul Governo della Toscana 1969-1974, II, 1970, p. 32). 23 Cfr. STERPOS 1979. 24 REPETTI 1833-1843, IV, p. 517. Il nuovo ponte fu successivamente rinnovato (1888) ed è stato poi completamente rifatto dopo le distruzioni conseguenti ai bombardamenti del 1944.
R E N AT O S T O PA N I
sulle tracce dell’arte rinascimentale in mugello e val di sieve testimonianze e capolavori
La terra dei Medici
I
l territorio del Mugello (Mugello, Alto Mugello e Val di Sieve) offre l’intreccio di attrattive ambientali e di testimonianze della creatività umana a livello d’eccellenza al quale l’antico contado fiorentino, oggi provincia di Firenze, ci ha abituati. In un paesaggio dove l’intervento umano – fin troppo intenso negli ultimi anni – convive con la natura appenninica dei luoghi, tra pascoli aperti e tratti boschivi, la stratificazione di luoghi e opere d’arte allude a una polifonica storia di maestranze, botteghe e artisti al servizio di committenti pubblici e privati, di istituzioni secolari e religiose: una storia che si lascia più intuire che raccontare, poiché molte delle opere originariamente create per questi luoghi sono migrate altrove o sono andate perdute a causa del passaggio di eserciti, dei terremoti, del degrado indotto dalla natura e dall’azione umana. Tuttavia quel che ancora resta ad abbellire chiese, monasteri e palazzi basta a fare di questo territorio un ambito favorito, rappresentativo specialmente del Rinascimento nelle sue espressioni più legate alla famiglia dominante di Firenze, i Medici della stirpe detta «di Cafaggiolo». È tuttora in discussione fra gli storici se l’origine dei Medici, arbitri della politica fiorentina nel Quattrocento e poi duchi e granduchi di Toscana dal Cinquecento al Settecento, sia terriera o cittadina. Se antiche fonti affermano che la loro presenza in Mugello, come alleati degli Ubaldini, risale ai decenni dopo il Mille, i documenti finora emersi paiono indicare che i Medici fossero anzitutto proprietari di case a Firenze già dal 1169 se non prima, mentre i più importanti acquisti di terre in Mugello risalgono al periodo 1260-1318. Allo stretto legame tra la famiglia e il territorio fa riferimento anche la leggenda elaborata nel XVII secolo o forse prima, a spiegazione delle palle rosse sul fondo d’oro dell’arme (ricordando che la codificazione finale, con cinque palle rosse e una azzurra con gigli d’oro, non precede il 1465). Un remoto capostipite di nome Averardo, comandante dell’esercito di Carlo Magno, avrebbe affrontato e vinto un gigante chiamato Mugello, che terrorizzava la zona omonima. Durante lo scontro, il gigante conficcò la propria mazza dentata nello scudo dorato di Averardo, lasciando impressi i segni che poi suggerirono l’elemento araldico delle palle: o, secondo un’altra versione, furono le gocce di sangue schizzate sullo scudo nel violento duello che diedero origine alle tante palle rosse dell’arme più antica. Qualunque fosse la loro origine, è certo che i Medici stabilirono nel territorio mugellano occidentale, a Barberino e San Piero a Sieve, capisaldi territoriali quali le ville e tenute di Trebbio e Cafaggiolo e la forS U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
C RISTINA ACIDINI Soprintendente ai Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici e al Polo Museale della Città di Firenze
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tezza di San Martino, estendendo la propria influenza a complessi conventuali e monastici tra i quali primeggia il convento francescano di Bosco ai Frati. Nella committenza dei Medici dunque, ma non soltanto, s’imbatte ripetutamente chi si metta alla ricerca di testimonianze rinascimentali per queste terre e cittadine. Il lascito degli artisti celebri, ovvero i ‘grandi assenti’
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A mo’ di premessa, non si può non ricordare come il Mugello abbia dato i natali a grandi artisti, la cui memoria è vivissima tuttora: Giotto di Bondone, il massimo maestro fra Duecento e Trecento che segnò il possente avvio dell’arte italiana, nacque a Vespignano presso Vicchio nel 1267. Nacque pure a Vicchio, tra il 1395 e il 1400, Guido di Pietro Trosini, assai più noto come fra Giovanni da Fiesole ovvero il Beato Angelico: straordinario pittore e miniatore domenicano attivo per i conventi dell’ordine a Cortona, Fiesole, Firenze, che segnò con altri grandi artisti del suo tempo la nascita del Rinascimento fiorentino. E sempre a Vicchio, nel cuore del paese, nel 1559 si comperò una casa Benvenuto Cellini, benestante grazie alla committenza del duca Cosimo de’ Medici, ma nei guai con la giustizia: nella sua celebre autobiografia descrisse persone e situazioni del posto, compreso un tentativo di avvelenamento che gli lasciò pesanti conseguenze. A Castagno, villaggio sulle pendici del Falterona nel territorio di San Godenzo, nel 1421 circa nacque Andrea di Bartolo di Simone di Bargilla, noto come Andrea del Castagno, che dal 1440 all’anno della sua morte, il 1457, dipinse nel suo inconfondibile modo arrovellato e minerale quadri e affreschi, tra i quali ultimi si distingue l’Ultima Cena nel cenacolo di Sant’Apollonia. Grandissimi in Firenze e fuori (specialmente Giotto, vero e proprio ambasciatore artistico della Signoria fiorentina attraverso l’Italia), questi maestri hanno però lasciato lieve impronta nel loro territorio d’origine. Il legame tra Giotto e il suo territorio è rimasto a lungo affidato all’aneddoto della pecora e al suo incontro con Cimabue. L’episodio ha la sua prima e attendibile menzione nei Commentari di Lorenzo Ghiberti, ma il racconto di Giorgio Vasari, con il suo sentore di fiaba popolare, è troppo bello perché non lo si citi: «… gli diede Bondone in guardia alcune pecore; le quali egli andando pel podere quando in un luogo e quando in un altro pasturando, spinto dall’inclinazione della natura all’arte del disegno, per le lastre et in terra o in su l’arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale overo che gli venisse in fantasia. Onde andando un giorno Cimabue per sue bisogne da Fiorenza a Vespignano, trovò Giotto che, mentre le sue pecore pascevano, sopra una lastra piana e pulita con un sasso un poco apuntato ritraeva una pecora di naturale, senza avere imparato modo nessuno di ciò fare da altri che dalla natura. Per che fermatosi Cimabue tutto maraviglioso, lo domandò se voleva andar a star seco; rispose il fanciullo che contentandosene il padre, anderebbe volentieri».1 Un apprendistato del giovane mugellano presso l’affermato maestro è più che verosimile, e un confronto tra i due – a vantaggio di Giotto – veniva proposto fin dal loro tempo, se si ricorda una volta di più la celebre terzina di Dante «Credette Cimabue ne la pittura / C R I STI NA AC I D I N I
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tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura».2 Il racconto, prima ghibertiano che vasariano, è stato riconsiderato entro un percorso formativo di Giotto da Firenze ad Assisi, nel solco di Cimabue.3 Ma il legame di Giotto con la terra d’origine, rimasto a lungo confinato all’aneddotica, ha trovato concreta espressione nel rinvenimento d’un commovente frammento pittorico raffigurante una Madonna col Bambino in braccio (Fig. 1), proveniente dall’oratorio di Sant’Omobono a Borgo San Lorenzo, che gran parte della critica ritiene autografo.4 La composizione originaria doveva essere assai più ampia e complessa, dipinta su di una pala d’altare di forma cuspidata. Nella sua esiguità, l’immagine presenta saldezza volumetrica e intensità espressiva, declinate in un linguaggio giottesco giovanile che permette di proporre utili confronti con alcuni passaggi delle Storie di Isacco nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi, e di corroborare attraverso di essi la controversa attribuzione a Giotto di parti del ciclo assisiate.5 Dal 1901 la piazza di Vicchio ospita un monumento bronzeo a Giotto di Italo Vagnetti, per il quale si dichiarò favorevole anche Giosue Carducci. Ancor prima, già nel XIX secolo venivano dedicate attenzioni alla casa natale di Giotto a Vespignano. Una veduta di Giuseppe Moricci del 1876, nel rievocare in termini di attardato romanticismo storico il momento in cui «Giotto parte dalla famiglia per recarsi a Firenze accompagnato dal suo maestro Cimabue», serbò memoria dell’aspetto della modesta abitazione (appendice di una «casa da signore») dopo il restauro del 1840; ulteriori restauri furono necessari dopo il disastroso terremoto del 1919, in cui crollò il primo piano (Fig. 2 casa Giotto). La casa è dal 1975 proprietà del Comune di Vicchio, che vi allestì negli anni Ottanta una mostra didattica su Giotto a cura dell’Università internazionale dell’Arte, con riproduzioni a colori delle opere dell’artista e una monografia curata da Licia Collobi Ragghianti. Dopo l’ultima ristrutturazione, la casa di Giotto fu nuovamente inaugurata il 13 settembre 2002. Durante l’anno a Vicchio si svolgono diverse manifestazioni dedicate al celebre pittore, tra le quali «Il paese di Giotto Bambino» e il «Premio Giotto d’oro» istituito nel 2001. E per venire a un altro grandissimo di queste terre, Andrea del Castagno, l’unico affresco a lui sicuramente attribuito nel comprensorio della Val di Sieve, la Madonna col Bambino e santi dipinta a metà Quattrocento nella cappella del castello dei Pazzi al Trebbio, fu staccato ed entrò nel mercato antiquario: passato nella raccolta Contini Bonacossi, si trova nella Galleria degli Uffizi, nelle stanze di via Lambertesca che ospitano la donazione Contini Bonacossi (Fig. 3). S U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
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1. Giotto, Madonna col Bambino (1290-1295), Borgo San Lorenzo, pieve di San Lorenzo.
2. La casa natale di Giotto a Vespignano, presso Vicchio, in una veduta di Giuseppe Moricci del 1876, nell’aspetto conferitole dal restauro del 1840.
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3. Andrea del Castagno, Madonna col Bambino in trono tra San Giovanni Battista, San Girolamo, due fanciulli e angeli, 1443 ca. (particolare). Firenze, Galleria degli Uffizi, Collezione Contini Bonacossi.
Ma la memoria dei nomi dei grandi artisti legati ai luoghi, e della gloria da loro conquistata nella professione, continua a operare come un lievito nella vita culturale dei vari centri del Mugello, ispirando manifestazioni temporanee ed interventi permanenti. Per Andrea, appunto, fu ideata nel 2004 la manifestazione espositiva che celebrava l’ideale ritorno dell’artista nei luoghi della sua infanzia.6 Il secondo grande artista di Vicchio, il Beato Angelico, lasciò in Mugello la splendida pala di Bosco ai Frati, che però manca dal XVIII secolo, quando sotto il governo lorenese raggiunse Firenze; si trova oggi nel Museo di San Marco. La sua figura di sommo pittore ha ispirato e intitolato il Museo di arte sacra e religiosità popolare di Vicchio, inaugurato nel giugno del 2000 nell’ultimo allestimento, ma esistente di fatto fin dagli anni Sessanta, allorché si vennero raccogliendo nei locali del palazzo comunale opere d’arte e suppellettili provenienti dagli edifici sacri del territorio, per salvarle dai furti o da una lenta distruzione. L’ordinamento delle opere nel museo associa all’aspetto storico-artistico interpretazioni di tipo antropologico, con particolare attenzione per la religiosità popolare. Tra le testimonianze artistiche provenienti da pievi, chiese, oratori e tabernacoli non poche emergono per interesse e qualità. Vi sono testimonianze pittoriche del momento tardogotico: la Madonna in gloria che dà il cingolo a san Tommaso tra santi, proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Montefloscoli nel comune di Borgo San Lorenzo e attribuita a un pittore del tardo XIV secolo, detto appunto dalla tavola eponima Maestro di Montefloscoli; la Madonna col Bambino e due angeli del Maestro della Madonna Strauss, da San Cresci in Valcava. Da un tabernacolo presso la chiesa di San Francesco a Borgo San Lorenzo viene il bel busto di San Giovanni in terracotta invetriata della bottega di Andrea della Robbia, del 1505-10 circa.7 Sempre a Vicchio, la casa di Benvenuto Cellini, recuperata, completamente ristrutturata di recente e inserita nell´Associazione case della memoria, è dotata di attrezzature e apparecchiature per la lavorazione orafa e costituisce uno spazio per incontri, corsi, esposizioni dell’arte orafa contemporanea: ne è un esempio l’iniziativa «Preziosi in contrasto» del settembre 2006. Non mugellano, ma legato a questa terra da una committenza di primo piano è un altro ‘grande assente’: Andrea del Sarto che nel 1523-24, per sfuggire la peste a Firenze, dimorò presso il convento delle monache di Luco, le cosiddette «contesse», e dipinse più quadri, specialmente per la loro chiesa. Il lungo referto del Vasari merita d’esser trascritto e commentato. «Essendo poi venuto l’anno 1523 in Fiorenza la peste, et anco pel contado in qualche luogo, Andrea per mezzo d’Antonio Brancacci, per fuggire la peste et anco lavorare qualche cosa, andò in Mugello a fare per le monache di San Piero a Luco dell’Ordine di Camaldoli una tavola, là dove menò seco la moglie et una figliastra, e similmente la sorella di lei et un garzone. Quivi dunque standosi quietamente, mise mano all’opera; e perché quelle venerande donne più l’un giorno che l’altro facevano carezze e corteC R I STI NA AC I D I N I
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sie alla moglie, a lui et a tutta la brigata, si pose con grandissimo amore a lavorare quella tavola; nella quale fece un Cristo morto, pianto dalla Nostra Donna, S. Giovanni Evangelista e da una Madalena, in figure tanto vive che pare ch’elle abbiano veramente lo spirito e l’anima. Nel S. Giovanni si scorge la tenera dilezzione di quell’apostolo, e l’amore della Madalena nel pianto, et un dolore estremo nel volto et attitudine della Madonna, la quale vedendo il Cristo, che pare veramente di rilievo in carne e morto, fa per la compassione stare tutto stupefatto e smarrito San Pietro e San Paulo, che contemplano morto il Salvatore del mondo in grembo alla Madre. Per le quali maravigliose considerazioni si conosce quanto Andrea si dilettasse delle fini e perfezzioni dell’arte; e per dire il vero, questa tavola ha dato più nome a quel monasterio che quante fabriche e quante altre spese vi sono state fatte, ancorché magnifiche e straordinarie. Finita la tavola, perché non era ancor passato il pericolo della peste, dimorò nel medesimo luogo, dove era benissimo veduto e carezzato, alcune settimane. Nel qual tempo, per non si stare, fece non solamente una Visitazione di Nostra Donna e S. Lisabetta, che è in chiesa a man ritta sopra il Presepio per finimento d’una tavoletta antica, ma ancora in una tela non molto grande una bellissima testa d’un Cristo, alquanto simile a quella che è sopra l’altare della Nunziata, ma non sì finita; la qual testa, che invero si può annoverare fra le buone cose che uscissero delle mani d’Andrea, è oggi nel monasterio de’ monaci degl’Angeli di Firenze, appresso il molto reverendo padre don Antonio da Pisa, amator non solo degl’uomini eccellenti nelle nostre arti, ma generalmente di tutti i virtuosi. Da questo quadro ne sono stati ricavati alcuni; perché avendolo don Silvano Razzi fidato a Zanobi Poggini pittore, acciò uno ne ritraesse a Bartolomeo Gondi che ne lo richiese, ne furono ricavati alcuni altri che sono in Firenze tenuti in somma venerazione. In questo modo adunque passò Andrea senza pericolo il tempo della peste, e quelle donne ebbero dalla virtù di tanto uomo quell’opera, che può stare al paragone delle più eccellenti pitture che siano state fatte a’ tempi nostri; onde non è maraviglia se Ramazzotto, capo di parte a Scaricalasino, tentò per l’assedio di Firenze più volte d’averla per mandarla a Bologna in San Michele in Bosco alla sua capella».8 La stupenda pala del Compianto o Pietà di Luco manca da oltre due secoli dal Mugello, poiché nel 1783 fu acquistata dal granduca Pietro Leopoldo per 2400 scudi, e installata nella Tribuna degli Uffizi a Firenze (oggi nella Galleria Palatina; Fig. 4) Prima, le monache avevano resistito non solo alle avide manovre del capitano di ventura Melchiorre Ramazzotto da Scarilacasino, che nell’estate del 1529 imperversava in Mugello espugnando Firenzuola e saccheggiando Scarperia, Gagliano, Barberino e tutti i castelli vicini, ma anche alla più autorevole pressione del cardinal Carlo de’ Medici, che nel 1630 tentò di acquistare la pala e desistette solo dinanzi alle accorate suppliche delle monache. Ebbe maggior fortuna invece il cardinale con un’altra opera sartesca, l’AnS U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
37 4. Andrea del Sarto, Pietà di Luco (1523), Galleria Palatina, Firenze. La pala fu dipinta nel 1523 dall’artista per il convento delle suore camaldolesi di San Piero a Luco.
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nunciazione con i santi Michele e Godenzo, che i serviti avevano ordinato ad Andrea e inviato all’abbazia di San Godenzo, riuscendo ad acquistarla nel 1627. Le altre opere mugellane di Andrea mancano all’appello. Studi storico-artistici sul territorio
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5. Bartolomeo Stefanini, Organo, 1696. Faltona, Pieve di Santa Felicita.
Le ricerche che da anni, da decenni ormai sono rivolte al territorio del comprensorio mugellano hanno prodotto conoscenze approfondite anche molto specialistiche, come quelle che si rivolgono a categorie ben precise di beni culturali. È il caso dell’architettura e della scultura di età romanica, particolarmente rappresentate poiché «le chiese mugellane custodiscono la maggior parte della decorazione marmorea romanica del contado fiorentino».9 Egregiamente censito e commentato, il patrimonio lapideo medievale annovera fonti battesimali, amboni, recinti e lastre di non comune bellezza, lavorati a commesso marmoreo con effetti di elegantissima bicromia.10 Ben noti e descritti sono anche gli organi storici, nel cui repertorio – dove compaiono i nomi si stimati organari del XVIII-XIX secolo come i Bruschi e i Tronci – risaltano alcuni ‘pezzi’ barocchi, quale l’organo con cassa di Giuseppe Elmi (1744) in Santa Maria di Badia a Vigesimo presso Barberino di Mugello. L’organo forse più maestoso e animato di ornati barocchi di tutto il Mugello si trova a Santa Felicita a Faltona in comune di Borgo San Lorenzo, ma non fu costruito sul posto: realizzato nel 1696 dall’organaro lucchese Bartolomeo Stefanini nella Badia Fiesolana, fu asportato nel 1808 dalle truppe napoleoniche e dopo un passaggio fiorentino approdò alla pieve mugellana, dove la sua mostra lignea intagliata e dorata si andò a stagliare incongruamente contro la rustica parete in materiale lapideo a vista11 (Fig. 5). E non meno attentamente censiti sono i tabernacoli, che recano pitture murali e rilievi di notevole interesse, sui alcuni dei quali si tornerà più avanti.12 Un discorso completo ed esteso sul Rinascimento nell’arte del Mugello – intendendosi una rassegna di ciò che è stato creato tra Quattrocento e Cinquecento, esistente o no sul posto – esula dallo scopo di questa pubblicazione. Le note che seguono sono quindi dedicate a una selezione di opere d’arte di quel periodo, ancora presenti nel territorio, che per rilevanza artistica e devozionale collaborano alla sua identità culturale. Il Crocifisso di Bosco ai Frati Il convento di Bosco ai Frati, dedicato a san Bonaventura (generale dell’ordine francescano e dottore della Chiesa), fu assegnato ai francescani in due riprese, nel XIII secolo dai feudatari Ubaldini, nel XV secolo da Cosimo il Vecchio de’ Medici., il quale vi lasciò ampio segno della sua devozione e magnificenza. Nel complesso, riedificato da Michelozzo di Bartolommeo (architetto di fiducia della famiglia per tante imprese, incluso il nuovo palazzo Medici di via Larga), furono installate opere d’arte sacra di pregio altissimo. Vi era la pala del Bosco ai Frati, con la Madonna col Bambino e C R I STI NA AC I D I N I
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i santi Antonio da Padova, Lodovico di Tolosa, Francesco, Cosma, Damiano e Pietro Martire del Beato Angelico, commissionata da Cosimo de’ Medici intorno al 1450, oggi nel Museo di San Marco (Fig. 6). E vi era il trittico con la Resurrezione di Lazzaro che il pittore francese Nicolas Froment aveva dipinto nel 1461 per il legato papale in Fiandra, Francesco Coppini di Prato: donato da questi ai Medici, fu da loro donato alla chiesa conventuale e si trova oggi nella Galleria degli Uffizi (Fig. 7). Della fioritura rinascimentale di opere d’arte e suppellettili sacre (essendosi allontanati anche i codici miniati che si trovano nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze), resta memoria nella «Stanza dei Medici», un concentrato museo con dipinti, sculture e arredi vari, tra i quali emerge per qualità e fama il Crocifisso ligneo attribuito a Donatello. L’attribuzione, sostenuta con forza da Alessandro Parronchi, non ha trovato consensi unanimi: tuttavia le forme energiche e tormentate del Cristo ignudo (cui manca il perizoma originario) e l’espressione di tragico pathos della testa spiovente nell’agonia estrema, possono ben giustificare il ricorso a un’ipotesi così impegnativa. «La scultura donatelliana fu scoperta per caso dopo la seconda guerra mondiale. Era nella cripta della chiesa», come ha ricordato in un suo scritto padre Ferdinando Batazzi, e si trovava in condizioni di accentuato degrado. Era stato quel Crocifisso a sostenere il colpo delle due travi cadute dal soffitto durante lo spaventoso terremoto del 1542,13 e ne
6. Beato Angelico, Madonna col Bambino e i santi Antonio da Padova, Lodovico di Tolosa, Francesco, Cosma, Damiano e Pietro Martire, post 1450-1452 (particolare), Firenze, Museo di San Marco.
7. Nicolas Froment, Resurrezione di Lazzaro, 1461. Firenze, Galleria degli Uffizi. S U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
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aveva riportato danni gravissimi venendo poi pesantemente restaurato. La fortuna critica della scultura ebbe inizio nel 1961, allorché fu esposta alla mostra d’arte sacra in Palazzo Strozzi. Restaurato, e ricondotto alla policromia antica che si caratterizza per i segni obliqui delle staffilate sparsi su tutto il corpo, il Crocifisso fece parte della rassegna di «Firenze restaura» e in seguito fu valorizzato ulteriormente a confronto con altre sculture di Donatello e del suo ambito.14 I tabernacoli di Paolo Schiavo Tra i numerosi tabernacoli rurali che s’incontrano per le vie del Mugello, si è identificato un nucleo in cui l’immagine sacra dipinta a fresco è riferibile a Paolo Schiavo.15 Il più ampio è ricco di figure è il tabernacolo di Croce di Via alle Mozzete, tra San Piero e Scarperia (Fig. 8), con la Madonna col Bambino e santi: la presenza dei santi Cosma e Damiano fa pensare a una committenza medicea, forse negli anni Sessanta del Quattrocento, anche considerando che la vicina villa Corsini era stata un tempo dei Medici.16 A San Michele a Figliano, un affresco con la Madonna in trono col Bambino e i santi Giovanni Battista e Giorgio rivela, benché gravemente lacunato, un sicuro impianto spaziale percorso da sensibili variazioni luministiche. Ancora a Paolo Schiavo si attribuiscono la Madonna dell’Umiltà in San Martino a Vespignano e, non lontano, la Madonna del Latte e santi nel tabernacolo-oratorio del beato Giovanni La Bruna.17
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La «Madonna dei terremoti» di Scarperia 8. Paolo Schiavo, Madonna col Bambino e santi, metà del XV secolo. San Piero a Sieve, tabernacolo di Croce di Via alle Mozzete.
L’immagine miracolosa della Madonna in adorazione del Bambino, datata 1448, si trovava in origine in un tabernacolo dello spedale di Santa Maria a Scarperia, poi convertito in oratorio (Fig. 9). La pittura, pur avendo sofferto danni considerevoli e pesanti restauri, si presenta nitidamente leggibile nell’impianto del trono e delle figure, che occupano lo spazio con naturalezza e maestà. Nel trono dalla morfologia singolare – con le profonde incavature arcuate nei fianchi e un ornato di quattro sfere e tre statuette raffiguranti l’annunciazione e Dio Padre – sono esaltati gli effetti di luce e ombra. La Madonna, alta e robusta, gira il busto per adorare il Bambino che le sta in grembo, sulle ginocchia allargate, appoggiato a un cuscino. Il dipinto è un contraddittorio palinsesto di campiture cromatiche impoverite o alterate (la veste troppo candida, il manto da cui è caduto il color azzurro) e, al contrario, di stesure integre e piene: il trono lapideo, gli incarnati, le fasce bianche su drappo rosso che avvolgono stretto il piccolo Gesù, lasciandogli libera la sola mano destra, levata con la palma in alto. Dettagli condotti finemente, come il velo dall’orlo ricamato che poggia sulle ciocche nere della Madonna, la reticella del cuscino o il capitellino composito della parasta di destra del trono, lasciano intendere la grande cura artistica della dipintura. Per l’attribuzione si sono fatti i nomi di Filippo Lippi18 e di Francesco d’Antonio,19 ma a me pare di poter ribadire l’assegnazione al MaeC R I STI NA AC I D I N I
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stro di Pratovecchio,20 un artista del primo Quattrocento fiorentino vicino al Lippi ma soprattutto interprete di Domenico Veneziano, di cui traduce il modo pittorico in contorni marcati e luminismo metallico. Le condizioni assai compromesse della pittura non permettono di affermare se la stesura sia in tutto o in parte autografa del maestro, o se sia opera di un assistente, che aveva accesso ai suoi cartoni. Il confronto più pertinente si rintraccia a mio avviso nella tavola eponima di questo ignoto maestro, la Madonna Assunta nel convento camaldolese di San Giovanni Evangelista a Pratovecchio in Casentino, superstite di un polittico del quale altri elementi si trovano nella National Gallery di Londra.21 Come la Madonna dei Terremoti, quella di Pratovecchio ruota sulle ginocchia aperte il lungo busto, con le mani unite in preghiera all’altezza del petto: ma soprattutto il lungo e muscoloso Infante ha il volto di tre quarti identico a quello di uno dei cherubini sodi e paffuti attorno alla Madonna casentinese: «le tempie infossate, le gote gonfie, le espressioni aggrondate, i sopraccigli incrinati come cediglie e i bulbi oculare sgusciati a forza sotto le palpebre grevi».22 Il tabernacolo di Scarperia attirò nel tempo il culto di chi si rivolgeva alla sacra immagine per proteggersi dai terremoti, poiché era convinzione popolare che durante il terribile sisma del 1542 la Madonna avesse posato in grembo il Bambino, che prima aveva tra le braccia, e avesse giunto le mani in preghiera. La vetrata di Faltona È originaria della pieve di Santa Felicita a Faltona, presso Borgo San Lorenzo, una vetrata istoriata raffigurante la santa titolare (Fig. 10): santa Felicita con i suoi sette figli, martiri come lei. Il gruppo è composto con grazia e maestà dalla madre al centro, vestita in verde e violaceo con il velo bianco, e dai figli di altezze ed età diverse, biondi ed eleganti in vesti rosse, azzurre e verdi e aureole dai motivi ornamentali tutti diversi, poste in vari scorci. La finezza delle grisailles rimaste, a delineare i volti, le mani e i piedi, rivela la mano di un grande e sicuro artista. L’attribuzione alla cerchia di Andrea del Castagno resta assai convincente.23 La Sacra conversazione di Pimonte Nella pieve di Santa Reparata a Pimonte presso Scarperia vi è una bella tavola di Neri di Bicci raffigurante la S U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
41 9. Maestro di Pratovecchio, Madonna in adorazione del Bambino, detta la «Madonna dei Terremoti», 1448. Scarperia, oratorio di Santa Maria.
10. Cerchia di Andrea del Castagno, vetrata istoriata, metà del XV secolo. Faltona, pieve di Santa Felicita.
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11. Neri di Bicci, Madonna in trono col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Reparata, Bartolomeo e Antonio abate, 1480-1490. Pimonte, pieve di Santa Reparata.
12. Benedetto da Maiano (attr.), Vergine col Bambino, 1495-1496. Scarperia, prepositura dei Santi Jacopo e Filippo.
Madonna in trono col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Reparata, Bartolomeo e Antonio abate (Fig. 11). In ginocchio ai lati del trono sono san Domenico e santa Caterina. La tavola, risalente agli anni Ottanta del Quattrocento, è una tipica pittura dell’operoso e abile Neri di Bicci, titolare di una stimata bottega a Firenze, padrone di una tecnica straordinaria nelle stesure d’oro e di colori su solide preparazioni. Il restauro, che avvenne negli anni Novanta del Novecento, propose un quesito metodologico non banale: sotto ai due santi domenicani, di tutta evidenza aggiunti nel XVIII secolo, si riconoscevano i santi Gerolamo e Ludovico di Tolosa di Neri, ancora ben conservati e integri, specialmente il san Ludovico di cui si intravedevano le ricche vesti episcopali. Una rimozione delle figure aggiunte, evidentemente legate a una fase dell’esistenza della pala che aveva comportato una devozione domenicana, avrebbe recuperato la composizione quattrocentesca in uno stato prossimo all’originale. Ma avrebbe sacrificato, cancellandola, la testimonianza storica di un suo più tardo adattamento. Fu dunque deciso, dopo riflessioni e consultazioni, di lasciare la tavola così come ci era pervenuta.24 La Madonna col Bambino in marmo a Scarperia Nella prepositura dei Santi Jacopo e Filippo a Scarperia si trova un grande tondo in marmo di Carrara entro una cornice di legno intagliata e dorata; i raffinati rilievi di entrambi vengono attribuiti ai da Maiano, e la Vergine col Bambino in particolare a Benedetto (Fig. 12). Il tondo si trova in chiesa probabilmente dall’origine, nel 1495-96 circa: da allora ha subito vari spostamenti e danni, dovuti anche ai terremoti. Resta tuttavia pienamente leggibile il modellato monumentale e delicato insieme, che sviluppa una composizione già sperimentata da Benedetto nel tondo della tomba Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze (1490 ca.). È fondata ipotesi che Michelangelo Buonarroti abbia potuto vedere il tondo nella bottega di Benedetto nel suo breve soggiorno fiorentino del 1495-96, e che ne abbia tratto ispirazione: col volto della Madonna in particoC R I STI NA AC I D I N I
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lare hanno tratti in comune quelle michelangiolesche della Pietà vaticana e della Madonna di Bruges.25 L’Assunzione di Maria di Badia di Vigesimo (Barberino) La tavola, come ha dimostrato con argomenti convincenti Roberta Bartoli,26 rivela l’intervento di due distinti autori, entrambi affermati pittori del secondo Quattrocento fiorentino a capo di fiorenti botteghe, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rosselli (Fig. 13). La Vergine assunta si libra sul sarcofago sorretta dagli angeli, tra i santi Benedetto e Antonio. Un’interessante innovazione iconografica riguarda l’inserimento della testa di Cristo, nella forma nota come il «Volto Santo», di forte presa devozionale, nel clipeo sul fronte del sarcofago. È ipotesi verosimile che la tavola fosse stata affidata a Domenico Ghirlandaio negli anni Novanta del Quattrocento, poiché la chiesa era retta a quel tempo dal vallombrosano Domenico di Guglielmo e il Ghirlandaio era ben noto in ambito vallombrosano, per aver dipinto a fresco la splendida cappella Sassetti nella chiesa fiorentina di Santa Trinita, affidata a quell’ordine, verso il 1485. È da credere che risalga al Ghirlandaio la limpida e gradevole invenzione, che situa l’evento miracoloso in una dimensione di garbato naturalismo, e siano stati dipinti sotto la sua diretta sorveglianza brani di virtuosistica presa sul naturale alla fiamminga, quali i libri aperti sul gradino.27 La tavola, condotta nella bottega ghirlandaiesca, sarebbe rimasta incompiuta alla morte del maestro nel 1494, e l’avrebbe completata nel primo lustro del XVI secolo Cosimo Rosselli, titolare a sua volta di un nutrito gruppo di collaboratori. I due maestri avevano lavorato insieme a Roma negli anni 1480-82 per la dipintura delle pareti della cappella Sistina in Vaticano, e le loro maniere artistiche potevano ben risultare compatibili.
13. Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Assunzione di Maria, 1490-1500. Barberino di Mugello, badia di Vigesimo.
La Crocifissione già in Sant’Andrea a Camoggiano Proveniente dalla chiesa di Sant’Andrea a Camoggiano presso la Cavallina (Barberino di Mugello), la bella pala d’altare con il Crocifisso tra i santi Pietro, Sebastiano, Andrea, Zanobi e Maria Maddalena e col canonico Pandolfo Cattani si trova oggi nella pieve di San Silvestro a Barberino. (Fig. 14) Il dipinto fu ritirato oltre un secolo fa dalla sede originaria, quando (nel 1906) un furto compiuto nella chiesa, isolata nella campagna, fece temere per le opere d’arte in essa conservate, ed ebbe varie collocazioni nei sessant’anni seguenti: il Museo di S U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
14. Bartolomeo di Giovanni, Crocifissione e santi Pietro, Sebastiano, Andrea e Zanobi, 1500 ca. Barberino di Mugello, pieve di San Silvestro a Barberino.
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15. Benedetto Buglioni, fonte battesimale, primi del XVI secolo. Vicchio, Museo d’Arte Sacra e religiosità popolare Beato Angelico.
San Marco, la Galleria degli Uffizi, la Galleria dell’Accademia. L’alluvione del 1966 lo trovò, in attesa di restauro, presso il Gabinetto restauri della Soprintendenza per i beni artistici, al pian terreno del complesso degli Uffizi, dove l’acqua raggiunse un metro di altezza. «Il dipinto che già presentava problemi conservativi venne così gravemente danneggiato e solo un intervento di ‘salvataggio’ operato dal restauratore Leonardo Passeri dell’Opificio delle Pietre Dure con l’aiuto di un gruppo di volontari polacchi permise di conservare la preziosa pellicola pittorica dell’antica opera di Camoggiano».28 Il restauro, che ebbe luogo con molte difficoltà a più di trent’anni dall’alluvione, rivelò il dipinto in condizioni di sorprendente pienezza e freschezza, permettendo di tornare ad apprezzare la complessa composizione e l’intensa cromia di Bartolomeo di Giovanni, seguace e in alcune occasioni socio di Domenico Ghirlandaio, e inoltre aperto alle suggestioni di Filippino Lippi. La pala non è un isolato e occasionale abbellimento, ma rappresenta il fulcro d’una impegnativa opera di mecenatismo da parte di Pandolfo Cattani, priore di Sant’Andrea dal 1496 al 1528, che era canonico della cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. La chiesa e la canonica furono ristrutturate in stile michelozziano per sua iniziativa, e ornate di pitture murali di Bartolomeo di Giovanni o di un suo diretto collaboratore.29 Per la chiesa, oltre alla pala d’altare, il Cattani commissionò a Bartolomeo anche un Compianto sul Cristo morto (oggi nell’Art Gallery of Ontario a Toronto), dove pure ricorre il ritratto di lui inginocchiato sotto la protezione di Sant’Andrea. Anche il bel fonte battesimale in terracotta invetriata (oggi nel museo di Vicchio) risale alla committenza del priore nel primo XVI secolo (Fig. 15). Il Maestro di Marradi in Santa Reparata al Borgo
16. Maestro di Marradi, Madonna col Bambino e i santi Benedetto, Reparata, Giovanni Gualberto e Bernardo degli Uberti, 1498 ca. Marradi, badia di Santa Reparata al Borgo.
La personalità artistica del Maestro di Marradi fu individuata appunto attorno alla tavola raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Benedetto, Reparata, Giovanni Gualberto e Bernardo degli Uberti nella badia vallombrosana di Santa Reparata al Borgo presso Marradi30 (Fig. 16). Nella medesima badia si conserva del Maestro il Paliotto con Santa Reparata, tavola dipinta a mo’ di paliotto in stoffe preziose con l’immagine della santa eponima al centro, entro una ghirlanda d’alloro: esempio di suppellettile chiesastica assai prossimo alla serie dei paliotti dipinti nella chiesa di Santo Spirito a Firenze. Una terza testimonianza di questo pittore è il San Giovanni Gualberto, arcaica immagine frontale in trono tra due angeli. Le opere risalgono al 1498 e furono commissionate dall’abate Taddeo Adimari, C R I STI NA AC I D I N I
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nobile fiorentino di profonda cultura che era stato ‘esiliato’ nella lontana Marradi per aver contrastato Lorenzo de’ Medici.31 Il Maestro di Marradi era con ogni probabilità un artista fiorentino, informato delle tendenze coeve nella pittura – numerosi sono infatti, nelle opere che gli si attribuiscono, gli imprestiti da Filippo Lippi, Sandro Botticelli, Gherardo e Monte di Giovanni – ma legato ad antefatti artistici tardogotici ed esperto di una decorazione calligrafica e preziosa, con largo uso di oro, praticata in botteghe artigianali come quelle dei «forzierinai». La Madonna col Bambino e Santi nella chiesa di Sant’Andrea a Doccia (Pontassieve) La composizione, ambientata in un’ariosa loggia che protegge un trono monumentale, mostra al centro la Madonna col Bambino e sant’Anna nell’iconografia della «Metterza», contrazione di «messa per terza»: ai lati in piedi sono i santi Giovanni Battista e Filippo apostolo (Fig. 17). Datato 1503, il dipinto presenta il disegno fermo e il colorito denso, basato su contrasti ricorrenti quali rosso-verde, che individuano un pittore di non eccelsa levatura vicino all’insegnamento dei Ghirlandaio, al quale viene dato il nome convenzionale di Maestro del Tondo Borghese. Il tratto più originale è la gioiosa vivacità del Bambino. La «pace» col Cristo in pietà, illusionisticamente dipinta ai piedi del trono, rivela espedienti ottici importati dalla pittura fiamminga, assai diffusa e apprezzata a Firenze nel corso del XV secolo.
17. Maestro del Tondo Borghese (attr.), Madonna col Bambino e santi, 1503. Pontassieve, chiesa di Sant’Andrea a Doccia.
La Madonna col Bambino e Santi nella chiesa di Santa Maria in Acone (Pontassieve) La tavola è dedicata al tema della sacra conversazione, con la Madonna in trono col Bambino in braccio e ai lati san Giovanni Battista e san Matteo in piedi, sant’Antonio Abate in ginocchio; san Pietro e san Jacopo in piedi, santo Stefano in ginocchio (Fig. 18). Nel generico riferimento a collaboratori dei Ghirlandaio all’aprirsi del XVI secolo, si può individuare un’eco dei modi pittorici ultimi di Bartolomeo di Giovanni, attivo in Mugello. Sculture invetriate Un’arte tra le più capillarmente diffuse nel territorio fiorentino, e dunque rappresentata anche in Mugello, è quella della terracotta invetriata al modo dei Della Robbia. Targhe e armi dal XV al XVII secolo testimoniano il passaggio dei podestà sulla facciata del palazzo pretorio a Borgo San Lorenzo, così come la successione dei vicari nel palazzo di Scarperia. Tra questi ultimi sono attribuiti a Benedetto Buglioni gli stemmi di Bernardo Lucalberti, 1490, e di Antonio Lorini, 1491; a Santi Buglioni quelli di Francesco da Casavecchia, 1528, e di Gianfranco Baroncelli, 1537. Solo per portare esempi significativi di vari maestri e varie tipologie, si elencano alcuni manufatti ancora visibili nel territorio. Nella pieve di Sant’Elena a Rincine, presso Londa, una composizione di bassorilievo invetriato con Madonna col Bambino e quattro santi S U L L E T R A C C E D E L L’A RT E R I N A S C I M E N TA L E I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E
18. Bartolomeo di Giovanni (maniera di), Madonna col Bambino e santi, primi anni del XVI secolo. Pontassieve, chiesa di Santa Maria in Acone.
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46 19. Bottega di Benedetto Buglioni, Madonna col Bambino tra i santi Andrea, Michele Arcangelo, Stefano e Francesco d’Assisi, 1504. Dicomano, chiesa di Sant’Antonio Abate.
è ricondotta alla bottega di Benedetto Buglioni, sul finire del Quattrocento.32 Alla stessa bottega si attribuisce la tavola d’altare raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Andrea, Michele Arcangelo, Stefano e Francesco d’Assisi, con due angeli volanti, in Sant’Antonio Abate a Dicomano (Fig. 19), già in Sant’Andrea a Tizzano, chiesa soppressa. L’opera, che reca una lunga iscrizione e la data 1504, fu commissionata da Francesco Volpini, rettore del piviere di San Bavello. Un’altra pala d’altare raffigurante la Madonna col Bambino, due angeli e i santi Francesco e Bartolomeo, riferita all’estrema attività di Andrea della Robbia (1520 ca.), era nell’oratorio di Santa Maria del Carmine a Fossi presso Pelago.33 Un tabernacolo eucaristico attribuito a Giovanni, commissionato nel 1528 da Giovan Battista Risaliti, è in San Quirico a Uliveta presso Vicchio.34 Al priorato di Pandolfo Cattani (1505) risale il già ricordato fonte battesimale a pianta esagonale già nella chiesa di Sant’Andrea a Camoggiano, interamente invetriato a monocromo, istoriato con Scene dalla vita eremitica del Battista, secondo un’iconografia in parte estranea alla narrazione evangelica e desunta forse da un diffuso testo di Feo Belcari e Tommasi Benci35 (crf. Fig. 15). Alla committenza dei Medici si deve il fonte esagonale istoriato con Scene della vita del Battista in San Piero a Sieve, in terracotta invetriata bianca con lumeggiature in giallo: si tratta di una replica, eseguita a calco, del fonte di Giovanni della Robbia nella pieve di San Giovanni Battista a Galatrona, voluto da Leonardo Buonafede nel 1510 e ultimato nel 1521.36 Un Incontro di Maria e san Giuseppe entro corposa ghirlanda, dato a Santi Buglioni,37 è in Santa Maria a Dicomano. Una sorte terribile toccò a un altare invetriato dell’ambito di Giovanni della Robbia, databile nel secondo decennio del XVI secolo, che nel 1909 fu trafugato dalla chiesa dei Santi Stefano e Lorenzo a Pescina presso Vaglia: raffigurava la Natività fra i santi titolari.38 Il San Sebastiano di Baccio d’Agnolo nell’abbazia di San Godenzo Senz’altro la più importante scultura del comprensorio territoriale, il San Sebastiano in legno di tiglio policromo databile al 1506 rappresenta la feconda stagione della scultura fiorentina in cui accanto ai grandissimi (si pensi a Michelangelo, che aveva ultimato il David e scolpiva, tra gli altri suoi marmi, il San Matteo), operavano valenti artefici in grado di soddisfare ogni aspettativa nel campo dell’arte sacra, con destinazione tanto pubblica quanto privata. Baccio d’Agnolo, architetto ma anche, ben sappiamo, attivissimo nella scultura lignea con uno ‘specialismo’ in crocifissi, toccò in questo San Sebastiano (Fig. 20), scolpiC R I STI NA AC I D I N I
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to a istanza dei padri serviti un vertice nella sua carriera, al quale fu conferito il meritato apprezzamento critico nella mostra medicea Il primato del Disegno (1980), seguita dal lungo restauro (1980-87).39 Il santo, dalla figura armoniosa e scattante legata a un albero e colpita dalle frecce dei carnefici, volge lo sguardo verso Dio con sereno coraggio, da autentico ‘atleta’ della fede cristiana che è pronto a testimoniare col martirio. Conclusione Il tracciato dell’arte rinascimentale nell’area del Mugello toccò uno dei suoi picchi più elevati con la presenza, già ricordata, di Andrea del Sarto a Luco, ma non va sottaciuta la tavola con la Madonna della Cintola con i santi Jacopo e Sebastiano nell’oratorio dell’Assunta alla Cavallina presso Barberino, autorevolmente accostata ai dipinti di Jacopo Pontormo attorno al 1525.40 Nei decenni successivi non mancarono in questi territori gli apporti di artisti di fama, tra i quali merita ricordare Carlo Portelli, Mirabello Cavalori, Alessandro Allori, Alessandro Fei detto del Barbiere, Santi di Tito, esponenti di una pittura dalla preziosa lega raffinata nello studiolo di Francesco I negli anni Settanta, i cui bagliori riverberano anche nelle pacate composizioni d’arte sacra diffuse nel territorio nel decennio successivo. Alcuni quadri nello stile dell’Empoli e del Cigoli, e tele di Matteo Rosselli e di Francesco Curradi completano il passaggio dalla pittura elegante della tarda Maniera a quella del Seicento «riformato», nel segno di un’espressione figurativa piana e devota. Occorre però convenire che il massimo splendore dell’arte rinascimentale in Mugello e Val di Sieve si era toccato – a un conteggio approssimativo – nel secolo fra il 1430 e il 1530, non a caso quando era ancor vivo nei Medici l’interesse per la terra delle origini, vere o presunte, e le famiglie maggiori della zona gareggiavano con loro in committenza artistica. A questa riflessione l’itinerario offre un significativo sostegno in termini di opere e luoghi valorizzati, contribuendo, come già quelli delle passate edizioni, a mettere a fuoco il ruolo identitario del patrimonio artistico nel confronti dei centri e territori che ne sono lo scenario e la custodia.
NOTE 1 VASARI ed. 1966-1987, vol. II, 1967, pp. 96-97. La storia, con poche varianti, era comparsa anche nella Torrentiniana. 2 DANTE ALIGHIERI, Commedia: Purgatorio, XI, vv. 94-96. 3 B ELLOSI 1985. 4 Il frammento esistente, un busto di Madonna con le manine del Bambino, fu scoperto sotto un
dipinto più recente e restaurato nei laboratori della Fortezza da Basso dell’Opificio delle pietre dure nel 1982-84. Cfr. Capolavori e restauri 1986, sez. V, n. 3. Il frammento si trova nella pieve di San Lorenzo a Borgo San Lorenzo. 5 Si veda Giotto. Bilancio critico 2000, scheda n. 2, pp. 101-103. 6 Il ritorno di Andrea del Castagno 2004. 7 Si veda S IMARI, DEL GOBBO 2006. 8 VASARI ed. 1966-1987, vol. IV, 1976, pp. 375-77.
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20. Baccio d’Agnolo, San Sebastiano, 1506 ca. San Godenzo, Abbazia Benedettina.
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P INELLI 1994. Si vedano il fonte battesimale della pieve di Santa Felicita a Faltona (1157); l’ambone e l’Evangelista Marco col leone (1175) nella pieve di Sant’Agata a Sant’Agata; il pulpito di San Giovanni Maggiore a Borgo San Lorenzo; il pulpito e il fonte battesimale di Santa Maria a Fagna (Scarperia); la decorazione dell’altar maggiore nella badia di San Godenzo. 11 CANTINI, G IORGETTI 1995. 12 I tabernacoli del Mugello 1999. 13 «Il Bosco a’ Frati rovinato il Convento, e due trave cadute, e rattenute in su le braccia a un Crocifisso». Così l’autore della «Nota d’un Tremoto venuto nel Mugello sotto il dì 12 di giugno lo anno 1542, e le rovine da quello fatte», Archivio di Stato di Firenze [ASFi], Carte strozziane, 1, 353, c. 104, in B ELLANDI, RHODES 1987, p. 53. 14 Firenze restaura 1972, sala XVI, p. 50. Capolavori di scultura fiorentina 1986. 15 Paolo Schiavo (Firenze 1397-Pisa 1478) fu pittore, miniatore e fornitore di disegni per ricami. Formatosi nell’ambiente camaldolese dominato dall’opera di Lorenzo Monaco, secondo il Vasari fu a bottega presso Masolino da Panicale, influenzato dalla pittura di Masaccio e successivamente di Domenico Veneziano. 16 Cfr. ACIDINI LUCHINAT 1990, p. 42. 17 La cappellina rurale, con la pittura murale all’interno, fu donata al Comune di Vicchio dai proprietari Rosselli del Turco negli anni Ottanta del Novecento. L’allora Soprintendenza per i Beni ambientali e architettonici di Firenze ne curò il restauro completo, inaugurato nel giugno 1988. 18 B ECATTINI. G RANCHI 1985. 19 B RUNORI 1990, pp. 39-40. Da completare 20 Cfr. ACIDINI LUCHINAT 1990, p. 42. L’attribuzione 10
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appare accolta dall’estensore della voce sull’oratorio in Wikipedia. 21 A. DE MARCHI, Maestro di Pratovecchio, in Pittura di luce 1990, n. 27, pp. 152-153. 22 Ibidem. 23 L. BELLOSI in Pittura di luce 1990, n. 26, pp. 146-147. 24 La collega Maria Matilde Simari (direttore dei lavori) ed io, allora soprintendente vicario di Firenze, raccogliemmo pareri sostanzialmente favorevoli al rispetto dello statu quo, a eccezione del compianto Umberto Baldini che avrebbe preferito «non sacrificare la Storia alla Cronaca». 25 Si vedano l’esauriente scheda di D. Carl in Giovinezza di Michelangelo 1999, pp. 280-282, e CARL 2006. 26 BARTOLI 1994. 27 Il dipinto non è citato nella più recente e completa monografia di J. Cadogan (CADOGAN 2000). 28 S IMARI 1998. 29 C. ACIDINI LUCHINAT, 1988, pp. 49-70. 30 Z ERI 1963. 31 Si veda C. F ILIPPINI in Maestri e botteghe 1992, specialmente alle pp. 187-189, 197-198. 32 G ENTILINI 1992, II, p. 400. 33 Ivi, p. 266. 34 Ivi, p. 325. 35 Ivi, p. 444. Il fonte fu restaurato dall’Opificio delle pietre dure di Firenze; si trova ora nel Museo Beato Angelico a Vicchio. 36 Ivi, pp. 283-284. 37 Ivi, p. 441. 38 Ivi, p. 287. Alcuni pezzi recuperati sono in San Pietro a Vaglia e in Santa Maria a Paterno. 39 Cfr. Abbazia di San Godenzo 1987. 40 NATALI 1983.
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In mugello e val di sieve: le stagioni dell’architettura dal medioevo al novecento
«Io so dove fiorisce l’asfodelo. Là, nel chiaro Mugello, presso il Giogo di Scarperia, lo vidi fiorir bianco» (Gabriele d’Annunzio, Alcyone, L’asfodelo, vv. 12-15)
I. I L M UGELLO Il buen retiro del mondo fiorentino delle idee
GABRIELE MOROLLI
rofondissimo è il legame storico-geografico tra la ‘dominante’ Firenze e la verde conca mugellana, àmbito appartato e familiare ove le ardue ‘idee’ sull’arte che da sempre hanno perturbato i cieli metafisici della città del fiore, prima vorticando in assoluti spaziali formidabili, quasi impossibili attorno alla glaciale piramide marmorea del bel San Giovanni o all’immane, fulvo padiglione brunelleschiano di Santa Maria del Fiore, calando poi di forza in avvitamenti sempre più blandi tra le cupole e i campanili della città barocca, hanno finito per trasvolare, verso settentrione, al di là del monte Morello e del monte Giovi, perdendo per così dire ancor più di quell’originaria ferocia razionalistica, di quell’aurorale accanimento geometrico, metafisico scendendo, alfine, a più quieti, più terragni consigli nel seno appunto protettivo della nostra subappenninica valle. In effetti, nella vasta e riparata, ondulante pianura ogni fenomeno formale mantiene sì lo smalto dell’intelligenza della vicina metropoli, assumendo però toni e caratteristiche più quotidianamente miti, propri di un pacificato contado; per poi quasi esaurirsi, ancora più a settentrione, al di là dei gioghi appenninici della Futa e dell’Alpe di San Benedetto, coagulandosi solo nell’avamposto, spaesato, della «Florentìola» trecentesca, dove «si parla tosco in Terra di Romagna» e dove la memoria dei maternali rigori fiorentini come si annichilisce nella miniaturizzata griglia ortogonale di questa «terra nuova» montana, spesso sepolta dalle nevi e quasi sempre battuta dai venti aquilonari. Le strade di comunicazione con il nord, sopra tutto con Bologna (attraverso il passo dell’Osteria Bruciata prima, poi di quello
Università degli Studi di Firenze. Facoltà di Architettura
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1. La cartina illustra l’estensione dei domini della potente consorteria degli Ubaldini, insieme a quelli degli Alberti e dei Guidi: sono indicati i principali castelli nel contado a settentrione di Firenze fra il Duecento e il Trecento (in particolare, il castello di Montaccianico, distrutto dai fiorentini) e la viabilità del tempo.
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2. Panoramica di Firenzuola, «terra nuova» costruita dai fiorentini attorno alla metà del Trecento, dopo Scarperia e Vicchio, per il controllo del territorio mugellano.
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3. Borgo San Lorenzo: la porta Fiorentina, detta anche porta di Malacoda, una delle due superstiti della cerchia eretta nel 1351 dai fiorentini a difesa del centro mugellano.
4. Il fonte battesimale in marmo della pieve di Sant’Agata, ricomposto con le formelle intagliate e intarsiate appartenenti ad un originario pergamo a cassa.
della Futa e, infine, del passo del Giogo nonché della ‘romagnola’ Colla di Casaglia) garantivano un alto interesse strategico non solo alla pianura, ma anche ai gioghi appunto delle cosiddette «Alpes Ubaldinorum», dominate sino dall’Alto Medioevo da una fitta rete di castelli, la più parte dei quali oggi scomparsi, posseduti dagli innumerevoli rami di quella feroce casata feudale (che controllava tra l’altro anche il borgo murato di Galliano, sorto a guardia meridionale dell’antichissima strada di valico dell’Osteria Bruciata, sorvegliata dal leggendario Castel Guerrino) (Fig. 1); casata contro cui il Comune di Firenze avrebbe precocemente ingaggiato una lotta senza quartiere per il predominio territoriale, culminata con la costruzione delle «terre nuove» di Scarperia (all’inizio del Trecento) e di Firenzuola (sulla metà del medesimo secolo), nonché della più piccola Vicchio (con cinta pentagonale del 1325), destinate a calamitare le forze nuove, appunto, antifeudali della borghesia terriera e mercantile sia locale sia urbana (Fig. 2). In effetti questo pingue ed appartato contado si presenta sia come la culla di numerose consorterie di ottimati precocemente inurbati (si pensi ai Medici ed alle loro fortune bancarie e poi politiche), sia come un territorio in cui le grandi famiglie fiorentine avrebbero nei secoli riconvertito le proprie ricchezze manifatturiere in vastissimi possedimenti terrieri (emblematico, una volta di più, il caso dei Medici e delle loro proprietà mugellane ‘di ritorno’). Ed a questo carattere agricolo e mercantile ad un tempo corrispondono in pieno gli altri centri mugellani, dall’occidentale Barberino al baricentrico San Piero a Sieve all’orientale Borgo San Lorenzo: insediamenti urbanisticamente liberi dalla vincolante geometria militare delle «terre nuove» e disposti più organicamente intorno alle vie di traffico e agli antichi mercatali (Borgo San Lorenzo venne, comunque, fortificato dal Comune di Firenze sin dal 1351 con mura, torri e quattro grandi porte, delle quali due ancora esistenti; Fig. 3). Non meraviglia, quindi, se tanto il «mantello di San Benedetto» quanto la «rete di Pietro», quella doppia testura dell’architettura religiosa medioevale (così definita con calzante e bella metafora da Anna Benvenuti) costituita sia dall’ordito degli insediamenti GAB RI E LE M OROLLI
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7. (In alto) La pieve di San Giovanni in Petroio, presso Barberino di Mugello, testimonianza anch’essa di un romanico più evoluto: il portico è un’aggiunta moderna. 8. (A lato) La pieve di San Giovanni Decollato a Cornacchiaia, ‘gemella’ della pieve di Sant’Agata, sull’antica strada transappenninica del valico dell’Osteria Bruciata.
9. L’imponente pieve di San Gavino Adimari, nei pressi di Barberino di Mugello: tra le più grandi del territorio, controllava le chiese di Barberino e Mangona. L’interno è stato radicalmente trasformato nel Settecento (vedi fig. 29).
sviluppate (non solo pilastri, ma anche colonne cilindriche tra le navate, capitelli classicheggianti privi di figurazioni, campanile poligonale di probabile derivazione ravennate anche se cronologicamente assai tardo; Fig. 6), secondo quel romanico più ‘evoluto’ (XII secolo e oltre) di influsso valdarno-casentinese che si riscontra anche nella pieve di San Giovanni in Petroio, presso Barberino (pilastri-colonna, capitelli con ornati a debole rilievo costituiti da arcaizzanti nastri e volute) nell’area occidentale mugellana (Fig. 7), il cui partito basilicale era ripreso, al capo opposto di levante della pianura, dalla grande pieve di San Cassiano di Padule, presso Vicchio, distrutta dal terremoto del 1919; nonché negli analoghi ornati dei verticalistici piedritti della non lontana pieve di Sant’Agata (Fig. 23) e in quelli della sua ‘gemella’ appenninica di Cornacchiaia, presso Firenzuola e al di là del passo dell’Osteria Bruciata (Fig. 8): singolari costruzioni contraddistinte all’esterno da porte lunettate con ‘barbarici’ intagli e da astratte ‘scacchiere’ marmoree di cubetti bianchi e verdi ‘intarsiati’ sui fianchi nel filaretto a grandi e regolari conci di arenaria locale, all’interno da un’ampia spazialità ad un’unica copertura lignea a capanna scandita da altissimi pilastri cilindrici sostenenti, tramite ingegnose capriatine longitudinali, i grandi cavalletti del tetto a vista e formanti tre navate pressoché di eguale altezza, terminate da scarselle quadrilatere. Una tipologia forse comune anche alla egualmente appenninica pieve di San Gavino Adimari, presso Barberino, poi profondamente trasformata in età barocca (Fig. 9). A questo filone ‘monumentale’ e lombardeggiante si affianca poi una maniera più semplice e ‘autoctona’, che si può leggere nelle semplificate stereometrie della pieve di San Pietro a San Piero a Sieve GAB RI E LE M OROLLI
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(tre navate su rozzi pilastri), realizzata in piccole bozze di pietra; o nella pieve di San Cresci in Valcava presso Borgo San Lorenzo (poi trasformata), ove le tre navate erano spartite da due soli, amplissimi arconi, l’abside era una sola e la base del campanile risultava inglobata nell’inizio della navata laterale di sinistra (Fig. 10). E qui vanno ricordate anche la pieve di San Martino a Viminiccio (oggi a Scopeto) presso Vicchio, sempre a tre navate; o quelle più modeste, a navata unica, di Santa Reparata a Pimonte e di San Martino a Montecuccoli, nei pressi di Barberino. L’architettura monastica appare intestata essenzialmente ai Benedettini, presenti come congregazione vallombrosana sin dal tardo XI secolo negli insediamenti di San Paolo a Razzuolo, presso Borgo San Lorenzo, originariamente con la caratteristica chiesa a croce latina con un’unica navata absidata tagliata da un corto transetto, delle appenniniche abbazie di San Pietro a Moscheta (Fig. 11), presso Firenzuola (poi trasformata nel XIV secolo) e di Santa Maria Assunta a Susinana, presso Palazzuolo sul Senio (anch’essa assai rimaneggiata); o della Santa Maria di Vigesimo presso Barberino di Mugello, della prima metà del XII secolo (poi trasformata in epoca barocca). Anche i Camaldolesi sono presenti nell’importante monastero femminile di Luco di Mugello, con semplice chiesa a un’unica navata dell’inizio del XIII secolo e con il corpo del convento magnificamente ampliato nel XV secolo; mentre genericamente benedettina fu l’abbazia di Santa Maria a Bovino presso Vicchio, documentata già nell’XI secolo. Il territorio mugellano, assai abitato, fu ricco anche di chiese suffraganee (dipendenti, cioè, da una grande pieve), modeste costruzioni sempre in filaretto e, in genere, strutturate ad un’unica navata absidata, coperte a semplici capriate e dotate di campanile, come nei casi emblematici di Santa Maria di Montefloscoli presso Borgo San Lorenzo, di Santa Maria e Niccolò a Spugnole presso San Piero a Sieve, di Santa Maria a Fabbrica e di San Niccolò a Torricella presso Vicchio, di San Niccolò a Vigneto presso Barberino. A queste vanno aggiunte poi fabbriche ormai pressoché ruderizzate, quali Santa Maria a Monti presso Borgo San Lorenzo, San Pier Maggiore (o Primaggiore) presso Vicchio, o modesti edifici sempre medioevali e poi trasformati, quali Santa Maria a Soli presso Barberino o Santa Maria a Vezzano presso Vicchio. A fronte di questa imponente edificazione romanica, modesta è la presenza di I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
10. La pieve di San Cresci in Valcava, anch’essa estesamente rimaneggiata nel Settecento, testimone nel suo assetto originario di una maniera archiettonica romanica semplice e autoctona.
11. La corte dell’abbazia vallombrosana di San Pietro a Moscheta, fondata nel 1034 da san Giovanni Gualberto.
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12. La chiesa di San Bonaventura nel convento di Bosco ai Frati, fondato agli inizi del Duecento e trasformato poi nel Quattrocento.
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13. Veduta aerea della «terra nuova» di Scarperia: sulla piazza affacciano il trecentesco Palazzo dei Vicari con l’alta torre, l’oratorio della Madonna di Piazza, anch’esso fondato nel XIV secolo, l’oratorio della Santissima Trinità, ex-parrocchiale suffraganea della pieve di Fagna e la prepositura dei Santi Jacopo e Filippo.
costruzioni improntate al nuovo linguaggio gotico proveniente d’Oltralpe. Lo scarso numero degli abitanti dei centri mugellani non sembra in effetti avere favorito (e/o reclamato) l’insediamento dei nuovi ordini mendicanti, impegnati essenzialmente nei grandi agglomerati urbani e portatori delle nuove, più agili e funzionali forme edificatorie ogivali. I francescani sono, comunque, presenti sin dalla prima ora, all’inizio del XIII secolo, col romitorio di Bosco ai Frati (poi trasformato nel XV secolo; Fig. 12), che vantava una presenza dello stesso Francesco, il quale si sarebbe recato anche a Borgo San Lorenzo per l’istituzione del Convento cittadino, sistemato nell’area di una precedente chiesetta dedicata a Sant’Andrea: un complesso che presto divenne monumentale e che ancora vanta l’ampia fabbrica di San Francesco, a navata unica, illuminata da verticalistiche bifore gotiche e coronata da un’abside quadrata coperta da volta a crociera su costoloni, nonché il prospetto dell’antica sala capitolare caratterizzato dalle tre aperture archiacute della porta centrale e da due bifore in pietra serena. Alla ‘periferia’ meridionale del Mugello, nel 1234, sorgeva poi il convento di Monte Senario, fondato dal neonato ordine dei Servi di Maria e destinato a crescere nei secoli con ampliamenti monumentali. All’ambito dell’architettura civile sempre di matrice gotica sono poi da ricondurre i grandi episodi urbanistici delle due «terre nuove» di Scarperia e di Firenzuola che, nella prima metà del XIV secolo, la Repubblica fiorentina volle rispettivamente al centro del Mugello e nel cuore delle montagne appenniniche, onde consolidare il proprio primato economico e politico contro il potere di matrice feudale delle varie consorterie degli Ubaldini. In Scarperia, fondata nel 1306, si segnalano innanzi tutto il trecentesco Palazzo dei Vicari (assai restaurato nel secolo appena decorso), dalla verticalistica fronte merlata coronata dalla svelta torre ‘arnolfiana’ imbeccatellata e dall’allungato corpo di fabbrica occidentale collegante la piazza centrale della cittadina al circuito murario (innumerevoli gli stemmi in pietra e in terracotta invetriata dei vicari fiorentini tra il XIV e il XVI secolo sia sulla facciata che nel profondo cortile; Fig. 13); poi l’oratorio della Madonna di Piazza, fondato nel 1325 e rinnovato alla fine del XV secolo, al cui interno si conserva comunque un’elaborata edicola lapidea gotica; l’attuale oratorio della Santissima Trinità, sempre sulla piazza cenGAB RI E LE M OROLLI
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trale, antica parrocchiale della «terra nuova» (suffraganea della pieve di Fagna), costituita da una grande aula unica con portale a sesto acuto e fronte cuspidato, secondo la tipologia caratteristica della cosiddetta architettura mendicante. Egualmente improntato alle forme gotiche era anche il convento agostiniano, fondato nel 1326 e prospettante anch’esso sulla stessa piazza centrale della cittadina, con la chiesa (poi divenuta prepositura dei Santi Jacopo e Filippo dopo la soppressione francese) ad unica navata, profondamente rinnovata in forme neomedioevali sia nel 1870 sia nel 1930 (ricca all’interno di opere del primo Rinascimento: Benedetto da Maiano, Domenico Rosselli, Jacopo Sansovino) e fiancheggiata da un piccolo chiostro. A Firenzuola, fondata nel 1332, distrutta dagli Ubaldini nel 1342 e nel 1351 e rinnovata stabilmente dal 1360, un analogo reticolo di vie ortogonali si apre al centro in un’allungatissima piazza, sulla quale prospettano sia la prepositura di San Giovanni Battista, trecentesca ed in origine circondata da portici (distrutta, al pari dell’intera cittadina, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale e ricostruita su disegno di Carlo Scarpa dal fiorentino Edoardo Detti attorno al 1960) e la Rocca, turrita e merlata (anch’essa ricostruita alla metà del Novecento; Fig. 14), il tutto circondato da mura che vennero rinnovate alla fine del Quattrocento per volere di Lorenzo il Magnifico probabilmente da Antonio da Sangallo il Vecchio, che vi avrebbe sperimentato un moderno sistema di piccoli, ma efficienti bastioni angolari e di cortine scarpate (ancora in parte in buono stato di conservazione). Pochissime, invece, le chiese rurali trecentesche, quali San Romolo a Campestri presso Vicchio, del tardo XIV secolo e la contigua San Martino a Vespignano, con scarsella voltata a crociera, ma molto rimaneggiata. Da segnalare, infine, l’antico ponte fuori San Piero a Sieve, realizzato in pietra sin dal 1372 (e più volte rifatto) collegante il mercatale alla «terra nuova» di Scarperia e ai valichi appenninici. Primo Rinascimento: la valle della «dolce prospettiva» Non v’è dubbio che Giotto accompagnasse, al di là del tempo, con la sua mano certa, l’abile pennello del conterraneo frate Giovanni detto l’Angelico quando, assai più dei primigeni sommovimenti orogenetici che avevano portato all’accidentale definizione della conca mugellana, dette opera, misticamente, alla descriptio atque delineatio pittorica (e ancor prima mentale) di questo lisiano «paese dell’anima». Nessuna altra terra ondeggia, in effetti, così variata e al contempo si chiude in un tale razionale circuito, come «il chiaro Mugello» ove Gabriele d’Annunzio ben sapeva «fiorir bianco» il proserpineo (paradisiaco e ctonio ad un tempo) asfodelo, dal poeta fermato nelle sue carte per averlo con sospeso stupore incontrato, su di un panoramico terrazzo naturale vertiginosamente affacciato verso la sottostante valle, lungo la carrozzabile «presso il Giogo di Scarperia». E l’impeccabile geometria riscoperta dal pastorello di Vespignano, addolcita dal naturalismo araldico del pittore domenicano detto poi da Fiesole, oltre che alla base delI N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
14. La Rocca di Firenzuola, edificata nel 1371, ricostruita verso la metà del Novecento, domina la piazza ove affaccia anche la prepositura di San Giovanni Battista, anch’essa ricostruita dopo le massicce distruzioni del secondo conflitto mondiale.
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15. L’interno della chiesa di San Bonaventura nel convento michelozziano di Bosco ai Frati: nell’edificio i segni del primo umanesimo architettonico traspaiono sotto un semplificato linguaggio gotico.
16. Il loggiato di levante del convento di Bosco ai Frati: anche le sue colonne-pilastro palesano un’attitudine francescanamente minimalista.
l’indicibile, ritrosa dolcezza di questa ondulante pianura di colline tenute a bada dai monti, appare anche la quintessenziata materia in cui furono plasmati i precocissimi segni che l’architettura del primissimo Umanesimo lasciò su questo territorio, edenico e georgico: dal michelozziano complesso di Bosco ai Frati, ove la chiesa, nelle taglienti costole delle crociere, nelle rusticane cornici di irsute gronde laterizie, nelle membrature classicistiche ‘camuffate’ ancora alla medioevale, sembra volere mantenere ‘timorata’ memoria di un gotico campestre (Fig. 15) certo caro anche a Giovanni de’Medici, colui che acquisì il patronato del convento dagli un tempo feroci Ubaldini e che fu padre di quel Cosimo il quale volle, poi, essere il generoso committente del rinnovato cenobio, così vicino alla sua turrita, curtense residenza di caccia del Trebbio; penitenziale, miniaturizzata chiesa a sua volta rispecchiantesi nel minimalismo una volta di più angelichiano del piccolo chiostro (scomparso), nei limpidi e spogli cubi voltati a padiglione della Sagrestia e del Capitolo, nel francescano loggiato di levante (Fig. 16) che, per quanto timidamente all’antica, si perde nelle viottole degli orti e dei campi, realtà agricola certo ben più forte della oggi vaporata biblioteca umanistica e delle ombre di papi letterati quali Eugenio IV o Pio II, giunti sin qui in frettolose visite nel 1436 e nel 1458. Una gentile continuità fra gotico e Rinascimento, fra rinascente cultura classicistica urbana e millenaria, armoniosa civiltà agreste che è precipitata, egualmente, nella cappella anch’essa michelozziana del sempre mediceo Castello del Trebbio (Fig. 17); che permeava di sé il monumentale tabernacolo di Croce di Via presso San Piero a Sieve, ove un’ardita orditura lignea intagliata e aggettante come una miracolosa carpenteria di tempio etrusco vitruviano (oggi crudamente rinnovata) ha coperto per oltre mezzo millennio affreschi una volta di più medicei di Paolo Schiavo; per sciogliersi poi nelle tante, schive grazie, fatte di colonnette e portali in pietra serena sposati con semplicissime volumetrie ad intonaco di calce, seminascoste tra il verde, come nel San Giovanni Battista di Senni presso Fagna o nell’edicola trabeata ‘michelozziana’ ora all’interno della Santa Maria a Olmi. Proprio in questi ‘ruggenti’ primi decenni del Quattrocento si assiste, poi, alla nascita di due capisaldi dell’architettura ‘di villa’ generati da quell’Umanesimo aurorale che, proprio come nel convento francescano di Bosco ai Frati, esprimeva la sua ferma aspirazione alla regolarità geometrica e all’armonia delle volumetrie senza tuttavia ancora per così dire dovere (o volere) ricorrere alle citazioni dall’Antico: si pensa al già ricordato castello del Trebbio, voluto da Giovanni di Bicci padre di GAB RI E LE M OROLLI
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Cosimo attorno al 1420 ed affidato per la realizzazione a Michelozzo (Fig. 18); e si pensa alla grandiosa villa di Cafaggiolo, un vero e proprio «abituro atto a fortezza» che Averardo di Francesco de’Medici, cugino di Cosimo (appartenente quindi a un altro ramo della grande famiglia di origine mugellana) fece realizzare, sempre da Michelozzo, attorno al 1433. Una residenza munita, quest’ultima, con cortine merlate, camminamento di ronda, due alte torri imbeccatellate (una, la maggiore, è purtroppo andata distrutta), il tutto scritto tramite magri volumi equilibrati insieme, geometricamente scanditi ‘alla moderna’, ma ancor memori nel loro accentuato verticalismo delle grazie del gotico ed ove le membrature architettoniche (pilastri ottagoni, capitelli pensili delle volte a crociera, mostre lapidee delle aperture) parlano un linguaggio assai vicino a quello di Ghiberti architetto (si pensi alla sagrestia di Santa Trìnita) o del ‘giovane’ Brunelleschi (quello delle fortificazioni di Lastra a Signa o di Malmantile, del palazzo Bardi Busini in via dei Benci, della casa di Apollonio Lapi sul Corso e, forse, del palazzo di Niccolò da Uzzano in via dei Bardi), lessico che ancora prescindeva dall’uso degli ornati classici (dei vari ionico, corinzio e composito che, di lì a un decennio, avrebbero poi egemonizzato la moda edificatoria fiorentina). Una villa (Fig. 19) che a torto è stata ritenuta frutto della committenza di Cosimo de’ Medici il quale, invece, pur amandola ed abitandovi a più riprese con la famiglia, non la aveva personalmente fatta costruire, ma la aveva ricevuta in eredità solo nel 1443, all’estinzione del ramo del cugino Averardo. Una lezione di equilibrio fra tradizione e novità, di delicata mediazione edificatoria che, come un segreto rizoma, si spinge poi verso la stessa Firenze, generando quella pieve di San Cresci a Macioli la cui riscrittura interna, tutta giocata sulle colonnate di un colto ionico voluto dal patronato dei Neroni (ancora non caduti in disgrazia presso un Cosimo sempre più potente), sembra fatta apposta per essere cornice delle callide burle del pievano Arlotto
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17. La cappellina michelozziana del castello mediceo del Trebbio sottolinea la continuità fra gotico e Rinascimento.
57 18. (In basso a sinistra) Il castello del Trebbio, eretto attorno al 1420 da Michelozzo per volere di Giovanni di Bicci de’ Medici, padre di Cosimo il Vecchio.
19. La villa medicea di Cafaggiolo in una delle lunette seicentesche dipinte da Giusto Utens e conservate nel museo di Firenze com’era: nel dipinto è visibile l’alta torre maggiore, andata distrutta. La villa, ritenuta a torto committenza di Cosimo de’ Medici, gli toccò invece in eredità all’estinguersi del ramo del cugino Averardo.
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20. La pieve di San Cresci a Macioli, presso Pratolino, rimaneggiata internamente nel Quattrocento secondo un gusto verosimilmente michelozziano.
21. L’elaborata edicola tardogotica che orna l’oratorio della Madonna di Piazza a Scarperia.
Mainardi (Fig. 20): un’architettura che piacerebbe attribuire, più che ad un ancora, in quel 1448, troppo giovane, ‘legnoso’ Giuliano da Maiano, alla bottega di Michelozzo, in allora attivissima nel cantiere del San Lorenzo appunto mediceo e in quello contiguo del nuovo palazzo magnatizio di via Larga: fabbriche che, per giunta, stringevano anche fisicamente in stretto assedio i nuovi palazzi che i Neroni allora edificavano sulla via dei Ginori (obbligati tra l’altro dalla ‘pesante’ amicizia di Cosimo ad impiegare in una porzione di facciata numerose bugne rustiche ‘avanzate’ dal cantiere del vicinissimo palazzo Medici e, quindi, plausibilmente oggetto anche dell’imposizione dell’architetto ‘mediceo’ come progettista della loro nuova chiesa ‘di campagna’). E la classicizzazione del contado per via di segni quantitativamente anche minimi, ma di elevata qualità continua nella seconda metà del secolo con numerosi interventi, quali il portico del San Giovanni di Senni, gli arredi fissi di Santo Stefano a Grezzano, il fiorito oratorio della Madonna di Piazza a Scarperia risalente agli anni Ottanta del secolo (e celante nel suo interno il più antico embrione di un’edicola lapidea tardogotica irsuta di ghimberghe, pinnacoli e colonnette tortili, quasi miniaturizzato e rusticano tabernacolo di Orsanmichele riproposto in una «terra nuova»; Fig. 21). Erano le nuove elegantiae dell’età laurenziana che ora entravano nel culto ‘giardino’ mugellano, splendenti anche nel grandioso tondo marmoreo di Benedetto da Maiano della limitrofa prepositura dei Santi Jacopo e Filippo, chiuso nel tondo lavoratissimo della cornice intagliata. E, sempre a Scarperia, si ricorda anche il cosiddetto oratorio della Madonna dei Terremoti, appena fuori della porta ‘fiorentina’, la cui struttura ottocentesca cela all’interno un limpido affresco della metà del XV secolo (si è parlato del Maestro di Pratovecchio o, addirittura, di Filippo Lippi), denunciando per la piccola fabbrica un’origine assai più alta, appunto rinascimentale. Sino al capolavoro segreto del Sant’Andrea a Camoggiano (Fig. 22), la cui armonica struttura tardoquattrocentesca (il portico di facciata presenta una rara citazione del costrutto sangallesco della serliana, l’aula unica ripropone l’andamento di un piccolo templum albertiano absidato, la canonica, detta palazzo Cattani, presenta una facciatina con finestre a mostra lapidea e un cortile-chiostro di ordine ionico) venne impreziosita dalla generosa committenza del colto canonico Pandolfo Cattani, priore per oltre un trentennio (fra il 1495 e il 1525 circa), che accumulò nei piccoli spazi della chiesa e della canonica preziose testimonianze della più aggiornata arte ‘urbana’ grazie alle opere del ghirlandaiesco Bartolomeo di Giovanni (affreschi, dipinti, una pala con predella) o di Benedetto Buglioni (fonte battesimale e statue di un «presepe» in terracotta invetriata). Quasi affabile contraltare di pianura dell’alpestre ritiro, dello sdegnoso esilio di un’altra figura di colto religioso, quel Taddeo Adimari abate della vallombrosana abbazia di Santa Reparata in Salto presso Marradi, il quale, anch’egli legato in gioventù al sofisticato neoplatonismo laurenziano, se ne allontanò ben GAB RI E LE M OROLLI
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presto (attorno al 1485) per ragioni di lotta politica, divenendo anche nelle scelte estetiche fiero oppositore appunto delle raffinatezze anticheggianti del Magnifico, favorendo con la sua committenza l’opera severa, antigraziosa, arcaizzante del cosiddetto Maestro di Marradi. Però, in questo «chiaro Mugello», non erano i consapevolmente anacronistici, verrebbe di dire savonaroliani fondi d’oro di questa isolata badia appenninica ad imporsi bensì, una volta ancora, le grazie classicistiche di un ben più maturo Rinascimento favorito dal ritorno dei Medici, sull’onda delle fortune dei pontificati di Leone X prima e poi di Clemente VII: così, nella pieve di Sant’Agata (Fig. 23), la committenza di primo Cinquecento del colto pievano Leonardo Dati (omonimo del grande protagonista del «Certame coronario» albertiano del 1441) genera il fonte lapideo o il crocifisso policromo o la tavola (con tanto di monumentale mostra architettonica) di Ridolfo del Ghirlandaio; così prende corpo ad opera di Francesco Minerbetti, attorno al 1520, il rinnovamento, dell’interno della pieve di San Giovanni Maggiore presso Borgo San Lorenzo (poi cancellato dalle trasformazioni ottocentesche), di cui ancora sussistono segni nel fonte battesimale ed in un’acquasantiera in marmo, con stemmi di Leone X; così le trasformazioni, promosse dal pievano Damiano Manti attorno al 1515 nella pieve di San Lorenzo sempre a Borgo San Lorenzo (Fig. 24), di cui rimangono una tela di Francesco Bachiacca e una scultura attribuita addirittura a Jacopo Sansovino; così la ristrutturazione, attorno al 1520 grazie al mecenatismo del vescovo di Forlì Bernardo di Lionardo de’ Medici, pievano tra il 1482 e il 1528, del San Pietro a San Piero a Sieve, ove sorge lo splendido fonte battesimale esagonale invetriato attribuito a Giovanni della Robbia (1508), cui si accompagna una moderna ridecorazione dell’adiacente canonica, di cui resta un salone con eleganti ornati lapidei degni della scuola di Baccio d’Agnolo; così, infine, i riattamenti dell’antica chiesa del Cimitero a Ronta, eretta a priorìa nel 1518. E su questa San Piero a Sieve ‘medicea’, ove si segnala ancora l’antico possesso familiare di villa Schifanoia (residenza fortificata con mura e torretta), incombe poi la grandiosa fortezza di San Martino, formidabile macchina difensiva voluta da Cosimo I nel 1569 a guardia della grande strada del nord, irregolare poligono munito di erte I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
22. Una delle esili colonne ioniche del cortile-chiostro della elegante chiesetta trardoquattrocentesca di Sant’Andrea a Camoggiano presso Barberino, impreziosita dalla committenza del colto canonico Pandolfo Cattani.
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23. L’interno romanico della pieve di Sant’Agata, abbellito nel primo Cinquecento dalla committenza del pievano Leonardo Dati.
24. L’interno dell’antichissima pieve di San Lorenzo a Borgo San Lorenzo: l’edificio, d’impianto duecentesco, fu arricchito con opere d’arte dal pievano Damiano Manti attorno al 1515.
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cortine e scarpati baluardi laterizi su disegno di Baldassarre Lanci, poi completato da Girolamo Genga e Bernardo Buontalenti (oggi di proprietà degli eredi di Piero Bargellini; Fig. 25). Altro intervento fortificatorio mediceo di poco precedente (risalente al 1562) è quello del rifacimento in chiave ‘moderna’ della cinta muraria di Scarperia, compromessa dal rovinoso terremoto del 1542 che aveva danneggiato anche gran parte degli edifici della cittadina, adesso munita di bastioni e terrapieni scarpati adatti alla guerra ‘moderna’. Tra Cinquecento e Seicento: come un dolce silenzio
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25. Un bastione in laterizio della grandiosa fortezza medicea di San Martino, sopra San Piero a Sieve, voluta da Cosimo I, eretta nel 1569 su disegno di Baldassarre Lanci e completata da Girolamo Genga e Bernardo Buontalenti.
26. La sobria facciata dell’oratorio seicentesco della Misericordia a Vicchio.
La pacifica, secolare fedeltà alla Repubblica di Firenze delle terre mugellane tanto di pianura che di montagna può essere stata alla base di una sostanziale sordità nei confronti di quelle eclatanti realizzazioni ‘moderne’ improntate alla nuova sensibilità della Controriforma e poi del primo Barocco, così amate invece dai granduchi medicei, quasi che le laboriose plebi agricole trovassero ancora sia nelle ‘maternali’ pievi medioevali, sia nelle fabbriche quattrocentesche redatte nel semplificato classicismo ‘autoctono’, i luoghi privilegiati della loro identificazione culturale, senza necessitare di più moderne e più estrinseche ‘galvanizzazioni’ della loro antica, radicata pietà. Così, di non straordinaria rilevanza appaiono i rinnovamenti di Santa Maria a Olmi, forse su committenza di Francesco I e di Bianca Cappello, poi trasformata nel XIX secolo; di San Bartolomeo a Mangona, presso Barberino, del 1610 circa; del pressoché coevo oratorio dell’Arciconfraternita della Misericordia a Vicchio, dalla sobria facciatina del 1607 e dall’originale arredo interno (Fig. 26); di San Quirico a Uliveta sempre presso Vicchio, rinnovato nel portale e negli altari lapidei attorno al 1615; di Santa Maria a Pulicciano, ‘modernizzata’ sempre tramite sobri altari a edicola contenenti severe tele a partire dal 1620; della pieve di Sant’Agata, arricchita da altari in pietra serena egualmente ‘controriformati’ nel 1608-1618; di Sant’Agata a Mucciano, ricostruita attorno al 1625; dell’oratorio di Sant’Omobono a Borgo e, infine, di Sant’Ansano a Monteceraia, ove i rifacimenti si debbono tra l’altro anche al grande pittore seicentesco Francesco Furini, che ne fu priore. Da segnalare, poi, l’imponente dossale del 1620 circa, intagliato e dorato, donato dal granduca insieme a un organo (recentemente ‘emigrato’ a Piombino) che a Bosco ai Frati scherma il coro poligonale (in probabile sostituzione di un originario, più modesto tramezzo presbiteriale michelozziano), esportando in contado le lambiccate forme della cultura architettonica nigettiana che in quegli anni risplendeva nella cappella dei Principi, in corso di edificazione dietro l’abside della basilica di San Lorenzo. Una esiguità di interventi che nell’alto Mugello diviene sostanziale assenza, ad eccezione del bel ‘pezzo’ di primo Seicento rappresentato dall’altare in pietre dure (di manifattura granducale, datato 1628-1641) presente nell’ottocentesco San Matteo del Covigliaio, donato ‘però’ da Leopoldo II ‘solo’ attorno al 1858 (proveniente dalla demolita chiesa fiorentina di Santa Cecilia). GAB RI E LE M OROLLI
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Anche l’edilizia civile conosce i minimi fasti di questo periodo come di sospensione, cui appartengono ad esempio, oltre alla casa di Benvenuto Cellini a Vicchio, ove l’artista ebbe dimora tra il 1559 e il 1571, il palazzo Salviati a Sant’Agata, della fine del XVII secolo, caratterizzato da un’allungata facciata in curva; il palazzo Torrigiani a Galliano, dalla fronte blandamente barocca; la villa Il Palagio poco a nord di Scarperia, con un vasto parco, appartenente già al successivo XVIII secolo; l’imponente villa delle Maschere, presso Barberino, il cui grandioso impianto seicentesco venne poi trasformato specie nel XIX secolo (Fig. 27); l’isolata villa Guiducci, settecentesca, lungo la via Faentina; la villa Sacchetti presso Ronta, sempre del XVIII secolo. Vitalità tardobarocca Come in numerose altre aree del Granducato, anche nel nostro territorio l’età degli «ultimi Medici», a cavaliere tra XVII e XVIII secolo, lungamente a torto identificata dalla storiografia come un’epoca di decadenza non solo economica, ma latamente culturale ed in particolare artistica, ad un più attento esame si è rivelata invece ricca di fermenti e costellata di veri e propri capolavori, frutto del Barocco fiorentino maturo. Così è per la badia del Buonsollazzo, ove Cosimo III accolse i monaci francesi della trappa, affidando verso il 1705 alle abilissime mani del proprio architetto e scultore di fiducia, Giovan Battista Foggini, la realizzazione del nuovo insediamento, ove l’ascesi della severissima vita conventuale aveva come ossimorica cornice l’esuberanza, ancorché raggelata, di forme sostanzialmente già rococò quanto mai aggiornate. E già questo berniniano di Toscana aveva, per il medesimo granduca, provveduto a rinnovare la pieve di San Cresci in Valcava, presso Sagginale, a partire dal 1702, arricchendo il martyrium del leggendario santo germanico con scavi eruditi relativi ad un antico tempio esculapino, con un portico esterno ‘periptero’, con una nuova cappella (1708) e con, all’interno, ricchi altari marmorei e preziosi reliquiari. Ancora si incontra Foggini, attorno al 1725, nella culla servita di Montesenario, con la cappella di San Manetto, ornata di stucchi di Giovan Martino Portogalli; il quale ultimo era stato anche l’autore della rinnovata ornamentazione dell’intera chiesa conventuale di Santa Maria, poi affrescata da Anton Domenico Gabbiani; sempre per volere di Cosimo III si era provveduto, inoltre, sia alla costruzione di San Clemente alla Tassaia, sui monti tra Polcanto e Vaglia, non lontano da Buonsollazzo, sia al rifacimento del duecentesco San Clemente di Signano presso Sant’Agata. Presso Ronta si incontra poi l’oratorio della Madonna dei Tre Fiumi, di origine tardocinquecentesca, più volte ampliato e rinnovato nel 1705 (portico; Fig. 28), menI N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
27. L’imponente facciata della seicentesca villa delle Maschere, elegante residenza signorile, appartenuta ai marchesi Gerini, trasformata nel Settecento e soprattutto nell’Ottocento.
28. L’oratorio tardocinquecentesco della Madonna dei Tre Fiumi presso Ronta, più volte ampliato e rinnovato con l’aggiunta del portico nel 1705.
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29. L’interno della pieve di San Gavino Adimari, presso Barberino di Mugello, già rinnovato dai Medici nel Cinquecento, trasformato nel Settecento secondo il gusto tardobarocco.
30. L’imponente oratorio del Santissimo Crocifisso dei Miracoli a Borgo San Lorenzo, realizzato nel 1743 da Girolamo Ticciati e ricostruito dopo il terremoto del 1919.
tre nella medesima cittadina l’antica abbazia vallombrosana di San Michele viene ristrutturata nel 1715-1720 (e poi rimaneggiata all’inizio del XX secolo). A Barberino di Mugello l’oratorio della Compagnia dei Santi Sebastiano e Cristoforo (o Rocco) ottiene attorno al 1725 la sua ricca facies tardobarocca (nell’interno eleganti banchi intagliati da Michele Galletti) e, nei medesimi anni, negli immediati dintorni, la pieve di San Gavino Adimari (di origine medioevale e già rinnovata dai Medici dopo il terremoto del 1542) viene integralmente trasformata con membrature e arredi (elaborati altari, confessionali, cantoria, organo) in stucco, in scagliola, in legno intagliato e in marmo (fonte battesimale), a formare un raro esempio di complesso tardobarocco decorativamente unitario (Fig. 29); in ciò al pari della badia di Santa Maria a Vigesimo, sempre non lontana da Barberino, che verso il 1740 venne interamente rinnovata sia all’esterno (facciata con lesene, volute, statue) sia all’interno (grandi altari a finti marmi, tele originali, confessionali, organo, ricchi stucchi del milanese Francesco Arrighi) in un complesso di notevole coerenza stilistica. Grande qualità architettonica la si incontra anche nell’oratorio della Madonna del Vivaio presso Scarperia, realizzato tra il 1725 e il 1740 per il granduca Gian Gastone da Alessandro Galilei, massimo esponente toscano della transizione fra il tardo barocco e l’incipiente classicismo illuministico: una rara pianta centrale dal lievitante spazio cilindrico, arricchito da eleganti stucchi, che meriterebbe una valorizzazione adeguata insieme al suggestivo intorno, ricco di acque. E grande qualità la si incontrava anche nel grande oratorio del Santissimo Crocifisso dei Miracoli a Borgo San Lorenzo (Fig. 30), concluso nel 1743 ad opera del ‘mediceo’ Girolamo Ticciati (suoi il grande altare del Battistero fiorentino poi smantellato, la tomba di Galileo in Santa Croce in collaborazione con Foggini, il monumento funebre di Anton Domenico Gabbiani in San Felice in Piazza), una fabbrica monumentale (paragonabile allo scenografico santuario del Crocifisso di San Miniato al Monte, realizzato da Anton Maria Ferri tra il 1710 e il 1720) originariamente coperta da un’ardita cupola che, malauguratamente, non resse al catastrofico sisma del 1919 (l’edificio venne poi subito ricostruito sempre in forme classicistiche). Infine, preziosi altari in pietre dure di metà secolo si incontrano nel San Jacopo a Festigliano, presso Pratolino. E, sebbene rarefatti, anche gli interventi dell’alto Mugello appaiono di notevole qualità, come la chiesa del Suffragio a Marradi, elegante opera di Alessandro Bandini del 1730 circa e, sopra tutto, come la rinnovata abbazia vallombrosana di Santa Reparata GAB RI E LE M OROLLI
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in Salto (sulla strada per San Benedetto in Alpe), dalla bella facciata rococò del 1740 circa e dall’interno egualmente vivace di ornati in stucco, di una ventina di anni dopo. Da ricordare, infine, la fioritura di architetture civili barocche nella stessa Marradi (Fig. 31), ricco centro montano sulla via della Romagna, inaugurata dal seicentesco palazzo Fabbroni, col suo fronte curvilineo su piazza delle Scalelle, continuata dall’altro palazzo Fabbroni del tardo Settecento sulla via Fabbroni (ove sorge anche la casa natale di Angelo Fabbroni, erudito e editore, 1732-1803) e proseguita poi nel secolo successivo dal neoclassico Palazzo comunale. Rigorismo lorenese Sobri e contenuti, al pari delle nuove idee illuministiche propugnate specialmente nel Settecento dai primi Granduchi lorenesi (succeduti ai Medici, la cui discendenza si era estinta nel 1737 con Gian Gastone), gli interventi architettonici della seconda metà del secolo appaiono improntati ad un severo, semplificato classicismo neocinquecentesco, come nei casi emblematici del rinnovamento dell’interno della pieve di Fagna, risalente al 1760 circa, del rifacimento di Santa Lucia all’Ostale (antico oratorio del secolare ospedale), delle ristrutturazioni delle pievi di San Pietro a San Piero a Sieve del 1776 e di San Pietro a Vaglia del 1788 (con tanto di portico) o, anche, della costruzione di nuove chiese quali i Santi Simeone e Giuda a Bibbiana presso Palazzuolo sul Senio, sempre del 1780 circa, o il San Lorenzo di Marradi, dalla facciata scandita da lesene e dal bell’interno ionico del 1785. E raro frutto civile di questo classicismo illuministico appare, infine, anche il rinnovato palazzo Medici poi Adami di San Piero a Sieve (Fig. 32), dagli eleganti ornati laterizi di porte e finestre improntati ad un’antiquaria per così dire tardo-piranesiana. Stante la fattiva politica riformatrice lorenese, più attenta alle opere di pubblica utilità che a quelle di mera ‘rappresentanza’, assai significativa appare la campagna di edificazione di nuove parrocchie appenniniche, da un lato collegate alla specifica volontà di Pietro Leopoldo di migliorare le condizioni di vita dei contadini e dei montanari garantendo, appunto, la presenza in loco di un pastore il quale, oltre che dedicarsi alla cura delle anime del suo «popolo», potesse fungere anche da collegamento con l’amministrazione centrale (si pensi alla riforma in chiave ‘giansenistica’ del clero toscano, dal granduca se non altro tentata) e dall’altro favorite anche dalla creazione di una nuova viabilità ‘internazionale’ (e/o dal suo profondo rinnovamento: si pensi all’ammodernamento dei tracciati delle strade transappenniniche della Futa e della Raticosa tra il 1749 e il 1753 o di quella del passo del Giogo attorno al I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
31. Panorama di Marradi: nel centro si registrano notevoli testimonianze settecentesche, come la chiesa del Suffragio di Alessandro Bandini (1730 ca.) e numerose architetture civili fra cui i palazzi Fabbroni del XVII e XIX secolo.
32. San Piero a Sieve, palazzo Adami, già Medici.
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33. La chiesa di Santa Maria a Rifredo.
34. La chiesa di San Michele a Casanova.
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35. Nell’acquerello di Massimo Tosi, piazza IV Novembre a Galliano con la Porta Fiorentina: sulla destra, la facciata della pieve di San Bartolomeo, ricostruita attorno al 1850 dopo il crollo dovuto al sisma del 1835.
1760): nascono, così, piccole, ma solide chiese, tutte in pietra, ‘lungo strada’, quali Santa Maria a Rifredo (Fig. 33) o San Michele a Casanova (Fig. 34), spoglie e severe come uno stereometrico edificio di caserma o di dogana (ma dotate, comunque, di campanile e di ampia canonica), o il semplicissimo San Jacopo alla Traversa del 1786. E questo, della riforma dei tracciati viari ‘internazionali’ da parte dei nuovi granduchi ‘illuminati’, fu un fenomeno ad un tempo croce e delizia dell’intero Mugello in quanto, se da un lato i collegamenti con Bologna furono oggettivamente intensificati (si ricordi la elegante e razionalissima dogana pontificia delle Filigare, su disegno di Luigi de Cambray Digny, potente direttore dello Scrittoio delle regie Fabbriche granducali, attorno al 1820) favorendo un transito anche ‘turistico’ di viaggiatori spesso di qualità (gli alberghi e le stazioni di posta, da Pietramala al Covigliaio), dall’altro l’apertura nell’Appennino pistoiese della grande Strada modenese del passo dell’Abetone, realizzata da Leopoldo Ximenes, provocò un’oggettiva perdita di interesse strategico del tracciato viario del passo della Futa: fenomeno che, a sua volta, contribuì alla ‘marginalizzazione’ ottocentesca dell’intero Mugello rispetto ai grandi percorsi di traffico dell’Italia unita (ivi compresa la mancanza di grandi linee ferroviarie: la tormentata Faentina non resse al confronto con l’ardita Porrettana e, poi, con la Direttissima). Intanto, con la restaurazione dei legittimi sovrani lorenesi dopo l’agitato ventennio napoleonico, la campagna di nuove costruzioni, improntate ora ad un affabile e ‘borghese’ classicismo per così dire romantico, sembra procedere con un passo maggiormente accelerato, come testimoniato dal rifacimento nel 1820 circa della pieve di San Silvestro a Barberino, dall’ampliamento nel 1830 della pieve di San Giovanni Battista a Vicchio, dalla ridecorazione verso il 1840 dell’oratorio del Santissimo Crocifisso dei Miracoli a Borgo San Lorenzo (importanti tele di Giuseppe Bezzuoli e Giuseppe Sabatelli), dal rinnovamento dell’oratorio di Sant’Omobono sempre a Borgo, nonché dalle ricostruzioni nel GAB RI E LE M OROLLI
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1850 circa (a seguito anche del grave sisma del 1835) della pieve di San Bartolomeo a Galliano (Fig. 35), della chiesa di Santo Stefano di Cornetole presso San Piero a Sieve e della Santa Maria di Olmi presso Sagginale (rinnovata nel 1854, con facciata del 1935). Anche sull’Appennino i lavori per certi versi fervono, come per la chiesa del cinquecentesco monastero della Santissima Annunziata a Marradi, rifatta a croce greca da Petro Tomba nel 1837; per Santa Maria a Ca’ Buraccia, riedificata attorno al 1840 per volere di Leopoldo II, o per San Michele a Montalbano presso la Raticosa, costruito nel 1847; per il San Matteo del Covigliaio, del 1857, prima, timida comparsa del linguaggio neogotico sui nostri monti. Lungo la Bolognese, sempre mantenuta come una delle principali strade di comunicazione con il nord dell’Italia (è del 1835 il grande muraglione con funzione antivento al passo della Futa, analogo a quello, più monumentale ed eponimo della più meridionale via transappenninica sempre granducale del passo del Muraglione), sorgono sempre più moderni alberghi, come quello della Posta al Covigliaio, risalente al Seicento e ora rinnovato, o grandi infrastrutture di servizio, come la severa dogana granducale di Pietramala, integralmente in pietra locale. L’Eclettismo va in vacanza La pratica dei soggiorni estivi di ‘mezza montagna’, insieme alla ristrutturazione di matrice lorenese della rete viaria di grande traffico ‘internazionale’, portarono poi, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ad un flusso costante di turismo stagionale ‘interno’ verso i tanti piccoli centri del territorio a confine con l’area padana, in particolar modo attorno a Firenzuola. Una maggior ricchezza generalizzata che portò così, tra l’altro, alla nascita del San Lorenzo di Pietramala, del 1880 circa, una croce greca neomedioevale con alto tiburio ideata dal nobile Giuseppe dei Baldi delle Rose; del San Lorenzo al Peglio, presso il Covigliaio, coevo ed egualmente medioevaleggiante; della decorazione neogotica, ad opera del pittore Alessandro Pittaco attorno al 1900, del presbiterio dell’antichissima pieve di San Giovanni a Cornacchiaia, allora restaurata anche nelle navate (nuovi arconi a mascherare gli antichi pilastri cilindrici; Fig. 36). E così si rinnovarono, sempre in forme neomedioevali, attorno al 1920, sia i Santi Domenico e Giustino di San Pellegrino, sia il San Martino di Bruscoli, sia la parrocchiale di Bordignano. Nei centri maggiori si ristrutturano egualmente gli antichi edifici, anche se prevalentemente in chiave classicistica, come a Firenzuola, ove attorno al 1880 si rinnovano sia la Santissima Annunziata (dal bel campanile integralmente in pietra serena locale della prima metà del secolo, ma ancora memore di qualche grazia tardosettecentesca nella movimentata cella campanaria cuspidata), sia la prepositura di San Giovanni, originariamente fasciata sulla fronte e sul fianco meridionale da loggiati medioevali e rinascimentali (plausibilmente allusivi ad un uso ‘periptero’ di tali accoglienti spazi, concettualmente collegati anche alla struttura a portici caratterizzante l’intero tessuto urbano della cittadina) ed ora completamente rinnovata, tra il 1877 e il 1880, su disegni del fiorentino Giuseppe Malvolti (edificio che sarebbe poi stato distrutto dal bombardamento I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
36. L’antichissima pieve di San Giovanni Battista Decollato a Cornacchiaia, ampiamente rimaneggiata all’interno e ornata di affreschi neogotici attorno al 1900.
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37. (In alto) La chiesa duecentesca di San Pietro a Luco di Mugello, dotata verso il 1930 di una facciata neoquattrocentesca. 38. (A lato) Il castello ‘medievale’ edificato nell’Ottocento lungo la via Bolognese poco prima del Bilancino, sui resti del castello di Villanova, presso villa Le Maschere.
del 1944 e ‘sostituito’ da una nuova chiesa disegnata, come si è detto, da Carlo Scarpa e realizzata da Edoardo Detti attorno al 1960). Anche in pianura intensa è l’attività edificatoria, come a Scarperia per la nuova prepositura dei Santi Jacopo e Filippo, sistemata nella chiesa del convento trecentesco agostiniano e rinnovata verso il 1870, dotandola della nuova fronte neogotica attorno al 1930, o per numerosi altri edifici tutti profondamente restaurati dopo il disastroso terremoto del 1919: così si interviene nel duecentesco San Pietro di Luco verso il 1930 con una puristica facciata neoquattrocentesca (Fig. 37), in Santa Maria a Olmi con una nuova fronte del 1935, nel San Donato di Polcanto del 1939. Sotto il profilo dell’edilizia civile va poi ricordata la profonda ristrutturazione sopra tutto degli interni della medicea villa di Cafaggiolo (di proprietà dei Borghese di Roma), ridecorati alla fine del XIX secolo in chiave neorinascimentale dalla ‘scuola’ di Galileo Chini, in sintonia con la diffusione (e la volgarizzazione) del gusto decadentistico innamorato delle forme preraffaellitiche non solo per la pittura e per la scultura, ma anche per l’architettura e le ricche arti applicate (si pensi al gusto dannunziano per i “Primitivi”). Un analogo ‘adattamento’ ai gusti storicistici ottocenteschi si era verificato anche a villa Le Maschere, lungo la Bolognese, ove un petrigno castelletto, irsuto di torrette e di ferri, evoca i foschi tempi di un Medioevo esistito forse solo nei romanzi storici e nei melodrammi del Romanticismo (Fig. 38); o, sugli alti gioghi tra Toscana e Romagna, nel neomedioevale palazzotto del Credito Romagnolo di Marradi. La fioritura del Modernismo Il mito morrissiano degli Arts and Crafts, dell’art dans tout che, trovando ascolto presso gli spiriti più avvertiti, più raffinati dell’Europa degli anni Settanta, Ottanta dell’Ottocento intendeva riportare la bellezza nell’intimità degli ambienti della vita quotidiana, appoggiandosi al suggestivo modello dell’«artigianato artistico» medioevale reinterpretato in chiave decadentistico-preraffaellitica (mito che, ad esempio, nella Siena della seconda metà sempre del XIX secolo aveva portato al singolare fenomeno della proposta puristica della rinascita di un’arte moderna ispirata allo «stile italiano del Trecento e del Quattrocento» e che, nella GAB RI E LE M OROLLI
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Firenze fin de siècle aveva generato quello «stile fiorentino» ove il più raffinato neoquattrocentismo si intrideva dei succhi dannunziani cari al miglior decadentismo), ecco che in terra mugellana si tenne a battesimo, grazie al genio ‘grafico’ e imprenditoriale di Galileo Chini (Fig. 39), l’irripetibile esperienza dell’«Arte Decorativa» prima e, poi, delle borghigiane «Fornaci San Lorenzo». Qui, come in un uno scintillante crogiuolo, si fusero, intendendo ‘popolarizzarsi’, le forme di un Art Nouveau italicamente tradotto in chiave Liberty insieme con i ripensamenti ‘mediterranei’ delle invenzioni calligrafiche della Secessione viennese, il tutto amalgamato con un’inesausta memoria delle forme classiche e con singolari presentimenti del ‘ritorno all’ordine’ dell’Art Déco: dando vita, grazie anche ad un geniale connubio tra vocazione artistica e capacità imprenditoriale, tra dandystico individualismo e borghese senso commerciale, artigiano della ‘bottega’ intesa anche come impresa di famiglia, ad una proteiforme produzione che dalle tre arti ‘maggiori’ di pittura, scultura e architettura venne ad investire sopra tutto quelle ‘minori’ dei rilievi in terracotta smaltata, del vetro dipinto, del ferro battuto, del mosaico anche figurato, dell’intaglio marmoreo, lapideo e ligneo, delle piastrelle, della ceramica, dell’ornato geometrico dipinto, degli elementi architettonici ‘prefabbricati’, e così via. L’intera area mugellana risulta, quindi, per così dire smaltata dalle cangianti, rilucenti invenzioni di Galileo e dei numerosi ‘suoi’, che portano sino nei luoghi più appartati e meno frequentati del territorio la gioia magari attardata di una sempre festevole, originale, vitale testimonianza dell’ingegno dell’artigiano-artista: ecco, così, che a Galileo Chini si debbono, a Borgo San Lorenzo, verso il 1905, l’oratorio dell’Arciconfraternita della Misericordia, rivisitato in chiave appunto sospesa tra Neomedioevo e Secessione ‘meridionale’ e, sempre nella medesima cittadina, la riqualificazione modernistica del presbiterio della pieve di San Lorenzo (Fig. 40); così, ancora, la parrocchiale di San Giovanni Battista a Vicchio, decorata nel 1909 e poi rovinata nel sisma del 1919 (di origine medioevale e preceduta da un portico rinascimentale, era stata completamente rinnovata nel 1830); così, verso il 1910, la ‘modernizzazione’ della pieve di San Giovanni Maggiore presso Borgo e quella della chiesa di Santa Maria ad Acone in Val di Sieve. E, ancora, Leto Chini decora, nel primo decennio del Novecento, la pieve di Santa Felicita a Faltona e la chiesa dei Santi Jacopo e Maria alla Cavallina; Tito Chini (Fig. 41), negli anni Venti sempre del Novecento, affresca la pieve di San Bartolomeo a Galliano e crea a Palazzuolo sul Senio il piccolo capolavoro della cappella ai Caduti della Grande Guerra; Chino Chini nel 1925 realizza, presso Borgo San I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
39. Un ritratto fotografico di Galileo Chini (1873-1956) sul finire dell’Ottocento.
40. Galileo Chini, Il Redentore in trono tra i santi Lorenzo e Martino, dipinto del 1906 nel catino absidale della pieve di San Lorenzo in Borgo San Lorenzo, una delle prime prove dell’artista in Mugello: l’opera, palesemente ispirata al modulo del Cristo Pantocrator, fu realizzata nell’ambito della riqualificazione modernista del presbiterio della pieve.
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41. Tito Chini, L’Ascensione, dipinta nel 1931 nel catino absidale della pieve di San Silvestro a Barberino di Mugello, già radicalmente ristrutturata nel 1822.
42. Le Fornaci San Lorenzo, fucina dell’«arte decorativa» chiniana, in una fotografia degli anni Venti.
Lorenzo, il cenacolo del Terz’Ordine Francescano, gremito di preziosi arredi; Dino Chini opera sia, verso il 1910, nel santuario della Madonna della Neve di Quadalto sia, negli anni Quaranta, nella decorazione del Santo Stefano ancora di Palazzuolo sul Senio. Alla Traversa presso la Futa, nella chiesa di San Jacopo, l’intervento medioevalistico del 1900 ad opera di Enrico Lusini (architetto del rifacimento «in stile» del fiorentino palazzo dell’Arte della Lana o delle scale neobuontalentiane della villa medicea di Artimino), caratterizzato dal bel portale sotto il profondo portico con lunetta in maiolica delle chiniane Fornaci San Lorenzo e dagli elaborati altari interni, favorisce la ulteriore presenza di ornati chiniani sia nel bel fonte battesimale, del 1920 circa, sia nelle preziose vetrate (Fig. 42). Ed ornati che assumono forme per così dire monumentali si incentrano egualmente nel riarredo, sempre di primo Novecento, dell’interno dell’abbazia di Santa Maria Assunta a Susinana presso Palazzuolo, che ospita un ricco fonte battesimale, pannelli policromi, le vetrate di Bruno Masini, nonché la floreale memoria dei Caduti della Grande Guerra. Una presenza della manifattura borghigiana documentata da un’impressionante diffusione capillare, quasi incontrollabile, ‘sul territorio’: si ricordano così ‘presenze’ chiniane nella Santa Maria di Rostolena presso Vicchio (maioliche del 1923), nell’ex-abbazia di Santa Maria a Bovino ancora presso Vicchio (affreschi e ornati del 1924), nel San Pietro a Strada in Val di Sieve (arredi del 1925 e vetri della ditta Polloni), nel San Michele a Rupecanina presso Vicchio (ornato pittorico del 1926), nella pieve di San Martino a Scopeto sempre presso Vicchio rifatta nel 1919 e con lunetta in maiolica del 1926 (si veda anche quella con l’Assunzione sulla facciata di Santa Maria a Pulicciano), nella pieve di San Silvestro a Barberino (dipinti parietali, altari, pavimenti e vetrate del 1920) o nei Santi Jacopo e Cristoforo di Visignano presso Piancaldoli (moderna croce greca con vetrate una volta di più della Manifattura di Borgo San Lorenzo). Neppure l’architettura civile si sottrae a queste ‘evocazioni’ di un passato rivissuto con gusto storicistico: così, ad esempio, per il Palazzo pretorio di Barberino, rinnovato con tanto di facciata lapidea ornata di torretta e fioritura di stemmi podestarili nel primo Novecento; così ancora, alla periferia del medesimo centro abitato, il castello dei Cattani, originario del XII secolo, ma ampiamente riscritto in chiave ‘dannunziana’. Analoga ‘ricostruzione’ conosce, verso il 1935, anche il Palazzo pretorio di Borgo San Lorenzo, rivestito degli originali stemmi lapidei e in GAB RI E LE M OROLLI
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terracotta dei vari podestà succedutisi nel corso dei secoli di dominio fiorentino (Fig. 43). Un gusto per le ricostruzioni impieganti materiali antichi che si concretizza anche nella nuova facciata della pieve sempre di Borgo San Lorenzo, rinnovata a partire dal 1922 a seguito del crollo causato dal terremoto del 1919. A questo modernismo intrinsecamente storicistico si rivolge poi anche l’opera dell’architetto Ezio Cerpi di Siena, improntata ad un singolare neomedioevalismo per così dire decadentistico (si ricordano sue opere fiorentine, più preraffaelliticamente classicheggianti, quali il San Quirico a Legnaia o l’ara ai Caduti di Fiesole insieme a Giulio Bargellini, o a Figline Val d’Arno il ripristino del Palazzo pretorio e il palazzetto dei Mutilati di Guerra presso San Francesco non a caso ‘restaurato’ da Giuseppe Castellucci) che offre, ‘ai margini’ del Mugello, un saggio significativo di questo sogno ‘dannunziano’ di integrazione stilistica fra passato e presente innanzi tutto nella ridecorazione della antica abbazia benedettina di San Godenzo in Alpe a San Godenzo, ove ai primi del Novecento realizza il nuovo campanile e le due absidiole e dove sino agli anni Venti continuerà ad intervenire come nel portale con lunetta in mosaico, nell’altare maggiore e nell’ambone (di origine romanica, ma fortemente reintegrati), nel mosaico dell’abside (Fig. 44) ad opera di Giuseppe Cassioli (che per la felicità di tutti i tardi preraffaeliti raffigura tra gli astanti della Incoronazione della Vergine anche Dante, con Beatrice e Petrarca). Altri ripristini di Ezio Cerpi sono poi quello della pieve di Santa Maria a Dicomano, ricostruita nel 1924 dopo il terremoto del 1919, mentre un suo intervento ex novo dei primi del secolo è il San Jacopo a Frascole sempre presso Dicomano. Ed a questa temperie si può riferire anche la neomedioevalistica cappella dei Sette Santi Fondatori a Montesenario, ornata nel 1933 da Giuseppe Cassioli. Attenzione! Restauri in… stile Se l’amore decadentistico per le passate stagioni di un Medioevo sostanzialmente di invenzione avevano portato ‘per eccesso’ all’iperdecorativismo preraffaellitico di Chini e dei ‘suoi’ (di cui sopra si ragionava), un’analoga passione per le testimonianze sopratutto dell’architettura romanica ha portato, anche in tempi più recenti, ma operando stavolta ‘per difetto’, ai tanti restauri «per via di levare» (per mutuare l’espressione che Vasari applica alla scultura) i quali, dall’inizio del NovecenI N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
43. Il Palazzo pretorio di Borgo San Lorenzo, ricostruito fra il 1934 e il 1937, con gli originari stemmi lapidei e in ceramica dei podestà. Dell’originario edificio (XII-XIII secolo) rimangono solo poche tracce: nel corso dei secoli l’edificio è stato adibito anche a carcere.
44. Lo spazio presbiteriale dell’abbazia benedettina di San Godenzo in Alpe nel centro omonimo: qui l’architetto Ezio Cerpi è ampiamente intervenuto nei primi decenni del Novecento sia sulle strutture che sulla decorazione, realizzando fra l’altro anche il nuovo campanile.
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to e sino ad anni assai vicini ai nostri, hanno posto in atto la spesso brutale cancellazione della stratificata vita secolare delle forme degli antichi edifici. Nel senso che gli operatori preposti alla «tutela» dei monumenti del passato, di tutto il passato, per l’amore di un brano di filaretto celato dietro una decorazione parietale classicistica, di un pilastro lapideo chiuso all’interno di una colonna barocca in stucco, di un accenno di monofora ormai cancellata dalla mostra settecentesca di una finestra a campana, di rusticane capriate celate da una volta ad incannicciato dipinta dell’Ottocento, hanno perpetrato una feroce ‘pulizia stilistica’ unicamente a vantaggio, appunto, del petroso, del ruvido romanico, evidentemente ritenuto (sulla scorta anche di una straordinaria fortuna critica di tale ‘maschio’ stile presso la storiografia architettonica ‘ufficiale’ novecentesca) come l’espressione più schietta, più sincera, più legittima delle cosiddette terre di Toscana e, quindi, degno di essere recuperato a qualunque costo ed a danno di qualsiasi altro, successivo, meno ‘degno’ linguaggio stilistico. Ciò non è qui detto a condanna di quel determinato metodo di restauro, in quanto si è consapevoli che ogni età ha sempre compiuto e sempre compirà, di necessità, errori intervenendo sui monumenti del passato, ma, semplicemente, come viatico per tutti i turisti, per tutti i promeneurs (solitari o in gita culturale di gruppo) che, amando ‘con cuore puro’ appunto l’architettura medioevale ed in particolare quella romanica (oggetto per l’appunto di tante ‘cure’ nel recente passato), debbono sempre domandarsi (guida cartacea o scheda informatica alla mano) se l’oggetto della loro diretta visita e della loro conseguente ammirazione sia un testo realmente originale (se non altro in una buona percentuale) o non piuttosto il frutto di una ‘interpretazione’ ricostruttiva per così dire posteriore e spesso ‘amorosamente’ arbitraria. Perché, come si sa, ogni cosa ‘se la conosci non ti uccide’ e, quindi, sarà sufficiente anche in questo caso sapere che cosa si sta guardando: e quand’anche si trattasse di un ‘falso’ recente redatto per così dire per affezione storiografica alle presunte forme originarie di quel lontano passato, la consapevolezza dell’osservatore e, sopra tutto, la restante e questa sì innocente e sincera cornice naturale del monumento in oggetto, la verità cioè del paesaggio della nostra valle, inalterabile, intangibile a nostro avviso nonostante le tante offese perpetrate da certa industrializzazione e da certa urbanistica del nostro tempo, finiranno per accogliere, agglutinare anche queste tarde ‘copie’ di più gloriosi passati, rifondendole nell’armonia superiore di un territorio la cui umanità sembra benevolmente assolvere, con la sua quasi insostenibile bellezza, i tanti, al paragone piccoli, nostri peccati estetici (o estetizzanti).
II. LA VAL DI S IEVE Una valle ‘di montagna’
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a magica pianura di colline dipinta in punta di pennello da una mitica Natura bucolicamente sospesa tra l’ingenuo naturalismo di Giotto e l’innocente sacralità dell’Angelico, sembra vaporare per un colpo di bacchetta magica alle ‘porte di ferro’ che attendono il corso della Sieve poco dopo Ponte a Vicchio: il sogno di un’edenica e GAB RI E LE M OROLLI
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bucolica terra dell’armonia, chiusa da una protettiva chiostra di alte cime, cede drammaticamente il passo a una stretta valle ove l’asprezza selvatica della montagna appenninica sembra portare sino a bassa quota il suo monocromo spirito di parsimoniosa mestizia. Il fiume stesso, dopo avere proceduto al suo nascimento per così dire in senso contrario (da ovest verso est) rispetto al ‘naturale’ richiamo della lontana costa tirrenica, ‘precipita’ ora a sud in questa amplissima ansa, incassata appunto fra aspri e incombenti rilievi, tornando infine, col suo sfociare nell’alveo del fiume maggiore a Pontassieve, a orientare anche le sue correnti verso occidente, verso il lontano mare (Fig. 45). Questo severo tratto della Val di Sieve si prestò assai meno del contiguo, pianeggiante Mugello alla ‘colonizzazione’ da parte dei ricchi mercanti fiorentini, sempre pronti a riconvertire le ricchezze accumulate col commercio in estese ed ubertose proprietà fondiarie: il fenomeno della villa è, in effetti, raro in quest’area, pur sempre ricca, però, di notevoli «case da signore» (la versione medioevale, difesa come un castello, di quella che poi sarebbe stata, appunto, la villa rinascimentale), le quali nel corso dei secoli successivi assunsero l’aspetto e la funzione di fattorie, divenendo tra l’altro componente essenziale di quel paesaggio, ‘selvatico’ e austero, grazie appunto non solo agli aspri gioghi montani, ma anche a queste architetture munite e ‘diffidenti’, spesso posizionate a mezza costa, in alto, a controllare occhiutamente la viabilità di fondovalle. Lungo il fiume, invece, si segnala una ricca presenza di chiese risalenti all’età delle pievi medioevali che, soprattutto nel corso del prospero Settecento, vennero sistematicamente rinnovate in chiave ‘moderna’ (ricchi stucchi parietali, esuberanti altari, facciate classicistiche) divenendo oggetto, per il loro essere state in origine notevoli monumenti del Romanico toscano, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, di quei drastici restauri «in stile» che intesero riportarle, come si diceva, ad una presunta «pristina purezza» e che, spesso, oltre a cancellare del tutto le testimonianze del gusto ‘postmedioevale’ (e nella fattispecie di quello dell’esuberante, teatrale Tardobarocco, ‘odiatissimo’ appunto tra XIX e XX secolo), si trovavano costretti nella sostanza ad inventare ‘a tavolino’ intere parti ormai perdute (o magari neppure mai esistite) dell’antico organismo originario. Lo stretto solco della nostra valle, sovrastato dalle notevoli vette sia del monte Giovi (che coi suoi quasi mille metri la separa, a occidente, dal bacino fiorentino) sia, sopra tutto ad oriente, della Campigna delle foreste casentinesi (ove il Falterona sale sin oltre i mille e seicento metri) e delle estreme propaggini del Pratomagno (se il passo della Consuma è a quota mille metri circa, con le vette che circondano l’abbazia di Vallombrosa siamo a quasi I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
45. Veduta dell’abitato di Pontassieve, alla confluenza della Sieve con l’Arno, col ponte mediceo laterizio, il moderno ponte stradale e il ponte ferroviario.
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46. Sulla cima del monte Falterona (m 1654): il rilievo, da cui sgorga l’Arno, delimita a oriente la Val di Sieve, insieme con le estreme propaggini del Pratomagno.
mille e cinquecento metri), sembra godere di un peculiare isolamento che ne ha fortunatamente, almeno in buona parte, preservato l’originario aspetto naturale (Fig. 46). È in effetti la montagna appenninica che conserva intatto il fascino della straordinaria ricchezza del suo patrimonio boschivo, in buona parte recentemente confluito nel Parco nazionale delle Foreste casentinesi, costituenti un comprensorio ricchissimo di verde, con fitti boschi di faggi e abeti, con vasti castagneti e praterie d’altura. I Lorena e il governo del territorio
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Ancora a cavaliere tra Settecento e Ottocento la viabilità esistente in quota versava in uno stato di estrema precarietà, costituita essenzialmente da mulattiere maltenute ed adatte unicamente agli animali da soma. Fu solo con la costruzione della nuova rete stradale carrozzabile voluta dai Lorena che anche questa dura realtà montana mutò profondamente, perché le nuove infrastrutture svolsero il ruolo di principale veicolo di progresso economico e sociale per l’intera vallata. Si ricordi poi come questi boschi del Casentino fossero divenuti, sempre nella ‘georgofila’ età lorenese, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione agraria e forestale. Col declino del potere mediceo, infatti, l’intera area forestale, anticamente proprietà dell’Opera del Duomo di Firenze ed oggetto di particolari cure da parte delle grandi abbazie locali di Vallombrosa e di Camaldoli (Fig. 47), era stata sottoposta ad un sempre più intenso disboscamento, causato anche da un certo incremento demografico e adesso, all’inizio del nuovo regime lorenese, paradossalmente accentuato dalla stessa politica riformatrice di Pietro Leopoldo che aveva voluto, a partire dal 1769, l’abolizione dei severissimi vincoli di stampo ancora ‘feudale’ relativi al taglio del bosco, sino ad allora vigenti in tutti i territori appenninici (le popolazioni locali potevano ‘al massimo’ raccogliere la legna caduta a terra, il così detto diritto di focatico, essendo fieramente sanzionato ogni abbattimento di piante o rami virenti). L’autorizzazione, di per sé ‘illuminata’, concessa dalle riforme lorenesi alle popolazioni di disboscare appunto liberamente le foreste sulle pendici dell’Appennino provocò, in realtà, seri (e non certo previsti) danni al patrimonio boschivo e innestò drammatici fenomeni di erosione; in talune aree scomparve anche il castagno, fonte alimentare di primaria importanza per gli stessi abitanti di quelle zone montane e per l’allevamento dei maiali. L’assetto agro-silvo-pastorale di questa parte dell’Appennino minacciava di essere sconvolto da un simile, ‘liberistico’ intervento nell’uso dei boschi, tanto che il paesaggio agrario subì gravi danni per il conseguente dissesto idrogeologico. Lo spirito riformatore di Pietro Leopoldo causò così, inopinatamente, un oggettivo, graduale peggioramento delle condizioni di coloro che vivevano nella e della montagna: i GAB RI E LE M OROLLI
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quali, tra l’altro, a seguito dell’abolizione degli usi civici di vasti territori comunitativi (ogni anche minimo centro abitato possedeva un tratto di bosco ‘pubblico’, dei prodotti del quale tutti i cittadini potevano, pur fra mille limitazioni, comunitariamente fruire) e della conseguente ‘privatizzazione’ di questi (venduti di fatto al miglior offerente proprio a causa della suddetta ‘liberalizzazione’ granducale), divennero di fatto più poveri e più vulnerabili a causa del conseguente rincaro dei generi alimentari e della crisi della transumanza delle greggi montane in Maremma, resa ora sempre meno praticabile a causa delle peraltro benefiche bonifiche di quelle vaste aree impaludate. Ciò, nonostante il fatto che nel corso delle provvide, periodiche visite ai territori anche più periferici del Granducato compiute da Pietro Leopoldo stesso, questi – nelle sue Relazioni sul Governo della Toscana – riportasse una buona impressione generale dell’Appennino casentinese, ove «le montagne sono tutte piene di ottime pasture, e vestite di macchie bellissime di castagni, piene di case, tutta campagna vestita e bella con molte vigne belle e ben tenute, benché basse». Tanto che il principe, prendendo in esame le principali località, notava ad esempio (fors’anche troppo ottimisticamente) che il castello di Stia «è bello e grande […] vi è una bella chiesa antica gotica ed una bella piazza tutta quadrata e regolarmente fabbricata», e che Pratovecchio costituisce una comunità ancora «più grossa di Stia, e bella […] il castello è bene fabbricato e pulito, sta nel piano con un bel ponte sull’Arno» e che, infine, in tutto il comprensorio «il popolo vive quasi tutto del taglio e lavoro dei legnami, di castagne, e del bestiame col quale vanno l’inverno in Maremma, e vi fanno i tagliatori e i segantini». Sarebbe toccato, poi, al nipote, Leopoldo II (Fig. 48), a partire dalla fine degli anni Trenta del secolo successivo, provvedere a risanare radicalmente la critica situazione delle montagne, acquistandone direttamente le degradate foreste e praticando una sistematica, imponente opera di rimboschimento e di valorizzazione agrozootecnica del territorio, facendo giungere piantine di abete rosso, larici e betulle direttamente dall’‘imperiale’ Tirolo, retto nel secolo appena decorso dall’avo Giuseppe e dalla più lontana, ma altrettanto ‘familiare’ Boemia, intensificando le colture dei castagni ed avvalendosi di esperti ‘tecnici’, sopra tutto germanici, appositamente ‘importati’, anch’essi, nel Granducato toscano. Già nell’estate del 1837 era stata, in effetti, effettuata dal sovrano un’attenta visita di quest’area montana, chiaro segno della sua peculiare ‘sensibilità ambientale’, nel corso della quale Leopoldo II aveva colto con rammarico i segni di un grave degrado che richiedeva un sollecito intervento. Nella seconda metà del SetteI N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
47. La facciata della chiesa dell’abbazia di Vallombrosa: per secoli, al pari dell’altra grande istituzione monastica di Camaldoli, ha provveduto alla cura dei boschi casentinesi e delle foreste di Campigna e della Consuma, sul margine orientale della Val di Sieve.
48. Il granduca Leopoldo II di Toscana (1797-1870), cui va il merito, attorno al 1830, di aver risanato la montagna appenninica depauperata grazie ad una sistematica opera di rimboschimento e valorizzazione agrozootecnica.
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49. Esemplari di abete bianco (abies alba), essenza largamente diffusa nelle foreste circostanti Camaldoli e Vallombrosa: nelle Costituzioni Camaldolesi si leggono norme relative alla piantagione e alla conservazione del grande albero, eretto e solitario, che i monaci erano invitati a prendere simbolicamente a modello nella via dell’ascesi.
50. Le enormi capriate della basilica fiorentina di Santa Croce, per le quali furono impiegate centinaia e centinaia di tronchi provenienti dalle foreste appenniniche, sapientemente incatenati fra loro a mezzo d’incastri e ferri.
cento, come si diceva, l’Opera di Santa Maria del Fiore, risentendo anch’essa degli sconvolgimenti dovuti alle Soppressioni leopoldine, aveva praticamente abbandonato la gestione delle foreste, per secoli invece mantenute floride anche grazie allo straordinario impegno profuso dagli ordini monastici (in particolare i vallombrosani e, ancor più, i camaldolesi), che nel rispetto e nell’incentivazione dell’abete vedevano anche una metaforica difesa e promozione della vocazione mistica del monaco, asceticamente eretto, nei ‘deserti’ delle montagne, a presidiare, con la sua vita solitaria dedicata alla preghiera, l’intero gregge della cristianità. Non a caso, se nelle Costituzioni Camaldolesi (precocissimamente stampate nella stessa tipografia del monastero alla fine del XV secolo) si contemplano anche alcune norme relative alla piantagione e alla conservazione del grande «abete bianco» (Fig. 49), nelle stesse, fondative Regole della vita eremitica, il beato Rodolfo, potente abate di Camaldoli, scriveva rivolto ad ogni confratello, verso il 1080: «Tu sarai un abete per altezza di meditazione e di sapienza». Ma già nel corso dei secoli il commercio del legname aveva cessato di essere un’attività fiorente, anche per la progressiva crisi edilizia di Firenze: nessun committente, né pubblico né privato, aveva più promosso, dalla fine del Cinquecento, fabbriche di dimensioni tali da richiedere quelle grandiose coperture lignee per la realizzazione delle quali venivano un tempo impiegate intere ‘foreste’ casentinesi: si pensi alle smisurate capriate dell’arnolfiana Santa Croce (Fig. 50), con le catene orizzontali lignee formate da numerosi tronchi resi solidali da sapienti incastri e ferri e raggiungenti la mirabolante lunghezza di circa venti metri, o alla carpenteria gigante del soffitto del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio). Così che le selve, impoverite da tagli, incendi e potature fuori di ogni controllo, erano ormai poco o punto redditizie. Non stupisce quindi che uno sconsolato Leopoldo II, nei resoconti delle sue visite territoriali, narri: «Da San Godenzo per i prati del Castagno venni alla Falterona: le spalle ed il vertice di quel monte erano irti di tronchi giganteschi, nudi, bianchi, rotti, il suolo sparso delli avanzi caduti, vasto cimitero della nobile foresta. Questi ossami tenevano il posto che avrebbero dovuto occupare le piante e le semente novelle, triste spettacolo di riprovevole abbandono […]. S’incontravano file di uomini che mandavano avanti per stradelli cavalli e somari carichi di asserelle, fondi di bigonci, pale ed altri utensili, e levavano fuori il meglio della foresta come sciame di formiche che l’avesse invasa […]. Bisognava troGAB RI E LE M OROLLI
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var rimedio: la foresta dell’Opera, patrimonio di Toscana, doveva essere conservata ed amministrata a dovere». Dal 1838 dunque le foreste passarono direttamente alle «Regie Possessioni», proprietà personale del sovrano e furono, quindi, sapientemente risanate e amministrate dal «Selvicoltore Granducale» Karl Siemon (che poi italianizzò il proprio nome in Carlo Siemoni), fatto giungere appositamente dal granduca dalla nativa Boemia, ove aveva egregiamente ricoperto il compito di ispettore delle foreste in tali territori, vasti possedimenti dei Lorena medesimi (Fig. 51). In breve tempo il valente tecnico riuscì, così, a risollevare le sorti del patrimonio forestale appenninico attraverso una politica mirata di rimboschimenti (circa cinquecento ettari in più di foresta), di ripulitura e di diradamento, riuscendo ad impiegare in lavori ‘socialmente utili’ numerosi carbonai, boscaioli e mulattieri residenti, sia romagnoli che casentinesi. Siemon introdusse anche essenze esotiche, ampliò la viabilità forestale, fece installare una segheria ad acqua alla Lama e trasformò il podere della Campigna in una moderna ‘cascina modello’, con tanto di pregiate mucche svizzere, pecore merino e prati curatissimi. E di un così solerte e professionale amministratore delle proprietà forestali ed agrarie lorenesi in Casentino, cui si deve tra l’altro la maestosa foresta di faggi e abeti protetta oggi dal Parco nazionale delle Foreste casentinesi, lascia un ricordo anche letterariamente pregevole Leopoldo II stesso, che possedeva, innegabilmente, una qual vena di scrittura romanticamente appassionata, datatamente manzoniana: «Raggiunto che fu l’erto ed angusto crine d’Appennino, [ci] si riposò ad una sorgente. Le aquile, che hanno nido nella vicina Penna, facevan loro ruote; accanto a noi, la piaggia era seminata tutta di abeti, e quelle altere piante nell’infanzia loro erano difese dall’erba del prato. Si andò poi dove ai fianchi della Falterona si ergevano più adulte piantate; lì [ci] si riposava sotto un faggio: una nuvoletta, strisciando a lato a noi, il masso involse: andai con tutti all’aperto e dissi [che] stasser fermi. Una saetta: vento la nuvola fuga, l’albero di faccia schiantato! L’indomani varcai l’Appennino [diretto] alla mia cascina della Stradella, dimora per li uomini e le mucche nell’estate soltanto, il più elevato luogo abitato della Toscana, ove è rifugio ai viandanti presi dalle procelle o dalle nevi nella via, che è breve, ma perigliosa, dal Casentino alle Romagne. Tutto quasi il montuoso possesso, prima guasto e disboscato, era adesso ripiantato o riseminato d’abeti; dai solchi della sementa, col dirado si traevano le pianticelle alle regolari piantate. Imitavano l’esempio dell’Ispettore Carlo Siemoni altri nelle giogaie di Pratomagno, fra Casentino e Val d’Arno: l’uomo possedea l’arte ed avea la fiducia di tutti». Una situazione oltremodo positiva ed al tutto legittimante gli ottimismi di Emanuele Repetti che, a proposito delle ‘magnifiche sorti e progressive’ di quelle terre, redente da tali responsabili interventi, ‘profetizzava’ che «si può concludere che per cura dell’attuale amministrazione forestale delle RR. Possessioni, in meno di mezzo secolo i nostri nipoti potranno vedere quella parte dell’Appennino rivestita della sua più I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
51. Ritratto fotografico del boemo Karl Siemon, italianizzato come Carlo Siemoni, «selvicoltore granducale» per volere di Leopoldo II, che seppe risanare le foreste appenniniche introducendovi anche moderne infrastrutture e fattorie-modello.
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naturale e fruttuosa foresta, donde intanto ritraggono mezzi sicuri per vivere circa 300 capi di famiglia […], in guisa che da pochi anni cotest’azienda ha fatto cambiare faccia al paese; il quale languido e tristo mostravasi innanzi al 1838». E le ombrose foreste sono lì ancora oggi, sui gioghi appenninici, dopo più di un secolo e mezzo, a confermare questa previsione. Un intervento lorenese a tutto campo che investì anche, nelle sue propaggini occidentali e a quote meno elevate, il rinnovamento agricolo dei tanti poderi del profondo solco della Sieve i quali, ridimensionando le grandi proprietà terriere della antiche famiglie di origine feudale, videro intensificarsi le coltivazioni pregiate dell’olivo, della vite e del gelso, realizzando ampi terrazzamenti e costellando la campagna di ‘moderne’ case coloniche dai razionali volumi di stampo illuministico. Viabilità, economia e cultura
76 52. La Porta dell’Orologio a Pontassieve: il centro rappresentò uno snodo della nuova «barrocciabile», voluta dal granduca Pietro Leopoldo nel 1782, che univa Firenze al Casentino
La Traversa del Mugello, passante per San Piero a Sieve, Borgo San Lorenzo, Vicchio e Dicomano, tagliando longitudinalmente (in senso estovest) tutta la pianura mugellana, collegava le grandi e ‘moderne’ strade transappenniche della Futa, del rinnovato passo del Giogo, della Faentina e del Muraglione a tutte le vie minori che innervavano il vasto comprensorio e che, in effetti, conobbero, a partire dall’età di Pietro Leopoldo, uno straordinario miglioramento qualitativo e quantitativo: un impegno nella realizzazione di nuove «carrozzabili» che nasceva essenzialmente dal desiderio di sviluppare economicamente il territorio, rivitalizzando i commerci persino in una delle aree più emarginate del Granducato quale la cosiddetta Romagna Toscana, mantenuta sino ad allora sostanzialmente priva di strade di rapido scorrimento, soprattutto per ragioni strategiche di difesa territoriale. In effetti Pietro Leopoldo, nel 1782, con un Motu Proprio aveva ordinato la costruzione di una nuova strada «barrocciabile» nel tratto Firenze-Pontassieve-Dicomano-San Godenzo, avendo tra i suoi obiettivi anche il recupero di questa zona appenninica rimasta a lungo emarginata (Fig. 52): e non a caso una cinquantina di anni dopo il di lui nipote, il granduca Leopoldo II, a seguito delle sue analitiche «visite» in tutti i territori del suo nuovo regno, spesso accompagnato da ingegneri, architetti, artisti e scienziati, ci ha lasciato un’interessante descrizione di quest’area periferica: «La Romagna granducale è un paese tutto montuoso e formato da diverse strette vallate lungo i fiumi, divisi l’uno dall’altro da asprissime ed altissime montagne. I monti in cima sono quasi tutti o con poca macchia di faggi o con puri scogli nudi o con poche pasture da pecore. Le vallate sono coltivate, sementate e con molti alberi da frutto e castagni e molto abitate [...]. Le strade della Romagna, tanto maestre che traverse, sono tutte perfide, sassose, strette, pericolose e tutte rotte e dilavate dalle acque, e non possono essere altrimenti in quei botri e dirupi continui». GAB RI E LE M OROLLI
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E, sempre con la straordinaria, sintetica capacità di giudizio che caratterizza i resoconti dei sopralluoghi granducali, il nonno dello stesso Leopoldo II, il riformatore illuminato Pietro Leopoldo, già aveva mezzo secolo prima ‘fotografato’ una ben meno rosea situazione economica di quell’area e montana e valliva: «Dicomano è castello molto popolato, molto più dai vetturali e da gente che bada al suo traffico; ed in San Gaudenzio sono tutta gente che va a passar l’inverno in Maremma» (Fig. 53). Una popolazione montana dedita cioè, di necessità, ad attività diversificate, carrettieri, mulattieri e poveri braccianti ‘transumanti’ verso quelle Maremme in via, adesso, di bonifica. Una particolare sollecitudine di questo principe illuminato nei confronti delle popolazioni di questo territorio (di confine e per molti secoli abbandonato a se stesso) che è riflessa anche dalla già ricordata politica ecclesiastica lorenese, tesa a radicare i parroci delle comunità alpestri ai luoghi stessi in cui sorgevano le chiese di pertinenza, in modo da costituire veri e propri centri di aggregazione sociale per pastori e contadini, favorendo la stessa ricostruzione di molti edifici sacri (oltre alle chiese parrocchiali, dotate di ampie canoniche e di ‘salubri’ cimiteri all’esterno degli abitati, si ricordano i piccoli ospizi montani lungo strada, a loro volta collegabili al più ampio fenomeno delle dogane granducali). Con la restaurazione dei Lorena sul trono di Toscana, dopo il ventennio napoleonico e la conseguente, definitiva affermazione del liberismo economico (vennero aboliti anche gli ultimi divieti di esportazione per lana, seta, bestiame, olio e cereali), intenso fu il fenomeno della costruzione di nuove rotabili realizzate per favorire i crescenti flussi commerciali ed uno degli interventi più impegnativi riguardò appunto la carrabile che, dopo San Godenzo, conduceva in Romagna attraverso il passo del Muraglione, realizzata tra il 1832 e il 1836 su progetto di Alessandro Manetti, il potente ingegnere capo della ‘politecnica’ Direzione Generale delle Acque e Strade del Granducato. L’abilità del geniale tecnico ebbe ragione delle difficoltà orografiche dei versanti attraversati i quali, per gli arditi scoscendimenti, appena mezzo secolo prima avevano scoraggiato il grande «matematico regio» Pietro Ferroni, peraltro vincitore della sfida del tracciamento della «barrocciabile casentinese» (1787-1788) che saliva in Casentino dalla Val di Sieve tramite il valico del nuovo «borgo di strada» della Consuma. Adesso dunque, finalmente, la nuova strada del Muraglione, costellata di ‘opere d’arte’, espressioni in alcuni casi della più moderna ingegneria e testimonianze dell’attenzione lorenese all’architettura della pubblica utilità, metteva in comunicazione permanente anche la Romagna col territorio toscano. La fattiva politica riformatrice lorenese era in effetti ‘da sempre’ stata più sensibile alle opere ‘civili’, di utilità pubblica, che a quelle di ‘rappresentanza’ e in particolare alla I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
53. Uno scorcio di Dicomano, nodo della strada transappenninica per le Romagne rinnovata da Pietro Leopoldo il quale, nelle sue Relazioni, annotava: «Dicomano è castello molto popolato, molto più dai vetturali e da gente che bada al suo traffico; ed in San Gaudenzio sono tutta gente che va a passar l’inverno in Maremma».
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54. La diga del laghetto di Londa, situata sulla deviazione che, da Contea, univa la viabilità granducale di fondovalle al Casentino.
realizzazione di strade transappenniniche di grande comunicazione: si pensi al capolavoro realizzato negli anni Settanta del XVIII secolo da Leopoldo Ximenes, scienziato e ingegnere di grande valore, per conto di Pietro Leopoldo, con l’apertura della strada Tosco-Modenese del valico dell’Abetone. Impresa replicata, adesso, dalla strada del passo detto del «Muraglione», a causa dell’ardito manufatto edificato nel 1836 per proteggere carri, carrozze, viandanti e cavalli dall’impeto dei venti che soffiavano senza freni sull’alto crinale, donde la vista spazia sino al Falterona. Una nuova via che rappresentò una prima, grande occasione di sviluppo per i piccoli centri dislocati lungo tale tracciato viario, conseguendo un impatto, oggi si direbbe, sulle dinamiche territoriali della zona paragonabile a quello che, mutatis mutandis, l’Autostrada del Sole ebbe, nel suo tratto appenninico tra Bologna e Firenze, negli anni Sessanta del Novecento, per l’economia (e anche per l’ecosistema) della montagna tosco-emiliana. Non vi è dubbio, insomma che il tracciamento sette-ottocentesco della nuova rete stradale granducale che da Pontassieve risaliva la Val di Sieve fino al passo del Muraglione in direzione della Romagna, compresa la deviazione da Contea-Londa per il Casentino (Fig. 54), inserita nel più vasto quadro delle riforme delle politiche territoriali dei Lorena, abbia inciso profondamente nello sviluppo economico-sociale dell’intera vallata della Sieve. Un’area che comprendeva e comprende realtà geografiche ed insediative assai diversificate, passando infatti dalle zone pianeggianti più vicine al corso d’acqua a quelle collinari più all’interno, per giungere infine alle aree d’alta quota della catena appenninica. Si sale, così, dalle zone più coltivabili, caratterizzate dalla viticoltura di pregio e con intensa presenza di oliveti, a quelle montane ove l’agricoltura diviene sempre più marginale, mentre si vanno affermando i castagneti prima e poi i boschi di querce e faggi, per giungere infine alle abetine e ai pascoli delle aree più elevate. I centri principali: tra arte e storia Alla confluenza del torrente Comano con la Sieve, l’abitato di Dicomano, sviluppatosi sui resti dell’antica Decumanum distrutta dai barbari e ricostruita dai Longobardi, fu già dal XII secolo un importante centro commerciale della media valle, sede di un frequentato mercato di grani, di bestiame e di manufatti. Feudo dei conti Guidi, la «terra» venne acquistata dalla Repubblica di Firenze nel 1375 e divenne «comunità» nel 1774 a seguito della riforma amministrativa voluta dai Lorena. Non a caso, lungo la nuova strada transappenninica, appena fuori dell’antico abitato, sorge l’oratorio di Sant’Onofrio, uno dei più interessanti esempi di architettura toscana del Neoclassicismo, realizzato tra il GAB RI E LE M OROLLI
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1792 e il 1795 per commissione di Piero Dalle Pozze onde degnamente ospitare la venerata immagine della duecentesca Madonna dell’antico spedale per pellegrini del Bigallo, soppresso da Pietro Leopoldo nel 1785 (Fig. 55). Fra le conseguenze del ripristino delle pratiche di culto religioso ‘popolare’, in reazione agli ‘eccessi’ rigoristici delle riforme di stampo giansenista poste in atto dal vescovo ‘progressista’ Scipione de’ Ricci ed espressamente volute dallo stesso granduca Pietro Leopoldo (poi chiamato a Vienna, nel 1790, a sostituire sul trono imperiale il fratello deceduto, Giuseppe), si ebbe anche il ritorno alla devozione dei santi, particolarmente favorita dal nuovo granduca, Ferdinando III, figlio dello stesso Pietro Leopoldo. In effetti il progetto, realizzato da Giuseppe Del Rosso e considerato sbrigativamente da alcuni autori come un piccolo, ma emblematico esempio di ‘manifesto’ architettonico del classicismo illuministico a causa della vocazione ‘progressista’ che sarebbe poi stata caratteristica della maturità del suo autore (Del Rosso sarebbe divenuto effettivamente uno degli operatori più ‘compromessi’ col futuro regime francese, giacobino prima e poi imperiale, in Toscana, incontrando fatalmente più di un problema professionale al momento della restaurazione lorenese), appare piuttosto un emblematico ‘compromesso’ tra la vocazione appunto razionalistica e antiquaria della cultura edificatoria toscana di fine secolo e, per così dire, il neotradizionalismo ‘codino’ amato dal non certo ‘progressista’ Ferdinando III, deciso a favorire, in contrapposizione col riformismo anche religioso paterno, il ritorno alla devozione anche esteriore che tanto a cuore stava alla gente comune. L’autore si trovò, quindi, in certo modo costretto a conciliare la ‘restaurazione’ religiosa del nuovo corso ferdinandeo con i criteri di accesa ‘modernità’ maturati architettonicamente nel precedente periodo leopoldino, riuscendo comunque a dare prestigio e maestà ad un edificio di modeste dimensioni, sorto in un’area del tutto periferica rispetto ai principali centri ‘moderni’ di elaborazione estetica e culturale della regione. Siamo quindi in presenza di una significativa testimonianza artistica della non sempre facile accettazione, da parte della popolazione, delle idee innovative di quel grande principe illuminato che era stato Pietro Leopoldo; di un edificio sacro destinato a ospitare, non a caso, una veneratissima immagine della Madonna, che venne racchiusa in una struttura formale sì improntata genericamente all’estetica del Settecento classicistico, ma anche attenta alla ricchezza e all’eleganza di forme capaci di sedurre l’ingenua anima popolare: una sorta di compromesso fra la severità anticheggiante del precedente gusto leopoldino e l’amore ferdinandeo per un fasto cattolico più trionfante ed estrinseco. Una piccola architettura-manifesto del ‘ritorno all’ordine’ imposto dal ‘nuovo corso’ lorenese che giustifica, almeno in parte, l’altrimenti singolare, per certi versi persino eccessiva e ‘fuori luogo’, raffinatezza delle decorazioni sia interne che esterne in una costruzione appunto periferica, per così dire marginale nell’economia generale del territorio granducale: fabbrica che però, a ben pensare, era strategicamente collocata proprio al termine della ‘discesa’ dal valico appenninico e pronta, quindi, ad essere osservata da tutti i viagI N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
55. L’oratorio di Sant’Onofrio a Dicomano, uno dei più interessanti esempi del Neoclassicismo toscano, eretto tra il 1792 e il 1795 da Giuseppe Del Rosso per ospitare l’immagine della Madonna dell’antico spedale del Bigallo, soppresso nel 1785.
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56. La chiesa di San Giovani Battista a Sandétole (1714-1724), presso Contea, riccamente ornata all’interno, con un elegante coro ligneo e ricchi arredi di sagrestia.
giatori stranieri, ai quali avrebbe così offerto un aggiornatissimo saggio del nuovo grand goût che contraddistingueva la cultura architettonica ufficiale dello Stato in cui erano appena entrati. Un esempio che venne poi, in effetti, seguito almeno nel caso dell’oratorio della Vergine della Purità alla Villa di Poggio, realizzato o alla fine dello stesso XVIII secolo o nei primissimi anni del secolo successivo, secondo caratteri stilistici assai vicini a questa elegante opera di Giuseppe Del Rosso. Sempre in Dicomano si deve, poi, ricordare anche il Palazzo Comunale, opera classicistica di Mariano Falcini del 1851; mentre, oltre alla già citata pieve romanica di Santa Maria (pesantemente ‘restaurata’ in chiave neomedioevale da Ezio Cerpi nel 1924 e ‘bonificata’ drasticamente nel 1975), nei dintorni si segnalano sia la medioevale pieve di San Martino a Corella, rinnovata nel Settecento, sia la parrocchiale di San Giovani Battista a Sandétole (da San Ditale), presso Contea, del 1714-1724, con ricco interno risalente agli anni Trenta sempre del Settecento, ospitante tele di Orazio Fidiani e Michele Pacini, nonché un elegante coro ligneo e ricchi arredi di sagrestia (Fig. 56). Un gusto per l’ammodernamento degli antichi edifici sacri già riscontrato anche nelle chiese dei dintorni della ‘porta’ occidentale della valle, nei dintorni di Vicchio, ove si ricordano le innovazioni appunto settecentesche per il San Cristoforo di Casole, ricostruito nel 1791, o per il nuovo campanile di Vezzano, del 1777. Infine, come esempio di moderno gusto storicistico, si ricorda la chiesetta di San Jacopo a Fràscole, opera di Ezio Cerpi del 1921. San Godenzo, posto a circa quattrocento metri sul declivio montano, ha visto il suo abitato svilupparsi attorno all’omonima abbazia benedettina eretta nel territorio feudale dei conti Guidi: donata dal vescovo di Fiesole Iacopo il Bavaro nel 1029 ai benedettini, questi vennero sostituiti nel 1453 dai serviti della Santissima Annunziata di Firenze (Comune che aveva già acquistato il territorio circostante dagli stessi conti Guidi nel 1344), monaci che restarono qui insediati sino alla soppressione napoleonica del 1808. Alla tradizionale economia incentrata sullo sfruttamento delle estesissime faggete (se ne ricavava carbone che poi veniva rivenduto soprattutto a Firenze) e dei pascoli appenninici (vi si allevano sterminati greggi di pecore che con la cattiva stagione venivano condotte a svernare in Maremma, con transumanze tanto pittoresche quanto rischiosissime per i pastori a causa del clima insalubre delle paludi), venne nel tempo ad affiancarsi e, poi, a sostituirsi un più dinamico sviluppo favorito dalla costruzione della grande strada di comunicazione del Muraglione (1836) e dal fenomeno, caratteristico soprattutto della seconda metà del XIX secolo, della villeggiatura di «mezza montagna» (Fig. 57). Ed è nell’ambito di questa ‘rinascita turistica’ della zona che si collocano anche i già ricordati restauri stilistici ‘subiti’ dall’antica chiesa abbaziale (sempre a cura di Ezio Cerpi, 1921-1929). Il territorio del comune di Londa (il cui antico nome era «Isola dell’Onda» in quanto piccolo centro racchiuso tra le acque dei due torrenti Rincine e Moscia) si GAB RI E LE M OROLLI
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estende in una zona sia collinare che montuosa, sui fianchi occidentali del monte Falterona. Insediamento etrusco del VI secolo a.C., poi villaggio romano, nel Medioevo appartenne ai conti Guidi, per passare poi, nel Trecento, ai Bardi che lo vendettero, infine, alla Repubblica fiorentina. Nel XVII secolo il comprensorio venne concesso dai Medici in feudo alla famiglia Guadagni finché, nel 1776, con l’abolizione lorenese degli antichi privilegi, divenne autonoma comunità. Come già ricordato, l’antica pieve di San Martino, situata nei suoi immediati dintorni, all’imbocco della stretta valle, presso Contea, venne rinnovata nel XVIII secolo. Nei suoi immediati dintorni si ricordano le piccole pievi medioevali di San Leonino e di Rincine. Sempre procedendo lungo il corso della Sieve, dopo la deviazione per Pomino (in posizione elevata, la cittadina si segnala per la presenza della pieve romanica di San Bartolomeo (Fig. 58), di tipo valdarnese e per i pittoreschi dintorni, ove spiccano la villa delle Lame e la fattoria del Palagio, nonché l’‘alpestre’ chiesetta romanica di Santa Margherita di Tòsina), si incontra poi l’abitato di Rufina, toponimo di probabile origine etrusca derivato dal nome di una gens Rufena insieme a quello dall’omonimo torrente che lo attraversa. L’insediamento più antico, con la pieve dedicata a San Martino, ristrutturata nel 1819, era posto più in alto rispetto alla cittadina attuale, per ovvi motivi di difesa e di controllo del fondovalle. La zona fu contesa a lungo nel Medioevo tra i vescovi di Fiesole e i conti Guidi, per poi passare sotto il dominio fiorentino. Monumentale testimonianza della florida economia agraria è la tardocinquecentesca villa detta di Poggio Reale, mentre risalgono al XVIII secolo i lavori di arginatura del torrente, oggi inglobato nel moderno tessuto urbano (Fig. 59). Nei dintorni, a Cigliano, due lapidi serbano memoria delle visite compiute nel 1829 e nel 1838 da parte di Leopoldo II e della granduchessa Amalia. Sigillo meridionale, infine, della Val di Sieve e, al tempo stesso, porta di accesso alla valle dell’Arno per l’intero comprensorio sia montano che mugellano, la cittadina di Pontassieve ha da sempre fatto fruttare la propria posizione strategica, alla confluenza di due direttrici viarie importantissime fin dall’epoca romana, quella dell’antica Cassia, che univa I N M U G E L L O E VA L D I S I E V E : L E S TA G I O N I D E L L’A R C H I T E T T U R A
57. Il gruppo bandistico «Giuseppe Verdi» di San Godenzo in una foto degli anni Venti, dall’Archivio comunale: lo sviluppo del borgo fu favorito dall’apertura della nuova strada del Muraglione nel 1836 e dal diffondersi della villeggiatura di «mezza montagna».
58. La pieve di San Bartolomeo a Pomino, sulla strada che collega la Val di Sieve a Borselli e, di qui, alla Consuma.
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59. Una sala del Museo della Vite e del Vino ospitato nella villa rinascimentale di Poggio Reale a La Rufina, al centro d’una zona di grande pregio enologico. 60. Mimose fiorite incorniciano il cinquecentesco ponte mediceo di Pontassieve.
Firenze ad Arezzo e poi a Roma, e quella che, salendo verso Dicomano, collegava la Toscana con la Romagna. Il paese, in passato conosciuto come Sant’Angelo a Sieve, ha poi assunto il nome attuale dal ponte che, in prossimità del suo abitato, scavalcava la Sieve, mettendo in comunicazione il territorio fiorentino sia col Valdarno Superiore, sia col Casentino, sia con gli itinerari appenninici che si dipartivano dall’intero Mugello (Fig. 60). Soggetta nel Medioevo alla consorteria feudale dei da Quona, Pontassieve entrò a far parte del dominio fiorentino sin dall’inizio del XIII secolo, anche se il vero sviluppo venne determinato in gran parte dall’apertura, all’epoca di Pietro Leopoldo, della nuova strada per il Casentino attraverso il passo della Consuma (realizzata, come si è visto, dal matematico Pietro Ferroni nel 1787-1788), fatto ricordato anche da Emanuele Repetti: «Trovasi la Terra del Pontassieve [...] attraversata dalla vecchia strada regia, ora accosto alla nuova postale d’Arezzo, poco lungi dal nuovo ponte edificato sulla Sieve all’occasione della costruzione della regia strada forlivese [...]. Il nuovo ponte sulla Sieve [più volte poi ricostruito] al passo dell’attuale strada regia per Arezzo e Forlì, ha tre archi ed è assai pianeggiante. Esso fu incominciato nell’agosto 1837 e aperto al pubblico nell’ottobre dell’anno 1840». Tale pregevole esempio di architettura lorenese della pubblica utilità, successivamente rinnovato nel 1888, distrutto dagli eventi bellici nel 1944 e poi riedificato, era sorto a valle di quello mediceo del 1555 (ancora esistente, sebbene anch’esso danneggiato dall’ultima guerra) che, con le sue due arditissime arcate laterizie su un’unica, alta pigna lapidea, era a sua volta venuto a sostituire quello più antico, risalente al Medioevo. Già nel Settecento il Municipio (antico palazzo Sansoni Trombetta) era stato rinnovato, al pari della medioevale chiesa di San Michele Arcangelo, annessa al convento agostiniano soppresso dai Lorena nel 1783, rifatta nel 1788 e consacrata dall’arcivescovo di Firenze, distrutta anch’essa nel 1944 a seguito degli eventi bellici e presto ricostruita su disegno del soprintendente «ai monumenti» dell’epoca, l’architetto Guido Morozzi. Nell’Ottocento era sorta pure la cappella della Misericordia, GAB RI E LE M OROLLI
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decorata da Angelo Noveri, mentre Donato Grassi nel 1852 progettava il restauro della torre dei Filicaia, detta anche dell’Orologio. Nel territorio si registrano alcune significative emergenze, quali il decoratissimo oratorio di San Francesso d’Assisi a Doccia, del 1747, impreziosito per volontà della famiglia Lunardi da pitture illusionistiche, stucchi, altari e intagli secondo il miglior gusto rococò; la medioevale chiesa dei Santi Giusto e Martino a Quona, già rinnovata nel Cinquecento e trasformata nel 1748 con altari e confessionali alla moderna, impreziosita all’inizio dell’Ottocento da alcuni affreschi di Luigi Ademollo, dotata di campanile nel 1855 e ‘restaurata’ nel 1902; la pieve di San Martino a Lubaco (o Lobaco), medioevale (singolare l’impianto psudo-basilicale con grandiosi pilastroni cilindrici sostenenti originariamente un complesso tetto a capriate, sul tipo delle pievi di Sant’Agata e di Cornacchiaia, funzionali al medioevale passo appenninico dell’Osteria Bruciata presso il Giogo), rinnovata nel 1751 (compresa la ‘moderna’ canonica) e ricondotta alla «pristina purezza» nel corso del XX secolo con la drastica eliminazione dell’ornato barocco; l’antichissima Pieve di Sant’Andrea presso Doccia, dotata di un rinnovato interno e di una nuova facciata nel 1765, il tutto cancellato da nuovamente drastici restauri del 1921 e, ancora, del 1968 che risparmiarono solo il portale; la medioevale chiesa di San Martino a Molin del Piano, rifatta integralmente in forma ottagona nello stile di Bernardo Fallani o di Zanobi Del Rosso grazie a un finanziamento dello stesso Pietro Leopoldo nel 1786 (campanile del 1788) e consacrata dall’arcivescovo fiorentino Martini; la cappella della Beata Umiliata nel castello di Acone, rinnovata e ampliata nel Settecento al pari di quella della villa-fattoria dei Gondi a Bossi, poi rimaneggiata anche nel secolo successivo; il santuario medioevale della Madonna del Sasso (Fig. 61), trasformato in epoca rinascimentale e barocca e in parte ricostruito nel 1830, poi distrutto per eventi bellici nel 1944 e ripristinato; infine, l’oratorio di Santa Cristina in un’altra villa-fattoria della famiglia Gondi, rinnovato nel 1832. Da ricordare, infine, fra i tanti castelli feudali che costellano questo territorio montano, quello del Trebbio presso Santa Brigida, rinnovato dai Pazzi nel XV scolo e restaurato in stile nel XIX secolo; o quello di Torre a Decima, presso Molin del Piano, sempre appartenuto alla potente famiglia fiorentina e sempre di origine duecentesca, poi rinnovato nel Quattrocento.
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61. Il santuario medioevale della Madonna del Sasso, trasformato in epoca rinascimentale e barocca; in parte ricostruito nell’Ottocento, fu distrutto nel 1944 e quindi ripristinato.
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Percorsi
l’antichità1 la viabilità mugellana antica: echi e riflessi dal medioevo a oggi
L
’esistenza, sia in Mugello che in Val di Sieve,2 di un’antica viabilità di attraversamento si tramanda nella tradizione toscana. Qua e là essa ha trovato riscontro in alcune scoperte che, replicatesi talvolta lungo vere e proprie direttrici viarie, ne hanno effettivamente confermato la plausibilità. Una delle antiche vie mugellane, la Faventina, è peraltro citata in un repertorio viario romano, l’Itinerarium Antonini, datato al III secolo, e trova un riscontro diretto nella fonte storica di Paolino di Milano, relativa al viaggio di sant’Ambrogio da Faenza a Firenze nel 393.3 Alcune opinioni riconducono poi a un’antica direttrice stradale fra Romagna e Val di Sieve, lungo il percorso dell’attuale strada statale 67 Tosco-Romagnola4, mentre altre ipotesi riguardano due direttrici nord-sud poste ai limiti occidentali del Mugello o nel suo settore centro-occidentale, nonché assi est-ovest nella Val di Sieve meridionale.5 Più complessa risulta l’identificazione del percorso dell’asserita strada fra Arezzo e Bologna, il cui itinerario non è chiarito dall’unica fonte storica che la cita, Tito Livio.6 Molteplici sono le ipotesi avanzate da parte degli studiosi moderni, tradottesi in direttrici alternative che non riguardano solo Mugello e Val di Sieve o addirittura non li concernono affatto: non senza, comunque, che nei due comprensori numerosi valichi, quasi tutti, siano stati variamente attribuiti, in tempi e da ricercatori diversi, a tale percorso7 (Fig. 1). Nel passato, del resto, l’intero Mugello doveva essere interessato da un sistema assai fitto di strade – spesso collegate, quasi a formare una rete – non sempre frequentate in modo costante o considerate ugualmente importanti nel corso del tempo,8 e talvolta provviste di inaspettati diverticoli viari. Probabilmente il Mugello non costituiva ancora, come è accaduto in seguito a molti comprensori medievali, una vera e propria «area di strada»,9 ma forse era già occupato, qua e là, da veri e propri «fasci di percorsi» (cfr. qui note 5, 14). L’uso maggiore o minore d’una via dipendeva verosimilmente, in Mugello come altrove, dalle variaLA VIAB I LITÀ M UG E LLANA: EC H I E RI F LE S S I
LUCA FEDELI Archeologo, Direttore, Coordinatore della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana
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1. Un diverticolo viario della «Strada Regia romana» conservato presso la frazione de La Castellana (Scarperia).
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2. La direttrice della «strada Regia romana» vista dal Mugello (sopra Marcoiano, frazione di Scarperia): si noti in alto il valico appenninico dell’Osteria Bruciata.
zioni meteorologiche stagionali (le vie di crinale saranno state prevalentemente usate durante i mesi di bel tempo, non fosse altro che per la transumanza) o dalle mutevoli contingenze dei diversi periodi storici. Così, la basilare via dell’Osteria Bruciata (Fig. 2) fu abbandonata dopo che l’espansionismo fiorentino del Trecento ebbe portato alla fondazione di Scarperia e Firenzuola: essa rese infatti preferibile la nuova strada del Giogo, indenne dalle continue grassazioni che gli Ubaldini favorivano, a danno dei passeggeri, lungo l’altro percorso.10 Del resto, basta risalire a testimonianze di mezzo secolo fa o poco più per ricostruire situazioni che persistevano da secoli o perfino da millenni, ma di cui frattanto – per quanto possa sembrare strano – si è persa traccia o quasi.11 L’abbandono dei nostri monti (che fin dopo la metà del Novecento erano assai popolati), l’avvento dell’automobile, l’apertura delle rotabili e delle autostrade12 hanno costituito fattori che, con altre concause, hanno tutti drasticamente mutato la viabilità appenninica maggiore, destituendo affatto d’utilità quella minore delle mulattiere e dei sentieri. Modifiche dei percorsi stradali, lo si è visto, si erano comunque avute anche in precedenza. Per esempio, le vie di crinale – utili come accennato per la transumanza e quasi indispensabili in tempo di pericoli quali banditismo di strada, vessazioni feudali e guerre, oppure in presenza di pendici, falde o valli soggette a rischio idrogeologico – furono spesso preferite fino all’età moderna, nonostante gl’inconvenienti stagionali connessi all’altitudine, al freddo e al maltempo, ma sono state tralasciate in epoca contemporanea, quando i rischi connessi a vie di comunicazione situate più in basso sono diminuiti o, comunque, i vantaggi hanno fatto aggio su di essi.13 Importanti mutamenti – lo abbiamo visto – si erano avuti già nel Medioevo: per esempio, la creazione di nuclei secondari di controllo da parte dei centri dominanti (le «terre nove» che in epoca comunale ripresero il ruolo delle coloniæ dell’età antica) fu spesso dovuta all’esigenza di custodia del territorio e comportò frequentemente l’apertura di nuove strade e l’abbandono di vecchi manufatti viari. Qualcosa di simile può essere accaduto, in qualsiasi epoca, anche nel caso di gravi eventi alluvionali o franosi. Oggi succede talvolta, in occasione di sterri d’ampia portata, di trovare resti d’antichi ponti interrati in luoghi in cui di essi si era persa memoria.14 Oppure, càpita che frane riportino improvvisamente alla luce resti d’insediamenti dimenticati:15 se poi essi emergono vicino a rinvenimenti precedenti, la scoperta può evidenziare inaspettati allineamenti e rimandare ad antiche direttrici stradali. Queste ultime, del resto, possono essere desunte anche da ritrovamenti archeologici già noti, che – a un’osservazione complessiva – risultino allineati fra sé o connessi a toponimi significativi.16 LU C A F E D E L I
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Ormai sono soprattutto le aree di montagna a rivelare antichi allineamenti viari; se è vero infatti che spesso i terreni montani non sono più coltivati e che dunque è più raro che ne provengano segnalazioni archeologiche, è vero anche che il relativo abbandono degli ultimi decenni li ha preservati dai recenti sistemi di aratura profonda; e che, inoltre, indagini e ricerche di superficie sono andate ultimamente focalizzandosi proprio su di essi,17 poiché il fondovalle e perfino le falde montane risultano ormai ingombri dalla quantità crescente d’insediamenti, che magari insistono su emergenze archeologiche e ne rendono difficile l’indagine. Accade dunque che serie di rinvenimenti allineati o perfino di semplici toponimi significativi18 inducano gli archeologi a ipotizzare l’esistenza d’una via; oppure che, viceversa, la sussistenza – fra due centri – d’un itinerario privo di forti soluzioni di continuità geomorfologica induca a formulare ipotesi,19 a effettuare indagini e consenta magari di trovarvi continuativi tratti stradali, addirittura basolati. In tal caso, l’opportunità d’identificare i tratti in questione con questa o quell’antica via menzionata dalle fonti si rivela non solo naturale, ma anche foriera di discussioni, polemiche e nuove proposte. È appunto il caso di alcuni lunghi tratti basolati di una strada montana che compaiono dal passo dello Stale20 a monte Bastione, al confine fra Toscana ed Emilia (Fig. 3), cui possono essere collegati alcuni elementi d’epoca altomedievale, corroborati da fonti storiche antiche, da ipotesi contemporanee e, last but not least, dall’unica datazione archeometrica resasi possibile in zona.21 Tali basolati sono stati scoperti fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento,22 secondo alcuni dopo secoli d’oblio, riscoperti secondo altri soltanto dopo pochi decenni,23 e si trovano lungo la direttrice identificata,24 fino almeno agli anni Quaranta, col tragitto di un’antica via fra Padania ed Etruria. Esso era usato ancora in epoca moderna, tramite la strada secondaria fra Emilia e Toscana che nel Settecento si denominava «via della Faggeta» o delle «Cannove»,25 cui si collegano le fornaci da calce tardomedievali o rinascimentali di Piana degli Ossi (Fig. 4).26 I tratti basolati Stale-Bastione corrono su di una lunga dorsale orientata nord-sud, normale al crinale appenninico e sono stati cautamente riportati a epoca romanorepubblicana,27 tardoantica-altomedievale (v. qui, nota 21) o moderna;28 nel primo caso sono stati addirittura identificati con la strada menzionata da Livio e denominata dai moderni, per convenzione, «via Flaminia minore» (o alternativamente «militare», secunda o àltera).29 Come si è visto, la tentazione d’identificare vecchie porzioni lastricate con questa o quella via citata dalle fonti antiche LA VIAB I LITÀ M UG E LLANA: EC H I E RI F LE S S I
89 3. I tratti stradali rinvenuti sulla dorsale toscana fra Setta e Savena (non lontano da Bruscoli, frazione di Firenzuola) negli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
4. Una delle fornaci da calce rinascimentali rinvenute alla Piana degli Ossi (presso Bruscoli, frazione di Firenzuola), fotografata durante i restauri eseguiti dopo lo scavo del 1989 dal locale volontariato archeologico.
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5. I tratti stradali rinvenuti a nord della frazione di Santa Lucia, presso Monte di Fo’ (tra Barberino di Mugello e Firenzuola), paralleli alla strada regionale 65, rinvenuti negli anni Novanta del Novecento.
6. I resti del ponte di San Giovanni in Petroio (presso Barberino di Mugello), scoperti nel 1992 e indagati dal 1995 al 1998; si noti, in alto a sinistra, la chiesa di San Giovanni.
diventa spesso irresistibile; non è negativa in sé, purché si tenga conto dell’effettiva datazione dei ritrovamenti archeologici del comprensorio e, soprattutto, non si cerchi di forzarla a dimostare questo o quell’assunto. Ma, a dispetto di ciò, possono diventare allettanti le aspettative turistiche (una datazione ad epoca romana – chissà perché – si rivela più seducente, per esempio, di una riferibile a epoca altomedievale), che risultano poi determinanti per reperire fondi atti a proseguire le ricerche, organizzare convegni, pubblicare atti e stampare materiale illustrativo o pubblicitario. Qualcosa del genere è accaduto, per effetto di trascinamento, anche alcuni chilometri a valle, per lastricati30 (vedi Fig. 5) rinvenuti negli scorsi anni Novanta lungo la stessa direttrice, presso l’attuale strada regionale 65, che fu attrezzata negli ultimi anni dell’ancien régime e asfaltata nel Novecento: anche qui si è subito parlato di antica via romana, senza domandarsi se i lastricati non vadano magari attribuiti a tratti d’una vecchia mulattiera, risultati poi troppo ripidi per essere mantenuti nella carrozzabile settecentesca. Si pensa spesso che il tipo di basolato e i diversi sistemi di allettamento stradale possano fornire dati certi sulla datazione d’una via, ma l’esperienza contraddice tale assunto: recenti studi, al contrario, hanno rivelato che i tipi di manto mutano piuttosto nei siti che nelle epoche e che non è facile rilevare generi di sterro e di copertura viari davvero propri di un’epoca.31 Cambia anche, come si è visto, l’importanza delle fasce di collegamento, da quelle di crinale a quelle vallive, da quelle montane a quelle collinari, con una generale tendenza contemporanea, come accennato, ad abbandonare le aree e le vie di montagna. Càpita dunque, oggi, di trovare ormai circoscritte al traffico locale strade – quali la Faentina – citate persino nell’Itinerarium Antonini: e accade pure di trovare abbandonate alcune strade la cui antica importanza è attestata dai notevoli ritrovamenti archeologici occorsi lungo le rispettive direttrici. È così, evidentemente, che sono state neglette le vie che s’incrociavano sul ponte di San Giovanni in Petroio (Fig. 6), indagaLU C A F E D E L I
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to un decennio fa, consolidato e tutelato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana32 e oggi sommerso dalle acque nell’invaso del Bilancino. Dovette rovinarlo un’enorme piena della Sieve, che mutò perfino il corso del fiume, probabilmente la terribile alluvione del maggio 1333 ricordata da Giovanni Villani:33 si tratta presumibilmente del ponte attraversato da Filippo III re di Francia nel 1271, da papa Gregorio X nel 1273, da Dante studente a Bologna intorno al 1286 e dalle folle di pellegrini che andavano a Roma e ne tornavano per il grande Giubileo del 1300.34 Il passo dell’Osteria Bruciata (cfr. figura 2 a pag. 84), che esso permetteva di raggiungere, costituì uno dei quattro principali valichi che nel Medioevo collegavano l’Italia peninsulare al resto d’Europa, insieme alla Cisa (fra le odierne province di Massa-Carrara e Parma), al passo di Serra (fra le province di Arezzo e Forlì-Cesena) e a quello di Scheggia (fra Perugia e Pesaro-Urbino). Nel Duecento la via dell’Osteria Bruciata acquisì un’importanza tale da essere denominata «via Regia romana»35 o, nell’Europa settentrionale, «via dei monaci»36 (quelli, evidentemente, che scendevano verso Roma o che, perfino, s’imbarcavano per la Terrasanta); tuttavia, l’abbiamo visto, fu a sua volta abbandonata dal grande traffico nel corso del Trecento (Fig. 7). Del resto, tornando al diverso ‘gradimento’ per singole strade nelle diverse epoche, non dimentichiamo che il sacro romano imperatore e primo granduca lorenese Francesco Stefano – quando nel 1739 scese per il passo del Giogo, venendo da Vienna a Firenze con sua moglie, la celeberrima Maria Teresa d’Asburgo – rimase tanto contrariato per lo stato della via da ordinare che si cercasse una direttrice migliore. Fu così che venne realizzata l’attuale strada regionale 65,37 a sua volta decaduta da quando – nei primi anni Sessanta del Novecento – è stato aperto il tratto appenninico dell’A1. Peraltro alcuni tratti della Bolognese di Francesco Stefano, quelli più erti e meno carrozzabili, furono tralasciati già tra Ottocento e Novecento:38 a essi appartengono forse i bei lastricati rinvenuti a monte di Santa Lucia, a occidente di Monte di Fo’, presso la regionale 65. Erano dimenticati, sepolti dai detriti del bosco, ma ancora oggi vengono catastalmente denominati «via Vecchia bolognese». È difficile capire se con questa denominazione i cartografi si siano riferiti a tronchi della via settecentesca, l’attuale strada della Futa, dismessi fra Ottocento e Novecento, oppure a una direttrice più antica (in parte ricalcata dalla nuova) che saliva più ripida verso l’area dello Stale e della Futa.39 I basolati della direttrice Santa Lucia-monte Bastione sono splendidi, ma noi sappiamo che bei lastricati in pietra sono stati costruiti fino al tempo dei nostri padri, magari rifacendone di più vecchi, a loro volta rifatti più volte. Nessuna delle «prove» addotte dagli scopritori risulta oltretutto conclusiva per dimostrare quello che insomma, per usare un’icastica locuzione inglese, pare solo un wishful thought, davvero un «pensiero LA VIAB I LITÀ M UG E LLANA: EC H I E RI F LE S S I
7. Un tipico «borgo abbandonato» mugellano: Le Piàgnole (presso Firenzuola); sullo sfondo si notino la bella vallata del Santerno e la dorsale appenninica che la separa da quella del Senio.
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8. I ruderi del castello di Tirli (presso Firenzuola), che sarebbe stato preceduto da una fortificazione bizantina.
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desiderante», il tipico tranello in cui simpaticamente cadiamo quando c’innamoriamo delle nostre ipotesi. Se comunque volessimo rifarci all’elemento di datazione meno incerto in nostro possesso – quello archeometrico, l’abbiamo visto (vedi nota 21) – dovremmo datare il nostro lastricato al periodo tardoantico, dal V all’VI I I secolo, dal tempo cioè della caduta dell’impero romano d’Occidente (476 d. C.) a quello della fine del lungo dominio longobardo (569-774), passando per il periodo degli Eruli e degli Ostrogoti (476-535), per la cosiddetta guerra greco-gotica e per l’intermezzo bizantino del 553-569. Si tratterebbe di un’epoca tutt’altro che priva di testimonianze in Alto Mugello, a partire dai resti d’insediamento a Zuccaia presso monte Luario40 e proseguendo con la localizzazione a Montale e a Tirli (Fig. 8) che Conti41 ha dato di due delle fortezze bizantine citate da Giorgio Ciprio o con quella a Peglio che N. Alfieri42 dette di un sito menzionato da Paolo Diacono. L’intera vallata del Santerno dové avere sin dalla preistoria grande importanza viaria, come rivelano recenti rinvenimenti del Neolitico antico presso Cialdino e della media Età del bronzo presso San Pellegrino (Fig. 9).43 Inoltre, secondo
9. Le indagini archeologiche ai resti del villaggio protostorico del podere Parpiotto (presso San Pellegrino, frazione di Firenzuola), svoltesi nel 1998. LU C A F E D E L I
l’antichità
Fasoli, Fatucchi e altri,44 la lenta penetrazione longobarda verso l’Esarcato avvenne attraverso le dorsali e i valichi appenninici. Niente insomma osterebbe alla congettura che, come altre, la direttrice viaria Santa Lucia-Monte Bastione sia servita, almeno in alcuni suoi tratti, per i tentativi bizantini di difesa di quelle parti della Tuscia ancora in mano all’impero romano d’Oriente durante la lunga guerra greco-gotica (535-553) o nei secoli VI-VIII, quelli della graduale penetrazione longobarda. Alcuni tratti stradali, oggidì isolati rispetto alle vie maestre, non è detto lo fossero anche in antico: è quello che si può forse ipotizzare per la direttrice marradese di Valleacereta (strada provinciale 29), con la bella fattoria romana di Lutirano, parzialmente scavata nel 1996,45 riferibile con buona probabilità alla concessione augustea di terreni fatti oggetto di esproprio e assegnati ai veterani delle guerre civili (42-31 a.C.). Il sepolcreto etrusco arcaico degli Ortali,46 invece, collocato nell’appartata convalle del torrente Mantigno per concedere ai morti dell’antica Palazzuolo un sonno tranquillo, era forse raggiunto attraverso un diverticolo senza sfondo. La direttrice dell’attuale statale 306 che si stacca da Casola Valsenio per Palazzuolo sul Senio è per parte sua ricca di ritrovamenti: è stata inoltre sempre frequentata – a differenza di quella, nuova, della regionale 477 che da Palazzuolo porta al bivio di Casaglia – e, certo per questi due fattori, è stata collegata con quella che arriva da Marradi (provinciale 306) e considerata tutt’uno con essa, in un unico insieme che dalla Faventina conducesse verso Imola, passando per la mansio di Palazzuolo (ché questo è il significato del nome, almeno in periodo tardoantico47). Non solo Palatiolum, ma anche i vari Petroio (si pensi al ponte di San Giovanni presso Barberino di Mugello o a quelli sull’Argomenna e sul Rìncine in Val di Sieve) possono esser forse riferiti a stazioni di tappa stradali di epoca tardoantica.48 Tornando alla statale 306 Casolana-Imolese, ricordiamo i ritrovamenti riferibili a età ellenistica, quelli emersi presso Misileo e quelli riportabili a epoca tardoromana delle Ari, vicino a Susinana (Fig. 10).49 Questi ultimi manufatti vennero distrutti all’inizio del V secolo: si è supposto che l’evento possa esser ricondotto alla scorreria degli Ostrogoti di Radagaiso, sconfitto a Fiesole nel 405 dopo aver attraversato l’Appennino con la sua orda sterminata. Quanto a Misileo, esso si trova sull’attuale confine fra Toscana e Romagna e la cosa è curiosa, se pensiamo a quanto compare sui testi degli antichi agrimensori romani secondo cui gli heròa (ossia le tombe di eroi, confrontabili per l’imponenza ai mausolei) erano edificati presso i confini.50 Un altro LA VIAB I LITÀ M UG E LLANA: EC H I E RI F LE S S I
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10. L’area di Misileo-Le Ari (presso Palazzuolo sul Senio) nella quale, nel 1992, si sono svolti gli scavi della villa rustica romana delle Ari: risulta interessante il toponimo di Misileo.
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toponimo simile (Mausolea) si trova in Casentino, lungo l’Archiano di Dante (Purg V, 125), sulla strada regionale 71 Umbro-Casentinese che da Bibbiena reca a Cesena, valicando l’Appennino al passo dei Mandrioli. Ricordiamo che secondo fonti e storici,51 in antico il comprensorio casentinese risulta diviso fra Liguri, Umbri ed Etruschi: la Mausolea, che (un po’ come Misileo) si trova ai piedi dei monti, poteva magari costituire un punto di passaggio fra due di questi tre èthne. Anche Misileo, chissà – prima che tra Firenze e le potestà ravennati, fra Granducato e Stato pontificio, fra Toscana e Romagna –, potrebbe aver costituito area di passaggio fra antichi popoli stanziati nella zona: sappiamo per esempio che l’alta valle del Senio fu precocemente etruschizzata,52 ma è probabile che la media valle abbia costituito un facile accesso per stanziamenti di gruppi etnici diversi (un po’ come accade per i celti nell’adiacente valle del Santerno, già all’altezza di Castel del Rio).53 Più tardi, nell’alto Medioevo, l’area fu teatro di dispute e di contese, legate anch’esse al possesso territoriale.54 Per l’epoca romana, poi, è stato perfino supposto che la direttrice Dicomano-Marradi-Palazzuolo(-Coniale) abbia costituito il percorso principale, o almeno un importante diverticolo,55 della famosa Flaminia Minore, ricordata più sopra. Ho già espresso, però, il mio relativo scetticismo riguardo a questa antica strada e bisogna inoltre ricordare che, a parte il nome, Palazzuolo sul Senio non ha riservato – che io rammenti – ritrovamenti romani. Questi invece, come la stele latina di Calesterna, compaiono a Marradi.56 Qui però passava come si sa la Faventina, la stessa da cui molto più tardi transiterà sant’Ambrogio quando, nel 393, raggiungerà Firenze dal suo esilio di Faenza, confermando in alta Toscana quel culto per san Lorenzo che aveva ampio seguito nella sua Milano.
RIFERIMENTI FOTOGRAFICI Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana: Fig. 1 p. 87 (n. 95791 2002), Fig. 2 p. 88 (n. 46818 1993), Fig. 3 p. 89 (n. 34448
1989), Fig. 4 p. 89 (n. 46586 1992), Fig. 5 p. 90 (n. 51849 1994), Fig. 6 p. 90 (n. 67163 1996), Fig. 7 p. 91 (proprietà privata, 1995), Fig. 8 p. 92 (n. 51299/10 1996), Fig. 9 p. 92 (n. 63126 1997), Fig. 10 p. 93 (n. 95723 2002)
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NOTE 1 Nucleo iniziale di questo contributo, e vettore del suo sviluppo, è stato l’intervento al Convegno «L’uomo e la montagna. Popolamento e vie di comunicazione in Alto Mugello dall’Età Antica al Medioevo», svoltosi a Palazzuolo sul Senio il 7 luglio 2007 su iniziativa del Gruppo Archeologico dell’Alto Mugello e della locale amministrazione comunale. 2 Si pensi, per es., alla persistente tradizione – in Valdisieve – riguardante un’antica viabilità etrusca e romana fra Casentino e Mugello attraverso la valle del Moscia: v. N ICCOLAI 1914, p. 664 s.; Foglio 107 1929, p. 20; BENI 1958, p. 5 s. Sarà interessante notare che tale area – quella di Londa, San Godenzo e Stia – veniva considerata dalla prima etruscologia italiana (cfr. M ICALI 1832, vol. I, p. 106 s.) come cuore e sorgente della civiltà etrusca: tale area coincide, a ben guardare, col dantesco Casentino storico (Purg, V, 9496), che insisteva a cavallo del monte Falterona. È stato fatto notare che erano le dorsali montane e non le valli, in alcuni periodi antichi, a cementare una comunità, a costituire un comprensorio (cfr. FATUCCHI 1985, pp. 258-60 e nn. 7 e 13): sarà forse irrilevante ma è certo evocativo, allora, ricordare che nell’Ottocento si riteneva che «la» Falterona fosse considerata sottoposta in antico al patronato di Giano (v. TRAMONTANI 1800-1802, vol. I, p. 104; B ENI 1958, nota a p. 168), il dio che guarda in due opposte direzioni. 3 Cfr. Itineraria 1929, p. 43; KANIECKA 1928. 4 UGGERI 1992, p. 192 (cfr. FATUCCHI 1997B, p. 21 e n. 44 s.). Tale ipotesi pare, invero, scarsamente confortata da ritrovamenti archeologici, almeno in territorio toscano (cfr. BRUNI 1989, pp. 126-129). Riguardo a un’antica traversa che collegasse alla Faventina sia tale direttrice sia la via del Moscia (vedi qui, nota 2) sia, infine, una strada d’altura proveniente dal Casentino attraverso il monte Falterona – FATUCCHI 1997B, pp. 21-25 – v. ivi, p. 21 s. Per una strada medievale fra Casentino settentrionale e val di Sieve, la cosiddetta «Mulattiera Casentinese» (via Gualdo, Pomino e Ponte a Vico), v. N ICCOLAI 1914, p. 696 e FATUCCHI 1994, p. 132 e n. 35 s.; FATUCCHI 1997A, p. 109 s.; per l’età moderna, v. ZAGLI 1995, p. 168 s.; cfr. anche qui, in nota 5. 5 Per la prima di tali tre direttrici, v. PLESNER 1979, p. 31 s., UGGERI 1992, p. 193; per la seconda, v. STERPOS 1992, p. 44 (e P LESNER 1979, pp. 33 ss.; cfr. DEI 2003, p. 369 ss.). La terza pare ipotizzata solo da Fatucchi (FATUCCHI 1970-1972, p. 174 s.; FATUCCHI [in c.d.s.], circa nn. 65-68), che la riferisce a un’età romana successiva alla fondazione di Firenze, cui la ritiene provenisse dal Casentino nord-orientale, traversando la Sieve a Ponte a Vico (v. MOSCA 1995, p. 61 s. e fig.
21). Qui perviene, in epoca medievale, anche la cosiddetta «mulattiera casentinese» (v. qui, note 4 e 21), che lo studioso aretino ritiene di possibile origine bizantina (FATUCCHI 1997A, p. 109 s.): non prende in considerazione la terza direttrice Ferrini (FERRINI 1988, pp. 94 e 138 ss.), che ritiene invece da Ponte a Vico in età romana si inoltrasse verso Fiesole una via collinare, il cui tracciato ritiene delineato da una continua serie di rinvenimenti (v., da ultimo, FEDELI, DE STEFANI 2007). La prima scendeva, secondo gli studiosi, dal passo della Futa verso quello di Combiate e verso la Val di Marina (cfr. qui, nota 5; v. anche UGGERI 1984, III vol., pp. 584-586; UGGERI 1992, p. 193). La seconda dal passo dell’Osteria Bruciata calava o verso Marcoiano e Galliano oppure verso Sant’Agata, Ghiereto, Petroio, Spugnole e Tagliaferro (cfr. qui, nota 5). Alcuni dei fasci viari citati dovevano essere interscambiabili e ritengo che uno dei principali incroci sia stato nell’area del ponte di San Giovanni in Petroio (cfr. qui, nota 14): la rispettiva antichità dei diversi rami stradali è oggetto di discussione (cfr. qui, note 10 ss., 18 e 21 s.). 6 Ab Urbe condita 1991, II vol., XXXIX, 2.5. 7 Vedasi qui, nota 29 (cfr. F EDELI 2000, 2, n. 17 a p. 87; FEDELI 2003B, pp. 246, 267 ss., n. 30). Ben tre-quattro risultano le direttrici di massima ipotizzate per tale strada, dagli studiosi, nel territorio toscano: 1) attraverso il Casentino; 2) attraverso il Valdarno Superiore, a) per l’area fiorentino-mugello-altomugellana o b) per quella fiorentino-pistoiese; oppure 3) tramite Casentino, Val di Sieve-Mugello e alto Mugello. Nel primo caso sono stati proposti valichi casentinese-romagnoli; nel secondo (2.a) il passo di Combiate e quello dello Stale (o della Futa), oppure (2.b) quello della Porretta. Nel terzo caso sono stati proposti – a seconda degli studiosi – il valico di Caspriano (o quello delle Crocicchie) seguito (3.a) da un valico fra Val di Sieve e Romagna (quello delle Scalelle) o (3.b) mugellano-emiliano (quelli del Giogo oppure dell’Osteria Bruciata, nel Mugello centrale [3.b.1]; o, nel Mugello occidentale [3.b.2], quelli – previsti anche fra i sostenitori del secondo tipo di ipotesi – dello Stale, o della Futa, e poi della Raticosa). Il valico della Raticosa sembra considerato anche in un’ipotesi (4) che poi è, a ben guardare, una variante di 3.a: alcuni sostenitori dei passi centromugellani o addirittura mugellano-romagnoli, infatti, hanno preso in implicita considerazione la possibilità che la Padania fosse raggiunta, oltre le Scalelle, tramite il passo Carnevale e/o il valico del Parietaio (dunque, traversalmente, per le valli del Campigno e Lamone, del Senio e del Santerno, il Vatrenus dei Romani). 8 Cfr., per es., B LOCH 1962, p. 78 ss., che fa riferimento all’epoca medievale. In epoca antica la viabi-
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lità era meno capillare, ma ritengo che – in Mugello almeno – risultasse comunque folta, come fanno ritenere la ricca toponomastica latina e i numerosi ritrovamenti archeologici di antica epoca romana, magari emersi su sequenze di chiara origine viaria (cfr. per es. qui, in nota 18). 9 STOPANI 1997, p. 11. 10 V., per es., STOPANI 1992A, pp. 150-152 e nn. 17-23; GOTTARELLI 1988, p. 73 e fig. 6 a p. 94, nonché UGGERI 1992, p. 193 e n. 34, sostengono la romanità della direttrice del Giogo, ma tale ipotesi non appare suffragata da sufficienti ritrovamenti archeologici d’epoca romana (cfr. Foglio 98 1930; Atlante dei siti archeologici 1995, pp. 31 ss., tavv. 98 e 106; Carta Archeologica 1995, I, 2, pp. 40-51, 115-127; carta 2). 11 PLESNER 1979, p. 37 s., faceva riferimento a una lunga mulattiera, ancora usata al suo tempo, fra Razzuolo e Castel Bolognese (via Casa dell’Alpe e monte La Faggeta); lo studioso danese la riportava a un’origine senz’altro medievale e, forse, romana. 12 Per il nostro comprensorio si pensi, per esempio, all’apertura nel secondo dopoguerra dell’A1 o dell’attuale strada regionale 477; già nel Settecento l’apertura della strada della Futa (l’odierna strada regionale 65) aveva diminuito l’importanza dell’attuale strada ragionale 503 del Giogo di Firenzuola, mentre nell’Ottocento quella dell’odierna statale 67 Tosco-Romagnola permise di risolvere secolari problemi di comunicazione (cfr. FATUCCHI 1997B, p. 21, in n. 45). 13 I rischi connessi a vie di costa o di valle sono andati effettivamente diminuendo col tempo, sia a causa dei mutamenti climatici, dell’attuazione di risolutorie opere del Genio o della scomparsa delle gabelle, del contrabbando e di molte frontiere sia, altrimenti, a causa dell’istituzione di rassicuranti polizie frontaliere di controllo e, perciò, della diminuzione del brigantaggio, del bracconaggio ecc. Si veda, a ricordo di questi, la quantità d’inquietanti toponimi («Uom morto», «Prato dell’impiccato», «Pozzo alli avoltoi» ecc.: v. ZAGLI 1995, p. 182 ss. e n. 163 s.) che presumibilmente riguardano la viabilità appenninica postmedievale, ma che comunque risalgono a un distante passato. 14 Come è stato verificato negli scorsi anni Novanta presso Ghiereto (Barberino di Mugello), nell’attuale invaso del Bilancino, col ritrovamento dei resti del ponte medievale di San Giovanni in Petroio (cfr. qui, nota 18), evidentemente posto lungo le strade che provenivano da Firenze vuoi per la Val di Marina vuoi lungo il torrente Carza: esse dovevano affiancarsi, magari collegate tramite brevi traverse, presso il ponte e consentire di proseguire, lungo itinerari interscambiabili, o per il passo dello Stale e monte Bastione o per il valico dell’Osteria Bruciata (cfr. F EDELI 2000, p. 84 e nn. 11-14; F EDELI 2003B, p.
248, n. 14). Per i vari tragitti viari ipotizzabili facenti capo al ponte di San Giovanni, v. qui supra, nel testo, circa nota 7 ss. (quanto è scritto riguardo alle prime due direttrici ivi menzionate). Dubbi sulla datazione medievale del ponte (XI sec.) non sono mancati, ma vanno respinti sia per motivi archeologici che archeometrici (v. FEDELI 2003B, n. 8 a p. 266; cfr. FEDELI 2000, n. 3 a p. 85). Rifacendosi alle ipotesi di Plesner e di Sterpos (cfr. qui, nota 18), è stato tuttavia ammesso che il ponte medievale possa esser stato preceduto da altre più antiche strutture d’attraversamento (GALLIAZZO 2000, p. 239). 15 F EDELI ET AL. 2006A, pp. 146-148. 16 È il caso di due toponimi (Basilica e Baserca, v. PIERI 1919, p. 333) che, allineati a recenti ritrovamenti archeologici, confermano l’ipotesi (FATUCCHI 1997B, p. 19 s.) di una prosecuzione, a ovest del Casentino, della cosiddetta «Mulattiera Casentinese» (per la quale v. qui, in nota 4 s., evidentemente munita – in epoca bizantina (v. NASALLI ROCCA 1953, p. 255) – di dignità ‘statale’. 17 In questo senso hanno contribuito, già dagli scorsi anni Ottanta, le esortazioni provenienti dalla «New Archaeology» britannica: v. per es. STODDART 1979-1980, pp. 197-232; STODDART 1981, pp. 503-526. 18 Sia ritrovamenti che toponimi, per es., indussero Sterpos (STERPOS 1961, p. 45 s.; STERPOS 1992, p. 44 e n. 7) a preconizzare già una percorrenza d’antica epoca romana per la direttrice stradale dell’Osteria Bruciata o, quanto meno, per la variante occidentale (via Marcoiano e Galliano) del tratto che dal crinale appenninico scende nel fondovalle mugellano. Marcoiano, infatti, è stata sede di ritrovamenti archeologici databili in età romana (Foglio 98 1930, p. 9); si pensi, inoltre, al toponimo stesso di tale frazione (cfr. PIERI 1919, p. 163), a quelli di Latere e di Fonte Laterina (Ivi, p. 347 s. [«lateraria»]) oppure a quello di Duriolo (Ivi, p. 82 [«doliaris/doliarius»?]). Per quanto concerne poi il tratto di fondovalle di tale direttrice, si ricorderanno i toponimi di Ghiereto (Ivi, p. 354 e, rispettivamente, p. 312 [(Iter?) «glareatum»]) e di Petroio (UGGERI 1995, pp. 140-144). Plesner (PLESNER 1938, p. 35) poneva in Petroio il passaggio di una strada assai antica, sulla cui esatta vetustà preferiva però non pronunciarsi. Da ultimo, Sterpos (STERPOS 1992, p. 44) situava proprio a Ghiereto il percorso della menzionata variante occidentale dal passo dell’Osteria Bruciata, da lui ritenuta d’epoca romana. Negli scorsi anni Novanta sono stati indagati i resti del ponte di San Giovanni in Petroio o «del Colombaiotto» (v. qui, nota 14) che evidentemente insistono proprio nell’area ipotizzata dallo studioso. 19 Cfr. CASELLI 1992, pp. 105 ss. L’autore sottolineava la notevole incidenza delle direttrici «natura-
LU C A F E D E L I
l’antichità
li», rifacendosi sia a proprie esperienze d’indagine sul campo che a una tradizione di studi anglosassone che – a giudicare dall’interessante bibliografia in lingua – in Italia, nonché conosciuta, non risultava (almeno negli scorsi anni Novanta) neppure tradotta. 20 Per un’accurata collocazione di tale passo, prossimo alla Futa e del tutto tralasciato oggigiorno, v. ALFIERI 1992, n. 28 a p. 103 e FOSCHI 1988, pp. 176, 183 e n. 128. 21 Per tale datazione, basata su un unico dato archeometrico (FEDELI 1992, nn. 60, 66 a p. 89) ma anche su osservazioni d’altro genere (Ivi, p. 86; FEDELI 2000, n. 13 a p. 86). Esse consistono in considerazioni riguardanti l’importanza del Mugello in periodo tardoantico e altomedievale: cfr. a es., per l’importanza della valle del Santerno in tali periodi, fra altri, GELICHI 1992, p. 215; cfr. anche CONTI 1970, pp. 105 ss. e UGGERI 1992, p. 92 s. e n. 28. I basolati fra il passo dello Stale e monte Bastione sono stati tutelati con D.M. del 20 maggio 1994. 22 Si confronti, a questo proposito, CASELLI 1992, p. 107, con AGOSTINI, SANTI 1992, p. 51 e p. 54 s. 23 Quest’ultima ipotesi – se si interpreta bene – è sostenuta da Foschi (FOSCHI 1988, pp. 170-176), che pare tuttavia confondere la strada degli interrati segmenti basolati con la direttrice della citata «via della Faggeta» o «delle Cannove». Quest’ultima, infatti (come chi scrive ha potuto verificare in numerose ricognizioni sulla dorsale appenninica fra Setta e Savena), spesso si mantiene parallela o addirittura prossima a essi. 24 A opera di quella notevole tradizione di studi bolognese che è rimasta incontrastata fino almeno alla metà del secolo scorso: CALINDRI 1781, vol. I, pp. 236 e 382; vol. II, p. 285; vol. IV, p. 138; SAVIOLI 17841795, vol. III [1794], p. 59, n. 4; PALMIERI 1918, pp. 17-47 (in particolare pp. 31-33); MANSUELLI 1941-42, pp. 3369 (cfr. GOTTARELLI 1988, pp. 81 ss. e 108). 25 ROMBAI, SORELLI 1985, p. 39. 26 F EDELI 1992, pp. 59-73. 27 AGOSTINI, SANTI 1992. 28 FOSCHI 1988, pp. 170 ss. 29 Vedi supra e nota 7: non ho mai nascosto la mia perplessità rispetto a tale fantomatica strada, citata un’unica volta da una sola fonte storica (cfr. FEDELI 2000, n. 17 a p. 87; FEDELI 2003B, p. 247). Del resto, tratti viari diretti a nord o a nord-ovest (cfr. per es., qui, note 4 s. e 14) non saranno certo mancati, in età antica, né in Mugello né nei comprensori vicini. Anche chi faceva un lungo viaggio avrà potuto quindi utilizzarli: insieme ad altri tratti successivi essi saranno serviti per arrivare a destinazione, senza che si deva per questo postulare l’esistenza di una via
continuativa. Al massimo si potrà pensare a «tronchi assai diversi, alcuni dei quali certamente preesistenti» (come scriveva N. Alfieri, cfr. ALFIERI 1973, p. 57), considerati da Flaminio o altri in una prospettiva unitaria di tragitto, magari del tutto estemporanea e provvisoria, non volta a inaugurare una nuova «via» ma, piuttosto, a raggiungere una destinazione oggi e domani un’altra. 30 Vedi Foglio mappale 207/ Firenzuola (in cifra alla particella catastale 9, al confine del foglio 21 di Barberino di Mugello), in cui è denominata «Via Vecchia Bolognese». Si tratta dunque, assai presumibilmente, di una mulattiera che (presso Monte di Fo’) fu tralasciata quando, fra il 1749 e il 1766, si realizzò la nuova strada della Futa, l’attuale strada regionale 65, voluta dal granduca Francesco Stefano: v. STERPOS 1961, pp. 117, 146, 155 e nn. 40 e 56. Cfr. anche qui, n. 39. 31 Vedansi per esempio MANNONI 1992, p. 9 e GAMBI 1992, p. 267. Cfr. anche G IULIANI 1992, p. 5; BOTTAZZI 1998, p. 57. 32 Per il consolidamento del ponte di San Giovanni in Petroio, v. SCOTTI 2003, pp. 248 ss. I ruderi del ponte sono stati vincolati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – ai sensi degli articoli 1, 2, 3 della l. 1089-1939 – con decreto del 30 aprile 1993. 33 VILLANI 1587, XI, 26, p. 700 s. 34 V. STERPOS 1961, p. 50 s. Per Filippo III l’Ardito, v. STOPANI 1997, p. 15 s. Fra il IX e l’XI secolo il Mugello è, probabilmente, area di transito di pontefici (Marino I, sant’Adriano III e Silvestro II) e di imperatori (Ludovico II, Carlo III, Berengario I e Ottone III: cfr. VANNI 2000, pp. 30-34, che confonde Adriano III con Alessandro III); alcuni di loro avranno magari usato il ponte di San Giovanni in Petroio, valicando l’Appennino al passo dello Stale o a quello dell’Osteria Bruciata. 35 STOPANI 1992B, p. 100 e n. 15. Cfr VON ELLENBRECHTSKIRCHEN 1877, p. 70 (cito da S PRINGER 1950, n. 44 a p. 105, e da STOPANI 1992B, n. 13 a p. 99). 36 Così riferisce da SPRINGER 1950, pp. 104 e 119, che fa riferimento a Hauksbók 1892-96, p. 502. 37 STERPOS 1961, p. 127 s. 38 Ivi, pp. 198-201. 39 Per l’ipotesi di un’antica direttrice stradale romana da Barberino di Mugello al passo della Futa, in direzione Bologna (sulla direttrice dell’attuale strada regionale 65), v. UGGERI 1992, p. 193; cfr. qui, nel testo, circa nota 30. 40 F EDELI 1992, pp. 72, 88 e n. 34. 41 CONTI 1970, pp. 105-108; cfr. 29 s. e 41 s. 42 ALFIERI 1973, p. 12 e n. 20 (cito da GELICHI 1992, p. 215). 43 Per Cialdino, presso Coniale, v. F EDELI ET AL. 2006B, p. 107 s. Per San Pellegrino, v. D’AMATO ET AL.
LA VIAB I LITÀ M UG E LLANA: EC H I E RI F LE S S I
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Antichi percorsi in mugello e val di sieve
2001, pp. 653-656; D’AMATO, IARDELLA 2003, pp. 317320; FEDELI 2003A, p. 294 s. Cfr., per epoche successive nell’alta valle del Santerno, GELICHI 1992, p. 215. 44 FASOLI 1982, p. 14; FATUCCHI 1997A, p. 108 s. 45 FEDELI 2003A, p. 299 s.; PALERMO 2003, pp. 357-367. 46 F EDELI, PACI 2006, p. 114 s. 47 G. UGGERI 1995, p. 137 s. 48 Ivi, p. 140 s. 49 Per Misileo, v. FEDELI, GONZÁLES MURO 2005, pp. 110-113; per Le Ari, v. F EDELI 1994, p. 59 s. 50 Gromatici veteres 1848-1852, pp. 23, 57, 88.
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Plinio, III, 112; Polibio, II, 16: cfr. NISSEN 18831902, I, p. 304; B ELOCH 1926, VI, p. 573. 52 F EDELI, PACI 2006, come a nota 46; cfr. FEDELI 1995, p. 27 s. 53 VITALI 1984, pp. 9-35. 54 UGGERI 1984, p. 583 e n. 16. 55 FATUCCHI 1970-1972, p. 287; per l’età medievale, cfr. PIRILLO 1995, pp. 60 ss.; per quella moderna, ZAGLI 1995, p. 169. Cfr. qui, nota 7 al punto 4. 56 Inscriptiones Aemiliae Etruriae 1966 XI, 2-1, p. 993, n. 6608.
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LU C A F E D E L I
il medioevo Un’area di passaggio
L
a vocazione del Mugello come area di passaggio e di collegamento fra il nord e sud della nostra penisola, già delineata in epoca romana, si consolida definitivamente nel periodo medievale. In quest’epoca, infatti, gli antichi itinerari, pur con alterne vicende, si stabilizzano raggiungendo in taluni casi anche una struttura organica e funzionale, capace di fornire al viaggiatore sussidi e riferimenti che saranno alla base di tutta la viabilità dei secoli a venire. Nel delicato momento di trapasso dall’Antichità al Medioevo, pur nella crisi del mondo antico, si verificò un sostanziale ‘attaccamento’ alle antiche strutture che, pur mutando i propri connotati, trovarono una sorta di continuità nel nuovo contesto. Dissolte le antiche istituzioni, fu la gerarchia ecclesiastica a ereditare il governo del territorio che organizzò secondo il modello romano, a sua volta basato su quello delle lucumonie etrusche. Se da un lato non è completamente dimostrabile la diretta filiazione della pieve medievale dal pagus romano,1 connessioni ve ne furono comunque, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei luoghi di culto: anche in Mugello, nel V secolo, esistevano già numerose chiese che radunavano attorno a sé un popolo che serbava memoria di più antichi insediamenti di carattere pagano. Nell’VIII secolo, nella Tuscia, era già compiuto il sistema delle pievi che acquisirono specifici compiti sia ecclesiastici che civili.2 (Fig. 1) Spesso in forma di collegiate, dove si radunavano più presbìteri che facevano vita in comune, le pievi divennero il fulcro della vita che si svolgeva nel loro territorio di riferimento, detto plebato, successivamente articolato in più parrocchie o chiese suffraganee, dipendenti dalla pieve stessa. Solo a quest’ultima, infatti, competevano specifiche prerogative, quali avere fonte battesimale e cimitero nonché detenere il diritto alla riscossione delle decime. Sovente unico edificio solidamente costruito nell’abitato, la pieve accoglieva al suo interno o sul sagrato le assemblee in cui venivano prese decisioni per la comunità, si discutevano o giudicavano i casi controversi. U N ’A R E A D I PA S S A G G I O
LIA B RUNORI C IANTI Direzione Regionale per i Beni Paesaggistici e Culturali della Toscana
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1. La facciata della pieve di San Giovanni in Petroio (il portico è un’aggiunta moderna), presso Barberino: anche in Mugello e in Val di Sieve il sistema delle pievi, oltre a rappresentare il fulcro dell’organizzazione territoriale, ebbe verosimilmente una funzione fondamentale nella cura e nella manutenzione della maglia viaria. Questa pieve, in particolare, si trovava su uno dei due rami della strada proveniente dal passo dell’Osteria Bruciata, che si riuniva all’altro passato il ponte sulla Sieve.
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2. Il cippo che contrassegna il valico dell’Osteria Bruciata, ritenuto da alcuni pertinente al tracciato della cosiddetta Flaminia minor, diretta da Bologna, attraverso la valle del Santerno, a Fiesole e da lì ad Arezzo. Il passo fu uno dei più frequentati in età medievale, in specie dai pellegrini diretti a Roma.
Secondo Plesner una funzione fondamentale della pieve fu la cura e il mantenimento delle strade: nonostante tale ipotesi sia stata messa in dubbio,3 la dislocazione nel nostro territorio degli edifici plebani lungo le principali arterie potrebbe invece confermare la proposta dello storico danese, avvalorata dal fatto che molto spesso le chiese di questo tipo si trovano in zone particolarmente significative nell’ambito dei percorsi stessi: nei pressi di un ponte, vicino ai valichi ecc. L’analisi della rete stradale del territorio è in effetti elemento fondamentale per comprendere l’organizzazione delle diverse realtà locali e in particolare il sorgere e l’evolversi dei monumenti più importanti e delle principali emergenze artistiche, che trovano nella strada motivo di vita e opportunità di scambio, d’informazione e cultura. Seguendo quindi i percorsi già delineatisi in epoca romana, talora corrispondenti anche a più antichi itinerari, la viabilità medievale in Mugello e Val di Sieve si articola essenzialmente su alcune strade principali che, collegate con altre vie minori, percorrono tutta la vallata per dirigersi verso i passi appenninici. Osservando, infatti, la ‘regola dei valichi’ che guida lo studio dei percorsi transappenninici, s’individuano alcuni passi che congiungono Firenze con Bologna. Partendo dal Mugello occidentale, si trovano i valichi della Futa, anticamente detto «dello Stale», dell’Osteria Bruciata e il Giogo di Scarperia.4 Il passo dell’Osteria Bruciata (Fig. 2), ritenuto da alcuni il valico pertinente al tracciato romano della cosiddetta Flaminia minor, diretta da Bologna a Fiesole e da lì ad Arezzo, vanta la più antica documentazione, costituita dalle memorie di due pellegrini che a cavallo fra il XII e il XIII secolo dal settentrione si dirigono verso Roma, indicando le tappe dei rispettivi itinerari. Da tali fonti si evince come questo tragitto, evidentemente assai frequentato, in particolare dai pellegrini diretti a Roma (nei pressi del valico esiste ancora una sorgente detta «fonte Romea»), giungesse da nord attraverso la valle del Santerno nel territorio di Firenzuola, toccasse la pieve di San Giovanni a Cornacchiaia e, transitando attraverso il citato passo dell’Osteria Bruciata, scendesse alla pieve di Sant’Agata, chiesa gemella della precedente per caratteristiche architettoniche e decorative. La strada proseguiva poi biforcandosi in due itinerari, segnati l’uno dalla pieve di San Giovanni in Petroio e l’altro dalla pieve di Santa Maria a Fagna e da quella di San Piero appena passato il ponte sulla Sieve; da lì le due strade si ricongiungevano in un unico percorso che, seguendo a ritroso il torrente Carza, si dirigeva verso Firenze passando dai plebati di Vaglia e Macioli presso Pratolino. In parallelo a questo percorso ne esisteva un altro, seppur meno frequentato, che da Bruscoli, al di là dello spartiacque appenninico, valicava la catena montuosa al passo dello Stale, a breve distanza da dove nel 1762 sarebbe stata aperta la strada granducale della Futa. (Fig. 3) Questo itinerario toccava poi la località di Santa Lucia, da dove poteva ricollegarsi a Sant’Agata o proseguire verso Barberino di Mugello passando dalla LIA B RU NORI C IANTI
il medioevo
3. I vasti pianori appenninici presso Bruscoli: da questi paraggi passava il tragitto, meno frequentato, parallelo a quello dell’Osteria Bruciata, che valicava il passo dello Stale, a breve distanza da dove nel 1762 sarebbe stata aperta la strada granducale della Futa.
pieve di San Gavino Adimari fino a raggiungere Calenzano e la viabilità della piana fiorentina. Proseguendo verso il Mugello centrale incontriamo il passo della Colla di Casaglia, fulcro di un percorso medievale che rappresenta l’antenato dell’attuale via Faentina, mettendo in comunicazione con la Romagna. Da Firenze la strada sale alla pieve di San Cresci a Macioli e da lì scende alla pieve di Santa Felicita a Faltona, valica la Sieve presso la pieve di Borgo San Lorenzo e s’inoltra sui primi declivi appenninici passando per la pieve di San Giovanni Maggiore finché, toccando le badie vallombrosane di Ronta e Razzuolo, si prepara a valicare il passo. Ancora da Borgo San Lorenzo, un’altra antica strada valicava l’Appennino al passo di Ca’ di Vanella e si dirigeva verso Faenza attraverso il territorio di Palazzuolo sul Senio (Fig. 4), passando dall’abbazia di Susinana e dalla pieve di San Giovanni Battista a Misileo che della struttura originaria, anteriore al Mille, conserva solo la cripta caratterizzata da colonne con capitelli di tradizione ravennate. Nel Mugello orientale la solenne mole romanica dell’abbazia benedettina di San Godenzo (si veda la scheda a pagina 102) sancisce il punto-tappa fondamentale d’un ulteriore percorso che, toccando le pievi di Santa Maria a Dicomano e San Babila a San Bavello, muoveva verso la Romagna, preparando la strada alla più moderna via forlivese ricostruita al tempo dei Lorena ed il cui valico prese il nome dal «muraglione» eretto nel 1836 a difesa dei venti. In territorio toscano questa strada probabilmente raggiungeva Fiesole attraverso la Val di Sieve, passando per le pievi di U N ’A R E A D I PA S S A G G I O
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4. Palazzo dei Capitani a Palazzuolo sul Senio: dal territorio del comune della Romagna toscana passava la strada che da Borgo San Lorenzo valicava l’Appennino al passo di Ca’ di Vanella, diretta verso Faenza.
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Antichi percorsi in mugello e val di sieve
LA BADIA DI SAN GODENZO Posta sull’antico percorso verso la Romagna, oggi statale 67 o «forlivese», la badia di San Godenzo domina il piccolo abitato dall’alto della sua mole, eretta nella parte più elevata del paese (Fig. I).
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I. La badia di San Godenzo, ovvero San Gaudenzio in Alpe, nell’abitato del centro appenninico sulla via del passo del Muraglione.
La storia della sua fondazione è avvolta nella leggenda: si ricorda che il beato Gaudenzio, vis-
suto nel VI secolo, venne sepolto in questa zona e, una volta rinvenutene le spoglie, queste furono poste su di un carro trainato da buoi. Gli animali si arrestarono durante il percorso e, refrattari a procedere oltre, indicarono il punto in cui erigere una chiesa plebana che in seguito divenne abbazia. Nel 1028 è comunque documentata la fondazione della badia benedettina da parte del vescovo fiesolano Jacopo il Bavaro: nel 1302 la chiesa ospitò il convegno dei fuoriusciti ghibellini e dei guelfi bianchi cui partecipò anche Dante Alighieri. Nel 1482 la badia passò all’ordine dei Servi di Maria che la tennero fino alla soppressione napoleonica del 1808. Durante i cannoneggiamenti dell’ultimo conflitto mondiale, particolarmente intensi nella zona, la badia fu risparmiata in ricordo delle origini tedesche del suo fondatore. Solenne e maestosa come un duomo, ricorda nell’impianto sia la basilica benedettina di San Miniato al Monte, a Firenze, che la cattedrale di Fiesole da cui dipendeva. Nel 1909 fu ricostruito il campanile e negli anni 1920-21 tutto l’edificio fu ampiamente restaurato da Ezio Cerpi. La facciata, introdotta da una suggestiva scalinata, annuncia l’interna divisione in tre navate con la soprelevazione di quella centrale rispetto alle laterali. Otto arcate per parte, sorrette da pilastri a sezione quadrata, scandiscono lo spazio interno concluso da un’abside semicircolare ribassata cui nel restauro degli anni Venti sono state aggiunte le due absidiole laterali (Fig. II). La badia di San Godenzo è l’unico edificio del territorio a possedere un presbiterio rialzato su tre arcate e una cripta (Fig. III). Questa, di forma irregolare, replica in larghezza la navata maggiore ed è costituita da tre navatelle voltate a
l’antichità
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III. Badia di San Godenzo: la cripta a tre navate con colonnine dai capitelli arcaizzanti.
II. Badia di San Godenzo: l’abside, cui nel restauro novecentesco di Ezio Cerpi sono state aggiunte due absidiole. Sull’altare, il polittico di Bernardo Daddi, Madonna col Bambino fra i santi Giovanni Battista, Benedetto, Nicola e Giovanni Evangelista, tempera su tavola del 1333.
botte e sorrette da colonnine sormontate da capitelli scolpiti con motivi arcaizzanti. L’analisi degli elementi costitutivi di questa abbazia hanno portato i critici a ritenerla legata all’influsso di motivi toscani e padani ed a datarne la costruzione verso la fine del XII secolo. Se il fonte battesimale e il parapetto intarsiato del presbiterio risalgono ai restauri novecente-
schi, così come il mosaico absidale raffigurante l’Incoronazione della Vergine, eseguito su disegno di Giuseppe Cassioli, l’altare in marmo bianco con intarsi in verde di Prato è un manufatto originario dell’antico arredo medievale e, seppur ricomposto negli anni Venti, mostra le tipiche specchiature intarsiate del romanico fiorentino, databili alla fine del XII secolo. Sull’altar maggiore si trova un pregevole polittico di Bernardo Daddi datato 1333 e raffigurante la Madonna col Bambino fra i santi Giovanni Battista, Benedetto, Nicola e Giovanni Evangelista. Fra le opere d’arte di epoca successiva conservate nella badia si segnala per qualità il San Sebastiano, scultura lignea realizzata nel 1506 da Baccio di Montelupo per i frati serviti, mentre l’Annunciazione che Andrea del Sarto dipinse per l’abbazia tra il 1509 e il 1515 fu venduta nel 1627 al cardinale Leopoldo de’ Medici ed è ora esposta nella Galleria Palatina di Firenze. Lia Brunori Cianti
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5. La fattoria di Selvapiana, presso La Rufina, da dove transitava la strada collinare da Arezzo per Fiesole che, interessati i plebati di Pelago e Diacceto, passava poi fra Nipozzano e Bibbiano, scendeva qui nel fondovalle e toccava le pievi di Montefiesole, Doccia e Lubaco.
Sant’Eustachio ad Acone e di Sant’Andrea a Doccia, sino a lambire l’Arno alla pieve di San Giovanni a Remole e ricollegarsi così alla strada di Arezzo. Numerosi sono poi i percorsi che solcavano la Val di Sieve: di particolare importanza per la sua antichità era la strada collinare per Fiesole che, giungendo da Arezzo, interessava inizialmente i plebati di Pelago e Diacceto, passava sul crinale fra Nipozzano e Bibbiano, scendeva nel fondovalle a Selvapiana (Fig. 5) e successivamente, risalendo, toccava le pievi di San Lorenzo a Montefiesole e di Doccia, per raggiungere infine Fiesole dopo essere passata dalla pieve dei Santi Gervasio e Martino di Lubaco.5 Lo Statuto fiorentino del Capitano del Popolo degli anni 1322-25 informa che da Firenze si dipartivano verso la Val di Sieve due importanti percorsi: la «strata per quam itur ad Pontem de Sieve et vadit versus Decomanum» e la «via et strata que sumitur a porta seu burgi Sancti Niccolai per quam itur in vallem Arni».6 Il primo risaliva l’Arno sulla riva sinistra per sdoppiarsi all’altezza della pieve di Remole: un ramo settentrionale si snodava sulle colline e passava per Quona, la pieve di Montefiesole e San Pietro a Strada, dopodiché attraversava la Sieve all’altezza di Rufina o Bovino per raggiungere Dicomano (Fig. 6) e quindi i successivi itinerari per la Romagna. La seconda diramazione si prolungava fino a Pontassieve e, in alternativa al ricongiungimento con la strada per Rufina, saliva verso le pievi di San Lorenzo a Diacceto e di Borselli per proseguire verso il Casentino attraverso il passo della Consuma.7 Oltre alle pievi, anche monasteri e abbazie ebbero un ruolo significativo in relazione alla distribuzione stradale, poiché furono edificati in punti focali della viabilità per dare assistenza ai viandanti. In questo si ‘specializzarono’ alcuni ordini religiosi, in
6. Panorama di Dicomano, nodo della strada che partita da Firenze, lungo la riva sinistra dell’Arno, percorreva la Val di Sieve diretta in Romagna. LIA B RU NORI C IANTI
il medioevo
particolare quello dei benedettini (abbazia di San Godenzo) e soprattutto le sue nuove famiglie religiose dei vallombrosani e dei camaldolesi. Ai primi appartennero i monasteri di Ronta e Razzuolo lungo la via Faentina, il priorato di Crespino presso il valico della Colla, le abbazie di Santa Maria ad Agnano e di Susinana sulle strade per la Romagna, la badia di Santa Reparata al Borgo (Marradi) e quella di Santa Maria a Vigesimo, presso Barberino, che porta nel toponimo stesso il riferimento all’antica viabilità romana (Fig. 7). I camaldolesi erano presenti nell’area montana, avendo fondato la badia di Acereta e l’eremo di Gamogna, entrambi presso Marradi, e si assicurarono anche il controllo della via forlivese spingendosi ad acquisire la pieve di Bagno di Romagna. Anche l’importante complesso architettonico di Santa Margherita a Tosina fu un antico monastero camaldolese posto in relazione con la frequentata via della Consuma. Nascono invece come romitori, nascosti nel folto del bosco e lontani dal movimento di vie e paesi, la badia benedettina di Moscheta e il monastero di Montesenario, casa madre dell’ordine servita, le cui antiche strutture sono state ampiamente modificate e arricchite nel corso dei secoli. Tutte le pievi citate in questi itinerari rispondono a una distribuzione spaziale generalmente omogenea, mostrano caratteri stilistici analoghi e sono databili in un lasso di tempo circoscrivibile fra la seconda metà dell’XI e gli inizi del XIII secolo, creando una sorta di koinè culturale e artistica ben caratterizzata.8 Nonostante molti edifici abbiano subito consistenti rimaneggiamenti nel corso del tempo, a parte alcune eccezioni, lo schema iconografico architettonico caratteristico di queste chiese è di tipo basilicale, concluso da un abside semicircolare e articolato su tre navate divise da archeggiature poggianti su pilastri a sezione quadrangolare o colonne, mentre la copertura è a capriate lignee. Eccetto l’abbazia di San Godenzo e la pieve di Remole in Val di Sieve (Fig. 8), che replicano il modello del duomo di Fiesole, gli edifici non hanno cripta e il paramento murario è in regolare filaretto di pietra. Raro è il ricorso a motivi decorativi, sia all’esterno che all’interno, e in ogni caso limitato ai capitelli delle colonne: il motivo ad archeggiature pensili riscontrabile all’esterno delle absidi delle chiese di Fagna, la più antica del gruppo, databile alla seconda metà del XI secolo, e Faltona, riferibile alla metà del U N ’A R E A D I PA S S A G G I O
7. La badia di Santa Maria a Vigesimo, presso Barberino, edificata dai vallombrosani nel 1074 ma rimaneggiata nel Settecento, porta nel toponimo stesso il riferimento all’antica viabilità romana. Gli ordini monastici – benedettini, vallombrosani e camaldolesi – ebbero un ruolo significativo in relazione alla distribuzione stradale.
8. L’interno della pieve di San Giovanni a Remole: al pari dell’abbazia di San Godenzo, replica il modello del duomo di Fiesole, a differenza della maggior parte degli edifici plebani in Mugello e Val di Sieve.
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9. La facciata della pieve di Sant’Agata: contrariamente ad altre pievi del territorio, questa conserva la tipologia di copertura poggiata direttamente sui sostegni, senza l’intermediazione di archeggiature. Qui si riscontrano anche elementi decorativi simili a quelli della pieve di Cornacchiaia.
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10. L’abside e il campanile della pieve di San Lorenzo a Borgo San Lorenzo, che – a differenza di altri edifici plebani del territorio – mantiene un aspetto ancora architettonicamente coerente con l’originale, al pari di Santa Felicita a Faltona, San Giovanni in Petroio, Sant’Agata e San Giovanni Battista a Remole.
secolo successivo, è stato identificato come un influsso dell’architettura padana veicolato da maestranze settentrionali giunte in Mugello seguendo i percorsi stradali lungo i quali si trovano quelle chiese. In questo panorama si distaccano tre pievi che mostrano fra loro caratteristiche architettoniche e decorative analoghe e di particolare interesse: si tratta delle chiese di Sant’Agata e di Cornacchiaia, già ricordate come collegate dallo stesso percorso transappenninico passante per il valico dell’Osteria Bruciata, cui s’aggiunge la pieve dei Santi Martino e Gervaso a Lubaco, legata alla viabilità diretta a Fiesole. Questi edifici sono accomunati dalla particolare tipologia di copertura che poggia direttamente sui sostegni, senza l’intermediazione delle consuete archeggiature, per creare una spazialità ampia che ricorda più le strutture ad aula d’area nordica che le penombre del romanico locale: tale soluzione è oggi visibile solo a Sant’Agata9 (vedi scheda alle pagg. 108-109; Fig. 9), mentre negli altri edifici è stata rimossa. In quest’ultima pieve e nella chiesa di Cornacchiaia si riscontrano anche elementi decorativi simili, rudimentali intrecci scolpiti in pietra e una curiosa decorazione in bozze di serpentino e alberese che, giocando col contrasto di tessere bianche e scure, costruisce una scacchiera la quale, alludendo alla simbologia dell’eterna lotta fra il bene e il male, probabilmente risponde a una funzione apotropaica. Nastri intrecciati e volute di forte impianto arcaizzante compaiono anche sui capitelli della pieve di San Giovanni in Petroio, mentre un bel repertorio di capitelli decorati che rielaborano la tipologia di derivazione classica del capitello composito si osserva nella pieve di Borgo San Lorenzo. Come accennato, molte pievi nel corso del tempo hanno subito radicali trasformazioni, in particolare all’interno, a causa dei rifacimenti del XVI e soprattutto del XVIII secolo: sono state completamente trasformate le pievi di Doccia e Diacceto, mentre mostrano la loro origine romanica principalmente dalle volumetrie esterne LIA B RU NORI C IANTI
il medioevo
le chiese plebane di San Giovanni a Cornacchiaia, San Gavino Adimari, San Giovanni Maggiore, San Piero a Sieve, San Giovanni a Montefiesole. La pieve di Santa Maria a Fagna nasconde le sue vetuste strutture romaniche (è ritenuta infatti la più antica del gruppo, risalente alla seconda metà del XI secolo) sotto un’elegante e quasi ‘mondana’ decorazione settecentesca che coinvolge anche la facciata. Mantengono un aspetto ancora coerente con l’originale, in virtù delle più lievi modifiche subite, le pievi di Santa Felicita a Faltona, Borgo San Lorenzo (Fig. 10), San Giovanni in Petroio, Sant’Agata e San Giovanni Battista a Remole. Situazione particolare è quella di Santa Maria a Dicomano che, documentata sin dal 1136, venne gravemente danneggiata nel terremoto del 1542: nei successivi lavori di restauro ne fu rovesciato l’orientamento, così che l’attuale ingresso si trova dove prima era l’abside, affiancato al massiccio campanile. Questi edifici affidano tutta la loro poesia alla rigorosa volumetria, coniugando la distesa spazialità paleocristiana con la razionale organizzazione del pensiero toscano e rifuggendo dal dialogo con la scultura che tanto invece caratterizza la coeva architettura settentrionale; in tale contesto, i rari elementi decorativi sono costituiti da arredi lapidei (amboni, recinzioni presbiteriali, fonti battesimali ecc.) realizzati con intarsi in marmo bianco e serpentino o marmo verde di Prato (Fig. 11). Tali suppellettili, presenti soprattutto in alcune pievi mugellane, costituiscono un prezioso corpus di opere, talvolta anche datate, che permettono di studiare il fenomeno e analizzare analoghi manufatti ampiamente presenti a Firenze e nel territorio toscano. La sostanziale organicità culturale esistente fra città e contado si evidenzia nell’apparato decorativo presente nelle chiese del territorio, costituito da tavole d’altare o affreschi che si pongono quale riflesso dell’arredo cittadino (naturalmente in scala minore, relativamente all’importanza delle committenze). Molto spesso però questo patrimonio artistico è andato incontro a una vasta e irreparabile dispersione, tanto che le opere superstiti si contano realmente in pochi ma importanti esemplari. In tale contesto, la particolarità della situazione mugellana emerge con forza per la singolare coincidenza della nascita in questo territorio del più importante artista medievale che dai dintorni di Vicchio andò ad imparare e sviluppare l’arte a Firenze, ma che non perse mai i contatti con la propria terra d’origine, forse per un carattere concreto e razionale che sembra davvero tutto mugellano. Il rinomato Giotto di Bondone, infatti, ha lasciato la sua prima opera conosciuta proprio in Mugello: nascosta per secoli sotto le spoglie di una Madonna nera, è tornata alla luce negli anni Ottanta una solenne e dolcissima immagine mariana per la felice scoperta di Bruno Santi e Umberto Baldini, unitamente alla perizia tecnica del restauro condotto dall’Opificio delle pietre dure. L’immagine, che oggi si può ammirare nella pieve di Borgo San Lorenzo, è un lacerto di intensità profonda che paradossalmente trova alimento nella suggestiva espressività delle mancanze della pittura prodotte dal tempo. Attorno a questa icona, forse proveniente dalla chiesa del convento di San Francesco a Borgo San Lorenzo, si può radunare tutta una serie di dipinti di area giottesca destinati agli altari delle chiese di Mugello e Val di Sieve. Tali opere laborano la lezione del maestro secondo le diverse U N ’A R E A D I PA S S A G G I O
11. Caratteristico motivo ornamentale a scacchiera della pieve di Sant’Agata.
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LA PIEVE DI SANT’AGATA DI M UGELLO
nei terremoti del 1542 e del 1611 (Fig. I). La facciata a capanna (vedi figura 9 a pagina 104) inLa pieve di Sant’Agata è uno degli edifici troduce nell’ampio interno, articolato in tre navate romanici più importanti del Mugello ed è docu- terminanti con un presbiterio modificato nel mentata sin dal 984; le sue origini sono però corso del tempo, in quanto l’unica abside semicirpiù antiche, in quanto sotto il pavimento della colare è stata sostituita da una scarsella quadranchiesa attuale sono state rinvenute le fondamen- golare affiancata lateralmente da due cappelle. La ta di un edificio più piccolo, risalente all’epoca caratteristica principale dell’edificio, che rende tardoromana (IV-V secolo). Probabilmente a questa chiesa particolare nel panorama delle causa dell’aumento di afflusso dei viaggiatori che pievi romaniche della Toscana, è il tipo di copertransitavano sull’antico percorso dell’Osteria Bru- tura, col quale l’armatura del tetto a due spioventi ciata, lungo il quale la pieve si trovava, l’edificio viene posata direttamente sui sei alti pilastri, venne ricostruito in maggiori dimensioni nel creando un effetto di ampia e maestosa spazialità. Questa realizzazioXII secolo e a quest’ene, che ben si presta a poca infatti risale la resistere in un territoprima documentazione rio ad alto rischio dopo il Mille, ovvero la sismico, è costituita da data 1175 incisa su uno un complesso sistema degli specchi dell’antidi capriate lignee che co pulpito. La chiesa si colloca era presente anche nell’indirizzo architettonella chiesa gemella di nico caratteristico di I. L’abitato di Sant’Agata con la pieve (XII secolo) e il Cornacchiaia, posta molte pievi del conta- campanile a torre, scapezzato in seguito ai danni ripor- sullo stesso percorso do fiorentino che, pri- tati nei terremoti del 1542 e del 1611. transappenninico delvilegiando forme volul’Osteria Bruciata, e metricamente definite e disdegnando intrusioni nella pieve dei Santi Gervasio e Martino a Lubadecorative, affidano il fascino del loro aspetto al co, sulla strada per Fiesole; tale copertura è visibirigore geometrico ed alla severità spaziale. le ancora nella chiesa di Santa Maria a Lamulas Realizzata tutta in filaretto di alberese, la pieve ad Arcidosso, pur risalendo ad un intervento presenta una sobria facciata a capanna: sul lato architettonico ormai già duecentesco. Restaurata negli anni Sessanta del Novecensettentrionale compare un motivo a losanga formato da una scacchiera in bozze di marmo to, la pieve di Sant’Agata ha subito nel tempo bianco e verde che ricorda l’antica simbologia me- numerose trasformazioni: le principali avvennedievale incentrata sull’eterna lotta fra il bene e il ro al tempo del pievano Tolomeo Nozzolini che male (vedi figura 11 a pagina 105). Sullo stesso dal 1608 al 1618 intraprese radicali lavori di fianco si addossa il campanile a pianta quadran- ristrutturazione dell’edificio e degli arredi, in adegolare e scapezzato in seguito ai danni riportati guamento ai nuovi dettami della Controriforma.
l’antichità
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La chiesa fu, allora, intonacata ed imbiancata, fu sbassato il presbiterio, smantellati l’iconostasi ed il pulpito, sostituiti, infine, gli altari lignei con altri in pietra che furono dotati di nuovi dipinti. Appartengono all’antico apparato decorativo medioevale i pannelli marmorei intarsiati con motivi ad archeggiature ed anfore collocati alle basi dei principali altari della navata e delle absidi, così come facevano parte dello smembrato pulpito, i frammenti collocati nell’altare di Sant’Agata (controfacciata a destra) e le specchiature marmoree datate 1175 formanti il recinto del battistero (controfacciata a sinistra). Anche la scultura a tutto tondo collocata sulla parete e raffigurante un telamone era inserita nell’ambone: tutto l’insieme costituiva una solenne, piccola architettura il cui modello è testimoniato dal pulpito ancora presente nella basilica fiorentina di San Miniato al Monte. Anche l’antico polittico attribuito a Jacopo di Cione e databile al 1383 (vedi pagina 110), in origine collocato sull’altar maggiore della pieve, fu smembrato e la tavola centrale raffigurante la Madonna col Bambino venne collocata nella cappella absidale destra, in relazione all’intensa devozione di cui divenne oggetto poiché ad essa si rivolgevano le preghiere dei santagatesi che invocavano protezione dai ripetuti terremoti che si abbatterono sul paese. I due laterali raffiguranti Sant’Agata e Santa Lucia furono inseriti nel XVII secolo nella singolare ancona posta all’altare di Sant’Agata assieme ai restanti frammenti delle tavole che ornavano gli antichi altari lignei. Risalgono al primo Seicento le tele commissionate dal pievano Nozzolini all’affermata bottega di Cristofano Allori per i nuovi altari; in particolare, tre dipinti – la Madonna del Rosario e Santi col pievano Tolomeo Nozzolini (Fig. II), San Francesco e
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II. Simone Sacchettini, Madonna del Rosario e santi col pievano Tolomeo Nozzolini, olio su tela, 1611, pieve di Sant’Agata (il pievano è il personaggio effigiato a destra in alto).
Scena di battesimo – sono le uniche opere certe, in Italia, di un suo allievo, Simone Sacchettini. Dietro l’altare si trova un pregevole Crocifisso seicentesco di scuola fiorentina, mentre un secondo, riferibile ai modi di Francesco di Simone Ferrucci, è collocato nella cappella absidale sinistra, affiancato da due sagome dipinte raffiguranti i Dolenti e realizzate nei primi decenni dell’Ottocento da Luigi Ademollo che affrescò le cappelle absidali con un ciclo cristologico. Lia Brunori Cianti
Antichi percorsi in mugello e val di sieve
12. Bernardo Daddi (1290 ca.-1348 ca.), San Giovanni Battista, tempera su tavola, secondo quarto del XIV secolo, Museo d’arte sacra e popolare Beato Angelico di Vicchio: la tavoletta proviene dalla pieve di San Giovanni Maggiore a Panicaglia.
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13. Jacopo di Cione (1325-1399), Madonna col Bambino, tempera su tavola, 1383 ca., Raccolta d’arte sacra Don Corrado Paoli di Sant’Agata.
caratteristiche dei suoi discepoli di prima e seconda generazione spaziando per tutto il XIV secolo. Si ricordano a questo proposito i casi più eclatanti, come il polittico di San Godenzo e la tavoletta proveniente da San Giovanni Maggiore ora al museo di Vicchio, dipinte da Bernardo Daddi (Fig. 12), le Maestà di Jacopo del Casentino nell’oratorio della Madonna di Piazza a Scarperia e nella chiesa di Crispino (Marradi), le intense tavole di Jacopo di Cione a Sant’Agata (Fig. 13) o la preziosa Madonna di Agnolo Gaddi nella pieve di Borgo San Lorenzo, fino ai polittici di Niccolò di Pietro Gerini o di Mariotto di Nardo, ambedue a Pelago. Il Trecento si aprì in Mugello con una vera e propria «rivoluzione stradale» che modificò fortemente il tratto più noto dell’antica viabilità transappenninica. Negli anni in cui il Comune fiorentino stava espandendo la propria egemonia sul contado, il già citato passo dell’Osteria Bruciata era ancora dominato dalla potente casata feudale mugellana degli Ubaldini che aveva proprio a ridosso del valico la propria roccaforte: il castello di Montaccianico. Questo edificio, grandioso e imponente, era un costante pericolo per Firenze, non solo perché costituiva il centro di controllo degli Ubaldini sul territorio, ma rappresentava anche un insidioso luogo di rifugio dei nemici del Comune (la tradizione vuole che Dante stesso vi si sia rifugiato nel 1304, all’epoca della dieta di San Godenzo). Ben presto per Firenze divenne urgente «reprimere e frenare l’arroganza degli Ubaldini»:10 e nacque un conflitto culminante nell’assedio del castello di Montaccianico. Dopo tre mesi, nel maggio 1306 i «tirannichi Ubaldini, rubatori e struggitori di popoli» furono sconfitti: e se per i fiorentini il successo si risolse prosaicamente nell’acquisto della fortezza al prezzo di seimila fiorini, l’episodio si tradusse comunque in un’epopea mitica in cui, quasi si trattasse addirittura d’una novella Iliade nella quale «era come combattere una delle istelle del cielo per via di fortezza».11 LIA B RU NORI C IANTI
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14. Nell’acquerello di Massimo Tosi, la pianta della «terra nuova» di Scarperia, fondata il 7 settembre del 1306 col nome di Castel San Barnaba in onore del santo venerato nel giorno della vittoria guelfa a Campaldino, nel 1289.
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Conquistato il castello, il Comune fiorentino decise di fondare un nuovo presidio nelle vicinanze, affermando così il proprio dominio sul Mugello, in quel disegno espansionistico che trovò i cardini del controllo sulle campagne nella creazione di quelle «terre nuove» di cui restano tuttora ampie testimonianze in vari centri della Toscana.12 Il 18 luglio 1306 venne conferita a messer Matteo di Neri da Gubbio, l’ufficiale del Comune fiorentino a ciò deputato, la patente d’autorità per impiantare un nuovo castello da dotare di mura, porte, fossati, così che il 7 settembre ebbe luogo la cerimonia di fondazione di Scarperia, o meglio di Castel San Barnaba, così denominato in onore del santo venerato nel giorno della vittoria guelfa a Campaldino, nel 1289 (Fig. 14). Scarperia divenne così il cardine d’un nuovo asse viario che, gravitando su di un’area a totale controllo fiorentino, sostituì l’antico percorso, attraversando l’Appennino al passo del Giogo; agli anni Trenta del XIV secolo risalgono le prime indicazioni relative ai lavori per la realizzazione della strada e nel 1332 venne fondata la terra nuova di Firenzuola al di là dello spartiacque (Fig. 15). A Scarperia fra il 1355 e il 1360 venne costruita la straordinaria mole del cassero, l’attuale palazzo dei Vicari,13 che si pone come suggello della geometrica struttura urbanistica della terra nuova, impostata lungo un asse viaU N ’A R E A D I PA S S S A G G I O
15. Palazzo Pretorio a Firenzuola, «terra nuova» fondata nel 1332 al di là dello spartiacque.
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16. Uno splendido tramonto appenninico presso Ponzalla, fra Scarperia e il passo del Giogo: nella frazione risultava nel 1393 un iscritto all’Arte degli albergatori. Altri si registrano a Fontebuona, dopo Pratolino, a San Piero a Sieve e ben dodici a Scarperia.
rio principale e formata da isolati regolari definiti da strade intersecantesi ortogonalmente. È il castello stesso a collegare le cortine murarie del lato occidentale con la piazza, nel cuore di Scarperia, in complementare dialogo col potere religioso, rappresentato lungo i lati della stessa piazza dalla vecchia parrocchiale dei Santi Jacopo e Filippo e dalla mole del convento agostiniano di San Barnaba Con la fondazione delle terre nuove, che in Mugello vede nascere anche Vicchio e in Val di Sieve avrebbe dovuto dar luogo al nucleo, mai realizzato, di Pian dell’Asentio, Firenze sancisce la propria affermazione sul contado, saldamente governato riflettendo su di esso l’organizzazione della Dominante. La crescita economica della città, infatti, è strettamente legata al collegamento diretto col territorio circostante, per cui mantenere efficiente e attivo il sistema stradale divenne un’esigenza prioritaria. Nel 1338 l’Arte degli albergatori suddivise in nove ideali «contrade e cerche» il territorio prossimo alla città, in relazione ai principali tracciati viari che da essa si dipartivano,14 registrando i nomi delle principali località interessate. Agli albergatori fiorentini venivano così assegnati determinati settori del contado, giurisdizionalmente sottoposti a «governatori» che riscuotevano le tasse e tutelavano gli interessi degli esercenti, in particolare contro i frequenti abusivi. All’epoca il termine «albergatore» era piuttosto ‘fluido’, indicando sia chi offriva ospitalità per la notte che chi forniva pasti completi o frugali oppure assicurava lo stallaggio per i cavalli. Lo sfruttamento delle attività legate alla strada interessava sia le singole famiglie, che potevano arrotondare il magro reddito destinando ai forestieri una camera o anche un solo giaciglio, sia le casate nobiliari (come avrebbero fatto i Medici nel XV secolo) che vedevano nell’acquisizione di alberghi e taverne un sicuro investimento di capitali. In questo contesto il nostro territorio viene punteggiato da un organizzato sistema ricettivo: per esempio, nella tratta stradale del Giogo nel 1393 si contano numerosi iscritti all’Arte degli albergatori, uno a Fontebuona, dopo Pratolino, un altro a San Piero a Sieve, ben dodici a Scarperia e uno a Ponzalla (Fig. 16), pochi chilometri prima del passo.15 Se alberghi e taverne erano generalmente destinati a viaggiatori benestanti, i più poveri potevano invece trovare ospitalità presso gli «spedali» che offrivano un pasto fugale ed un giaciglio, pur limitati al massimo per due notti consecutive. Spesso erano le compagnie laicali o le corporazioni di mestiere a provvedere al mantenimento di queste strutture che costellavano gli antichi percorsi e che ancora sono distinguibili accanto alle comuni abitazioni: si veda, per esempio, lo spedale riconoscibile, nonostante i successivi rifacimenti, in corrispondenza dello snodo stradale di Novoli presso San Piero a Sieve.16 Si ricorda che fino agli inizi del XX secolo la finestra dalla foggia inconsueta visibile sul prospetto di tale edificio nascondeva una «ruota degli esposti» dove, come avveniva presso l’ospedale degli Innocenti a Firenze, venivano accolti i neonati abbandonati,17 confermando anche in questa pietosa consuetudine la sostanziale unitarietà d’usi e strutture fra città e campagna.
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NOTE 1 La continuità della circoscrizione ecclesiastica medievale rispetto alla romana – affermata da M ENGOZZI 1973 – è stata messa in dubbio da VIOLANTE 1974. Per questo argomento si veda anche Firenze romanica 2005, p. 26; PINELLI 1994, p. 24 e Chiese romaniche del Mugello, p. 21. 2 VIOLANTE, 1982, p. 1054. Altri autori ritengono più tardo il completamento del sistema (secoli XII o XIII); cfr. Chiese romaniche del Mugello 2008, p. 21 n. 92. 3 P LESNER 1979; v. anche T. SZABO in P LESNER 1979, pp. IX-XIV. 4 OURSEL 1997; e D. STERPOS 1985, pp. 7-34 con bibliografia precedente sull’argomento; in questo lavoro si sintetizzano gli studi precedenti e ad esso si rinvia anche per le notizie di seguito riportate nel testo. 5 Per questo percorso e gli altri inerenti la Val di Sieve, cfr. F ERRINI 1988 e MORETTI 1988. 6 Statuti della Repubblica fiorentina 1910-1921, I, 1910, libro IV, cap. VIII, p. 175. 7 MORETTI 1988, p. 300. 8 Per l’analisi delle pievi del Mugello e della Val
di Sieve si rimanda all’esauriente studio di M. Pinelli: P INELLI 1994 e alla riedizione aggiornata (Chiese romaniche del Mugello 2008). 9 Per la pieve di Sant’Agata cfr. BRUNORI C IANTI 1997. 10 «Ad reprimendum effrenandum superbiam Ubaldinorum…»: così inizia il documento volto alla fondazione di Scarperia, cfr. Archivio di Stato di Firenze, Provvisioni, 206, 29 aprile 1306 in F RIEDMAN 1996, p. 282. 11 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori 1986, p. 127. 12 Per la fondazione di Scarperia e in genere delle terre nuove fiorentine cfr. DIANA, ROMBY 1985, FRIEDMAN 1996, il tutto ricapitolato ed aggiornato in Scarperia settecento anni 2006. 13 Per la decorazione del palazzo dei Vicari, cfr. B RUNORI C IANTI 2006. 14 Su quest’argomento e sulla bibliografia specifica, cfr. DIANA 1985, pp. 85-99. 15 Ivi, p. 101. 16 N ICCOLAI 1914, ed. 1974, p. 293. 17 C ERTINI, SALVADORI 1999, pp. 44-45.
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I L C RISTO Triumphans DI CAMAGGIORE E LE MEMORIE D’UNA PIEVE ROMANICA
e immobile, che ci rimanda, con la forza della sua fissità e i caratteri di un modellato essenziaDI CONFINE le, alla scultura romanica del XII secolo. La figura è a grandezza naturale (h cm 160) e veste un Dal 2000, dopo un lungo e complesso re- lungo perizoma a pieghe tenuto fermo all’altezstauro, è esposta nella pieve di San Giovanni za dei fianchi da una fascia che si intreccia in Battista a Firenzuola un’importante scultura li- un grosso nodo; l’impostazione rigida del corpo, gnea romanica: un esemplare raro per la data- con le gambe che si allungano parallele, così zione, il modellato e l’iconografia, ma ancome paralleli sono i piedi che poggiano che perché la scultura è preziosa testimosu di un suppedaneo decorato da un nianza di una delle ramo fogliato con motivo a girali, è appepiù antiche pievi delna ingentilita da una l’A ppennino toscoleggera inclinazione emiliano. Il Cristo crocidella testa (Fig. I). fisso proviene, infatti, Sulla scultura lidalla pieve di San gnea restaurata coesiGiovanni Battista a stono due stesure croCamaggiore, situata in uno degli estremi matiche antiche: nella capigliatura e nella lembi settentrionali della provincia fiobarba segnate da sottili striature rosse e rentina e del territorio di Firenzuola, nelnere si può individuare la cromia più anl’alta valle del Santerno. Pochi chilometica, mentre la definizione degli occhi tri separano il complesso ecclesiastico sbarrati, le cromie degli incarnati del dalla Romagna e dal territorio di Imola: volto e del busto sono successive, probaquesta ubicazione di confine, ma prospibilmente della fine del XII secolo. ciente una delle più antiche strade di colLa datazione di quest’opera, certamenlegamento attraverso l’A ppennino, ha te rara nel panorama artistico della procondizionato la storia antica e recente vincia fiorentina, è stata proposta da Enridella struttura ecclesiastica, così come le ca Neri Lusanna intorno alla metà del vicende del suo patrimonio artistico. XII secolo. La studiosa ha anche supposto La scultura, recuperata alla visibilità e che originariamente gli occhi del Cristo agli studi critici da fossero semichiusi e meno di un decennio, che l’intervento che ne I. Scultore della metà del XII secolo, Crocifisso, scultura raffigura il Cristo lignea, pieve di San Giovanni Battista a Firenzuola: pro- modificò la superficie secondo l’antica formu- viene dalla pieve di San Giovanni Battista a Camaggiore. cromatica originale la iconografica del Crifosse appunto successto triumphans – trionfante sulla morte – con gli sivo all’incirca di mezzo secolo. occhi completamente aperti e senza alcun Il Cristo di Camaggiore – come sopra si è segno di sofferenza sul viso: una figura ieratica accennato – è stato recuperato alla visibilità e
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scoperto dalla critica soltanto uso liturgico e devozionale. dopo la conclusione di un Scampò a questa devalungo restauro eseguito da Barstante razzia l’antico crocifisso bara Schleicher e finanziato ligneo posto in sagrestia. La congiuntamente dalla Cassa scultura lignea, in pessimo rurale e artigiana del Mugello e stato di conservazione e ricodalla Soprintendenza ai Beni perta da strati di ridipinture artistici e storici di Firenze (direche la alteravano pesantezione e coordinamento di Maria mente, non era stata forse Matilde Simari). Una mostra capita dai ladri? O forse non organizzata ad Imola e una pubera stata considerata comblicazione festeggiarono appunmerciabile? to nel 2000 quest’eccezionale Certamente quando il Criritrovamento, che ha dietro di sto crocifisso, pochi giorni dopo sé una storia secolare di culto e il furto, il 15 novembre del poi di oblio, ma si rapporta II. Particolare della testa del Crocifisso 1991, venne ritirato dalla pieve di Camaggiore (che anche in modo diretto sia alla di Camaggiore durante il restauro. ovviamente non offriva più storia antica sia a quella recente – purtroppo dolorosa – dell’originaria pieve di alcuna garanzia per la conservazione), suscitaappartenenza (si veda al proposito Crocifisso di va incertezza per le possibilità di recupero, ma Camaggiore 2000: in particolare, i saggi di E. Neri anche grande curiosità e ansia d’indagare sulla sua storia. Lusanna, pp. 41-55, e M.M. Simari, pp. 11- 23). Da una grave lacerazione del patrimonio La scultura mostrava caratteri stilistici che artistico del Mugello deriva, infatti, il recupero sembravano indicarla come romanica, ma le del nostro Cristo. Nel novembre del 1991 la condizioni di conservazione erano pessime. pieve di Camaggiore comparve nelle pagine Cominciarono i primi saggi e i primi intervendi cronaca della stampa locale e nazionale per ti sull’opera, proseguiti con un metodico restauun clamoroso furto che la privò di una grande ro scientifico dopo aver accertato la sussistenza tavola di Santi di Tito con la Decollazione del Bat- del modellato originale e la presenza di una tista (cm 245x195), datata 1597, di una tela del cromia molto antica al di sotto di numerosi XVII secolo con una derivazione dalla Madon- strati di ridipinture. Il recupero del Cristo di na del Baldacchino di Raffaello (cm 260x215), Camaggiore ha riservato un’ulteriore sorpresa oltre a diverse opere minori, quali un dipinto col ritrovamento di due minuscoli sacchetti, su tela dell’Ottocento col Sacro Cuore inserito in confezionati con antichi tessuti medioevali, cornice coeva di discreta fattura, nonché una contenenti reliquie, nascosti entro la calotta grande cornice intagliata e dorata del XVIII cranica del Cristo (Fig. II). Le reliquie sono ora secolo, una modesta tela col Battesimo di Cristo, esposte vicino alla scultura nella pieve firenanch’essa del Settecento, e numerosi oggetti di zuolina.
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Il Cristo romanico è così, oggi, unica e preziosa testimonianza di una pieve dell’Appennino tosco- romagnolo depauperata del suo patrimonio e completamente trasformata anche nella sua originaria struttura. L’attuale complesso della pieve di Camaggiore, affiancata da un’ampia canonica, ha conservato infatti l’antica dislocazione, ma gli edifici sono stati completamente trasformati da una totale ristrutturazione effettuata tra il 1910 e il 1912. La prima fondazione della chiesa non è documentata: si ha notizia certa soltanto del patronato ottenuto su di essa nel 1275 dal cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Ma un’iscrizione posta su di una semplice lastra in pietra serena vicino ad una finestrella ovale del cortile della canonica, con la data MCCIV, offre una buona traccia per risalire più indietro nel tempo, mentre una notizia d’archivio in cui si ricorda la sussistenza, ancora nel 1901, di «un colossale avanzo di un antico maniero […] unito al muro della chiesa» (Archivio dell’Arcidiocesi di Firenze, Visita pastorale, documenti 51.36.), porterebbe a confermare un’antica tradizione secondo la quale, come in altri numerosi casi di antiche fondazioni ecclesiastiche di Mugello e alto Mugello, anche la chiesa di Camaggiore sia sorta accanto ad uno dei molti castelli degli Ubaldini, grandi feudatari delle zone dell’Appennino già verso il Mille. Nel 1276 la chiesa risultava essere collegiata, sede di canonici e con un ruolo preminente nel tessuto ecclesiastico nella sua area territoriale. Notizie d’archivio posteriori ricordano poi la commessa, da parte di un ser Simone de’ Berti di
Firenzuola, della pala di Santi di Tito con la Decollazione del Battista e la presenza, fino alla fine del XVI secolo, di antichi affreschi nella zona absidale. Nel XVII e XVIII secolo la pieve presentava un patrimonio artistico di qualità e ricchezza insolite per le piccole chiese della valle del Santerno: essa aveva dunque conservato per secoli, grazie alla sua strategica posizione geografica lungo una delle importanti strade di collegamento appenninico, una funzione di rilievo. Dopo aver percorso brevemente queste vicende storiche antiche e recenti, si può a ragione pensare che il Cristo crocifisso di Camaggiore, con i suoi oltre otto secoli di storia, condensi in sé il fascino della rara opera d’arte romanica e il forte valore simbolico di memoria di una pieve e di un territorio sul confine appenninico. Maria Matilde Simari
La pieve romanica di Camaggiore nei pressi di Firenzuola.
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ll’aprirsi del XV secolo le mutate condizioni politiche, vinte le resistenze dei più tenaci feudatari locali, primi fra tutti gli Ubaldini – costretti a rinunciare agli ultimi castelli sul finire del XIV secolo seguiti dai conti Guidi, che tra Quattrocento e Cinquecento videro estinguersi i rami di Dovadola e Modigliana – determinarono un nuovo assetto territoriale, incisivamente segnato dalla presenza di Firenze e culminata nell’istituzione del Vicariato di Scarperia nel 1412. A favorire il consolidamento di potere della Dominante concorse anche la forte concentrazione di possedimenti ecclesiastici cui corrisposero, per converso, i cospicui capitali impegnati dalla borghesia cittadina nell’acquisto di terreni ed immobili in terra mugellana. Ne conseguirono quelle «correnti di mobilità»1 tra centro e periferia i cui effetti nel campo della distribuzione artistica offrono ancora molteplici spunti di ricerca ai fini di una valutazione complessiva dell’area mugellana. Alla luce dei numerosi studi sinora compiuti sia sul versante della storia dell’architettura che su quello storico-artistico e al parallelo lavoro di restauro e recupero compiuto dagli istituti di tutela negli ultimi tre decenni, è possibile gettare uno sguardo d’insieme sul patrimonio artistico mugellano tra XV e XVII secolo, scegliendo il filo conduttore del sistema di comunicazioni e di strade che siglano il territorio determinandone significativamente lo sviluppo. Se è evidente la funzione strategica che queste terre e soprattutto i valichi appenninici ebbero per Firenze in quanto canale di comunicazione e baluardo di difesa militare verso settentrione, è altrettanto significativo che proprio quei canali di comunicazione ne favorissero la vocazione mercantile e commerciale cui corrispose la formazione di un ceto locale interessato alla committenza di manufatti artistici, magari sospinto dalla volontà di emulazione delle grandi famiglie fiorentine presenti sul territorio, in ogni caso saldamente ancorato, nelle scelte, all’orbita di cultura fiorentina. Un utile atlante geografico, tra i primi registri della fitta rete di strade che costellano il territorio mugellano, in anticipo di circa un secolo sulla puntuale cartografia delle Piante di Popoli e Strade dei Capitani di Parte, è il Libro vecchio di strade, interessante manoscritto offerto recentemente all’attenzione degli studi.2 L’arteria centrale di comunicazione con le Romagne è senz’altro quella che corrisponde in parte all’attuale via Bolognese. Essa valicava l’Appennino attraverso il passo dell’Osteria Bruciata e poi dal 1309 da quello del Giogo, prima che l’apertura del valico della Futa, voluta dai Lorena, deviasse più decisamente il tracciato verso Barberino, tagliando fuori San Piero a Sieve e Scarperia. Non rimaneva però senza importanza un NEL TEMPO DEI MEDICI
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reticolo viario alternativo, costituito da mulattiere di età medievale ancora pienamente in uso nel Cinquecento,3 che si sovrapponeva o rinnovava segmenti di strade romane – la via Faentina, antichissima connessione con Faenza attraverso il territorio fiesolano – lungo le quali le frazioni conservano tutt’oggi i toponimi latini. L’antica Bolognese aveva inizio «fuor della Porta S. Gallo andando verso Bologna»: attraversati i popoli di Trespiano e Cercina, si giunge presto ai popoli della Pieve di San Cresci a Macioli e di San Romolo a Bivigliano, punti di riferimento nei percorsi di pellegrinaggio. Negli anni centrali del XV secolo l’antica pieve romanica di San Cresci fu sottoposta a lavori di rinnovamento eseguiti sotto il patronato dei Neroni, i cui stemmi campeggiano ben visibili sulle pareti della navata, tra il 1448 circa ed il 1466, anno in cui furono banditi da Firenze per aver preso parte alla congiura contro Piero il Gottoso.4 È opinione assestata presso gli studi che la limpida scansione architettonica e la ricercatezza dei dettagli costruttivi – colonne, capitelli, fregi – sia da riferirsi all’intervento di Giuliano da Maiano sulla metà del secolo, al tempo dell’ufficio di Arlotto Mainardi, il pievano acuto e beffardo autore di facezie immortalato da Lorenzo il Magnifico nelle pagine del Simposio. In San Romolo a Bivigliano, appartenente al plebato di Santa Felicia a Faltona, due committenti locali, Fiora e Francesco di Capo, finanziavano la pala d’altare in terracotta policroma con la Madonna col Bambino tra i santi Romolo, Jacopo Apostolo, Giovanni Battista e Francesco da Assisi, nella predella l’Ecce Homo tra la Vergine, San Giovanni Evangelista, San Paolo e Sant’Antonio abate, e sugli angoli stemmi con la croce del popolo e il giglio fiorentino, uscita dalla bottega di Andrea della Robbia alla metà degli anni Novanta.5 È una delle prove più significative della bottega robbiana tra quei manufatti – tavole d’altare, fonti battesimali, stemmi gentilizi, tabernacolini devozionali – che colonizzano in gran numero chiese, palazzi e strade mugellane. Non lontano da San Romolo, nella chiesa di Pescina giunse nel secondo decennio del XVI secolo una monumentale pala a più scomparti raffigurante al centro l’Adorazione dei Pastori, e sui lati i santi patroni Stefano e Lorenzo entro una intelaiatura architettonica riccamente ornata da tralci vegetali, contenente gli stemmi di Giovanni Davanzati e Caterina Pazzi, uniti in matrimonio nel 1512.6 È riferibile alla mano di Giovanni della Robbia, che negli stessi anni realizzava un apparato in terracotta invetriata per l’abbazia del Buonsollazzo, prima che l’intervento settecentesco voluto da Cosimo III improntasse dell’assetto fogginiano la chiesa e il monastero, che tra le altre opere perdute doveva annoverare anche un ciclo di affreschi allogati a Domenico Puligo nel 1511.7 Ma bisogna ritornare ancora a San Romolo per rintracciare un raffinato esempio di scultura lignea della prima metà del XVI secolo: è il San Giovanni Battista, recuperato alla cromia originale dal restauro che ha rimosso un coprente strato di tempera bianca. Scarno e sottile, tutto nervi e pelle tesa, eppure così classico nel taglio nobile della testa, percorre i decenni ben oltre Michelozzo, tradizionalmente indicato come suo autore, inserendosi nell’ampio alveo della produzione legata ai Sangallo.8 Nell’area intorno a San Piero a Sieve si riuniscono Spugnole, San Jacopo a Coldaia, San Giusto a Fortuna e – un po’ più a ovest – Santo Stefano a Rezzano. La vicinanza tra Coldaia e San Giusto aveva favorito l’unificazione tra le due chiese nel 1385 per AN NA B I SC EG LIA
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opera del vescovo Acciaiuoli. Da San Giusto provengono due importanti rilievi oggi al Bargello: una Madonna col Bambino, terracotta invetriata e policroma, e una replica in stucco dipinto della Madonna dei Candelabri, prodotti della cerchia rosselliniana e maianesca che attestano la diffusione di un modello compositivo di grande effetto nella resa del tenero rapporto tra madre e figlio.9 L’altare maggiore di Santo Stefano a Rezzano ospitava, sino agli anni Trenta del secolo scorso, una Madonna in trono col Bambino fra i santi Francesco, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Domenico, in seguito traslata nella chiesa di San Bartolomeo a Barberino. La mancanza del santo titolare tra quelli che affiancano la Vergine in trono desta qualche perplessità sull’originaria collocazione di questa tavola che aveva impressionato il Niccolai con le monumentali sagome dei santi, bloccate nelle pose rigide e nei grafismi del volto della Vergine e del Bambino, tanto da fargli ritenere che fosse eseguita da «un perfezionatore della maniera del Ghirlandaio, la si attribuisce a Filippino Lippi». Un’indicazione interessante, in seguito circostanziata in favore di Francesco Botticini, con una datazione alla metà degli anni Settanta del Quattrocento.10 Nella vicina chiesa di Santo Stefano a Cornetole, frazione in cui ebbero possessi i Medici e nelle cui vicinanze sorse sui primi del XV secolo uno spedale per i pellegrini,11 si rintraccia una Vergine in adorazione in terracotta policroma. Collocata in una semplice nicchia che le conferisce un risalto isolato, essa è in realtà l’ultimo residuo di un presepe i cui elementi risultano oggi dispersi e di cui è incerta la posizione originale. Sebbene assai ridipinta, come è consueto per questo tipo di manufatti, lascia apprezzare in pieno i dettagli sottili del volto, la fronte ampia, gli zigomi pronunciati, l’espressione assorta, in sintonia col clima devozionale che a cavallo tra Quattro e Cinquecento favorisce la produzione di figure mobili – presepi, compianti, Vesperbild – destinate a sollecitare la pietà popolare con l’intonazione domestica e immediata della terracotta dipinta. In terra mugellana si ritrovano almeno altre due attestazioni collocabili nello stesso arco cronologico: il presepe proveniente da Sant’Andrea a Camoggiano, oggi conservato nel Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte, attribuito alla bottega maianesca e commissionato con tutta probabilità negli anni del priore Pandolfo Cattani, che promosse la campagna di lavori di rinnovamento del complesso, e il Compianto denominato «le Verginelle» nella chiesa di Pulicciano.12 NEL TEMPO DEI MEDICI
1. Jacopo Vignali, Madonna col Bambino e i santi Lorenzo, Bernardo degli Uberti, Giovanni Gualberto e santo vescovo, olio su tela (databile al 1632), Raccolta d’arte sacra Don Corrado Paoli di Sant’Agata, proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Gabbiano: particolare (per l’intero si veda a pag. 158).
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2. Jacopo Sansovino, Crocifisso (attr.), scultura lignea, prepositura dei Santi Jacopo e Filippo a Scarperia.
Gabbiano è oggi una minuscola frazione posta sul confine tra Scarperia e San Piero a Sieve, ma la sua indicazione nelle antiche carte ne sottolinea la peculiarità. La chiesa, intitolata a San Lorenzo, era anticamente di priorato vallombrosano, come la vicina San Giusto a Fortuna, e sottoposta alla Badia di Vigesimo con la quale condivideva la funzione di ospizio per viandanti che spesso si accompagna ai conventi monastici sul territorio. È proprio al nodo di committenze di ambito vallombrosano che si deve la presenza della grande pala eseguita per il rinnovato altare maggiore da Jacopo Vignali intorno agli anni Trenta del XVII secolo (Fig. 1). La Vergine in gloria attorniata da san Lorenzo, titolare della chiesa, san Giovanni Gualberto e san Bernardo degli Uberti, fondatori dell’ordine vallombrosano, fu ordinata dal priore Liberio Barallo che ebbe cura di ricordare nell’epigrafe dedicatoria, incisa nell’intempiatura dell’altare, il generale dell’ordine Tommaso Davanzati committente del Vignali di una pala per Badia a Ripoli eseguita nel 1631.13 Il nuovo peso strategico rivestito da Scarperia a seguito dell’elevazione a sede di vicariato aiuta a comprendere la fioritura di commissioni che incrementano il patrimonio d’arte dal Quattrocento in poi. Ne costituisce un prologo la serie di stemmi in pietra, terracotta e ad affresco che ornano la facciata e le pareti dell’atrio del Palazzo dei Vicari,14 così come la Maestà dell’antica cappella commissionata da Giovanni di Bardo di Guglielmo Altoviti, l’affresco riferito al Maestro di Pratovecchio nell’oratorio della Madonna dei Terremoti e la deliziosa tavoletta con la Madonna col Bambino attribuita già al Pesellino e poi al Maestro degli Argonauti nella vicina Pieve di Fagna.15 È in questa cornice che maturano le condizioni per l’arrivo del monumentale tondo marmoreo confezionato da Benedetto da Maiano sul modello di quello della cappella Strozzi in Santa Maria Novella e un Crocifisso ligneo di estenuata bellezza (Fig. 2), erede diretto, nell’intaglio che rende la materia cedevole come cera, di quello michelangiolesco in Santo Spirito.16 In continuità, sulla scia della maniera moderna, è il nucleo di pale d’altare che sul finire del XVI secolo accompagna iconograficamente la diffusione delle norme di chiarezza, semplicità compositiva e glorificazione della fede richieste dal Concilio di Trento. Tra i temi più richiesti appare quello incentrato sulla dottrina mariana e sull’esaltazione dei santi più legati alla controriforma: così nel nucleo di tele e tavole nella odierna prepositura, antico convento degli agostiniani, che conta l’Annunciazione di Giovanni Balducci, l’Elemosina di San Tommaso da Villanova, attribuita a Mirabello Cavalori, e due tele di Matteo Rosselli, la Natività e la Crocifissione tra i Santi Francesco e Carlo Borromeo. Quest’ultima è da riconoscersi nella «tavola fatta per Antonio Puccini da Scarperia nel 1616», ricordata dal Baldinucci insieme a quella eseguita per Vincenzo di Vettorio (Vittorio) dal Borgo a San Lorenzo per la pieve di San Lorenzo.17 AN NA B I SC EG LIA
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Di tema controriformato è pure la grande tela oggi posta sull’altare maggiore dell’oratorio della Santissima Trinità, antica prepositura, raffigurante San Domenico che distribuisce il Rosario ricevuto dalla Vergine (Fig. 3). Come è noto, il culto del rosario ricevé nuovo impulso dopo la vittoriosa battaglia di Lepanto che il pontefice Pio V volle consacrare alla Madonna: così, la presenza di san Domenico al centro della composizione, a far da tramite tra la sfera celeste ed il mondo terreno mentre consegna ai fedeli il rosario appena ricevuto, esplicita nel contempo la tradizione del culto e l’esaltazione della chiesa mediatrice in un’immagine chiara e di subitanea pregnanza. Tra le pale inviate da Firenze doveva spiccare, per qualità di stile, l’Assunta di Santi di Tito, datata 1587, originariamente sull’altare maggiore della secolare pieve che dal poggio di Fagna, antica roccaforte ubaldina, guarda Scarperia. L’inserzione del patronato mediceo, che a metà Cinquecento sottrasse ai Machiavelli i diritti acquisiti dagli Ubaldini un secolo prima, poté favorire la commissione di questo dipinto dall’impaginazione monumentale ed essenziale a un tempo, che dispiegava perentoriamente il dettato della pittura riformata, così come una decina d’anni dopo sarebbe avvenuto con la Decollazione del Battista, firmata e datata 1597, destinata alla pieve di San Giovanni Decollato a Firenzuola (Fig. 4). È un dipinto poco noto e mai pubblicato, sciaguratamente trafugato nel 1991, che piace qui sottoporre all’attenzione del lettore in una foto d’archivio che ne lascia tuttavia apprezzare quelle eleganze di superficie, i bagliori luminosi delle sete crepitanti dei vestiti, l’attrazione per gli orpelli d’abbigliamento che faranno scuola ad una intera generazione di pittori nella prima metà del secolo successivo e che ben si confronta NEL TEMPO DEI MEDICI
3. Anonimo della fine del sec. XVI, San Domenico che distribuisce il Rosario ricevuto dalla Vergine, olio su tela, prepositura dei Santi Jacopo e Filippo a Scarperia.
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4. Santi di Tito, Decollazione del Battista, olio su tela, 1597, trafugato nel 1991 dalla prepositura di San Giovanni Battista a Firenzuola.
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122 5. G.B. Naldini, Madonna del Rosario, olio su tela, già nella prepositura di San Giovanni Battista a Firenzuola e con essa distrutto nei bombardamenti del 1944. In luogo della prepositura fu costruita nel 1966 la nuova chiesa di San Giovanni Battista, dell’architetto Carlo Scarpa con la collaborazione di Edoardo Detti.
con la Madonna del Rosario lasciata dal Titi nella pieve di Santa Maria a Dicomano. Proprio a Firenzuola era giunta circa venti anni prima, ad anticipare gli umori più severi e rattenuti della pittura riformata, una Madonna in trono tra i Santi Domenico, Caterina da Siena e Giovanni Battista (Fig. 5), uscita dalla bottega di un Giovan Battista Naldini ancora tutto intriso di umori vasariani.18 Distrutta nel crollo dell’antica prepositura a seguito dei bombardamenti del 1944, la tavola era corredata da una predella con i Misteri del rosario graziosamente inseriti in occhielli tenuti insieme da un nastro ed appuntati su un drappo srotolato da due puttini. A Castro San Martino, ormai nel cuore del valico appenninico, si ergeva lo spedale di Fonte Manzina, anche in questo caso ostello dei viaggiatori. L’antica chiesa di San Martino era divenuta patronato granducale dal XVI secolo; nel 1575 fu trovata senza ciborio e il rettore ser Biagio Giacomelli dichiarò che i popolani erano esigui di numero, cosicché si decise di unirla a quella di San Jacopo.19 Tale annessione spiega l’iconografia della pala della Madonna col Bambino affiancata dai due santi titolari, Jacopo e Martino, e due donatori. È un curioso centone di spunti tratti da modelli celebri, come si riconosce nel gruppo centrale, spiccato da una delle madonne di Giulio Romano, quella oggi alla Walters Art Gallery di Baltimora. La via di comunicazione verso Faenza era costituita dalla direttrice, in gran parte coincidente con l’odierna strada faentina, che partendo da porta San Gallo giungeva nel cuore della valle del Lamone, attraversando la Valcava, dominata dai due plebati di Santa Felicita a Larciano e San Cresci. Le due antiche pievi non mancarono di ricevere nuovi complementi di arredo, come la bella vetrata che abbellì luminosamente l’abside di Santa Felicita. È opera della metà del XV secolo, avvicinata ad Andrea del Castagno, e mostra la santa titolare e i suoi sette figli, come lei destinati al martirio per non aver rinnegato la fede;20 sopra la porta d’ingresso, poi spostata all’interno della compagnia della Santissima Annunziata adiacente alla pieve, era una Madonna con Bambino in terracotta entro la consueta cornice a festoni vegetali policromi, opera della bottega dei Buglioni.21 Ai primi decenni del secolo successivo appartengono invece la Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Elisabetta, della bottega dell’Empoli (Fig. 6), e l’Annunciazione eseguita da Francesco Furini nella compagnia della Santissima Annunziata (Fig. 7). Consegnata nel 1635, appartiene alla piena maturità dell’artista, che aveva consolidato il successo della sua pittura fatta di tocchi morbidi ed effusi, piegati qui al tono più intimo e domestico del quadro di devozione.22 È in quegli anni infatti che Furini, abbandonata la corte medicea, sceglie la quiete di questa ombrosa valle mugellana acquisendo la prioria della chiesa di Sant’Ansano a Monteaceraia che dal 1604 inglobava il territorio della vicina Santo StefaAN NA B I SC EG LIA
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no a Monteaceraia, andata in rovina.23 Non c’è più notizia del Sant’Ansano che Furini aveva dipinto per l’altare maggiore della chiesa, entro un sontuoso apparato lapideo fiancheggiato delle due tavolette con sant’Antonio e san Sebastiano recentemente attribuite a Carlo Portelli.24 In san Cresci, prima del programmatico restauro settecentesco diretto dal Foggini e patrocinato da Cosimo III, il culto del santo martire germanico era celebrato nel polittico dell’altare maggiore con la Madonna in trono col Bambino affiancata da san Cresci, san Lorenzo e altri santi entro una raffinata cornice lignea intagliata e dorata. Ne sopravvive,
6. (A sinistra) Bottega di Jacopo Chimenti detto l’Empoli, Madonna col Bambino, San Giovannino e Santa Elisabetta, olio su tela, 1610-1620 ca., Museo d’arte sacra e religiosità popolare Beato Angelico di Vicchio (proveniente da Santa Felicita a Larciano in Val di Faltona). 7. (in basso a sinistra) Francesco Furini, Annunciazione, olio su tela, 1635, Vicchio, Museo d’arte sacra e religiosità popolare Beato Angelico di Vicchio: particolare del volto della Vergine.
8. Maestro della Madonna Strauss, Madonna col Bambino e angeli, tempera su tavola, 1405-1410 ca., Museo d’arte sacra e religiosità popolare Beato Angelico a Vicchio (proveniente da San Cresci in Valcava). NEL TEMPO DEI MEDICI
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9. Scuola fiorentina, Madonna col Bambino, Dio Padre e santi (tabernacolo di Campestri), affreschi staccati, seconda metà del secolo XV, Museo d’arte sacra e religiosità popolare Beato Angelico di Vicchio.
10a-b. Tabernacolo del Cantone, Panicaglia (Borgo San Lorenzo): le pitture (si veda il particolare con la Sacra Famiglia) indicano un artista vicino ai modi del Poppi e del Naldini.
unico lacerto, il pannello centrale (Fig. 8), opera tra le più rappresentative dell’anonimo pittore vicino ai modi di Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina, denominato Maestro della Madonna Strauss.25 Ma la fortuna del culto del santo troverà il suo apice decorativo nel raffinatissimo busto reliquiario fuso da Bernardo Holzman su disegno del Foggini, destinato a conservare la reliquia del capo del martire. Intorno a quest’area densamente abitata, dalla quale originava una fitta rete di percorsi derivanti dall’antica via romana che conduce a est verso Vicchio, appaiono le più antiche emergenze architettoniche di San Donato al Cischio, San Quirico a Uliveta, Campestri. Non mancano anche qui dipinti di ambito controriformato, come l’Annunciazione del 1585 in San Donato che ripropone il notissimo e ripetuto modello della Santissima Annunziata a Firenze. Ma anche più significativa appare la capillare distribuzione di tabernacoli e cappellette votive che connota fortemente l’area mugellana, divenendo quasi parte integrante del paesaggio naturale. Collocate in prossimità di snodi viari, accanto agli spedali o a importanti complessi abitativi, esse hanno un valore fortemente devozionale, destinate come sono all’uso dei viandanti e dei pellegrini, ma non mancano di offrire caratteri di stile anche di notevole qualità. È il caso del tabernacolo di Campestri, oggi al Museo di Vicchio (Fig. 9), commissionato dalla famiglia Roti, con la Madonna in trono tra i santi Jacopo e Antonio e l’Eterno benedicente, databile agli ultimi anni del XV secolo, bell’esempio di quella pittura di luce che, nella maniera fiorentina del tempo, unisce all’acribia del
disegno la luminosità cristallina del colore e della prospettiva. È il caso ancora delle molte pitture riferibili alla bottega di Paolo Schiavo, dal tabernacolo di Croce di Via (1440 ca.), segnava la strada verso il Giogo, alla Madonna in trono tra i Santi Battista e Giorgio in San Michele a Figliano, dalla Madonna dell’Umiltà in San Martino a Vespignano alla Madonna del latte nella cappella della AN NA B I SC EG LIA
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Bruna sul medesimo colle; infine, la cappellina di Rupecanina, accanto alla chiesa di San Michele, sul percorso verso Dicomano, assegnata al Maestro di Signa. Il tema ricorrente è quello della Madonna del latte e dell’umiltà. Prescelto in virtù del tono domestico ed intimo che con più immediatezza e umanità stabilisce un rapporto con il fedele sollecitandone la contemplazione, esso ben rappresenta l’aspetto della spiritualità toscana cosi strettamente legata al culto della terra madre e genitrice. Bisogna spostarsi in avanti di un secolo circa, seguendo lo sviluppo della direttrice viaria un po’ più ad ovest, verso il borgo di Panicaglia, per rintracciare un’altra bella testimonianza pittorica affidata alle pareti di una cappella votiva. È il tabernacolo cosiddetto «del Cantone», recante la data 1575 che, come gran parte delle pitture murali e delle pale d’altare cinquecentesche in terra mugellana, le fonti iscrivono nel catalogo di Andrea del Sarto, ma che è invece opera di un artista vicino ai modi del Poppi e del Naldini (Fig. 10a-b). Sulla parete di fondo è la Natività entro una cornice in finta pietra sormontata sul timpano da due puttini che reggono una corona. Sui lati, san Michele arcangelo e il Battista si volgono con moto elegante verso la sacra famiglia.26 Il territorio di Panicaglia è incisivamente segnato dalla presenza della pieve di San Giovanni Maggiore. I legami familiari coi Medici favorirono i Minerbetti nell’ottenerne il patronato, concesso da Leone X ai fratelli Francesco, archiepiscopus turritanus, e Andrea nel 1513. Signori di Corniolo, i Minerbetti avevano però già largamente finanziato la chiesa in precedenza, come testimonia lo stemma di famiglia sulla facciata, datato 1490. Sotto il plebato di Francesco Minerbetti, tra il secondo ed il terzo decennio del XVI secolo, furono condotti imponenti lavori di ammodernamento, commissionati suppellettili e paramenti, posto il nuovo fonte battesimale in marmo bianco (Fig. 11), dove lo stemma di famiglia appare intrecciato con la tiara e le chiavi pontificie.27 Le preferenze artistiche dei Medici non mancarono di ispirare la committenza locale anche in altri casi. La Prioria di Santa Maria a Olmi, che spicca nella vasta pianura aperta alle spalle della Valcava, fu di patronato Parenti e Marucelli per poi passare nel 1462 ai Serdelli e, alla loro estinzione nel 1768, al vescovo fiorentino. I Marucelli, originari della vicina frazione di Vitereta, erano legati alla chiesa almeno dal 1390.28 Commissionarono il tempietto in pietra serena, attualmente visibile a mano destra entrando, ma in origine collocato sulla facciata ad incorniciare l’affresco tardotrecentesco con la Madonna del Parto tra i santi Cristoforo e Antonio, testimoniato dalla cronaca settecentesca del Brocchi, che qui fu NEL TEMPO DEI MEDICI
11. Il fonte battesimale della chiesa di San Giovanni Maggiore in Borgo San Lorenzo.
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priore, e dalle più antiche visite pastorali.29 L’insieme così costituito doveva fungere da monumentale tabernacolo esterno consacrato al culto mariano, come sottolinea l’iscrizione sulla fascia interna della trabeazione (maria mater gratiae/misericordiae/tu nos ab hoste protege/in hora mortis suscipe) nonché ricettacolo di ex voto così descritto dal Brocchi: Era in quei contorni un famoso assassino di strade, che infestava tutto il paese, laonde per liberare i popoli da ogni pericolo, fu ordinato da’ Ministri della Giustizia, che si cercasse di prenderlo per farlo morire: gli sbirri dunque in buon numero con cane ancora da giugnere, si messero in cerca di costui, ed avendolo scoperto in poca distanza da Olmi, gli diedero la caccia col cane per fermarlo; ma correndo egli velocemente verso il detto tabernacolo, in esso si refugiò, raccomandandosi di vero cuore a Maria, con dolore del mal fatto, e con proposito di emendarsi, facendo inoltre voto a Dio di vestirsi frate fervente nel sacro eremo di Monte Senario […]. Sparsasi pertanto la fama di tal prodigio per il Mugello, fu cagione, che da quei popoli si prendesse una gran devozione a quella santa Immagine…
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12. Carlo Portelli, Restituzione della Santa Croce, olio su tela, 1569, chiesa di Santa Maria a Olmi a Borgo San Lorenzo.
Con le sue quattro colonne lisce sormontate da capitelli corinzi, l’intaglio della trabeazione a ovoli e fregi vegetali tenuti insieme da una testa di cherubino alato, il soffitto a lacunari, esso ricalca in formato minore e più semplificato il tempietto michelozziano voluto da Piero il Gottoso nella Santissima Annunziata, destinato anch’esso a contenere un’immagine miracolosa della Vergine e celebrato nella sua magnificenza dalle fonti coeve.30 Alla committenza dei Parenti si deve invece la Restituzione della Santa Croce eseguita per il primo altare a destra dell’ingresso, intitolato alla Santa Croce.31 È un’opera dell’estrema maturità di Carlo Portelli siglata e datata 1569 (Fig. 12), compiuta con il gusto eclettico ed umoroso già sperimentato nel Martirio di san Romolo e nella Disputa sull’Immacolata Concezione, ma nel complesso meno riuscita sul piano compositivo. In anni non troppo distanti doveva essere dipinta l’Assunta per l’altare maggiore, oggi spostata sulla parete sinistra del presbiterio, che il Brocchi assegna alla mano del Bronzino, così come il ritratto della granduchessa Bianca Cappello, affrescato nella canonica, la quale «fu ivi dipinta in congiuntura, che vi stesse una volta insieme col Granduca Francesco a desinare, in tempo che ambedue dimoravano in Mugello alla loro villa di Cafaggiolo l’anno MDXXXV».32 AN NA B I SC EG LIA
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Il Bronzino citato dal Brocchi era Alessandro Allori, che effigiò più volte la bella veneziana giunta a Firenze nel 1568, che aveva fatto perdere la testa al granduca divenendone infine la moglie nel 1578. Alla bottega dell’Allori appartiene l’affresco descritto dal priore, staccato e trasportato agli Uffizi nel 1871. In esso si è tuttavia ritenuto di riconoscere Isabella di Cosimo I, moglie di Paolo Giordano Orsini e da lui assassinata per tradimento nel 1576 nella villa di Cerreto Guidi.33 Il piccolo ritratto di Olmi era forse un omaggio alla sfortunata figlia del granduca Cosimo, celebrato benefattore della chiesa? Dal canto suo l’Assunta è invece replica (Fig. 13), con la Vergine in controparte, della pala di eguale soggetto posta sul secondo altare a sinistra della chiesa di Ognissanti, con la quale condivide l’orientamento di stile in direzione della bottega del Tosini e di Francesco Brina.34 In quest’ambito rientrano pure la bella Madonna col Bambino e san Giovannino della chiesa di Rostolena, oggi nella pieve di San Giovanni Battista a Vicchio e la Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Sebastiano nella medesima chiesa. La linea di classicismo di devozione caratterizza anche la solenne Immacolata Concezione tra i santi Bartolomeo, Andrea, un santo vescovo (Agostino?) e Francesco, in San Bartolomeo a Molezzano, riedificata nel 1568, e l’Assunta per l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria a Pulicciano, entrambe in rapporto con i modi di Santi di Tito (Fig. 14). Sempre a Pulicciano, e prima del rinnovamento interno promosso negli anni centrali del XVII secolo al tempo della rettoria di Alessandro Pananti, in contiguità con l’Assunta veniva eseguita la Madonna col Bambino, santa Lucia e santa Brigida che direi molto vicina a Giovanni Balducci. Tra i casi di committenza più interessanti nella storia di Borgo tra Cinquecento e Seicento sono quelli dei due importanti monasteri femminili di Santa Caterina e di Luco di Mugello. La fondazione della comunità religiosa, nel 1516, fu promossa dal pievano Damiano Manti da Imola, uomo di lettere e in stretti rapporti con i Medici, che intendeva così assicurare continuità nella conservazione della chiesa. Di fatto il potere delle monache crebbe notevolmente, al punto da ottenere dal papa il diritto di eleggere il pievano con priorità decisionale anche sul vescovo. Esse contribuirono a rinnovare il corredo interno della Pieve, arricchendo nel contempo il loro monastero per il quale è documentato l’intervento di Michele Tosini, cui fu allogato NEL TEMPO DEI MEDICI
13. Ambito di Michele Tosini, Assunta, tempera su tavola, seconda metà del XVI secolo, chiesa di Santa Maria a Olmi a Borgo San Lorenzo.
14. Anonimo della seconda metà del XVI secolo, Assunta, tempera su tavola, chiesa di Santa Maria a Pulicciano a Borgo San Lorenzo.
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15. Il chiostro del «monastero delle contesse» di Luco di Mugello, di regola camaldolese, poi adibito a ospedale e oggi dismesso.
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nel 1564 uno Sposalizio mistico di Santa Caterina, per l’altare della piccola chiesa interna.35 Il pievano Manti, dal canto suo, aveva già provveduto a commissionare ad Agnolo di Polo un complesso di sculture in terracotta – tra cui una Madonna, un crocifisso, gli apostoli e i padri della Chiesa –, di cui non è rimasta traccia. Una committente locale finanziò invece la tela con la Deposizione, datata 1591 da Cesare Veli, pittore attivo nella cerchia di Santi di Tito insieme con fratello Benedetto.36 Entro l’ottavo decennio del XV secolo importanti lavori di ampliamento toccarono il complesso dell’antichissimo monastero camaldolese di Luco, coincidendo anche con l’elevazione della chiesa a parrocchia con nomina di Sisto IV nel 1473 (Fig. 15). Il cenobio poteva contare sulle consistenti rendite patrimoniali derivanti dai possedimenti e dalle doti delle nobili fanciulle, tradizionalmente denominate «le contesse di Luco» che consentirono l’avvio di una fiorente stagione di committenze ed acquisizioni di opere d’arte. Il ricordo, tramandato dalle fonti, delle visite di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico, e di sua nuora Clarice Orsini e la dedicazione formale del monastero a Lorenzo, indicano un rapporto di speciale consuetudine tra le monache e la famiglia regnante, che favorì lo sviluppo di indirizzi di gusto comuni. Al probabile coinvolgimento di Giuliano da Sangallo nella redazione del progetto architettonico e nelle raffinatissime soluzioni dei capitelli in pietra serena corrisponde, nei primi anni Venti del Cinquecento, la celebratissima presenza di Andrea del Sarto che qui trovò scampo dalla peste ed eseguì, su commissione della badessa Caterina della Casa, il Compianto per l’altare maggiore «in figure tanto vive che pare ch’elle abbiano veramente lo spirito e l’anima», oltre a una Visitazione ed un Volto di Cristo (al tempo del Vasari traslato a Firenze, nel monastero degli Angeli), oggi perduti.37 La perfetta misura espressa dal compianto, l’espressione intima e meditata del dolore, l’accordo musicale dei colori dominarono sull’altare maggiore per oltre due secoli, finché Pietro Leopoldo convinse le monache a cederlo nel 1783. E quel tono di classicismo devoto, riflesso del clima religioso dei primi decenni, improntò anche le altre opere che nello stesso torno si eseguivano per Luco: il gruppo in terracotta policroma con la Madonna col Bambino, san Giovannino e angeli, riferito ad Agnolo di Polo, doveva far parte di una edicola o una cappellina interna, la piccola maiolica invetriata denominata «Divina Pastora», attribuita a Giovanni della Robbia, e l’affresco con il Noli me tangere e la Crocifissione nella cappellina dell’orto, avvicinato ad artista della scuola di San Marco, si collocano nella stessa linea di purismo e rigore gradita alle committenti38 cui si adattò anche il Vasari che per loro dipinse «un’altra tavola che è nel coro di dentro, dove è Cristo crocifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e Maria Maddalena» oggi dispersa.39 Completava l’insieme la cappellina di Santa Maria a Ripa o Divina Pastora, commissionata nel 1583 all’esterno del complesso, ad accogliere i viandanti sulla direttrice che, prima di inerpicarsi sui monti, passa per Grezzano. AN NA B I SC EG LIA
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Qui sorge la chiesa di Santo Stefano, ampliata nel XVI secolo col patronato dell’arcispedale di Santa Maria Nuova, il cui stemma campeggia al centro di un tabernacolo attribuito a Giovanni della Robbia, e arricchita da una Madonna del Rosario tra i santi Domenico, Caterina e Luigi dei Francesi di Francesco Curradi. Il forte legame tra il popolo di Grezzano e il monastero di Luco è ricordato dall’episodio, citato orgogliosamente dal Niccolai, della resistenza dei contadini grezzanesi, durante l’assedio di Firenze «quali animosamente si difesero contro Pompeo di Ramazzotto di Scaricalasino, aspettando in armi dalla rupe del Le Corbaie, ove oggi è un tabernacolino, i suoi cento cavalieri e mille fanti e sbaragliandoli e molti uccidendone con sì bella vittoria che lo stesso Pompeo a risico ebbe salva la vita rifugiandosi in un abituro di un contadino e da lui implorando pietà».40 Le frazioni annidate al centro della catena appenninica – San Pietro a Casaglia, Susinana, Salecchio, Campanara, Palazzuolo – costituivano avamposti strategici verso la Romagna, il che giustifica la concentrazione di complessi monastici apparentemente isolati, in realtà saldamente collegati alle arterie di comunicazione e punto di riferimento per il ruolo di accoglienza ed assistenza ai viandanti. Un’occhiata alla mappa evidenzia il numero di monasteri soprattutto vallombrosani – se ne conta il maggior numero di tutte le aree toscane – e camaldolesi. San Pietro a Moscheta, San Paolo a Razzuolo, Santa Maria a Crespino, Santa Maria a Susinana, Santa Reparata erano le abbazie sottoposte a Vallombrosa, poste a presidio del valico della Colla di Casaglia. Camaldolesi erano San Benedetto in Alpe, Biforco, l’eremo di Gamonga, la badia di Acereta e quella di Bagno di Romagna, collocate sulla strada per Forlì. Dal punto di vista storico-artistico esse costituiscono una via di penetrazione dei modelli fiorentini ben oltre i confini dello stato, come accade in Santa Maria Assunta a Bagno di Romagna, per la quale Neri di Bicci eseguì nel 1468 un’Assunta e santi e dove in seguito giungeranno una Natività del Maestro del Tondo Borghese, una Sant’Agnese di Andrea della Robbia e un’Annunciazione vicina all’anonimo autore del complesso di tavole dell’abbazia di Santa Reparata in Salto, noto come Maestro di Marradi.41 Ingaggiato dall’abate Taddeo Adimari nel 1498, lasciò in zona anche una tavola con la Madonna in trono col Bambino e santi, proveniente dalla pieve di Misileo e oggi nella chiesa di Santo Stefano a Palazzuolo, e nel suo ambito rientrano una Madonna col Bambino nella chiesa della Compagnia a Portico di Romagna così come un’altra in Santa Maria di Ottignana a Tredozio.42 Alla Pieve di Misileo apparteneva anche la chiesa dei Santi Egidio e Martino a Salecchio, per la quale fu eseguita la Madonna col Bambino tra gli angeli e i santi Michele arcangelo e Martino, restituita al Maestro di Signa.43 Sul fronte occidentale, un ulteriore percorso di penetrazione in terra mugellana, attestato dal Libro Vecchio di Strade, è quello che da Firenze giungeva fino a Settimello, superava il colle di San Donato a Calenzano e, attraverso la Chiusa, Sant’Ellero, Le Croci e Spedaletto, giungeva a Barberino. Di qui, prima dell’apertura della strada della Futa, il percorso verso Bologna proseguiva per Montecarelli e, puntando verso il passo dello Stale, dov’era un ospizio donato ai monaci cistercensi di Badia a Settimo, si ricongiungeva alla strada per il Giogo di Scarperia. NEL TEMPO DEI MEDICI
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16. Bottega del Pontormo, La Vergine consegna la Cintola a san Tommaso tra i santi Jacopo e Sebastiano, metà del XVI secolo, chiesa di San Jacopo alla Cavallina presso Barberino.
La presenza di tre importanti pievi – San Donato a Calenzano, Santa Maria a Carraia e San Gavino Adimari – era elemento di rilievo nel territorio, così come la presenza di taverne, osterie ed ospedali, atte a servire questa via di percorrenza veloce sulla quale s’innestavano, al valico delle Croci, la mulattiera che conduceva a Prato e quella che univa San Michele a Cupo con San Piero a Sieve e San Giovanni in Petroio. In questo punto di snodo sorgevano lo spedale ed il castello di Combiate, entro il raggio d’influenza e di possedimenti dei Cattani che, coi Corsini e i Giugni, guidarono gli sviluppi artistici dell’area barberinese. A dare impulso fu anche la vivacità di traffici economici che qui si concentravano negli importanti mercatali di Barberino, Latona e La Cavallina. Gli ultimi due, in particolare, potevano vantare un’importanza considerata alla metà del XVI secolo pari a quella di Barberino stessa. La Cavallina, sede di un castello fortificato, era sull’asse viario che collegava la Val di Marina al Mugello: alla sua crescente importanza economica fa eco l’ampliamento e la decorazione della chiesa dedicata ai santi Jacopo e Maria. Nata come oratorio dedicato a san Jacopo e di patronato Giugni, le fu annessa nel 1516 la soppressa chiesa di Santa Maria a Latera. Dell’arredo del vecchio oratorio doveva far parte una tavola d’altare commissionata «pro remedio animae», da Antonio di Domenico Giugni nel 1418, di cui oggi non vi è più notizia.44 Vi trovò posto tuttavia un altare commissionato da una personalità locale su cui era una Madonna col Bambino e sant’Anna tra i santi Francesco e Sebastiano con la scritta «questa tavola a fata fare Francesco di Pacino», forse padre di un Lorenzo di Francesco di Pacino che si dichiara abitante alla Cavallina nelle liste delle decime granducali del 1565 e proprietario di terre e vigne.45 Riferito all’anonimo pittore di gusto ancora peruginesco denominato Maestro di Serumido,46 il dipinto raffigura san Sebastiano, protettore in tempo di peste, e potrebbe alludere a una grazia ricevuta in occasione di un’epidemia. Il santo è presente insieme a san Jacopo anche nella bella tavola con la Madonna che consegna la cintola a san Tommaso (Fig. 16), nell’attigua Compagnia dell’Assunta, uscita dalla bottega del Pontormo.47 Legata stilisticamente alla pala con la Madonna col Bambino tra i santi Pietro, Sebastiano, il buon ladrone e Benedetto, eseguita per il convento di Sant’Anna a Verzaia fuori porta San Frediano tra il 1528 e il 1529, la pala della Cavallina fu dipinta qualche anno più tardi e vede la probabile partecipazione del Bronzino che si andava affermando tra gli allievi del Carucci. Da San Jacopo alla Cavallina proviene anche il rilievo in stucco policromo e dorato di ambito rosselliniano noto come Madonna dei Candelabri ed oggi al Bargello, un tema che conobbe immensa fortuna presso la committenza privata, offrendo spunto allo stesso Raffaello per una delle sue più belle Madonne col Bambino, e che in Mugello abbiamo già AN NA B I SC EG LIA
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incontrato nella versione di San Giusto e Fortuna.48 Se i Giugni esercitarono i diritti di patronato su altre antiche chiese, come San Lorenzo a Bovecchio e la badia di Santa Reparata a Pimonte, i Cattani patrocinarono la chiesa di San Silvestro, eretta nel 1568, l’antico oratorio della compagnia di San Sebastiano e San Rocco, Sant’Andrea a Camoggiano (si veda la scheda a pagina 153-154) e Santa Maria a Vigesimo, prima del passaggio ai vallombrosani nel 1145. L’antichissima posizione di Vigesimo lungo la strada municipale romana da Firenze verso l’Appennino indica il rilievo che da tale connotazione ricevé anche la badia. Patronato dei Cattani, come si è detto, che la cedettero al vescovo di Fiesole e quindi al monastero di Passignano, da cui divenne indipendente sulla fine del XVI secolo, la badia fu rinnovata radicalmente tra il 1740 ed il 1747 nelle forme tardobarocche che ancora si vedono. Nel nuovo assetto trovò posto l’Assunta, già sull’altare maggiore e riconducibile al catalogo di Cosimo Rosselli, nella quale, accanto al fondatore vallombrosano e a san Benedetto, appare il committente, da riconoscersi in Domenico di Guglielmo, priore dal 1488 al 1506.49 Ritroviamo ancora i Cattani insieme ai Barucci patroni della chiesa di Santa Maria a Collebarucci che nel 1565 veniva unita alla soppressa chiesa di San Jacopo a Villanova. Ciò spiega l’inclusione del santo nella pala d’altare dell’oratorio della Compagnia, la riformata Madonna col Bambino tra san Giacomo e Santa Brigida, firmata e datata dal Naldini nel 1583, in anticipo di un trentennio circa sulla bella tela di Taddeo Baldini, interessante allievo del Rosselli, con la Vergine che porge il Rosario a san Domenico e santa Caterina da Siena. In direzione di Scarperia e sulla strada che dalla Pieve di Sant’Agata portava al Giogo, il castello di Galliano fu a lungo roccaforte del potere degli Ubaldini prima del passaggio alla repubblica fiorentina. Essi ebbero il patrocinio della pieve di San Bartolomeo come dell’oratorio del Corpus Domini, vi fondarono la chiesa di Santo Stefano a Rezzano e quella di Santa Maria a Soli.50 All’esterno delle mura doveva collegarsi a uno spedale la piccola cappellina oggi inglobata nella cortina muraria moderna che ne ha ridotto l’altezza e la lunghezza. La decorazione comprende, più visibili, un San Francesco in TITO LO CAP ITO LO
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17. G.B. Naldini, Madonna col Bambino tra san Giacomo e santa Brigida, olio su tela, 1583, chiesa di Santa Maria a Collebarucci, Barberino di Mugello.
18. Ambito di Paolo Schiavo, San Francesco in estasi, tempera su tavola, XV-XVI secolo, cappella dell’Ospitalino a Galliano, Barberino di Mugello.
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19. Ambito di Paolo Schiavo, Madonna col Bambino, tempera su tavola, XV-XVI secolo, cappella dell’Ospitalino a Galliano, Barberino di Mugello.
estasi (Fig. 18), un’Annunciazione ed una Madonna col Bambino (Fig. 19), che molto si avvicina ai modi di Paolo Schiavo e che un auspicabile restauro potrebbe restituire a migliore visibilità. Da qui viaggiatori, pellegrini, mercanti, soldati, guardando la catena dell’Appennino ritagliata contro il cielo, potevano considerare di essere arrivati più o meno alla metà del loro difficile percorso. Di lì a poco, raggiunte le cime più alte avrebbero avuta davanti la vista della piana di Lombardia, dominandola forse più col pensiero che con la vista («cette fameuse plaine de Lombardie […] J’avouerai qu’on sait cela plus qu’on ne le voit»)51 come rifletteva Stendhal nel suo viaggio in Italia.
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NOTE
P IERACCINI 1986, p. 27. VENTURINI 1994, p. 55, con bibliografia precedente. 11 CALZOLAI 1970, p. 213. 12 PACCIANI 1984, p. 173; P IERACCINI 1986, pp. 1820. G ENTILINI 1980, pp. 98-99. 13 Sulla pala del Vignali si veda BISCEGLIA 2008, pp. 89-98, con bibliografia precedente. 14 B RANCA 2008, pp. 30-41, per l’identificazione degli stemmi. 15 Si veda il saggio di C. Acidini in questo volume alle pp. 33-48. 16 Sul tondo di Benedetto da Maiano vedi da ultimo CARL 2006, pp. 13-14; l’attribuzione al Sansovino è in LISNER 1959-60. 17 BALDINUCCI 1974-1975, IV, p. 161. 18 BAROCCHI 1965. 19 CALZOLAI 1970, pp. 195-196. 20 Museo Vicchio 2008, p. 57 (scheda di M. Simari). L’attribuzione della vetrata all’ambito di Andrea del Castagno è in BELLOSI 1967, p. ???????. 21 Valcava in Mugello 1987, pp. 23-28. La Madonna con Bambino fu rimossa, collocata al Bargello e sostituita da una copia. La cornice a festoni è ancora quella originale. 10
* Nel corso degli anni in cui ho seguito il territorio mugellano come funzionario di Soprintendenza molti sono i debiti di riconoscenza contratti con studiosi e amministratori locali che tutti qui ringrazio. Dedico queste pagine al ricordo di Patrizia Gherardi, don Corrado Paoli e Giuliano Bartolacci. 1
B ENVENUTI 2000, pp. 17-19. Libro vecchio di strade 1987. 3 ROMBAI, SORELLI 1985, pp. 35-38. 4 CASINI WANROOIJ 1988, pp. 39-43. 5 G ENTILINI 1992, I, p. 223, con attribuzione a Marco della Robbia. 6 Ivi, p. 287. La pala fu trafugata nel 1909, successivamente recuperata in parte e suddivisa tra la chiesa di Santa Maria a Paterno e i depositi statali. Attualmente i frammenti sono stati riuniti all’Istituto Spinelli per l’Arte e il Restauro che ne sta eseguendo il restauro. I due tondi superiori con l’Annunciazione sono stati rintracciati da G. Gentilini, Della Robbia e l’arte nuova 1998, p. 255. 7 S PINELLI 1994, pp. 118-129. 8 La scultura fu attribuita a Giuliano da Sangallo da Magrit Lisner, LISNER 1969; recentemente a Francesco da Sangallo da ORTENZI 2006, p. ??????. 2
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22 Per il dipinto della bottega dell’Empoli, si veda la scheda di A. Bisceglia in Museo Vicchio 2008, pp. 6466. Sul Furini si veda da ultimo il catalogo della mostra Francesco Furini 2007. 23 Valcava in Mugello 1987, pp. 76-77. La chiesa di San Michele a Monteaceraia, il cui popolo compare nella carta e dipendente da San Cresci, fu annessa invece a Sant’Andrea a Gricignano nella seconda metà del XVI secolo. 24 Il dipinto, descritto dal Niccolai (NICCOLAI 1914, p. 507) fu trafugato nel 1903. Le due tavolette laterali, oggi conservate nel Museo Beato Angelico di Vicchio, sono state avvicinate al Portelli da M. Simari (Museo Vicchio 2008, pp. 148-149). 25 Vedi scheda di A. Bisceglia in Museo Vicchio 2008, pp. 40-42. I documenti relativi al polittico del Maestro della Madonna Strauss sono stati rintracciati da Rossella Tarchi. 26 La cappellina. ricordata dal Niccolai (N ICCOLAI 1914, p. 464), è lacunosa nella parte inferiore ed attende un restauro che potrà finalmente restituire completa leggibilità alle figure. 27 Sulla chiesa si veda quanto riferisce il Niccolai, ivi, pp. 460-463. Parte degli argenti e dei paramenti della chiesa è oggi conservata nel Museo di Vicchio. 28 Poligrafo Gargani (BNCF, 53). 29 Valcava in Mugello 1987, pp. 54-59. Il tempietto fu collocato nell’attuale posizione nel 1854 e in quell’occasione il marchese Filippo Maganzi Baldini pose l’altare sottostante. Nel 1936 fu effettuato il rifacimento della base delle colonne. 30 Sul significato del tempietto mediceo dell’Annunziata si veda da ultimo KENT 2005, pp. 262-265. 31 La tavola è censita dalla visita pastorale del 1589 e fu restaurata da Paolo Colli nel 1819 (Valcava in Mugello 1987, pp. 57).
32 BROCCHI 1748, pp. 82-85. La tavola viene descritta sull’altare maggiore nella visita pastorale del 1589 (Valcava in Mugello 1987, pp. 58-59). 33 LANGEDIJK 1981-87, II, 1983, pp. 1091-1092. 34 Per la fortuna critica della tavola di Ognissanti, integrata nella parte superiore dagli angeli di Santi di Tito, si veda da ultimo NESI 2007. 35 Si veda, per la storia del monastero e la documentazione, Monastero Santa Caterina 1997. 36 Documenti in WALDMAN 2004, pp. 34-39. 37 VASARI ed. 1966-1987, IV, 1976, p. 376. 38 Sul monastero di Luco ed il suo patrimonio si veda Contesse di Luco 2004. 39 VASARI ed. 1966-1987, IV, 1976. 40 N ICCOLAI 1914, p. 458. 41 Sul patrimonio artistico della Romagna toscana si veda B ELLANDI 2001. 42 S IMARI 1992; B ELLANDI 2001, p. 225. 43 La tavola fu rubata nel 1970, in seguito parzialmente recuperata e collocata in Santo Stefano a Palazzuolo. 44 Non la vide neppure il Niccolai che ne cita solo l’iscrizione: N ICCOLAI 1914, p. 337. La chiesa fu poi di patronato Guasconi e Cattani «con l’adesione d’un ottavo di voce de’ signori capitani di parte». 45 ROMBY 1984. 46 PADOVANI 2005. 47 NATALI 1983, pp. 67-68; COSTAMAGNA 1994, pp. 77-78 riconosce la mano del Bronzino nei volti di San Jacopo e san Tommaso oltre al concorso di un terzo pittore anonimo. 48 P IERACCINI 1986, pp. 14-15. 49 BARTOLI 1994; GABRIELLI 2007. 50 N ICCOLAI, 1914, pp. 364-365. 51 STENDHAL, Voyage en Italie, 1818, ed. cons. Parigi 1973, p. 473.
NEL TEMPO DEI MEDICI
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il cammino della famiglia Medici 1397 1421
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Giovanni di Bicci fonda il banco mediceo a Firenze. Brunelleschi inizia per Giovanni di Bicci la sagrestia di San Lorenzo; Michelozzo realizza per volere di Giovanni e del figlio Cosimo, che sarà poi detto il Vecchio, il convento di Bosco ai Frati. 1426 Michelozzo comincia a costruire per Giovanni di Bicci il castello del Trebbio. 1427 A Firenze viene istituito il catasto. 1429 Il 20 di febbraio muore Giovanni di Bicci e Cosimo gli succede alla guida della famiglia. 1434 Cosimo rientra a settembre dall’esilio inflittogli l’anno precedente, trascorso prima a Padova e poi a Venezia. 1436 Il 25 di marzo, primo giorno dell’anno secondo il calendario fiorentino e festa dell’Annunciazione, papa Eugenio IV consacra la nuova cattedrale. Poi, in viaggio verso Ferrara, si ferma a Cafaggiolo. 1437 Michelozzo inizia a ristrutturare ed ampliare la chiesa e il convento domenicano di San Marco su commissione di Cosimo. 1439 Per volontà di Cosimo e con l’appoggio di papa Eugenio IV viene trasferito da Ferrara a Firenze il Concilio per la riunificazione della chiesa d’Occidente e di quella d’Oriente. 1443 Cosimo entra in possesso, per via ereditaria, della michelozziana villa di Cafaggiolo. 1445 Michelozzo, su incarico di Cosimo, inizia a costruire palazzo Medici. 1449-52 Piero porta a compimento la cappella marmorea alla Santissima Annunziata dov’è ospitato l’armadio degli argenti con gli sportelli dipinti dall’Angelico e dal suo allievo Benozzo Gozzoli (Museo di San Marco, Firenze). 1451 Viene stipulata la divisione dei beni tra Cosimo e il nipote Pierfrancesco di Lorenzo. 1459 Ad aprile giunge a Firenze papa Pio II, diretto a Mantova per il concilio (sarà ospite a Cafaggiolo), sostando in precedenza nel nuovo palazzo mediceo di Galeazzo Maria Sforza, figlio del duca di Milano. 1464 Il 1° d’agosto Cosimo muore nella villa di Careggi e gli succede il figlio Piero detto il Gottoso.
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Diotisalvi Neroni ordisce una congiura antimedicea. Il 7 di febbraio Lorenzo de’ Medici trionfa nella tradizionale giostra in occasione del carnevale in piazza Santa Croce; il 4 di giugno sono celebrate le sue nozze con Clarice Orsini e, alla morte del padre, gli succede nel governo della città. Lorenzo fa reprimere duramente la ribellione di Volterra. Giuliano, fratello del Magnifico, vince la giostra cantata da Poliziano. Nell’autunno soggiornano nel ricco monastero camaldolese femminile di San Pietro a Luco di Mugello Lucrezia Tornabuoni, sposa di Piero e madre di Lorenzo, e la nuora Clarice Orsini. Francesco e Jacopo Pazzi, con l’appoggio dell’arcivescovo di Pisa e di papa Sisto IV, ordiscono una congiura in cui viene ucciso Giuliano, fratello del Magnifico, durante la messa pasquale del 26 aprile. L’8 di aprile muore Lorenzo il Magnifico: gli succede il figlio Piero detto il Fatuo. Nel novembre i Medici vengono cacciati da Firenze, il loro palazzo è saccheggiato e viene proclamata la Repubblica ispirata da fra Girolamo Savonarola. Il 23 di maggio Savonarola viene impiccato e bruciato in piazza della Signoria insieme a due confratelli domenicani. Pier Soderini viene eletto Gonfaloniere a vita. Il 4 di giugno Pisa si sottomette nuovamente a Firenze. Dopo il tragico sacco di Prato, Pier Soderini lascia Firenze ove fanno ritorno i figli di Lorenzo il Magnifico, Giuliano (poi duca di Nemours) e il cardinal Giovanni (futuro papa Leone X), seguiti dal nipote Lorenzo (poi duca d’Urbino). Il 9 di marzo Giovanni de’ Medici viene eletto papa col nome di Leone X. Due mesi dopo nomina il cugino Giulio (figlio naturale di Giuliano, assassinato nella congiura dei Pazzi) arcivescovo di Firenze, investendolo poi della porpora cardinalizia (sarà il futuro Clemente VII).
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Leone X compie il suo solenne ingresso a Firenze il 30 di novembre. Dal papa viene bandito un concorso per la facciata di San Lorenzo, vinto da Michelangelo Buonarroti. 1520-27 Michelangelo lavora al complesso laurenziano per la Biblioteca Medicea e per la Sagrestia Nuova per conto dei Medici. 1521 Il 1° di dicembre muore Leone X, Adriano Florensz di Utrecht esce dal conclave papa col nome di Adriano VI. 1523 Il 19 di novembre Giulio de’ Medici sale al soglio pontificio col nome di Clemente VII. 1527 Il 6 di maggio Roma viene messa al sacco dalle truppe mercenarie di Carlo V. A Firenze, cacciati i Medici, si proclama nuovamente la Repubblica. 1530 Il 12 d’agosto, dopo dieci mesi d’assedio da parte delle truppe imperiali e pontificie, Firenze viene riconquistata dai Medici. 1532 Il 1° di maggio Alessandro de’ Medici diventa primo duca di Firenze. 1533 Papa Clemente VII celebra le nozze della nipote Caterina, figlia di Lorenzo duca d’Urbino, con Enrico II di Francia. 1534 Il 25 di settembre muore Clemente VII: Michelangelo abbandona definitivamente Firenze per Roma. Nella città toscana Antonio da Sangallo il Giovane costruisce la Fortezza di San Giovanni Battista (detta poi da Basso) per incarico del duca Alessandro. 1537 La notte dell’Epifania il duca Alessandro viene assassinato dal consanguineo Lorenzo e il 9 di gennaio Cosimo de’ Medici, figlio di Giovanni delle Bande Nere e di Maria Salviati, sale al potere. 1539 Il 29 di giugno il duca Cosimo sposa Eleonora di Toledo, figlia del viceré spagnolo di Napoli. 1540 Il 15 di maggio Cosimo trasferisce la propria residenza dal palazzo michelozziano di famiglia a quello della Signoria. 1541 Il 23 di febbraio un decreto di Cosimo approva l’istituzione dell’Accademia fiorentina. 1546 Cosimo riceve l’onoreficenza cavalleresca del Toson d’oro dall’imperatore Carlo V; fonda una manifattura di arazzi nella quale lavorano maestri fiamminghi. 1549 A febbraio la duchessa Eleonora compera palazzo Pitti. 1550 Vasari pubblica presso Lorenzo Torrentino le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cima-
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bue insino a’ tempi nostri (una nuova edizione sarà pubblicata nel 1568). Il 17 d’aprile Cosimo conquista Siena. Filippo II di Spagna concede a Cosimo la città e lo stato di Siena e si riserva i cosiddetti presidi spagnoli (Orbetello, Talamone, Porto Ercole, Monte Argentario e Santo Stefano). Vasari inizia la fabbrica degli Uffizi, destinata ad ospitare i ‘ministeri’ dello stato riformato da Cosimo, mentre Ammannati si impegna nella trasformazione di Pitti in nuova reggia medicea. A gennaio Cosimo approva i capitoli dello statuto dell’Accademia delle arti del disegno, coordinata da Vasari e sotto l’egida di Michelangelo. Il 18 di febbraio Michelangelo muore a Roma: pochi mesi dopo il suo corpo è trasportato a Firenze e il suo solenne funerale si svolge il 14 luglio in San Lorenzo a cura dell’Accademia delle arti del disegno. Il 16 di dicembre Francesco I sposa Giovanna d’Austria e nell’occasione, tra l’altro, è inaugurato il cosiddetto Corridoio vasariano. Il principe Francesco, divenuto reggente nel 1564, acquista i terreni di Pratolino dove successivamente farà edificare a Bernardo Buontalenti la splendida villa (poi demolita all’inizio dell’Ottocento). Il 27 d’agosto una bolla di papa Pio V concede a Cosimo il titolo di granduca. Per volontà di Cosimo viene aperta al pubblico la Biblioteca mediceo-laurenziana, completata da Vasari e Ammannati. Il 21 d’aprile muore Cosimo: gli succede il figlio Francesco I. L’11 luglio si consuma un delitto efferato nella villa di Cafaggiolo: don Pietro, ultimogenito di Cosimo e Eleonora, uccide per onore la moglie e cugina Dianora di Toledo. Muore Giovanna d’Austria e Francesco sposa segretamente, poco dopo, Bianca Cappello, che viene incoronata granduchessa soltanto l’anno seguente. Viene fondata l’Accademia della Crusca. Bernardo Buontalenti realizza la Tribuna come primo nucleo della galleria medicea situata all’ultimo piano del palazzo degli Uffizi. In ottobre muoiono misteriosamente Bianca Cappello e Francesco de’ Medici, al quale succede il fratello Ferdinando.
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I LUOGHI DEI M EDICI. ARTE E PATRONATO IN TERRA DI M UGELLO Io arivai in Cafagiolo luogo ameno et salutifero quanto alcuno altro che io habbia mai visto, gli è vero che il Poggio ha più bella vista, ma questo ha un non so che anche lui di salvatico et di divino giuntato insieme co[n] quel falcone dell’trebbio, qui mi sto sano et alegro […] mi piglio di q[ue]i piaceri et solazi che da il paese maxime a vedere pescare uccellare et quella chiara et frescha fontana in tra tanti habeti et molte altre cose… Così Lorenzo di Gabriello Malaspina, marchese di Fosdinovo e membro della corte medicea, scriveva a Pierfrancesco Riccio nel 1547 in occasione di un suo soggiorno mugellano.1 Cafaggiolo aveva acquisito ormai da oltre un secolo l’aspetto di dimora fortificata suburbana, era quell’«habituro acto a fortezza posto in Mugiello luogho detto Chafaggiuolo che nel cerchio d’esso è Papi di Bartolomeo de’ Medici»,2 con fossato, masserizie ed abitazioni intorno, denunziata nella portata al catasto del 1427 dal suo proprietario, quell’Averardo di Francesco, cugino di Cosimo ed esponente di un ramo di famiglia non meno ricco ed influente. È a lui che, con tutta probabilità, si deve l’originale commissione a Michelozzo per la ristrutturazione della villa, nei primi anni Trenta.3 L’inserzione di Cosimo che nel 1443, allo spegnersi della linea dinastica di Averardo, ne ereditava i beni amministrando Cafaggiolo anche in nome del piccolo Pierfrancesco, figlio del fratello Lorenzo morto nel 1440, porta avanti, con i rifacimenti al Trebbio e a Bosco ai Frati, un processo già in atto da tempo, rappresentando i segni tangibili di
un’espansione di potere territoriale effettuata instancabilmente per mezzo di acquisti di poderi ed abitazioni estesi a macchia d’olio tra Barberino, Galliano, San Piero a Sieve, Scarperia (Figg. I-II).
I-II. Negli acquarelli di Massimo Tosi, la villa di Cafaggiolo e il castello del Trebbio, presso San Piero a Sieve.
Non molto si conosce della decorazione interna delle due dimore medicee: le pitture
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murali che oggi ornano le pareti del piano ter- fratello Damiano, morto in tenera età – a san reno e del piano nobile sono opera delle mae- Lorenzo, patrono della chiesa parrocchiale dei stranze chiniane che vi attesero sui primi del Medici, a san Giovanni Battista, patrono di XX secolo. Firenze. e a sant’Antonio abate, mentre san FranGli inventari di Piero il Gottoso ricordano le cesco e san Domenico rappresentano i due orditappezzerie che servivano ad arredare e riscalda- ni largamente patrocinati dalla famiglia nei comre le stanze («una coltre a figure di braccia 9», plessi conventuali di Santa Croce e San Marco, un’altra «a onde e spinepesce di braccia 8»),4 oltre che nel mugellano Bosco ai Frati. mentre broccati, sete, una «pace» in avorio ed Entro questa sorvegliata agiografia di famiun calice d’argento si trovavano nella cappella, glia, che seguiva di pochissimo la non meno sul cui altare spiccava una Madonna col Bambino e attenta scelta iconografica richiesta al Beato i santi Cosma e Damiano, Giovanni Angelico nella pala per l’altar Battista, Lorenzo, Giuliano, Antonio maggiore di Bosco ai Frati, abate, Francesco e Domenico eseguiemergono i tratti qualificanti ta da Alesso Baldovinetti (Fig. delle preferenze artistiche del III). Già impegnato al fianco momento, quando la «pittura del Beato Angelico in una di luce» e lo spazio intellettuadelle commissioni fiorentine di le dell’Angelico, di Domenico Piero, i pannelli per il reliquiaVeneziano, di Filippo Lippi rio degli argenti alla Santissis’incontrano con la visione ma Annunziata (1448-50 ca.),5 analitica, lucida, con le superfie con Andrea del Castagno a ci acutamente indagate della terminare gli affreschi del coro pittura fiamminga, che Piero di Sant’Egidio (1449 ca.), Alesso III. Alesso Baldovinetti, Madonna col appassionatamente collezionaaveva licenziato nel 1450 un Bambino e i santi Cosma e Damiano, Gio- va insieme a gemme e arazzi. vanni Battista, Lorenzo, Giuliano, Antonio perduto Sant’Ansano «con sei sto- abate, Francesco e Domenico (Pala di La preziosa cortina srotolata a riette dallato posta nella pieve Cafaggiolo), tempera su tavola, 1454 far da séparé sul giardino retrodi Borgo a S. Lorenzo di Mugel- ca. Galleria degli Uffizi, Firenze. stante, il tappeto orientale ai piedi della Vergine e sopratlo» che egli stesso annota nel suo libro di ricordi.6 La tavola di Cafaggiolo fu tutto la veste di San Lorenzo, dov’è un inseeseguita poco dopo, si ritiene probabilmente in guirsi di bagliori di luce, a restituire la vera occasione della nascita di Giuliano (1453), consistenza della stoffa, in certo modo ci fanno secondo figlio di Piero il Gottoso, in virtù della presagire l’esibizione di eleganze e di sfarzi con presenza del santo eponimo che per la prima cui Benozzo Gozzoli allestirà il suo corteo dei volta fa il suo ingresso nel novero dei soggetti Magi nel palazzo di via Larga alla fine di quelreligiosi chiamati a patrocinio della casata, lo stesso decennio. accanto agli ormai consueti santi medici, Cosma Per quanto riguarda altri arredi di Cafaggioe Damiano – legati a Cosimo il Vecchio e suo lo, merita sottolineare che nel giardino della
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villa sembra aver trovato posto – o esservi Popolani: nella primavera del 1494 Lorenzo e stato previsto all’epoca di Piero – un Priapo Giovanni di Pierfrancesco erano stati infatti marmoreo, nella sua consueta funzione di allontanati e confinati dal cugino Piero il Fatuo guardiano degli orti, analogo a quello che rispettivamente al Trebbio e nella villa di ornava l’hortus della magione Castello. Un anno dopo, cerfiorentina. Lo rivela un distico cando scampo alla peste, di Gentile de’ Becchi, precetdoveva giungere in Mugello tore di Lorenzo il Magnifico Sandro Botticelli, secondo e Giuliano nonché uomo di quanto afferma Semiramide fiducia di casa Medici, estenAppiani, moglie di Lorenzo, sore dei tituli sottostanti i che da Cafaggiolo scrive di basamenti della Giuditta e del aver ricevuto un garzone del David donatelliani.7 pittore dal quale aveva appreL’unica testimonianza delso che «Sandro veniva quassù l’arredo del giardino giunta a dipingere cierte chose allosino a noi è tuttavia ben più IV. Sandro Botticelli e bottega, Madon- renzo». 9 Sembra provenire dal Trebtarda: è l’elegante vasca mar- na col Bambino e i santi Domenico, Cosma e morea, oggi ricoverata entro Damiano, Francesco, Lorenzo e Giovanni bio anche una Madonna col Battista, tempera su tavola trasferita Bambino di scuola botticelliana, uno dei locali al pianterreno. su tela, 1495 ca., Galleria dell’Accadepassata nel 1879 nella colleSorretta da robuste zampe leo- mia, Firenze. zione Spencer Stanhope.10 nine, reca al centro due puttiIl passaggio di proprietà ai Medici del ramo ni avvinghiati ai capricorni, simboli di Cosimo I, ed è una replica di quella scolpita da Giovan- dei Popolani, nel 1485, introduce alla fase delni Fancelli per la grotticina di Madama a palaz- l’impianto della manifattura di maioliche che zo Pitti, ora collocata sulla sezione sinistra della ha reso celebre Cafaggiolo dalla metà del secofacciata principale. È verosimile collegarla a lo XIX circa, da quando cioè lo sviluppo collelavori eseguiti alla metà del XVI secolo, quan- zionistico e la costituzione di musei dedicati do fu realizzato un barco per la caccia e vari alle arti applicate, soprattutto in Inghilterra, Germania e Francia, e parallelamente la produ«acconcimi».8 Dopo quella del Baldovinetti, un’altra pala zione di manufatti ceramici su vasta scala coneseguita da un artista caro ai Medici, Sandro sentita dall’avvento della lavorazione industriaBotticelli, doveva giungere a decorare le dimore le, portano alla riscoperta di una produzione mugellane. La piccola chiesa accanto al Trebbio, sino ad allora rimasta pressoché sconosciuta. di patronato mediceo, ospitava infatti una Le ricerche documentarie di Gaetano Guasti Madonna col Bambino in trono coi santi Domenico, fecero il resto, consegnando la memoria anche Cosma e Damiano, Francesco, Lorenzo e Giovanni Bat- archivistica dei prodotti della fornace di Cafagtista (oggi all’Accademia; Fig. IV), una commis- giolo e della bottega satellite di Galliano, all’atsione spettante ancora ai Medici del ramo dei tenzione degli studiosi.
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La produzione prese avvio Vecchio e con essa anche il a partire almeno dal 1498 per controllo delle fornaci. È in volontà di Lorenzo di Pierfranoccasione della visita di Leone cesco del ramo dei Popolani, X, che attraversava il Mugello che convocò a Cafaggiolo due in direzione di Bologna dopo vasai di Montelupo, Stefano e l’ingresso trionfale a Firenze nel Piero di Filippo, sistemandoli 1515, che si ritiene eseguito il in alcuni locali situati nella boccale col ritratto del pontefice zona che grosso modo oggi oggi conservato nel Museo corrisponde alla «manica internazionale delle ceramiche lunga» sulla sinistra del corpo di Faenza (Fig. V), mentre un di fabbrica principale, avvianinteressante valore documentado così un’attività ceramica che rio ha il piatto con la riprodusi svolse con continuità sino al zione della villa Ubaldini, poi 1570 circa ma non fu, come è Del Monte, a Galliano, con la convinzione diffusa, un’attività tesa elegantemente decorata da «di famiglia»: i maestri vasai motivi ad intreccio e i blasoni corrispondevano un canone V. Manifattura di Cafaggiolo, boccale di famiglia. Soggetti di particoin ceramica smaltata, con l’effigie del d’affitto e produssero manufat- pontefice Leone X de’ Medici, 1515 lare preferenza erano anche ti che venivano regolarmente ca., Museo internazionale delle cera- quelli religiosi, così come episopagati, destinati sia ai Medici miche di Faenza. di di storia antica e miti: tra gli che alle altre nobili famiglie esempi più belli, non si può fiorentine. La valutazione dei dimenticare il piatto del Bargelpezzi che con sicurezza possolo che illustra l’episodio di Perno ricondursi a quel fortunato seo alla reggia di Polidette (Fig. momento dimostra che a VI), dove è rappresentato l’eroe Cafaggiolo si producevano che irrompe al banchetto oggetti di medio e alto livello: i nuziale del re portando la testa primi esemplari furono richiedella Gorgone che pietrifica sti dai Medici del ramo dei all’istante tutti i convenuti Popolani. In seguito, con la riu(1550-60 ca.).11 C afaggiolo e il Trebbio nificazione dei due rami sanci- VI. Manifattura di Cafaggiolo, piatto ta dal matrimonio di Giovan- in ceramica smaltata raffigurante erano gli apici di un sistema ni dalle Bande Nere (del ramo Perseo che interrompe il banchetto di Poli- territoriale estremamente serradette, 1540 ca., Museo nazionale del to, accanto al quale si poneva dei Popolani) con Maria Sal- Bargello, Firenze. la casa di Schifanoia a San viati (figlia di Lucrezia de’ Medici, del ramo dei Medici di Cafaggiolo), la Piero a Sieve, che risulta medicea già in alcuni villa ritornò nelle mani degli eredi di Cosimo il documenti del 1359, quando Tommaso di Buo-
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naccorso Adimari e Ottavio Gherardini scrivopotevano agevolmente mettere in campo. Non no alla Signoria dopo un’ispezione a castelli sorprende così che nel cuore dei territori medie luoghi fortificati del Mugello cei in Mugello, estesi fra San Piero a segnalando «Ischifanoia dei Sieve, Barberino e Borgo San Medici […] in essa fortezza Lorenzo e attraversati dalle non ha vetuaglia che poco: principali vie di comunicatroviamo che ve se ne zione con le Romagne, la metterebbe; parci che sfera d’azione della famiaforzandola sarebbe glia agisca in maniera grande sicurtà del determinante, a cominpaese». 1 2 Accanto a ciare dal convento franquesta, alla metà del cescano di Bosco ai Frati, XVI secolo, Cosimo I già appartenuto ai VII. La villa medicea di Pratolino, col vasto giardino, in istituirà la fortezza di una delle lunette seicentesche dipinte da Giusto Utens e potenti Ubaldini, e San Martino, affidata a conservate nel Museo storico-topografico Firenze com’era. acquisito da Giovanni Baldassarre Lanci e terdi Bicci e Cosimo sui minata dal Buontalenti. E sul primi anni Venti del XV secofinire del secolo, l’esplosione lo. Alla ristrutturazione della di raffinatezza e di intellettuachiesa e del convento corrispolizzata allegoria della villa di se largamente la donazione di Pratolino, più a meridione, arredi interni e paramenti sembra quasi siglare l’ingressacri, corali miniati e dipinti. so da Firenze al cuore delle Su tutti spiccava la pala d’altadimore di famiglia (Fig. VII). re del Beato Angelico con la Aspetto anche più signifiMadonna in trono col Bambino tra i cativo della presenza medicea santi Antonio da Padova, Ludovico sul territorio mugellano è queldi Tolosa, Francesco d’Assisi, Cosma, Damiano e Pietro martire, mentre lo del patronato ecclesiastico, nella predella accanto al Cristo l’esercizio del quale implicava, in Pietà centrale sono i santi oltre ai lasciti e alle donazioni, Pietro e Paolo, Domenico e un’attenta e sapiente rete di controllo delle cariche eccle- VIII. Particolare del Crocifisso che orna Bernardino da Siena, Girolamo siastiche. In tal senso, il caso la sala capitolare del convento di San e Benedetto. La presenza di san dei Medici non è certo il solo Bonaventura al Bosco ai Frati, presso Bernardino, canonizzato nel ma evidentemente il più ecla- San Piero a Sieve, attribuito da Ales- 1450, e i dati di stile dell’opera, Parronchi alla mano di Donacaratterizzata dalla impostaziotante, data l’estensione dei pos- sandro tello, ma probabilmente opera di un sedimenti e la straordinaria intagliatore prossimo all’artista in tarda ne architettonica all’antica della parete absidata che si potenza economica che essi età ed a Desiderio da Settignano.
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apre alle spalle della Vergine, fanno ritenere la ra e nelle Fiandre, e da lui portato in Italia. Alla pala eseguita in quegli anni e non al tempo morte del vescovo l’eredità, gravata da debiti, fu dei primi lavori michelozziani. rilevata dal banco mediceo e Nello stesso torno di anni fu con essa anche la tavola di eseguito anche il Crocifisso in Froment, dirottata al Bosco ai legno di pero (Fig. VIII), unico Frati.16 Gli interventi promossi dai superstite delle soppressioni Medici si protrassero anche leopoldine e postunitarie, ritronei secoli successivi: all’epoca vato dopo anni di oblio nella di Francesco I si deve il rincripta della chiesa da Alessannovamento dell’altare maggiodro Parronchi che vi riconobbe 13 re sul quale, rimossa la pala la mano di Donatello, mentre una tavola di Sano di Pietro, dell’Angelico, trovò posto la ad oggi non rintracciata, recangrande macchina lignea (Fig. te l’iscrizione AN SAN U S D E IX) dedicata all’Immacolata SENIS 1464 DIE 15 JANUARIJ, era che separa la navata dal coro sull’altare dedicato a san Berdei monaci (1626). Ed è un nardino14 e un’altra, anch’essa artista mediceo, Jacopo Ligozzi, oggi ignota, raffigurante san impegnato negli anni preceGiuliano, era stata inviata da IX. L’altar maggiore della chiesa del denti agli apparati per le convento di San Bonaventura al Piero il Gottoso, evidentemen- Bosco ai Frati, dedicato all’Immacolata, nozze del granduca Ferdinante in occasione della nascita un tempo ornato della celebre pala do I con Cristina di Lorena, a del figlio secondogenito.15 Su del Beato Angelico (v. pag. 39), oggi al siglare e datare nel 1589 l’Alleuno degli altari laterali fu siste- Museo di San Marco. goria dell’ordine francescano, ancor mato un polittico, opera di oggi esposta in chiesa (Fig. X). Nicolas Froment (vedi pagina 39) recante la L’iconografia, legata all’istituzione della confradata 1461, che erroneamente, sulla scorta delle ternita del Cordone di san Francesco da parte cronache francescane, si è a lungo ritenuta un di Sisto V nel 1586, e derivante da una stampa dono fatto a Cosimo e da questi passata alla di Agostino Carracci, era particolarmente cara chiesa. Il polittico di Froment, con la Resurrezione ai francescani, impegnati in quel momento a di Lazzaro al centro, affiancata dall’episodio di confermare l’importanza della regola anche Gesù in casa di Marta e dalla Lavanda dei piedi, attraverso un’oculata campagna di immagini recante sul retro il committente inginocchiato in celebrative del santo. Non lontana da Bosco ai Frati era la pieve adorazione della Vergine col Bambino, fu in realtà un’acquisizione successiva, avvenuta al di San Piero a Sieve, i cui diritti di patronato tempo di Piero. Il dipinto era stato eseguito per passavano sin dal 1356 da Giovanni di Ghino Francesco di Guccio di Tommaso Coppini, di Alidosio da Caldaia ai Medici. Non a caso, vescovo di Terni e legato pontificio in Inghilter- nel 1462, Alamanno de’ Medici scriveva a Gio-
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vanni di Cosimo «ò avuto databile alla fine del secolo, aviso che lla pieve da San col corpo intagliato a baccelPiero a Sieve è vacata, della lature ed il bordo superiore quale sono padroni el conte, terminante in due anse lateVanni, Bernardo di Lionardo rali a ricciolo, mentre lo stelo de’ Medici e io, e avendosi a a doppio balaustro separato provedere d’altro piovano da un nodo a corda è ornato come si richiede, sono conda delicate foglie di acanto. tento che per mia parte ogni Patronato mediceo era anche e qualunche autorità io avesla pieve di San Gavino Adise a fare detta ellectione dia mari, che ne conserva ancora 17 rimessa a voi». gli stemmi, dove Cosimo I Di lì a poco il figlio di volle pievano Benedetto VarBernardo de’ Medici, Leonarchi che aveva facoltà di godedo, vescovo di Forlì, divenne re la rendita della chiesa pievano e rivestì la carica dal senza esercitare alcun ufficio, 1482 al 1528. Alla sua pre- X. Jacopo Ligozzi, Allegoria dell’ordine data la sua condizione secolasenza si devono il completo francescano, olio su tela, 1589, chiesa del re. 2 0 Nella chiesa di San convento di San Bonaventura al Bosco Lorenzo a Croci, o alla Croce, rinnovamento della chiesa e ai Frati. si trovavano una pala d’altare la commissione del sontuoso fonte battesimale eseguito da Giovanni della con lo stemma di famiglia, oggi non più identiRobbia, raffigurante sei episodi della vita di ficabile e un ciborio ligneo a forma di tempietSan Giovanni Battista, chiusi da ornatissime to sormontato da una cupoletta a squame. Forse panoplie all’antica, con un fregio a ghirlande residuo di un più ampio insieme decorativo, è tenute insieme da capricciose teste di puttini: oggi custodito nella chiesa di Santa Maria a un esemplare già messo in opera dall’artista Collebarucci, e ricorda nell’iscrizione ALEXANnella pieve di Galatrona e replicato nella DER MEDICES RECTOR EX DEVOTIONE A. D. 1504 DIE pieve di Cerreto Guidi, su commissione dei QUARTO MAII. Rucellai.18 Più tardo, della metà del secolo, è il Crocifisso ligneo, di anonimo artefice, che tradiAnna Bisceglia zionalmente si vorrebbe di Raffaello da Montelupo.19 Anche nella pieve di San Giovanni a Petroio, nella cui cura ricadeva la villa di Cafag- NOTE giolo, i Medici ottennero il patronato negli anni 1 ASFi, Mediceo del Principato, 2489, busta 6, c. 252, in «The Ottanta del XV secolo. È verosimilmente alla Medici Archive Project», <www. medici.org>, ad vocem. loro presenza che si deve l’elegante fonte batte2 G UASTI 1902, p. 80. 3 simale in marmo a foggia di vaso all’antica, MOROLLI 2008, con bibliografia precedente.
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15 Ne dà notizia BACCINI 1897, pp. 22-23 in relazione ad una lettera inviata dal fattore di famiglia a Piero in cui riferisce della cerimonia avvenuta al Bosco, all’altare con la tavola suddetta. 16 S PEARS G RAYSON 1976, pp. 350-357 e BAGEMIHL 2001, pp. 178-190. 17 Si veda KENT 2005, p. 224. In maniera analoga il pievano di Santo Stefano in Botena, don Gino D’Antonio, scriveva a Lucrezia Tornabuoni nel 1473, pregandola di intervenire per risolvere la questione di un beneficio che si disputava col vicino pievano Meo da Farneto; BACCINI 1893, 3, pp. 47-48. 18 G ENTILINI 1992, pp. 283-284. 19 Lisner 1959-60, pp. 13-24. 20 La chiesa fu completamente trasformata durante il plebato di Giuseppe Maria da Barberino (1718-1761). BACCINI 1892, p. 53.
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M ÜNTZ 1888, pp. 23, 51. Si veda da ultimo KANTER 2005, p. 145, con bibliografia precedente. 6 Ricordi di Alesso Baldovinetti 1909, p. 7. 7 CAGLIOTI 2000, I. 8 ACIDINI LUCHINAT 1990. 9 MESNIL 1938, p. 210; cfr. da ultimo CECCHI 2005, pp. 8284, 370. 10 LIGHTBOWN 1978, I, p. 129; II, pp. 142-145. 11 Maioliche marcate di Cafaggiolo 1987. 12 BACCINI 1897, p. 9. 13 Sul Crocifisso si veda ora CAGLIOTI 2008, pp. 125-163, 176-180 con bibliografia precedente. 14 La notizia è riportata dal Niccolai (NICCOLAI 1914, p. 304), già premesso da BACCINI 1902-1903. La fonte alla quale entrambe attingono è il Ms. Magliabechiano (BNCFi, vol. XXVI, c. 104). 5
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La residenza medicea di Cafaggiolo nei pressi di San Piero a Sieve.
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FROM E NT
I L TRITTICO DI N ICOLAS FROMENT
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L’acquisizione del trittico del francese Nicolas Froment (Uzès 1435 ca.-Avignone 1483 ca.), in origine sull’altare a sinistra dell’aula del convento di San Bonaventura al Bosco ai Frati, ha una storia piuttosto complessa. La tipologia del dipinto segue una consuetudine affermata nella pittura nordica: una tavola centrale di maggiori dimensioni, raffigurante la Resurrezione di Lazzaro (Fig. I) è affiancata da due sportelli dipinti su entrambi i lati in modo da poter fungere, a pannelli aperti, da altarolo di devozione, assicurandone al tempo stesso facile trasportabilità. Le scene laterali interne presentano a sinistra Gesù in casa di Marta e a destra la Lavanda dei Piedi. Sul retro, a destra è la Madonna col Bambino, affiancata dal donatore inginocchiato con un frate ed un attendente. Una serie d’iscrizioni, tratte dal Vangelo di Giovanni, corrono lungo i margini dei pannelli dipinti. Sotto la tavola centrale si legge NICOLAUS FRUMENTI ABSOLVIT HOC OPUS XV KL. J UNII MCCCCLXI, cioè il nome del pittore e la data di ultimazione dell’opera. La notizia più antica che abbiamo sulla presenza del trittico nella chiesa mugellana è tramandata dalla cronaca di fra Giuliano Ughi della Cavallina, che sulla metà circa del secolo XVI annotava: «fu presentata a detto Cosimo da un Legato del Papa che venne di Fiandra e Cosimo la donò al luogo del Bosco». Presso le fonti locali era dunque rimasta memoria del dipinto come dono fatto a Cosimo e da lui portato al Bosco ai Frati. Rimosso per ordine di Pietro Leopoldo, il trittico fu collocato prima all’Accademia di Belle Arti e di qui, nel 1841, passò infine agli Uffizi, dove oggi si trova. Le ricerche condotte da Marion Spears Grayson
I. Nicolas Froment, Resurrezione di Lazzaro: particolare del trittico, 1461, conservato presso la Galleria degli Uffizi a Firenze (per l’intero si veda a pagina 39). Il committente, raffigurato sul retro del pannello destro, potrebbe essere il pratese Francesco di Guccio di Tommaso Coppini, vescovo di Terni e legato di Pio II.
(1976) hanno chiarito l’identità del committente, inginocchiato come si è detto sul retro del pannello destro, il cui stemma, un calice esagonale in campo scuro circondato da due stelle e una ruota, è riferibile a Francesco di Guccio di Tommaso Coppini, di famiglia pratese, vescovo di Terni e legato a latere di Pio II. Tra il 1459 ed il 1461 il prelato si mosse tra l’Inghilterra e le
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II. La chiesa del convento di San Bonaventura al Bosco ai Frati, ove Cosimo de’ Medici volle collocato il trittico di Froment.
Fiandre, promuovendo le relazioni con Enrico VI di Lancaster, il cui emblema, la lettera S, compare nel collare indossato dal personaggio in piedi sulla destra, individuato come un membro della corte inglese in strette relazioni col Coppini. Il trittico di Froment doveva perciò nascere nel cuore delle Fiandre, a stretto contatto con la cultura dei maestri nordici, di cui riflette appieno l’acuta analisi descrittiva d’ambiente, il gusto per la preziosità materica dei fondi lavorati a estofado, il carattere umoroso e grottesco delle fisionomie. Sulla base dei noti rapporti tra Coppini e la corte medicea, la Grayson ha supposto che il vescovo avesse indirizzato il trittico a Cosimo per propiziarne l’appoggio in vista di una nomina a vescovo di
Firenze, o anche per ricevere aiuto nei difficili rapporti col papa dopo il fallimento della missione diplomatica presso la corte inglese. Recenti indagini archivistiche (K ENT 2005) hanno invece messo in dubbio che il trittico fosse stato commissionato per Cosimo il Vecchio, poiché questo risulta in possesso del Coppini anche dopo il suo ritorno in Italia, censito nell’inventario dei beni stilato alla sua morte nel 1465. L’eredità del prelato, gravata da debiti e rilevata dagli agenti del banco mediceo, fu dunque acquisita da Piero il Gottoso al quale si deve con tutta probabilità la decisione di collocare il dipinto a Bosco ai Frati. Anna Bisceglia
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L’ORATORIO DELLA COMPAGNIA DELLA CHIESA DI SANTA MARIA A PULICCIANO Il visitatore che venendo da Ronta si avvii per la strada che porta verso la rocca di Pulicciano avrà anche lungo il percorso la percezione del ruolo avuto dalla sua posizione e della sua inaccessibilità nella storia stessa del luogo, già insediamento romano, quindi sito fortificato in possesso della repubblica fiorentina che lo aveva acquistato dagli Ubaldini, e teatro dagli inizi del XIV secolo di strenui assedi.
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I. Mariotto Albertinelli, Annunciazione, fine del XV secolo, oratorio della Compagnia della chiesa di Santa Maria a Pulicciano: l’affresco dopo il restauro.
La chiesa, denominata in origine Santa Maria in Castello, è documentata a fianco del castello medesimo, disegnata con tetto a capanna e campanile, in una pianta della fine del XVI secolo (ASFi, Piante di Popoli e Strade. Capitani di Parte Guelfa, t. 118, cc. 423v, 424r-v). Divenuta prioria nel 1640, fu radicalmente trasformata e restaurata tra la fine del XIX secolo e il primo decennio del XX, con interventi che hanno coinvolto sia il prospetto esterno sia l’interno, a navata unica con copertura a capriate. Il cuore più antico di Pulicciano va quindi cercato nel vicino oratorio della Compagnia, dedicato alla Vergine Annunciata. Vi si accede dal sagrato della chiesa, percorrendo il breve sentiero sulla destra, reso sicuro grazie al ripristino dei muretti di contenimento effettuato dagli anziani operai del luogo. La cappella, sorta intorno a un oratorio più antico, rispecchia nelle forme attuali le trasformazioni settecentesche e si estende in lunghezza a cagione dei condizionamenti legati alla sua posizione a ridosso della roccia. I confratelli, rivestiti di cappe bianche, vi si riunivano ogni seconda domenica del mese, provvedendo al viatico dei malati ed elargendo doti annuali per le fanciulle del popolo, con apporti da parte delle famiglie della zona, particolarmente dei Pananti e dei Magnani, proprietari dei terreni circostanti. Vi si celebravano inoltre, con solenni processioni, le feste del Corpus Domini e della Madonna del Rosario. Fulcro di questa religiosità era l’affresco con l’Annunciazione, restaurato nel 1998 con fondi statali, con certezza riferito a Mariotto Albertinelli, grazie all’identificazione da parte di Roberta Bartoli di un disegno prepara-
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III. Fra Bartolomeo, Annunciazione, olio su tavola, 1497, duomo di Volterra.
II. Oratorio della Compagnia della chiesa di Santa Maria a Pulicciano: veduta d’insieme dell’altare con l’Annunciazione di Mariotto Albertinelli, prima del restauro.
torio conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (Fig. I). Una foto degli anni Settanta del Novecento (Fig. II), nella quale l’altare è ancora completo dei suoi arredi, permette di ricomporne l’effetto d’insieme all’interno della monumentale edicola barocca in pietra, che occulta in parte il margine inferiore della pittura, con i tondi coi cherubini in terracotta policroma a fianco. L’opera riconduce al clima culturale gravitante intorno alla produzione giovanile di Fra Bartolomeo e a quanto maturava nella sua cerchia,
di cui era parte l’Albertinelli, nel passaggio tra il XV e il XVI secolo. Il confronto di questa pittura con la pala del duomo di Volterra, di analogo soggetto e di impianto pressoché identico, recante la firma di Fra Bartolomeo, consente di intendere come all’interno della bottega un disegno preparatorio probabilmente elaborato dal maestro potesse essere ripreso dai pittori che lavoravano con lui, se pure con qualche variante (Fig. III). Il bell’affresco dell’Albertinelli, più legato a una misura ancora quattrocentesca e con echi da Lorenzo di Credi e dal Perugino, è caratterizzato da una tersa luminosità e da una stilizzazione delle forme percepibile sia nella resa del volto inclinato della Vergine, sia in dettagli come i panneggi della veste dell’angelo, il cui giglio si staglia contro il paesaggio sullo sfondo assumendo una maggiore valenza simbolica per il contrasto con l’albero secco sulla destra. Anche nei motivi classicheggianti delle candelabre delle paraste e nei capitelli compositi, o negli ornati dello sguancio ritrovati in
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que anni, si componeva la pietà dei confratelli in occ asione del venerdì santo. La ricerca di una teatralità da sacra rappresentazione, propria più in generale dei compianti in terracotta, è affidata qui a dettagli realistici quali le lacrime a rilievo sui volti dei dolenti, le cui figure fortemente geometrizzate e con panneggi a larghi solchi richiamano, se pure in un tono più modesto, le sculture della fase più antica del Sacro Monte di San Vivaldo, anch’esse, IV. Il gruppo del Compianto intorno a Cristo morto (detto ‘delle Verginelle’), terracotta policroma della fine del XV secolo, nella sua collocazione originaria nel sacello come il gruppo di Pulicretrostante l’altare dell’oratorio della Compagnia nella chiesa di Santa Maria a ciano, riferite all’ambito di Pulicciano. Benedetto Buglioni. L’insieme, nel suo tono frammenti e ricostruiti tramite spolvero nel popolaresco, doveva costituire per gli abitanti corso del restauro, viene meno, rispetto alla del luogo un richiamo alla fatica della vita tavola di Fra Bartolomeo, un più meditato contadina, in base a un’accezione dell’arte delrichiamo all’antico, a favore di una più sempli- l’epoca a loro più vicina rispetto all’aspetto ficata grafia. più colto rispecchiato nell’Annunciazione. La data, 1497, presente nella tavola di Volterra conferma anche per l’affresco dell’AlbertiMirella Branca nelli una datazione verso la fine del XV secolo. Allo stesso periodo riporta d’altronde il gruppo in terracotta policroma del Compianto intorno a Cristo morto composto da sei sculture, per motivi di sicurezza trasferito in chiesa nel 1984 ma in origine collocato nell’absidiola del RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI sacello retrostante l’altare dell’oratorio (Fig. IV). Intorno alle cosiddette ‘Verginelle’, portate in CALZOLAI 1973; GENTILINI 1992, pp. 435, 448 (n. 61); BARprocessione fino al Poggio a Ronta ogni cin- TOLI 1994; Fra’ Bartolomeo 1996
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compaiono lo stemma dei Cattani e, nella lunetta, la Vocazione di Sant’Andrea con un’iscrizione che indica la data del 1505. Al piano superiore del loggiato vi è un altro affresco con Il complesso rinascimentale di Camoggia- l’Allegoria della dovizia, databile ai primi anni del no, uno dei luoghi più affascinanti del Mugello, Cinquecento. è costituito da una piccola Cristina Acidini, in un chiesa preceduta da un porampio e documentato saggio tico e affiancata da un palazdel 1988, ha ricostruito le zetto con un bel chiostro vicende del patrimonio artiinterno, entrambi completastico rinascimentale di mente riedificati alla fine del Camoggiano e la committenQuattrocento con un’eleganza dovuta a Pandolfo di te architettura d’impronta Urbano Cattani, priore di michelozziana (Fig. I). Sant’Andrea dal 1496 al Il portale d’accesso alla 1528. Fu il Cattani, infatti, che chiesa è ornato da una rese il complesso – già sotto il lunetta affrescata con un Cripatronato della sua famiglia sto in pietà e due angeli, asse– un’omogenea e suggestiva gnata a Bartolomeo di Gio- I. Il complesso rinascimentale di Camog- sintesi della produzione artivanni (Firenze, metà del giano, con la chiesa e il palazzetto, nell’ac- stica fiorentina tra Quattrosecolo XV-1501), ma forse quarello di Massimo Tosi. cento e Cinquecento (si veda avvicinabile allo stesso anoACIDINI LUCHINAT 1988). Durante il suo priorato nimo autore degli affreschi furono realizzati il fonte batpresenti nel chiostro, che tesimale assegnato a Benerecano la data del 1505. detto Buglioni (ora esposto All’interno del palazzetto, nel Museo di Vicchio; vedi che fungeva da canonica, si figura 15 a pagina 44), le apre un chiostro che presenfigure in terracotta dipinta ta colonne sormontate da bei che costituiscono il cosiddetcapitelli di ordine ionico e, to presepe di Camoggiano al centro, una vera di pozzo. (conservate oggi nel Museo Sulla parete di fondo è diocesano di Firenze; Fig. II), dipinta un’illusionistica un Compianto sul Cristo morto porta che lascia intravedere una figura maschile assorta II. Le statuette in terracotta policroma del su tela di Bartolomeo di Gioin lettura; al di sopra di que- «presepe di Camoggiano» sono conserva- vanni (custodito all’Art Gallery of Ontario di Toronto, in sto rinascimentale trompe-l’œil te nel Museo diocesano di Firenze.
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I L COMPLESSO DI SANT’ANDREA A CAMOGGIANO E IL PRIORE PANDOLFO CATTANI
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Canada) e la grande pala con la Crocifissione roso furto che interessò un bassorilievo in terraancora di Bartolomeo di Giovanni. cotta invetriata e una formella del fonte battesiLa pala, attualmente ospimale. Per motivi di sicurezza tata nella pieve di San Silvefurono così immediatamente stro a Barberino (Fig. III; vedi ritirati il fonte battesimale e anche figura 14 a pag. 43), la pala con la Crocifissione che ma che presto verrà probabilvenne esposta nei musei statali di Firenze. Sfortunatamenmente collocata nel Museo di te, quando sopravvenne la Vicchio, merita una particodrammatica alluvione del lare attenzione per le sue 1966 la pala si trovava nel complesse vicende storiche e Gabinetto Restauri degli Ufficonservative. L’attribuzione zi, dove l’acqua raggiunse un del dipinto a Bartolomeo di metro di altezza. Il dipinto, Giovanni, da parte di Geza gravemente danneggiato, De Francovich, risale al 1926 venne sottoposto a un’operaed è stata poi unanimemente zione di salvataggio che perconfermata dalla critica con mise di conservare la pellicouna datazione intorno al la pittorica staccandola dal 1500 (vedi PONS 1990). La pala mostra al centro la suo supporto ligneo, divenuto figura del Cristo crocifisso; ai III. Bartolomeo di Giovanni, Crocifissione, irrecuperabile. La Crocifissione tempera su tavola, 1500 ca.: particolare lati della croce stanno in piedi con il committente Pandolfo Cattani di Camoggiano rimase così quattro santi: a destra san Pie- inginocchiato e i santi Andrea e Zano- nascosta da veline per molti tro e un giovane cavaliere bi. La pala, proveniente dalla chiesa di anni sino al definitivo restauriconosciuto come san Seba- Sant’Andrea a Camoggiano, oggi presso ro, affrontato nel 1997-98. la pieve di San Silvestro in Barberino, Dopo il complesso restaustiano, sebbene sia privo del gravemente danneggiata dall’alluvione ro, la pala poté finalmente consueto attributo delle frec- del 1966, è stata restaurata nel 1998. tornare – dopo ben 92 anni – ce, a sinistra invece sant’Anin Mugello, non nella sua drea e un santo identificabile con Zanobi, vescovo di Firenze, che costituisce originaria collocazione a Camoggiano, ma nella un ideale collegamento alla metropolitana fio- più sicura e controllata pieve di Barberino. rentina. In ginocchio, dinanzi a questi due santi Come memoria dell’antica collocazione della è raffigurato Pandolfo Cattani, committente del- pala e del priore Pandolfo Cattani, nella piccola l’opera: di fronte a lui, stretta al legno della croce, chiesa di Sant’Andrea è stata posta una riprola Maddalena. Lo stemma dei Cattani è raffigura- duzione a grandezza naturale del dipinto. to ai piedi della croce, vicino al committente. Maria Matilde Simari L’opera venne rimossa dalla chiesa di Camoggiano nel lontano 1906 dopo un clamo-
Spigolature seicentesche in mugello: tracce per un itinerario pittorico
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l patrimonio artistico mugellano, seppur gravemente ridotto nella sua consistenza da ampie e continue spoliazioni, ha visto l’attenzione degli studiosi concentrarsi soprattutto sulle epoche medievale e rinascimentale, mentre il pur interessante e variegato panorama dell’arte seicentesca è stato oggetto solo di sporadiche analisi che lasciano ancora nell’ombra un mondo tutto da scoprire. Le difficili condizioni di vita del Mugello nel XVII secolo, funestato da calamità d’ogni genere, terremoti, carestie ed epidemie, non hanno certo favorito il diffondersi delle arti né soprattutto il concretarsi d’opere architettoniche impegnative, tanto che in questo settore s’è parlato come di un «lungo silenzio» a causa dell’assenza d’importanti realizzazioni improntate al gusto dell’epoca. 1 Tuttavia, anche se su scala ridotta, non sono mancate operazioni di rinnovamento, principalmente in campo ecclesiastico, allo scopo d’adattare l’arredo delle chiese alle recenti disposizioni tridentine. Per questo nuove pale d’altare hanno via via sostituito i polittici medievali, trasformando l’iconicità delle antiche immagini in persuasive e coinvolgenti iconografie controriformate. Le principali pievi del territorio così come le più modeste chiese di campagna fanno a gara nel dotarsi di nuovi altari nei quali trovano posto opere di artisti più o meno noti i cui nomi sono legati alle disponibilità economiche ed ai contatti culturali dei committenti, S P I G O L AT U R E S E I C E N T E S C H E I N M U G E L L O : T R A C C E P E R U N I T I N E R A R I O P I T T O R I C O
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1. Il santuario servita di Monte Senario, fondato nel XIII secolo, più volte rimaneggiato e modificato strutturalmente nel XVIII e XIX secolo.
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2. L’interno della chiesa di Monte Senario, d’impianto quattrocentesco ma radicalmente trasformata nel XVIIXVIII secolo: sull’altar maggiore, il Crocifisso di Ferdinando Tacca, in stucco policromo (metà del Seicento), recentemente restaurato, sta al centro di uno scenografico trionfo di creature angeliche, mentre al piede piangono le Pie Donne.
creando una rete che assume, comunque, dei connotati piuttosto omogenei in tutta la vallata e che vede la preminenza della scuola pittorica di Matteo Rosselli (1578-1650), titolare di una delle più importanti botteghe fiorentine e maestro di un’intera generazione di artisti. Le opere del caposcuola adornano le chiese dei principali luoghi mugellani (Borgo San Lorenzo, Scarperia, convento di Monte Senario) mentre i suoi allievi, principalmente Domenico Pugliani (1620-1694), Jacopo Vignali (1592-1664), Lorenzo Lippi (16061665), Taddeo Baldini (1622-1689), disseminano i loro lavori nelle chiese degli altri centri. In questo contesto il Lippi avrà particolare fortuna e apprezzamento dai committenti e, contendendo al maestro il primato di dipinti ancora conservati in loco, fa del Mugello un territorio privilegiato per conoscere l’evoluzione del suo stile lasciandovi sia i suoi primi lavori conosciuti che significative opere della maturità artistica fino agli esiti finali. In una sorta di gerarchia, comprensibilmente legata ai diversi ruoli e possibilità economiche, nelle chiese di più semplici entità, che pur non rinunciano a dotarsi di nuovi arredi commissionati dai rettori locali spesso a costo di grandi sacrifici (è il caso del priore Pinelli di Cerliano che dopo il terremoto del 1611 va ad insegnare al seminario di Firenzuola e con i soldi raccolti restaura la chiesa e costruisce la nuova compagnia) lavora una pletora di pittori minori che riecheggiano i modi dei più noti maestri. Si tratta molto spesso di mani anonime che offrono comunque un livello medio di decorose qualità ed i cui nomi, spesso riemersi dopo studi specifici o operazioni di restauro, permettono di conoscere frammenti di un mondo ancora poco noto. Su tutte queste presenze spicca il nome di Francesco Furini (1603-1646), il principale pittore del Seicento fiorentino, che fu priore nella chiesetta di Sant’Ansano a Monteaceraia (Borgo San Lorenzo): la spoliazione delle sue opere in questo territorio è sintomatica della triste dispersione del patrimonio artistico mugellano. Filippo Baldinucci, infatti, ricorda più opere non più rintracciate che il pittore dipinse in questo periodo e in particolare tre tavole per la chiesa di San Francesco a Borgo San Lorenzo e una per la compagnia delle Stimmate presso la stessa chiesa.2 Per definire un tragitto che muova alla ricerca delle testimonianze pittoriche del Seicento possiamo seguire il tracciato della via Bolognese, assai frequentata nel XVII secolo, ed individuare alcuni luoghi privilegiati in questo contesto. Partendo da Firenze, una prima tappa dovrà essere al monastero servita di Monte Senario (Fig. 1) che, nel tripudio della più tarda decorazione settecentesca, nasconde l’opera plastica più significativa del Seicento mugellano, ovvero il Cristo crocifisso realizzato da Ferdinando Tacca (1619-1686) intorno alla metà del secolo per l’altar maggiore della chiesa (Fig. 2). Nel convento una lunetta affrescata raffigurante i Pellegrini a Emmaus, riferita a Jacopo Vignali, ricorda la vocazione del sito come tappa spirituale nel percorso transappenninico, mentre nel refettorio del convento, un’intensa Ultima cena di Matteo Rosselli (1634) declina con profonda carica sentimentale cromatismo veneto e impianto monumentale fiorentino. Nella sagrestia della chiesa, inoltre, sono presenLIA B RU NORI C IANTI
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ti altre opere attribuite al Rosselli: due tele a monocromo sopra le porte e un Volto di Cristo inserito nel coronamento dell’armadio. Quest’ultimo dipinto ricorda molto da vicino una tela con lo stesso soggetto attribuita al giovane Lorenzo Lippi, conservata presso la vicina pieve di San Pietro a Vaglia (allo stesso autore è riferito anche un altro Volto di Cristo a Luco di Mugello).3 L’opera di Vaglia faceva parte d’una serie di tredici dipinti (attualmente ridotti a sei), raffiguranti Cristo e gli apostoli, realizzati dal Lippi assieme al più anziano Domenico Pugliani, anch’egli uscito dalla bottega del Rosselli e titolare nel 1628 della commissione in quanto artista nativo di Vaglia e iscritto da anni alla compagnia della Madonna della Neve commissionò le opere4 (si veda qui, al proposito, la scheda di M.M. Simari sulla pieve di Vaglia alle pagine 163-164); del Pugliani è anche l’originale croce processionale dipinta coi Misteri del Rosario nel 1610.5 Nella pieve di Vaglia sono conservati inoltre interessanti arredi liturgici inviati nel 1647 in un prezioso cassone dal pittore Angelo Maria Nardi da Razzo (1584-1644) anch’egli nato a Vaglia, e che, trasferitosi in Spagna, lavorò presso la corte di Filippo IV. Nella pieve di San Pietro che sull’altar maggiore conserva una tela con l’Orazione di Cristo nell’orto del Getsemani, sempre d’ambito del Rosselli, è stata ricollocata dopo il restauro una Madonna del Rosario dipinta nel 1609 da Pietro Confortini per la quale si ricorda che il pittore aveva raffigurato nei personaggi in secondo piano il committente della famiglia Saltini con le due figlie.6 Il Confortini, fratello del più noto Pietro, sarà pittore attivo vent’anni più tardi nell’abbazia di Susinana presso Palazzuolo sul Senio, in alto Mugello, dove si conservano due suoi dipinti. Nell’umile chiesa del convento di San Francesco al Bosco ai Frati (Fig. 3), a San Piero a Sieve, colpisce la monumentale e complessa macchina d’altare in legno riccamente intagliato e dorato che il granduca Ferdinando II de’ Medici donò al convento nel 1626 (vedi pag. 145): l’ornamentazione pittorica del retro, dipinta da un anonimo pittore negli anni successivi, è dedicata alla celebrazione dell’osservanza francescana e vi sono raffigurati con tocco semplificato ma vivace i santi Giovanni da Capestrano e Bernardino da Siena, entrambi presenti al celebre capitolo dell’ordine tenuto nel convento nel 1449. Ancora al pennello di Matteo Rosselli spettano le principali opere seicentesche conservate a Scarperia, nell’attuale prepositura: per l’antica chiesa di San Barnaba, S P I G O L AT U R E S E I C E N T E S C H E I N M U G E L L O : T R A C C E P E R U N I T I N E R A R I O P I T T O R I C O
3. Il convento di San Francesco al Bosco ai Frati, nei pressi di San Piero a Sieve.
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4. Tela di Jacopo Vignali effigiante la Madonna col Bambino e i santi Lorenzo, Bernardo degli Uberti, Giovanni Gualberto e santo vescovo, proveniente dalla chiesa di San Lorenzo a Gabbiano e conservata nella raccolta dâ&#x20AC;&#x2122;arte sacra Don Corrado Paoli di Santâ&#x20AC;&#x2122;Agata.
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annessa al convento agostiniano, il pittore dipinse nel 1617 una Crocifissione coi santi Carlo Borromeo, Francesco d’Assisi, Giovanni evangelista e la Vergine, commissionata da Antonio Puccini di Scarperia, interessante figura d’intenditore d’arte a contatto con gli artisti dell’epoca;7 l’opera dialoga oggi nella chiesa con un’altra tela che il pittore realizzò più tardi, intorno agli anni Trenta per l’altar maggiore della vecchia prepositura, raffigurante una scenografica Natività della Vergine fra i santi Jacopo e Filippo (1633-35) nel quale è stato creato un singolare connubio iconografico fra la celebrazione mariana del giorno di fondazione del paese, coincidente con la nascita di Maria, e il ricordo dei santi titolari della parrocchia. Inedita e interessante è la tela ora posta sull’altar maggiore nella vecchia prepositura di Scarperia che, facente parte dell’arredo dell’antica parrocchiale dei Santi Jacopo e Filippo, raffigura San Domenico che distribuisce i rosari al popolo, già identificata come L’elemosina di san Tommaso e il diverso soggetto è confermato dalla documentazione archivistica e dal fatto che in origine il dipinto fosse posto sull’altare della locale compagnia del Rosario,8 raffigurato di scorcio nel dipinto stesso; le caratteristiche dell’opera, sebbene offuscate dalle cattive condizioni di conservazione, mostrano con efficacia l’intento didascalico e devoto della rappresentazione e potrebbero suggerire una vicinanza con il fare di Benedetto Veli (1564-1639) all’epoca dei suoi affreschi per la Badia di Passignano (1605-1611). Da Scarperia si può raggiungere Sant’Agata e osservare un significativo esempio di ‘ammodernamento’ tridentino di una delle più importanti pievi romaniche del territorio: dal 1607 al 1618 il pievano Tolomeo Nozzolini, professore all’Università pisana, amico di Galileo Galilei e precettore del futuro granduca Cosimo II, intraprese ampi lavori di ristrutturazione della sua chiesa e, costruiti nuovi altari, commissionò tele rispondenti alle recenti esigenze iconografiche all’affermata bottega di Cristofano Allori, di cui un allievo, Simone Sacchettini, realizzò i principali dipinti.9 Nella raccolta d’arte sacra annessa alla pieve di Sant’Agata si conservano,10 oltre a un superbo San Michele riferibile a Lorenzo Lippi (1640 ca.), una Madonna col Bambino e santi di grande qualità realizzata da Jacopo Vignali per la vicina chiesa di Gabbiano nel 1632, come probabile ex voto per la cessazione della pestilenza che aveva infuriato in quegli anni11 (Fig. 4). Nella medesima raccolta, l’incorniciatura coi Misteri del Rosario dipinta nel 1615 da Clemente Santini (15???-?????), pittore della cerchia granducale, testimonia l’aggiornamento al nuovo gusto dell’antica icona esposta a fianco e presente dal 1345 nella prioria di San Gavino al Cornocchio; per la stessa chiesa fu realizzato inoltre il Martirio di San Gavino (ora al Museo di Vicchio) dipinto nel 1621 dal poco noto Ridolfo Turi. Quest’opera, firmata e datata, costituisce attualmente l’unico dipinto conosciuto del Turi e colloca a pieno titolo l’artista nell’ambiente fiorentino del primo Seicento; in particolare, ne mostra i legami con i modi del Passignano e la conoscenza delle novità caravaggesche romane che vengono elaborate con attenzione agli effetti luministici e all’accentuazione espressionistica dei personaggi.12 Anche la tela con i Santi Andrea e Simone (1661) di Virginio Zaballi, discepolo dell’Empoli, ricorda gli ammodernamenti che il priore di Cerliano Matteo Pinelli, noto per il suo gustoso Zibaldone, autentico S P I G O L AT U R E S E I C E N T E S C H E I N M U G E L L O : T R A C C E P E R U N I T I N E R A R I O P I T T O R I C O
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spaccato di vita seicentesca locale, apportò alla propria chiesa grazie alla collaborazione d’un pittore minore ma confacente alla sua committenza e al quale aveva già fatto dipingere un’Ultima cena per la compagnia del Santissimo Sacramento.13 Tanti sono i pittori poco noti che hanno lasciato molti lavori in queste chiese lontane dai traffici (ricordo anche Taddeo Baldini, allievo del Rosselli, che firma una Madonna del Rosario a Collebarucci presso Barberino) e solo studi puntuali potranno ricostruirne le storie, modeste, ma significative per il contesto in cui essi operarono. Valicato il passo del Giogo, il territorio di Firenzuola riserva all’attento viaggiatore alcune inaspettate sorprese custodendo nella chiesa di San Patrizio a Tirli, costruita nel 1623, tre tele seicentesche di buona qualità dell’ambito di Fabrizio Boschi (1572-1642), collaboratore di Matteo Rosselli: San Patrizio distribuisce la comunione e la Madonna che consegna il rosario a san Domenico e Santa Caterina da Siena alla presenza di san Patrizio, quest’ultima firmata da Giovanni di Angelo Rosi (1597-1675), allievo del Boschi. Appartiene, poi, alla chiesa di Santa Maria a Frena una Immacolata tra i santi Giuseppe e Antonio da Padova riconducibile all’ambito di Francesco Curradi (1570-1661),14 pittore assai prolifico le cui opere, particolarmente apprezzate per i loro caratteri di spiccata devozionalità, sono disseminate in molteplici chiese del contado. Tornando sui percorsi principali, altro nodo importante è la pieve di Borgo San Lorenzo che conserva una vera antologia della pittura seicentesca fiorentina, ancora una volta in dialogo con la severa architettura romanica circostante: fra le varie tele dell’epoca, tutte di buona qualità, appartiene a Jacopo Vignali l’Immacolata concezione con santi del primo Seicento e all’immancabile Matteo Rosselli la Vergine che intercede presso Cristo per la cessazione della peste (1615), dalle tipiche e calde tonalità. Nella navata destra la Vergine del rosario con santi e fedeli potrebbe nascondere una precoce opera di Fabrizio Boschi, tanto richiamano le sue tele giovanili sia la generale impostazione della scena quanto alcuni caratteri tipologici dei personaggi; in particolare risulta vicina alla pala di Santa Lucia (oggi a San Barnaba), voluta nel 1597 dalle suore domenicane, stesso ordine delle monache di Borgo San Lorenzo che commissionarono la realizzazione di nuovi altari della pieve che dal XVI secolo appartenne al loro convento. La non lontana chiesetta di Sant’Ansano a Montaceraia è un luogo particolarmente significativo in questo percorso poiché dal 1633 al 1646 vi fu priore Francesco Furini, e se le ingiurie del tempo e dell’uomo hanno privato questo luogo delle testimonianze del suo passaggio (la tela con Sant’Ansano fu rubata nel 1903), la solitudine del luogo immerso nel verde aiuta a comprendere la commovente intensità della sua unica opera ancora presente in Mugello: l’Annunciazione (1635 ca.) proveniente da Santa Felicita di Faltona, ora esposta nel Museo di Vicchio15 (Fig. 5). Prima di indirizzarsi a questo importante museo comprensoriale, che conserva varie opere del XVII secolo oltre alle citate, merita fare un’ultima digressione alla volta di Ronta; prima d’entrare nel paese, una sosta alla chiesetta di Pulicciano fa conoscere un bel nucleo di tele della prima metà del Seicento, fra le quali spicca un’Annunciazione datata 1630 e firmata da Orazio Fidani (1606-1656) che costituisce la sua prima opera sicura.16 Giunti a Ronta, la chiesa di San Michele ci riserva la sorpresa d’uno splendido dipinto di Lorenzo Lippi17, LIA B RU NORI C IANTI
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proveniente dalla parrocchiale poi soppressa, che raffigura una Vergine assunta fra santi (1634 ca.) nel cui sfondo paesaggistico si cela l’immagine dell’antica prioria, affidando il dolce paesaggio locale al sensibile pennello di questo artista. Ubicata all’incrocio della vallata del Mugello con la Val di Sieve, Dicomano costituisce una tappa particolarmente significativa nel nostro percorso, in quanto rappresenta un’importante cerniera fra queste due aree territoriali limitrofe e concentra nei suoi edifici sacri opere di rilevante spessore. Nella pieve di Santa Maria, in particolare, il ricco arredo tardocinquecentesco, che annovera una bella tavola firmata da Santi di Tito, culmina nella grande tela dell’altar maggiore, raffigurante l’Assunzione della Madonna fatta eseguire nel 1613 dal pievano Lorenzo Teri a Francesco Curradi che vela quest’articolata composizione con un dolce senso di malinconia, ampliato dalla monumentale cornice lignea, verso la cui decorazione con simboli della Passione s’indirizzano gli sguardi languenti della Madonna e degli angeli. Nella stessa pieve sono confluite dalle chiese del territorio altre tele seicentesche di notevole qualità: una Vergine in gloria tra santi (1648) attribuita ad Agostino Melissi (1616 ca.-1683) proviene dalla chiesa di San Donnino a Celle, mentre da San Martino a Corella viene una bellissima Santa Caterina d’Alessandria di Lorenzo Lippi (datata 1629) di vibrante tono emotivo e di caldi e raffinati effetti coloristici.18 Sempre al Lippi che mantiene il legame di continuità con le commissioni mugellane, appartiene l’Immacolata Concezione tra i santi Onofrio, Antonio abate, Rocco e Sebastiano nell’oratorio di Sant’Onofrio, inusitata e preziosa architettura neoclassica nella quale i committenti, la famiglia Dalle Pozze, collocarono questo dipinto proveniente dai loro possedimenti e che, databile al 1662, permette di analizzare l’ultima fase stilistica del Lippi, quando l’impianto centralizzato e monumentale della composizione acquisisce una più marcata impronta devozionale.19 Nella chiesa di Sant’Antonio, poi, che appartiene alla diocesi di Fiesole, si scopre una curiosa presenza ‘straniera’ qui giunta da San Francesco a Pontassieve, dove la compagnia del Cordiglio fa dipingere a Bernardino Capitelli (1590-1639) «senese» (come campanilisticamente si firma) una Madonna con Bambino che porge il cordiglio a san Francesco, sintetizzando nel confratello raffiguratovi tutta la devozione del suo popolo; l’opera, datata 1612, rappresenta un’interessante e rara testimonianza della produzione giovanile di questo pittore che, allievo di Casolani prima e di Rutilio Manetti poi,20 introduce forse – proprio per l’importante canale stradale sul quale era posta Pontassive – un fermento di morbido ed affettuoso colorismo tutto senese nell’austero e compassato clima controriformato fiorentino, più usuale nelle contrade mugellane. Quest’opera appare sintomatica del diverso clima culturale della Val di Sieve, le cui opere seicentesche, pur nella sostanziale e imprescindibile consonanza al panorama artistico fiorentino, sembrano mostrare, rispetto al Mugello, una diversa apertura verso correnti artistiche più varie, la cui analisi, necessitando di un più approfondito studio dei rapporti fra percorsi viari, committenze e botteghe, esula da queste brevi note e rimanda ad un necessario e stimolante successivo lavoro di ricerca.
S P I G O L AT U R E S E I C E N T E S C H E I N M U G E L L O : T R A C C E P E R U N I T I N E R A R I O P I T T O R I C O
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NOTE
B RUNORI C IANTI 1998, 158?????. Per le opere conservate nella Raccolta di arte sacra di Sant’Agata di Mugello, cfr. BRUNORI C IANTI 2008A. 11 B ISCEGLIA 2008 (con bibliografia precedente). 12 B RUNORI C IANTI 2008B. 13 B RUNORI C IANTI 2004. 14 Scheda OA n. 00043040, A. Cecchi 1976. 15 MAFFEIS 2007, p. ????? e S IMARI 2008. 16 I NNOCENTI 1983, in particolare le pp. 43-44. 17 Per Ronta, v. SPINELLI 1986 o 1999????????; D’AFFLITTO 2002, p. 196. 18 D’AFFLITTO 2002, pp. 107, 177. 19 Ivi, p. 139, ….n.????????? 20 ??????????????. 10
1
MOROLLI 2000, p. 34. BALDINUCCI 1974-1975, IV, 1974, pp. 634-636. 3 D’AFFLITTO 2002, p. 190 con bibliografia precedente. 4 SPINELLI 1999, pp. 17-31; D’AFFLITTO 2002, pp. 40, 171-172. 5 S PINELLI 1986 pp. 241-243. 6 Scheda OA n. 00078618, F. Paladini, 1977. 7 Per il committente Antonio Puccini, cfr. BRUNORI C IANTI 2004. 8 Archivio Arcivescovile di Firenze (AAFi), Visite pastorali 29, 1655, c. 84; il dipinto era identificato come L’elemosina di San Tommaso nella scheda OA n. 09/00102159, D. Nassi Ponti, 1976. 2
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DIPINTI E TESTIMONIANZE DEL SEICENTO NELLA PIEVE DI SAN PIETRO A VAGLIA
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che ha anche individuato tra le sei tele della serie giunte sino a noi (purtroppo degli altri sette dipinti alcuni sono andati dispersi, altri sono stati La pieve di San Pietro a Vaglia conserva trafugati), accanto alla mano dell’affermato maenumerose testimonianze artistiche del Seicento stro Pugliani, quella d’un giovane pittore egualche nell’insieme formano un variegato nucleo di mente formatosi nella bottega di Matteo Rosselli, opere di notevole interesse e qualità. Tra di esse Lorenzo Lippi (Firenze 1606-1665), all’epoca venva sottolineata la presenza di una serie di pitture tiduenne (si veda SPINELLI 1999). Le tele che ci sono pervenute sono dunque e di alcuni oggetti pervenuti all’antica pieve graquelle con i volti di San Pietro e zie a due artisti nati in quest’aSan Paolo, eseguite da Domenirea territoriale: Domenico co Pugliani, e quelle coi volti Pugliani (Vaglia 1589-Firenze del Cristo benedicente, di San Gio1658) e Angelo Maria Nardi vanni Evangelista, San Matteo e (Razzo, Vaglia 1584-Madrid San Giacomo dovute al giovane, 1664). ma già stilisticamente autonoProprio nella pieve di San mo Lippi. Il confronto tra le Pietro venne battezzato nel pitture, unite da datazione, 1589 Domenico Pugliani che committenza e tipologia, è divenne poi, dopo l’apprendiquanto mai interessante per stato con Matteo Rosselli, uno comprendere come nello stesdei pittori che contribuirono al so contesto i modi dell’espresrinnovamento del patrimonio sività pittorica possano figurativo delle chiese fiorencomunque differenziarsi e tine, ricevendo commesse variare. Osservando le pitture, anche da componenti della si potranno notare le pennellafamiglia granducale. Il Pugliani rimase comunque legato alla I. Domenico Pugliani, San Pietro, olio su te veloci e toccate da luci fredtela, 1628 ca., pieve di San Pietro a de del Pugliani (Fig. I) e conpropria terra d’origine, poiché Vaglia. frontarle coi modi pittorici del risulta, insieme ai familiari, iscritto alla compagnia della Madonna della Lippi, basati sulla fermezza di un disegno che si Neve, un sodalizio di laici che si riuniva in un ammorbidisce in sfumati e cromie modulate (Fig. oratorio annesso alla pieve di San Pietro a Vaglia. II; si veda SIMARI 1999). Non si può non menzionare inoltre un’altra Nel 1628 la compagnia commissionò appunto al Pugliani tredici dipinti con le figure del Cristo e opera che il Pugliani eseguì per la pieve di San dei dodici apostoli, per ornare l’ambiente dell’ora- Pietro, questa volta per la compagnia della torio della Madonna della Neve. Le vicende di Madonna del Rosario: una croce processionale, queste opere, sin dalla loro committenza e data- dipinta coi Misteri del Rosario, anch’essa riconosciuzione, sono state ricostruite da Riccardo Spinelli ta e pubblicata da Riccardo Spinelli.
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II. Lorenzo Lippi, San Giacomo, olio su tela, 1628 ca., pieve di San Pietro a Vaglia.
Nella pieve di San Pietro a Vaglia si custodiscono infine altri due oggetti che meritano attenzione. Ricordo dunque un cassone di pregevole fattura, conservato in sagrestia, inviato nel 1647 da Madrid da parte di Angelo Maria Nardi da Razzo, pittore nativo di Vaglia che lungamente lavorò alla corte di Filippo IV di Spagna. Il cassone, foderato in lamina di ferro e decorato da numerose borchie, conteneva argenterie, parati e un raffinato reliquiario ligneo, tutti inviati in dono alla pieve. Il reliquiario donato dal Nardi è appunto il secondo oggetto che vorrei segnalare: si tratta d’una raffinata piccola struttura architettonica in ebano, ornata da colonne scanalate, sormontata da timpano (quasi il modello della facciata d’una
III. Reliquiario della Santa Croce, ebano e bronzo, probabilmente di manifattura spagnola del XVII secolo, ornato da un piccolo San Francesco dipinto su rame da Angelo Maria Nardi, pieve di San Pietro a Vaglia.
chiesa) e arricchita da figure in bronzo dorato e da un piccolo dipinto su rame del Nardi stesso con la figura di San Francesco (Fig. III). Questo elegante manufatto custodisce una reliquia della santa Croce e un frammento di pergamena con la firma autografa di Santa Teresa di Avila. Un oggetto, dunque, di particolare rarità e interesse per il suo significato devozionale, per la qualità della sua fattura ed anche perché conserva una piccola testimonianza pittorica dell’artista nativo di Vaglia, Angelo Nardi, che trovò fortuna in Spagna. Maria Matilde Simari
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Percorrendo il viale di circonvallazione a nord di Borgo San Lorenzo, è visibile dalla strada un piccolo oratorio dedicato a san Biagio posto nei pressi della villa appartenuta ai Falcucci da Collina, oggi adibita a residenza protetta dell’Azienda Sanitaria. L’edificio è raggiungibile attraverso la via intitolata a questa famiglia, originaria del Mugello, che era proprietaria nella zona di numerosi possedimenti e aveva fondato piccole chiese e legati. La cappella – edificata nel 1627 per volontà di Pellegrino di Francesco Falcucci, nato a Borgo il 18 settembre 1580 – è a pianta rettangolare quasi quadrata, con copertura a padiglione e tre finestre a grata riquadrate in pietra serena sul lato frontale. Sulla porta di accesso, sormontata da un timpano spezzato al centro del quale si trova il simbolo eucaristico, si legge l’iscrizione commemorativa di san Biagio. Si riprendeva con la costruzione dell’oratorio di Borgo una consuetudine celebrativa del santo protettore della famiglia che era stata inaugurata nel 1408 dal medico fiorentino Niccolò Falcucci, con l’erezione nel duomo fiorentino di un tabernacolo dedicato appunto a san Biagio. Le pitture murali dell’interno della cappella di Borgo sono una testimonianza, rara per l’area mugellana, di un ciclo pittorico di scuola fiorentina della prima metà del secolo XVII, recuperato solo parzialmente, per le irrimediabili lacune causate dallo stato di abbandono dell’edificio, grazie a un intervento effettuato con fondi statali (Figg. Ia-b). L’orditura decorativa della volta, in parte ripristinata, è costituita da quindici riquadri dai sog-
getti solo in parte identificabili. Nella fascia centrale sono la rappresentazione del miracolo per il quale san Biagio libera un bambino dalla spina di pesce che gli si è conficcata in gola e quella della gloria del santo. Ai primi del Novecento era ancora leggibile l’altra scena, con il santo inginocchiato in mezzo al lago, mentre intorno a lui i soldati vi morivano affogati. I riquadri dipinti alla base della volta, sui due lati, sono pressoché integralmente conservati. Sul lato a sinistra di chi entra si vedono il santo seduto nei pressi di una grotta in familiarità con gli animali selvatici, quindi legato a una colonna e scarnificato mediante pettini di ferro e poi in procinto di camminare sul lago verso il quale lo spingono i soldati (Figg. IIa-c). Sul lato opposto il santo è raffigurato mentre i soldati lo battono a colpi di verga dinanzi all’imperatore, mentre viene condotto verso la prigione, con il corpo sanguinante e seguito da figure femminili tra cui alcune religiose, quindi decapitato (Figg. IIIa-c). Sulla parete di fondo sono rappresentati: nella lunetta in alto la Gloria di Dio Padre, con san Domenico e san Francesco a fianco. Al di sotto sono un santo pellegrino con un libro in mano e sant’Antonio abate. All’interno della scarsella sono santa Maria Maddalena col vaso dei balsami (Fig. IV) e santa Margherita recante in mano la croce mediante la quale ha abbattuto il demonio in forma di drago posto ai suoi piedi (Fig. V). Sulla parete opposta, corrispondente all’ingresso, sono raffigurate le sante Agata e Cristina, ambedue connotate con la palma del martirio e la tenaglia. L’imbotte della finestra è decorata con motivi ornamentali costituiti da vasi di fiori e fogliami con uccelli. Al centro è dipinto, in un clipeo, uno stemma partito, recante le insegne
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LA CAPPELLA DI VILLA FALCUCCI A B ORGO SAN LORENZO
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Ia. Particolare della volta della cappella di villa Falcucci a Borgo San Lorenzo. Affreschi di scuola fiorentina (ambito di Matteo Rosselli) con Storie della vita di san Biagio, 1627.
araldiche dei Falcucci, d’oro alle fasce ondate d’azzurro, e degli Antellesi, d’argento allo scaglione di rosso. A questa famiglia apparteneva Margherita, figlia di Guglielmo, divenuta nel 1621 moglie di Pellegrino Falcucci, cui è collegabile con tutta probabilità la presenza nella cappella della raffigurazione della santa omonima. Particolarmente nei riquadri dipinti sulla volta, gli aspetti comunicativi propri della religiosità posttridentina sono esaltati grazie a una capacità narrativa che punta ora su accurate notazioni paesaggistiche, come nella scena del santo nella spelonca, ora sulle precise individuazioni degli abiti e delle acconciature dell’epoca, ora sulla scena urbana, come nella descrizione
della strada con i suoi palazzi nella scena della decapitazione. Sia il gusto ornativo espresso nelle cornici variate dei riquadri a finto stucco e oro, con decori a volute ed erme o con putti, sia il tratto franco nel delineare le figure, richiamano i caratteri propri della scuola di Matteo Rosselli, così come erano stati espressi nel corso degli anni Venti del Seicento a Firenze nei cicli affrescati del Casino di San Marco e della villa del Poggio Imperiale. Il legame con questa cerchia trova del resto conferma nel fatto che sull’altare si trovava in origine una «Madonna Nunziata di mano del Eccell.to Rettore Franc.o Furino» (cfr. ASFi, Rosselli del Turco, 966, «Notizie da conservarsi attenenti
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parete con scarsella
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Ib. Il quadro grafico d’insieme che evidenzia le estese lacune degli affreschi.
ingresso – parete con finestra
alla Famiglia De Falcucci, 1713. Cavate da discorsi fatti dal sig.r Stefano Rosselli»; Archivio Arcivescovile di Firenze [AAFi], Oratori, 1614, 1627). Baldinucci ricorda del resto come il pittore – che sarà dal 1633 priore a Sant’Ansano di Monteaceraia, qualche chilometro a sud di Borgo – avesse eseguito «molte belle opere» sparse per diversi castelli e chiese del Mugello. Alla religiosità propria dei dipinti a carattere sacro di questa fase dell’attività del pittore doveIIa. Scuola fiorentina (ambito di Matteo Rosselli), San Biagio con gli animali (particolare) dalle Storie della vita di san Biagio, affresco, 1627, cappella di villa Falcucci a Borgo San Lorenzo.
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168 IIb. San Biagio alla colonna, scarnificato con i pettini di ferro.
IIc. San Biagio spinto dai soldati verso il lago.
IIIa. San Biagio battuto, dinanzi allâ&#x20AC;&#x2122;imperatore.
IIIb. San Biagio condotto verso la prigione.
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IIIc. San Biagio decapitato.
vano fare da giusta cornice l’eleganza classica e la languida bellezza delle sante Maddalena e Margherita dipinte nella scarsella. Non è poi da escludere che la scelta da parte di Pellegrino Falcucci di commissionare un ciclo pittorico dedicato a Biagio, che era il santo protettore della famiglia, ma era anche ritenuto provvisto di facoltà taumaturgiche, rispecchiasse il particolare clima di crisi presente in quegli anni nel territorio fiorentino per la carestia e le malattie contagiose manifestatesi già prima della peste del 1630. Mirella Branca
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI RISTORI 1903, pp. 264-265
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IV. Scuola fiorentina (ambito di Matteo Rosselli), Santa Maria Maddalena, affresco, 1627, cappella di villa Falcucci a Borgo San Lorenzo.
V. Scuola fiorentina (ambito di Matteo Rosselli), Santa Margherita d’Antiochia, affresco, 1627, cappella di villa Falcucci a Borgo San Lorenzo.
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L’ORATORIO DI SANT’OMOBONO A B ORGO SAN LORENZO Il recente recupero dell’oratorio di Sant’Omobono, chiuso dal 1933 e riaperto nel 2002, costituisce per Borgo San Lorenzo un’importante restituzione che ha presentato non pochi problemi sotto l’aspetto del restauro, data la presenza all’interno di numerose stratificazioni storiche (Figg. I-II).
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II. L’interno dell’oratorio di Sant’Omobono a Borgo San Lorenzo: l’assetto architettonico si deve all’intervento degli anni 1776-1778.
I. L’oratorio di Sant’Omobono a Borgo San Lorenzo: le prime notizie, con dedica alla Natività di Maria, risalgono alla fine del Cinquecento.
La collocazione in questa sede della compagnia di Sant’Omobono – istituita nel secondo decennio del XVIII secolo con dedica al culto del Santissimo Sacramento e soppressa nel 1785 – risale al momento del suo ripristino nel 1792, quando i confratelli ottennero di poter risiedere dove in antico era l’oratorio della Natività di Maria Vergine, detto degli Azzurri. Al culto mariano era quindi in origine legato questo luogo, per la presenza della compagnia dedicata alla Vergine, fondata nell’ottavo decennio del secolo XV, le cui adunanze si svolgevano in un
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spese occorse all’Arcivescovado e per recognizione fatta al Sig. Gaspero Paoletti ingegnere per la relazione col disegno fatto per presentare al Sud.o Arcivescovado» (ASFi, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, f. 1521, fasc. XX, 1, «Natività di Maria detta degli Azzurri del Borgo a San Lorenzo, Quaderno delle spese minute fatte nella chiesa», 4 settembre 1776). Nel corso di questi lavori, il vecchio oratorio veniva trasformato in una chiesa che rispecchia l’impianto attuale dell’edificio, affiancata sul lato destro da un vano più piccolo, non più esistente, adi-
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primo tempo nella locale pieve. Le prime notizie riguardo all’oratorio dedicato a Maria, «amplum et pulchrum», al cui interno stava una tavola con un’antica immagine della Vergine, datano all’ultimo decennio del secolo XVI (dati documentari individuati da Rossella Tarchi). A lavori di radicale trasformazione sotto l’aspetto architettonico, effettuati tra il 1776 e il 1778, si deve l’ampia tribuna su colonne (Fig. III), il cui disegno è dell’architetto granducale Gaspero Maria Paoletti, come risulta da un pagamento effettuato nel 1776 «per rimborso di
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III. Da Gaspero Maria Paoletti, «Prospetto per la nuova tribuna della chiesa della Compagnia della Natività di Maria Vergine detta “degli Azzurri” a Borgo San Lorenzo» (1776), Archivio di Stato di Firenze.
IV. Da Gaspero Maria Paoletti, «Pianta della chiesa e dell’Oratorio della Compagnia della Natività di Maria Vergine detta “degli Azzurri” a Borgo San Lorenzo» (1776), Archivio di Stato di Firenze.
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bito a oratorio (Fig. IV). Il recupero, con l’ultimo restauro, della trasparenza dell’originario stucco bianco e della superficie a finto marmo delle colonne, oltre che delle finiture a oro in foglia dei capitelli, ha restituito all’elegante tribuna il suo originario nitore, di un neoclassicismo dal tono severo. La percezione di insieme dell’oratorio di Sant’Omobono rispecchia interventi appartenenti a epoche diverse. All’apparato decorativo eseguito nel 1850 da Pietro Alessio Chini con la collaborazione di Angiolo Romagnoli si riferiscono le riquadrature geometriche dipinte sulle pareti, poste a delimitare le superfici di fondo in verde chiaro, con motivi di ornato di impronta classicista. In una fase successiva vi sono stati sovrapposti i due altari in pietra, provenienti dalla chiesa di San Francesco e donati nel 1889 dalla famiglia Negrotto Cambiaso, all’interno dei quali sono le tele raffiguranti Sant’Omobono e il Transito di san Giuseppe. I due dipinti sono opera del pittore decoratore Pietro Paolo Colli, presso il quale si era formato il capostipite della famiglia Chini, cui si debbono anche le pitture della copertura a cupola del presbiterio con la raffigurazione dell’Assunzione della Vergine. Gli altri interventi pittorici eseguiti alla metà del secolo XIX sono andati distrutti a causa di un incendio avvenuto nel 1925. In quell’occasione l’edificio ha iniziato a essere connotato in senso novecentesco per opera della manifattura chiniana delle Fornaci di San Lorenzo, che già vi aveva apposto la targa ceramica a ricordo dei caduti della prima guerra mondiale. Si è avuta prima di tutto la sostituzione del soffitto a volta, non più esistente, con una copertura a capriate i cui elementi in laterizio sono caratte-
rizzati dagli ornati geometrici propri di quella fase della produzione chiniana; quindi la realizzazione dei vetri della teca per la scultura in gesso raffigurante il Cristo deposto, al di sotto dell’altare di destra, e della bussola d’ingresso. Il legame della manifattura con l’edificio veniva ulteriormente sancito dal dono delle vetrate, testimonianza della perizia tecnica e della finezza decorativa maturata al suo interno. Le finestre poste sul lato sinistro della navata e del presbiterio rispecchiano, nella scelta di motivi geometrici, il carattere del soffitto. Un’impronta ormai a tutti gli effetti moderna veniva impressa con la collocazione, nella controfacciata al di sopra della cantoria, della vetrata con la Madonna della Pace, reintegrata nei tasselli mancanti con l’ultimo restauro, incluso il marchio delle Fornaci che era andato distrutto. Si tratta di una delle più belle vetrate chiniane, emblematica di un sapiente equilibrio tra motivi desunti dalla tradizione, come il decoro a ovuli della finta cornice, e un gusto ormai pienamente déco, come nel disegno del trono. La resa delle ombre sul bianco della veste e sul volto dà vigore plastico alla composizione, dal carattere severamente sacrale. La Madonna col Bambino in ceramica policroma posta sul monumentale altare maggiore in pietra è di recente fattura. Mirella Branca
Il novecento I chini in Mugello: decorazione, restauro, stile
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el percorrere l’area mugellana, particolarmente la zona intorno a Borgo San Lorenzo, si ha la percezione della speciale presenza di un moderno gusto decorativo, in genere identificato nelle innovazioni introdotte dai Chini ai primi del Novecento, ma la cui origine si radica in un più ampio fenomeno culturale, il cui nodo centrale è dato dall’intreccio tra restauro e decorazione proprio della cultura ottocentesca. Il brano dedicato da Francesco Niccolai, nella sua Guida del Mugello e della Val di Sieve del 1914, agli interventi conservativi che avevano interessato quel territorio agli inizi del secolo ci aiuta a entrare in quel clima, dietro l’accostamento che vi troviamo dei termini «abbellimento» e «restauro». Dopo avere elogiato gli interventi pubblici e quelli dei parroci volti al miglioramento dei monumenti tramite il ripristino dell’architettura primitiva, lo studioso si soffermava su quanto era accaduto in tempi recenti nell’ambito della pittura murale, tesa a rinnovare l’aspetto di antiche chiese: … con tutta una riquadratura e decorazione pittorica, come si è fatto con diverso criterio e bellezza per S. Giovanni Maggiore, S. Giovanni Battista a Vicchio, Santa Maria in Acone, S. Stefano a Grezzano, per non citarne che alcune fra le più recenti. Ché per questo lato il merito di tale rinnovamento risale principalmente a Pietro Alessio Chini di Borgo S. Lorenzo, che già nel terzo decennio del secolo scorso compieva un’opera di rifacimento decorativo a moltissime chiese e cappelle del Mugello.1
I richiami a queste chiese mugellane costituiscono già la traccia per un percorso attraverso fatti iniziati con connotazioni locali e sfociati poi in una vera e propria ‘scuola’ borghigiana, la cui operatività si è estesa nel tempo a tutta l’area circostante. Per intenderne tuttavia il significato, occorre abbandonare il pregiudizio ancora proprio della nostra cultura nei confronti di definizioni come quelle di «riquadratore» od «ornatista», termini percepiti come espressivi di aspetti ‘minori’ dell’arte. Ancora Niccolai, nel richiamare la formazione da autodidatta del capostipite della tradizione decorativa chiniana, ne ricordava l’iniziale tirocinio presso il pittore Pietro Paolo Colli, di cui un esempio pittorico si può cogliere negli affreschi raffiguranti l’Assunzione della Vergine nella cupola del presbiterio dell’oratorio di Sant’Omobono,2 di fronte alla pieve di Borgo San Lorenzo. I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
M IRELLA B RANCA Storica dell’Arte Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici e per il Polo Museale della Città di Firenze
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1. Pietro Alessio Chini, L’Eterno in gloria fra angeli e cherubini, affresco, 1824, oratorio di Santa Maria in Valdastra.
Si trattava di pittori di impronta provinciale, estremi prosecutori della tradizione illusionistica tardobarocca di cui mantenevano gli stilemi, avendone completamente perduto di vista le ragioni culturali e con esiti assai modesti. Si perpetuava tuttavia, in questi termini, l’esercizio della perizia tecnica nel preparare gli intonaci e mescolare le terre propria del buon «affreschista». Quando Pietro Alessio Chini (Borgo San Lorenzo 1800-1876) cominciava a svolgere autonomi lavori di decorazione, si muoveva inizialmente sulla scia della tradizione appresa dal Colli, come si può vedere nell’affresco della cupola dell’oratorio di Santa Maria di Valdastra, raffigurante l’Eterno in gloria fra angeli e cherubini, opera giovanile eseguita nel 1824 (Fig. 1).3 Contemporaneamente, tuttavia, in virtù di un mutamento di gusto stimolato dalle richieste per decorazioni di interni di dimore private, soprattutto nel passaggio alla seconda metà del secolo, si adeguava a una rinnovata tradizione ornatistica, alle cui esigenze avrebbero ottemperato i suoi numerosi figli. Ne sono un esempio gli ambienti da lui decorati a partire dal 1854, insieme al figlio Pio (Borgo San Lorenzo 1839-1910), nella villa Pecori Giraldi, sede oggi del Museo della Manifattura Chini.4 La stessa scelta del repertorio ornamentale fa intendere come si trattasse ancora di una manodopera locale, riguardo alla quale la definizione più adatta sarebbe quella di «esperta in riquadrature architettoniche», come denota l’uso di semplici medaglioni e motivi a monocromo posti al centro dei soffitti e lungo il loro perimetro, con la probabile presenza in origine di una finta zoccolatura. I lavori cui Pietro Alessio si dedicava, cui si sarebbero dedicati anche i figli Leto (Borgo San Lorenzo 1848-1910) o Pio, con suo figlio Dino (Borgo San Lorenzo 18841960), dovevano articolarsi in un’ampia gamma che andava dalla decorazione di facciate con finte bozze e stemmi al restauro di scene teatrali, alle dorature, all’incollaggio di carte alle pareti, all’esecuzione di riquadrature, lavori eseguiti in massima parte per le case della borghesia del luogo. Così è per esempio nella villa Martini Bernardi di Votanidi, a Olmi presso Borgo San Lorenzo, in cui i Chini lavorarono nel 1901, nelle cui stanze figurano sui soffitti semplici partiti decorativi di gusto minuto a motivi floreali. M I RE LLA B RANCA
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In questi termini i numerosi figli di Pietro Alessio si avviavano al mestiere di decoratore, termine che allora spesso coincideva con quello di restauratore. Era questa l’attività esercitata da Dario Chini (Borgo San Lorenzo 1847-1897), penultimo figlio di Pietro Alessio, la cui figura aiuta a intendere il momento di distacco da una tradizione strettamente locale. L’incarico di restauratore di affreschi conferito a Dario, che aveva fatto il proprio apprendistato come pittore decorando gli interni di case private fiorentine, veniva da Luigi Del Moro, direttore dell’ufficio regionale per la conservazione delle belle arti in Toscana, e da Guido Carocci, regio ispettore agli scavi e ai monumenti per la provincia di Firenze. A Luigi Del Moro si deve in particolare il progetto di trasformazione della villa di Striano a Ronta, acquistata nel 1875 dal pittore Michele Gordigiani, improntata a un carattere neorinascimentale rispecchiato anche nei motivi a grottesca delle volte del monumentale loggiato e nel fregio dipinto al di sopra delle colonne del salone, specchio del più colto senso dell’abbellimento proprio dell’architetto-decoratore di formazione accademica, che per gli ornati traeva spunto dalle tavole dei modelli destinati all’architettura. Del Moro e Carocci rientravano tra le prime figure istituzionali nominate nelle varie regioni d’Italia nell’ambito delle riforme promosse negli anni Ottanta del XIX secolo dal giovane Stato unitario, per l’esigenza di salvaguardare le testimonianze figurative presenti nel territorio, la cui identità era ritenuta di importanza primaria per la storia nazionale. Si dava così l’avvio a una moderna coscienza della tutela del patrimonio artistico, impostata su basi teoriche tali da evitare improvvisazioni, in un momento di intenso dibattito sul restauro e la conservazione. In un panorama generale desolante per lo stato di abbandono, soprattutto di chiese e oratori di campagna, si promuoveva l’inventariazione del patrimonio artistico nazionale, con l’aiuto di architetti, disegnatori e ricercatori individuati tra persone di fiducia, così da promuovere lo studio di un monumento o di un’opera d’arte, nella prospettiva del successivo intervento di restauro. Dario, che già quindicenne era a Firenze e faceva il suo apprendistato di pittoredecoratore, era quindi parte di uno staff tecnico e si formava come restauratore sul materiale costituito dalla pittura murale che aveva sottomano, fermando il colore che tendeva a staccarsi, rimuovendo le pesanti patine che offuscavano le tinte, intonando le integrazioni o ritrovando le pitture sotto gli scialbi. Per quanto il ‘riparatore’ ufficiale che accompagnava Guido Carocci nelle sue visite fosse Domenico Fiscali, il nome di Dario compare tuttavia in numerosi interventi di ripristino sia nel capoluogo che in altri luoghi della Toscana. Lavorava parecchio anche in area mugellana, consolidando intonaci, coprendo con tinterelle neutre i graffi e i tratti disegnativi rimasti privi di colore. Spesso era il Carocci stesso a suggerire il nome di questo ‘riparatore’. È quello che è accaduto per il San Cristoforo, affresco oggi staccato (Fig. 2), e per la Madonna col Bambino e santi, dipinta sul muro in forma di tavola d’altare nel Palazzo dei Vicari di Scarperia, lo stesso edificio in cui, nell’intervento sugli stemmi dipinti, lavorerà Gaetano Bianchi, l’altra faccia della medaglia della storia del restauro di queI C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
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2. Rossello di Jacopo Franchi (?), San Cristoforo, affresco staccato, secondo decennio del XV secolo, Palazzo dei Vicari di Scarperia: l’opera fu ‘riparata’ da Dario Chini su incarico di Guido Carocci.
gli anni. La differenza tra i due approcci al restauro è soprattutto in una diversa formazione e di conseguenza in una differente consapevolezza culturale. La buona tecnica era in un certo senso l’anello di congiunzione. Gaetano Bianchi (Firenze 1819-1892), formatosi all’Accademia fiorentina di belle arti, non era soltanto esperto nel restauro degli affreschi, ma ne approfondiva la conoscenza attraverso lo studio delle fonti antiche, ed era cosciente della necessità di documentarsi su di un’opera sotto l’aspetto storico, prima di intraprendere qualsiasi intervento. Gli studi preliminari al restauro degli stemmi dipinti nell’atrio e nell’androne del Palazzo dei Vicari di Scarperia durarono diversi mesi. L’archivio storico delle Gallerie fiorentine documenta del resto, con carteggi relativi alle opere d’arte custodite nei principali monumenti, i viaggi dei restauratori dell’epoca per vedere o studiare, acquistando una perizia sempre maggiore nel trovare il giusto consolidante o nel mescolare le terre. Il sottofondo era un concetto di restauro radicato nel senso della storia proprio dell’Ottocento, indirizzato al recupero del ‘vero’ carattere del documento nella sua interezza, piuttosto che come frammento, prevedendo se necessario rifacimenti e ricostruzioni parziali o totali, e andando talvolta troppo oltre nel voler restituire forza alla cromia, con conseguenti discussioni – già all’epoca – sul limite da porre a questi interventi. Ma per quanto certe volte si finisse col ricoprire o rinforzare parte della pittura originale, con una maggiore attenzione alla percezione dell’insieme che non al rispetto della patina, si riparava tuttavia così ai guasti del tempo. Contemporaneamente, si determinava in chi operava in questo settore un’esigenza interiorizzata di saper ben disegnare, anche sotto l’aspetto geometrico, cogliendo con l’occhio e con la mano le giuste distanze e i giusti rapporti. L’occhio del restauratore-riparatore si allenava a una particolare visione, nella quale larga parte aveva anche il fattore immaginativo – si pensi alla generale passione per il Medioevo o, nello specifico, agli interventi di Dario e del fratello Leto, nella seconda metà degli anni Ottanta, nella decorazione della villa di Cafaggiolo – ma che lo portava a una straordinaria competenza tecnica nella sua arte. Si tratta quindi di una vicenda nella quale conservazione-decorazione-rifacimento si sono intrecciati fortemente. M I RE LLA B RANCA
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L’altro punto di passaggio è nella formazione di Galileo (Firenze 18731956), figlio del sarto Elio e appartenente quindi alla terza generazione della famiglia Chini. La sua versatilità ne fa un esponente a pieno titolo di un momento culturale già calato nella cultura modernista. La formazione di Galileo è stata completa: praticava le botteghe dei decoratori, a partire da quella dello zio Dario, non conosceva pregiudizi tra arti ‘maggiori’ e ‘minori’, come aveva appreso anche frequentando i corsi della Scuola professionale di Santa Croce,5 mentre imparava il mestiere di pittore alla scuola libera del nudo dell’Accademia di belle arti. Rispetto a quanto era accaduto fino a quel momento nella sua famiglia, Galileo è stato il pittore-decoratore pienamente cosciente degli apporti culturali necessari al suo mestiere. Oltretutto, il sottofondo della sua formazione non aveva più niente di provinciale, ma era calato piuttosto nella Firenze ricca di echi e di presenze internazionali della fine del secolo. Ancora ragazzo, eseguiva rilievi di decorazioni pittoriche nelle case del vecchio centro fiorentino in procinto di essere abbattute, interveniva in restauri di cicli pittorici di chiese importanti come Santa Trinita o Santa Maria Maggiore. I suoi rifacimenti su vecchie tracce denotano una sensibilità nuova, affinata anche attraverso la frequentazione di pittori inclini a rendere l’eco interiore del dato naturale. La questione quindi non era più soltanto quella della capacità manuale, peraltro indispensabile, ma di un’attitudine mentale a tenere nella propria memoria i fatti dell’arte appresi, da quelli ancora ben presenti del Medioevo e del Rinascimento, conosciuti nei loro specifici caratteri e poi reinterpretati, ai motivi naturali stilizzati divenuti familiari attraverso i modelli proposti nelle riviste internazionali sulle quali si formavano i decoratori, come è rispecchiato per esempio nel fregio con i cigni del salone della villa di Valdastra6 (Fig. 3). È il momento della ben nota apertura all’esperienza della ceramica, rispetto alla quale interessano nella nostra ottica due fatti. Da un lato, la terza generazione dei Chini si consorziava. Erano Galileo e i figli di Tito, vale a dire Chino (Borgo San Lorenzo 1870-1957), Augusto (Borgo San Lorenzo 1874-1902) e Guido (Borgo San Lorenzo 1872-1950). Lo sbocco della collaborazione familiare non era più una bottega di decoratori chiamati quando occorreva a ‘rinfrescare’ gli interni delle case della borghesia e della nobiltà di Borgo. Ora si trattava di un’impresa vera e propria, una sorta di ‘marchio di fabbrica’ che raccoglieva premi nelle esposizioni internazionali, che produceva ceramica d’arte per arredi, fregi, facciate. Dall’altro lato, si evidenziava sempre di più come l’ornato, frutto anche della capacità di dare la giusta proporzione a linee e colori, fosse l’elemento unificante. I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
3. Galileo Chini, coppia di fioriere, L’Arte della Ceramica, 1900 ca., maiolica policroma. Museo della Manifattura Chini, Borgo San Lorenzo.
4. La decorazione della villa del Còrniolo, in località Mucciano, presso Borgo San Lorenzo, fu eseguita da Dario Chini nel 1889.
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5. Galileo Chini, San Giorgio che uccide il drago, 1902, villa Pecori Giraldi, Museo della Manifattura Chini, Borgo San Lorenzo.
Era maturata nel frattempo un’altra evoluzione importante che riguardava il senso del colore e nella quale erano con tutta probabilità confluiti fattori diversi: lo sguardo dei pittori sempre più rivolto verso la natura, le ricerche sulla luce proprie della pittura nella seconda metà dell’Ottocento, ma anche, dal momento che parliamo di decorazione, il colore a piatto proprio delle arti industriali. Si può richiamare, per questa fase di fine Ottocento, la decorazione eseguita da Dario Chini nel 18897 nelle stanze della villa del Còrniolo, appartenuta in antico ai Minerbetti e passata ai Torrigiani principi di Scilla (Fig. 4). L’edificio si trova a Mucciano, località che costituisce, nei pressi di Borgo San Lorenzo sulla strada per Ronta, una vera e propria, straordinaria oasi naturale. Sono stemmi dipinti e ornati geometrici. Pertanto si tratta ancora di neomedievalismo araldico, ma c’è nell’insieme, per quel che si può valutare da quanto ancora visibile nel loggiato, un tono di maggiore levità. Nei pressi è la cappella rinascimentale dedicata a san Francesco d’Assisi, con un bell’affresco di ambito botticelliano all’interno, raffigurante la Madonna e santi, che esulerebbe dal nostro itinerario, al quale è tuttavia per certi versi tangente per la presenza tutt’intorno di una decorazione a stampini novecentesca e per il restauro effettuato sulla pittura quattrocentesca, tale da connotarlo anche in senso moderno.8 Più in generale, si può dire che, nel passaggio ai primi del nuovo secolo, i Chini decoratori per un verso proseguivano tradizioni già sperimentate, per un altro si aprivano a nuove esperienze, stimolate dall’apertura a un panorama più ampio, soprattutto per la presenza di Galileo. C’era la logica decorativa, diversa da quella della pittura da cavalletto, per la quale si ragionava inventando su modelli e tenendo ben presenti anche le esigenze dei committenti o i caratteri originari degli edifici sui quali si interveniva. Proprio l’attività di Galileo a Borgo, nel passaggio al Novecento, aiuta a intendere meglio questo aspetto. Si pensi alla cosiddetta «sala araldica» della villa Pecori Giraldi, il cui apparato decorativo novecentesco è da porsi entro il primo decennio del secolo, prima ad opera di Leto, poi di Galileo. A stemmi più antichi e ad interpretazioni moderne di stemmi torneari a tacca, con cimieri e lambrecchini, sono accostati una targa sostenuta da putti, evidentemente derivati dai «modelli d’arte decorativa», e soprattutto il bel san Giorgio (Fig. 5). I richiami preraffaelliti, particolarmente nella scena rappresentata in secondo piano, vanno ricercati soprattutto nella conoscenza da parte dell’artista delle tavole illustrate di periodici inglesi come «The Studio», da lui prese del resto a modello per le illustrazioni di testi poetici pubblicati sul periodico «Fiammetta» nel 1896.9 Erano gli anni della costituzione della manifattura di Fontebuoni, mentre L’Arte della Ceramica andava in liquidazione, della direzione tecnica di Chino, dell’approfonM I RE LLA B RANCA
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6a-b. Galileo Chini, Anziani e orfani in preghiera davanti alla Sacra Famiglia, 1903, ceramica e affresco, cappella dell’Istituto per orfani di Borgo San Lorenzo. Ricostruzione dell’insieme.
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dimento delle ricerche sui lustri metallici e sul grès. Sotto l’aspetto dell’ornato, si accentuavano i richiami agli aspetti più geometrici del modernismo, particolarmente a quelli propri della scuola di Glasgow. Ne risentiva anche la decorazione pittorica, come nel fregio della cosiddetta sala d’armi di villa Pecori Giraldi, sin nella scelta di una cromia che richiama quella propria delle terre ed è vicina al gusto della produzione ceramica del periodo mugellano. Si poteva creare anche una curiosa commistione tra pittura e ceramica, come nella cappella dell’ex-Istituto per orfani, oggi scuola professionale Chino Chini, inaugurato nel 1903 a Borgo. Il concentrarsi, a partire da questo momento, degli interventi chiniani entro la cittadina rispecchiava anche un cambiamento sotto l’aspetto urbano, per via della realizzazione, a partire dagli anni Novanta, dei collegamenti ferroviari tra Toscana e Romagna, con la stazione di Borgo posta nella direzione di Luco e la conseguente espansione della cittadina verso nord, in base a un piano regolatore che, oltre a tracciare la strada di accesso alla stazione, disegnava un vero e proprio ampliamento urbano.10 Il ritrovamento, recentemente concluso, dell’apparato pittorico dell’ambiente che ospitava la cappella dell’ex-Istituto per orfani (Figg. 6a-c), occultato da uno scialbo, restituisce a Borgo un intervento di Galileo di speciale importanza per la ricostruzione della sua attività di primo Novecento.11 La decorazione si estende all’intero ambiente: dal soffitto reso in azzurro come un cielo stellato, con intorno un fregio a motivi floreali, al fulcro costituito dalla scena raffigurata sulla parete di fondo, un tempo immediatamente visibile dalla porta d’ingresso sulla strada. Ceramica e pittura contribuiscono in maniera paritetica a determinare un clima di patetismo perfettamente consono all’atmosfera di quegli anni, con esiti vicini a quelli raggiunti nello stesso periodo da Galileo nelle Rimembranze garibaldine, dipinto su di una parete del dormitorio riservato ai reduci delle battaglie per l’indipendenza I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
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nella Pia Casa di lavoro fiorentina di Montedomini.12 Al vecchio garibaldino appoggiato al suo bastone che fa lì da cardine tra la rappresentazione della camerata e la visione delle antiche battaglie, subentra qui la figura di vecchio a destra, vero e proprio ritratto del san Giuseppe della Sacra Famiglia resa al centro in maiolica policroma. L’uso delle due diverse tecniche evidenzia come l’aspetto sacro espresso nel tabernacolo e quello terreno degli orfani e dei vecchi in preghiera siano da porre su due piani diversi, unificati tuttavia sotto l’aspetto dello stile da un’interpretazione di impronta simbolista, con echi morrisiani nella Sacra Famiglia e richiami a Previati e Nomellini nella rappresentazione delle figure ai lati dell’edicola contro un fondo naturalistico dalle nuvole in origine dorate. Si tratta davvero di una rara testimonianza dei ragionamenti fatti da Galileo in quegli anni, sia sulle possibilità date dalla maiolica policroma, nella fattispecie una delle ultime realizzazioni della manifattura L’Arte della Ceramica, sia sulla rappresentazione pittorica, tra pittura da cavalletto e decorazione murale.13 Quando, tre anni dopo, Galileo dipingeva a tempera il catino absidale della pieve di Borgo San Lorenzo raffigurandovi Cristo benedicente in trono tra i santi Lorenzo e Martino (vedi figura 40 a pagina 67), rifletteva sul carattere primitivo della chiesa recuperando aspetti dell’arte altomedievale, non solo nella resa dei panneggi con contrasti marcati che richiamano le antiche lumeggiature, ma anche nello scarto di proporzione tra i santi e il Redentore, collocato nella mandorla come il Cristo in maestà nell’altare di Ratchis a Cividale. La sensibilità nell’interpretazione era però tutta moderna, particolarmente nei volti dei santi e nella fascia decorativa, memore dei motivi simbolici propri dell’arte romanica, ma con ornati geometrici affini a quelli presenti nelle coeve piastrelle chiniane destinate a fregi architettonici. A unificare questi interventi, apparentemente così diversi tra loro, era la capacità immaginifica dell’artista, capace di travalicare il modello per trasporlo in una sorta di simbolismo magico, tendendo sempre di più a ‘inventare’. Il 1906 era l’anno in cui Galileo e i cugini Chino e Pietro (Borgo San Lorenzo 1876-1952) aprivano a Borgo la Manifattura Fornaci di San Lorenzo. Galileo aveva alle spalle imprese importanti come quelle della decorazione del salone della Cassa di Risparmio di Pistoia. L’anno successivo le Fornaci realizzarono il pavimento in grès policromo per la «sala del sogno» alla Biennale di Venezia del 1907. Il ritorno in Mugello avveniva con molti allori alle spalle e con la prospettiva di aprire un’impresa di ben altri orizzonti rispetto a quella delle origini, intensificando oltretutto i propri interventi nel centro della cittadina in via di trasformazione. A questa fase appartengono i primi contributi decorativi, nella nuova sede della confraternita della Misericordia di Borgo San Lorenzo, da parte dei Chini, che vi lavoreranno per un arco di tempo che giunge sino all’inizio degli anni Trenta. Per primo vi interviene lo stesso Galileo, con la pittura della Madonna col Bambino nel catino absidale, le vetrate e la lunetta con il Cristo in pietà, disegnata ed eseguita in maiolica policroma, per la facciata dell’oratorio della confraternita, ampliato e inaugurato nel 1908 (Fig. 7). Il suo ‘segno’ è sempre più riconoscibile per una maniera più ‘grande’, che coinvolge anche la resa degli ornati, imprimendo sacralità alla vigorosa figura del Cristo. M I RE LLA B RANCA
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La produzione ceramica delle Fornaci, estesa ora anche a copie da robbiane o da busti di Donatello e Desiderio da Settignano, si allarga sempre più alla decorazione degli edifici, in concorrenza con la pittura, rispetto alla quale ha il vantaggio di un cromatismo lucente e duraturo. I manufatti chiniani in materiale ceramico connotano sempre di più il territorio circostante, diventando prototipi da riproporre, talora con varianti. Così, una più corsiva interpretazione del Cristo in pietà, tema molto in uso anche nelle cappelle cimiteriali, è nella lunetta della facciata della chiesa di San Michele a Lumena, nel territorio di Scarperia, ben lontano dalla tensione calligrafica del Cristo di Galileo. Era proprio soprattutto di Chino l’interesse per il settore vetrario, al quale le Fornaci si dedicarono con manufatti a soggetto sacro o araldico che riprendevano i motivi della tradizione.14 È il caso delle belle vetrate della pieve di San Giovanni Maggiore,15 ove è evidente soprattutto la finezza nel reinterpretare i motivi rinascimentali negli ornati delle cornici, con esiti qualitativamente paragonabili a quelli raggiunti da Leonardo Mossmeyer in vetrate fiorentine di primo Novecento. I Chini, con la versatilità della loro impresa, si prestavano a interpretare egregiamente le richieste di famiglie della borghesia o della nobiltà che intendevano abbellire villini di recente costruzione nell’area circostante Borgo. È il caso di villa La Quiete a Mucciano, edificata dalla famiglia Ruffo di Calabria, elegante edificio espressivo dei canoni della più dignitosa edilizia dell’epoca, impostata all’esterno su di un bilanciato rapporto tra le superfici a bugnato e quelle in rosso mattone incise a graffito. La decorazione dell’interno rispecchia un accorto equilibrio tra Medioevo e Liberty: dal finto velario della sala, nello stile della sala dei pappagalli in palazzo Davanzati,16 con il camino rivestito internamente di piastrelle ceramiche recanti le conchiglie dello stemma di famiglia, ai semplici ornati geometrici degli altri ambienti, ai decori della boiserie, alla vetrata con motivi floreali. La scritta PARVA DOMUS MAGNA QUIES allude a un vivere in villa ben rispecchiato nell’album sul quale i frequentatori del salotto di casa apponevano la firma, a partire dal 1916, fino al 1945. Tra i primi a firmare, nel luglio 1916, Mary e Bernard Berenson: seguono i membri di famiglie aristocratiche, molte delle quali avevano casa in zona, dai Pecori Giraldi ai Negrotto Cambiaso, da Giulietta Mendelssohn Gordigiani ai Gerini, ai Torrigiani di I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
181 7. Galileo Chini, Cristo in pietà, maiolica policroma, 1908, oratorio della confraternita della Misericordia di Borgo San Lorenzo.
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8. Manifattura Chini, monumento ai caduti di Figliano, Borgo San Lorenzo.
Scilla, ai Guicciardini, ai Rosselli del Turco, a Maria principessa di Piemonte. Alla Manifattura Chini era dedicato largo spazio nelle pagine della Guida del Niccolai relative a Borgo San Lorenzo: vi si elogiava l’industria delle ceramiche e dei vetri artistici, «vanto dei Chini, artisti borghigiani, che in questi ultimi anni hanno saputo dare un maraviglioso sviluppo ad un’arte industriale che in Italia si era ormai da tempo resa inferiore alla sua bella tradizione». Vi si lodavano Galileo, «creatore felicissimo e sempre nuovo a sé stesso di armoniose delicatezze ed eleganze di linee, di motivi, di figurazioni decorative», e per la parte tecnica il cugino Chino Chini, «che con gusto molto d’arte prepara e dirige la produzione nei laboratori e nelle fornaci». Insieme alle decorazioni in maiolica, grès e riflessi metallici originali, si nominavano le vetrate artistiche di stile antico e moderno.17 L’attività di Galileo era sempre più orientata verso la grande pittura murale e i contatti a vasto raggio. I successi riportati alle biennali di Venezia e il soggiorno in Siam nei primi anni Dieci gli avevano fatto acquistare la dimensione di artista di fama internazionale. Permaneva tuttavia in lui il desiderio di materializzare un senso globale dell’arte tale da coinvolgerne tutti gli aspetti. Era questo del resto uno dei miti della cultura di quegli anni. Lo rispecchiava la partecipazione, nel 1910, alla società fiorentina «Arte», indirizzata alla promozione dell’arte applicata per l’arredamento e alla sua estensione all’edilizia.18 Era il sogno che sottendeva al noto manifesto del 1917, Rinnovandoci Rinnoviamo, in cui si auspicava la promozione delle scuole artisticheindustriali, e che lo induceva a credere ancora nella manifattura di famiglia. Intanto i figli di Chino, la quarta generazione, si iscrivevano alla scuola di Santa Croce, per primo Tito (Firenze 1898-Desio 1947), da pittore-decoratore,19 quindi per breve tempo Augusto (Firenze 1904-Borgo San Lorenzo 1998), che studiava da modellatore e sarebbe passato poco dopo all’Accademia, divenendo allievo di Domenico Trentacoste. Nell’area mugellana il terremoto del 1919 recò gravi danni agli edifici. La sede stessa della Manifattura, in quegli anni concentrata sull’impegno per le Terme Berzieri di Salsomaggiore, veniva danneggiata. Il conte Guglielmo Pecori Giraldi incaricava Tito, di cui era stato comandante al fronte, di intervenire con lo zio Pietro nella decorazione di alcune stanze della sua villa, che aveva anch’essa subito danni per il terremoto: ne resta traccia, nella sala araldica, in alcuni nuovi stemmi da lui firmati e caratterizzati da una grafia più marcata. La volontà di commemorare i caduti della prima guerra mondiale forniva ulteriori commissioni alla Manifattura, come quella del monumento di Figliano, presso la chiesa di San Michele, vera e propria stele funeraria, quasi una presenza metafisica in mezzo alla M I RE LLA B RANCA
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campagna, con il bel bassorilievo raffigurante l’angelo della morte, contornato da piastrelle in stile Secessione (Fig. 8). Ormai, più che di decorazione, è opportuno parlare di uno ‘stile’ che si diffondeva tramite i repertori forniti dai periodici. La mancanza di documenti relativi alla fabbrica, perduti coi bombardamenti della seconda guerra mondiale, non consente tuttavia di avere dati più circostanziati sull’ideazione dei lavori. Probabilmente c’era uno schizzo iniziale, che poteva anche essere tracciato da Galileo, poi trasformato in un disegno progettuale in base al quale si elaborava il modello, da riproporre magari più di una volta con qualche variante, come nel caso del pannello maiolicato con San Giovanni Battista nel santuario del Santissimo Crocifisso a Borgo San Lorenzo.20 La svolta stilistica dei primi anni Venti è ben rappresentata nella cappella del Poggiolo alle Salaiole presso Borgo, voluta nel 1923 dalla duchessa Maria Grazioli Lante della Rovere in ricordo dei due figli Vincenzo e Riccardo, caduti in guerra. La decorazione è interamente frutto del lavoro delle Fornaci sotto la direzione di Tito21 – impegnato nella fabbrica con Augusto e con l’altro fratello, il chimico Elio (Firenze 1909-1942) –, la cui direzione artistica della Manifattura verrà sancita nel 1925, per la decisione di Galileo di rinunciarvi. L’esterno della cappella, costituita da un vano rettangolare preceduto da un loggiato, rispecchia il carattere proprio delle facciate dei villini edificati a Borgo nei primi anni Venti, come quello fatto costruire dai Chini, caratterizzati da un generale aspetto policromo dato da motivi decorativi dipinti oppure a graffito o in materiale ceramico. Alle Salaiole prevalgono gli aspetti geometrici presenti anche nella pavimentazione dell’atrio e della cappella stessa. L’insieme, integro anche negli arredi, testimonia la straordinaria perizia e raffinatezza raggiunte dai Chini in tutte le tecniche. Molti elementi della decorazione interna – come il finto cassettonato del soffitto, le formelle polilobate e il velario dipinti, le stazioni della via crucis in maiolica policroma (Fig. 9), decorate in blu su fondo bianco – richiamano modi propri della tradizione. Ma soprattutto le belle vetrate, particolarmente quella della parete di fondo con la Vergine tra i santi Vincenzo Ferreri e Riccardo, rispondono a esigenze rinnovate (Fig. 10). L’impostazione ieratica della figura della Madonna determina un clima severo, vicino a quello proprio dei sacrari dell’epoca dedicati ai caduti della grande guerra,22 con qualche affinità con la vetrata dell’oratorio borghigiano di Sant’Omobono, raffigurante la Madonna della Pace eseguita nel 1925 (Fig. 11). In ambedue i casi è evidente quanto la resa sintetica della forma, propria del gusto déco, potesse coesistere in maniera armonica con decorazioni neorinascimentali e ben si adattasse ad ambienti d’impianto antico, in Sant’Omobono con un’efficacia ancora maggiore, dovuta soprattutto all’uso della grisaille e del giallo d’argento per la resa delle ombre sulle superfici chiare. I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
9. Tito Chini, particolare di una formella in ceramica della via crucis nella cappella del Poggiolo alle Salaiole, 1923.
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184 10. (Sopra) Tito Chini, La Vergine tra i santi Vincenzo Ferreri e Riccardo, 1923, vetrata della cappella del Poggiolo alle Salaiole.
11. (In alto a destra) Manifattura Chini, Madonna della Pace, 1925, vetrata dell’oratorio di Sant’Omobono a Borgo San Lorenzo.
Francesco Niccolai23 si univa agli elogi unanimi nei confronti dei Chini per quanto avevano presentato all’Exposition des Arts Décoratifs di Parigi – dove avevano eseguito tra l’altro l’intera decorazione del padiglione italiano – e alla seconda Biennale di Monza, ambedue del 1925. Nei pezzi esposti risaltavano il gusto austero della decorazione, il disegno netto, la colorazione sobria, l’aspetto iridescente degli smalti. Quando dunque Tito si accingeva a decorare il nuovo appartamento dei marchesi Gerini nella loro villa tardocinquecentesca delle Maschere, presso Barberino di Mugello,24 aveva appena respirato un’aria nuova. Aveva probabilmente visto a Monza i decori dei piatti disegnati da Guido Andloviz per la Società ceramica italiana di Laveno, o quelli delle ciste decorate da Gio Ponti, che poi era a Doccia e gravitava anche intorno alla rinnovata Scuola d’arte fiorentina di Porta Romana. Si aspirava in generale, in questo momento, a una moderna stilizzazione delle forme, alla ricerca di una ‘grazia’ ispirata alle porcellane e più in generale ai repertori decorativi settecenteschi. Da qui il tono brioso e agreste impresso da Tito ai decori previsti per le stanze delle Maschere – di cui solo il bagno sarebbe stato realizzato – probabilmente anche dietro stimoli dati dall’apparato decorativo della villa stessa. Proseguivano intanto le commissioni per opere ceramiche in prevalenza a carattere sacro. Poteva trattarsi di interi rivestimenti pittorici e ceramici di piccole architetture, come l’edicola a fianco della pieve, edificata nel 1925 per celebrare il settimo centenario della morte di san Francesco. Poteva essere un progetto più ampio e articolato, come nel caso dei manufatti vetrari e ceramici eseguiti per il cenacolo del terzo ordine francescano, M I RE LLA B RANCA
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12. (A sinistra) elementi decorativi disegnati per la realizzazione di vetrate, da una pubblicitĂ delle Manifatture Fornaci San Lorenzo.
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13. Tito Chini, San Lorenzo e san Martino con la veduta di Borgo San Lorenzo, affresco nel municipio di Borgo San Lorenzo, 1931. I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
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14. Il lucernario del municipio di Borgo San Lorenzo, opera di Tito Chini, 1931.
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dove spicca un imponente pulpito neorinascimentale in maiolica policroma. Oppure poteva essere richiesta una decorazione per una chiesa antica, come nel caso della lunetta maiolicata con l’Assunta, nella facciata di Santa Maria a Pulicciano, dove il ritorno a modelli più tradizionali, per quanto interpretati in chiave moderna, sembra frutto di una riflessione sulla bellezza delle opere d’arte custodite nella chiesa. Ma il progetto più complesso e unitario di questi anni è la realizzazione del nuovo municipio di Borgo San Lorenzo, iniziato nel 1926, inaugurato nel 1931 e completato nel 1936. L’intero apparato decorativo, inclusi gli arredi, è opera di Tito Chini ed è integralmente conservato (Fig. 14). Il recupero di stilemi neomedievali negli aspetti figurativi della decorazione, come nella rappresentazione dei santi Lorenzo e Martino con la veduta ideale di Borgo (Fig. 13), ha ormai un’impronta modernamente severa, specchio della consapevole volontà di riaffermazione delle tradizioni locali, fondamento di un concetto di nazione prossimo a sfociare in aspetti più accentuatamente nazionalistici, rispecchiato anche nel ciclo pittorico eseguito da Galileo alla fine degli anni Venti nel pisano palazzo Vincenti, celebrativo della storia della città.
15. La stanza del sindaco nel municipio di Borgo San Lorenzo, decorata da Tito Chini, 1931: nel pavimento l’immagine in maiolica di San Lorenzo. M I RE LLA B RANCA
il novecento
Ma soprattutto l’apparato decorativo straordinariamente coerente del municipio denota il passaggio a una concezione di impronta più classica che ne esalta il carattere austero, adatto alla sede del potere comunale, sottolineato anche dall’uso di una cromia nei toni dell’ocra o del rosso mattone e dalla prevalenza di motivi geometrici. La perizia tecnica chiniana si esprime in tutti i dettagli e particolarmente nei bellissimi velari e nel pavimento della stanza del sindaco, celebrativa delle glorie di Borgo, con l’immagine in maiolica a fondo azzurro di san Lorenzo posta al centro di un commesso di piastrelle ceramiche di memoria cosmatesca (Fig. 15). La logica architettonica mutava tuttavia radicalmente in quegli anni, bandendo com’è noto gli ornati ed esaltando semmai i rivestimenti in marmi di pregio. L’uso della decorazione pittorica era ora riservato agli interni, con soggetti sempre più rappresentativi dei miti dell’epoca. Unico esempio di una svolta della Manifattura in questo senso è la bella aquila in ceramica a lustro metallico che decora la facciata dell’excasa del fascio di Borgo, oggi caserma dei carabinieri, inaugurata nel 1930.25 Il bassorilievo, inquadrato dallo strombo della nicchia, decorato anch’esso in ceramica, si pone come un nitido elemento geometrico strettamente correlato con l’architettura. Restava comunque alta, nel corso di tutti gli anni Trenta, la qualità dei manufatti chiniani. Si pensi alla bella vetrata con il Cristo Re nell’oculo della facciata della chiesa di Santa Maria a Olmi, o alla Pietà in terracotta invetriata modellata da Guido Calori e realizzata dalle Fornaci nel 1939, inserita in una grotta artificiale presso l’ingresso del convento dei Cappuccini (Fig. 16). Veniva a mancare tuttavia la consapevolezza di un cambiamento in atto, mentre diventava contemporaneamente sempre più difficile, sotto l’aspetto commerciale, vendere prodotti che, in quanto a carattere artistico, avevano alti costi. Il fenomeno si sarebbe accentuato nel secondo dopoguerra, toccando particolarmente il mestiere stesso del decoratore di architettura, per le minori richieste legate non solo al cambiamento del gusto, ma anche a un concetto più rigorosamente filologico del restauro, per il quale sempre di meno sarebbe stata coltivata la capacità manuale di reintegrare le superfici pittoriche. Dopo i danni subiti dalla fabbrica per i bombardamenti, era Augusto a proseguire il mestiere di famiglia, ripristinando uno degli impianti e riprendendo la produzione in mezzo a mille difficoltà, risolte con l’acquisto della Manifattura nel 1957 da parte di Franco Pecchioli. Veniva così mantenuta la vecchia sede delle Fornaci di San Lorenzo I C H I N I I N M U G E L L O : D E C O R A Z I O N E , R E S TA U R O , S T I L E
187 16. Manifattura Chini, Pietà, terracotta invetriata, 1939, convento di San Carlo dei Cappuccini, Borgo San Lorenzo.
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e confermata la direzione ad Augusto, cui sarebbe succeduto il figlio Vieri, con una produzione di ceramica d’arte ormai in gran parte destinata ad arredare gli interni. In un’intervista ad Augusto Chini del 1996, due anni prima della morte,26 l’anziano modellatore diceva: «Io, quando ci ripenso, sono entrato nel ’25 tra’ cocci e son sempre qui». I termini da lui più usati erano: «il lato decorativo» e «un lavoro artigianale». C’era poi il ricordo del genio di Galileo, così duttile e unico. Ma il confronto tra due mondi era soprattutto ben reso dal racconto della propria insofferenza verso l’insegnamento di Libero Andreotti, che cercava di convincerlo a disegnare diversamente le composizioni di oggetti che gli metteva davanti, dandogli come riferimento disegni fatti da altri che ad Augusto parevano scarabocchi. Poi il maestro si arrendeva, dicendogli: «Eh già, te tu sei un Chini…».
188 B IBLIOGRAFIA ESSENZIALE N ICCOLAI 1914; N ICCOLAI 1925; Ceramica Chini 1982; Chini Manifattura Mugellana 1993; MARTELLACCI 1993; M ARTELLACCI 1996; B IETOLETTI 1994; C HINI VELAN 2002; C IAPPI 2002
NOTE 1
N ICCOLAI 1914, p. 214. Per l’oratorio di Sant’Omobono, si veda supra alle pp. 170-172. 3 Per notizie in merito, cfr. la scheda redatta da Vera Silvani in Chini Manifattura Mugellana 1993, pp. 100-101. A questo testo in particolare rimando per dati più dettagliati riguardo agli altri edifici facenti parte dell’itinerario liberty a Borgo San Lorenzo. 4 L’intero apparato decorativo della villa, oggi sede del Museo della Manifattura Chini, è stato sottoposto in anni recenti a un capillare restauro le cui scelte si sono basate sul criterio del mantenimento di motivi di ornato anche estremamente semplici, nell’intento 2
di conservare testimonianza di quanto eseguito da varie generazioni della famiglia Chini. 5 Galileo Chini si era iscritto una prima volta nel 1885 alla Scuola professionale delle Arti decorative e industriali di Firenze, che aveva sede nell’ex-convento di Santa Croce, frequentandone poi i corsi negli anni 1887-1888 e 1888-89. 6 Il richiamo ai modelli ha, come è noto, determinato la diffusione capillare di uno stile non sempre identificabile nella ‘scuola’ chiniana, anche per quanto riguarda la Toscana. Per esempio, a un gusto più genericamente liberty ritengo che vadano riportate le decorazioni con festoni di una stanza di palazzo Torriani a Marradi, più vicine all’interpretazione propria della ‘scuola emiliana’. Non mancavano del resto le contaminazioni. Dall’Emilia veniva Giacomo Lolli, insegnante di ornato della scuola di Santa Croce negli anni in cui era frequentata da Tito Chini. 7 Cfr. N ICCOLAI 1914, p. 487. Vedi anche Chini Manifattura Mugellana 1993, p. 89. 8 Un’iscrizione posta all’interno, al di sopra della parete d’ingresso, ricorda i restauri promossi nel 1924 dalla famiglia Torrigiani.
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È documentato il restauro eseguito da Tito Chini di quest’affresco dopo il terremoto, con il rifacimento dello sfondo. Cfr. Chini Manifattura Mugellana 1993, p. 80. 10 In proposito cfr. MARTELLACCI 1993, pp. 37-46; MARTELLACCI 1996, pp. 164-170. 11 Ringrazio Anna Bisceglia, sotto la cui direzione è stato effettuato il ritrovamento della pittura scialbata dell’intero ambiente, e il restauratore Simone Vettori, per avermi consentito di vedere la pittura nel corso dei lavori. 12 Cfr. BRANCA 2000, in particolare le pagine 231 e 238. 13 Ci si augura che più accorte valutazioni inducano a restituire all’insieme la sua integrità riportando la ceramica, incautamente rimossa e collocata nell’oratorio di Sant’Omobono, nel suo luogo originario, recuperabile come ulteriore tappa dell’itinerario del Liberty in Mugello. 14 Per questo aspetto della produzione della Manifattura, cfr. in particolare CIAPPI 2002. 15 All’apparato decorativo della chiesa hanno lavorato sia Pietro Alessio, negli anni Quaranta dell’Ottocento, sia, nel 1912, Dino Chini (Borgo San Lorenzo 1884-1960), figlio di Pio. 16 Come in una vetrata disegnata da Galileo. Cfr. C IAPPI 2005. 17 Cfr. N ICCOLAI 1914, pp. 425-426. 18 Dell’associazione, che aveva un’esposizione permanente delle produzioni artistiche dei soci in via Martelli a Firenze, erano parte, come è noto, il cugino Chino, il pittore Salvino Tofanari, il decoratore Ugo Fioravanti e l’architetto Adolfo Coppedè. 19 Tito risulta iscritto come pittore-decoratore al secondo anno del corso elementare nel 1912-13; al
primo anno speciale nel 1913-14; al terzo corso speciale nel 1915-16. Ringrazio Annarita Caputo per avermi fornito questi dati. 20 Di cui esiste un’altra versione in collezione privata, cfr. Ceramica Chini 1982, pp. 12, 29; v. anche Chini Manifattura Mugellana 1993, pp. 76-77. 21 Per l’attività di Tito, cfr. CHINI VELAN 2002. 22 Il tema era particolarmente sentito da Tito, per la sua personale esperienza della guerra. In area mugellana esiste ancora la cappella dei caduti della grande guerra a Palazzuolo sul Senio, a fianco del Palazzo comunale, la cui decorazione pittorica interna, eseguita da Tito, è andata perduta. Per la foto d’epoca, cfr. C HINI VELAN 2002, p. 38. Palazzuolo è, per la storia familiare dei Chini, luogo di attività delle Fornaci. Vi si segnala la presenza di vetrate novecentesche nella chiesa di Santo Stefano, decorata da Dino Chini nei primi anni Quaranta, e in quella di San Pietro, dove di particolare pregio è la vetrata neorinascimentale dell’abside, raffigurante Santo Stefano. 23 Cfr. N ICCOLAI 1925. 24 Numerosi disegni eseguiti per Le Maschere saranno riutilizzati da Tito nel 1932 per le vetrate del villino Ricci Crisolini, oggi hôtel Regency di Firenze. In proposito, vedi BIETOLETTI 1994. 25 L’edificio è stato progettato da Severino Crott, autore anche, a prosecuzione di quanto avviato da Ugo Giusti, del progetto di ampliamento della sede e del cimitero della Misericordia. Della casa del fascio era parte anche il cinematografo, anch’esso decorato da Tito Chini. 26 Rientrava in una serie di interviste fatte da Annarita Caputo e da me ad anziani pittori decoratori, nell’intento di raccogliere testimonianze riguardo a un mondo scomparso.
TE STO D E STRA
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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa maggio 2009