Lungo l'Arno: cultura e ambiente

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Ottavo itinerario

Il Casentino. Territorio, storia e viaggi


Leggende, paesaggi tradizionali, opifici andanti ad acqua: itinerari sull’arno casentinese

itinerario dedicato alla scoperta del patrimonio culturale legato all’Arno ha andamento lineare a seguire il corso del fiume dalla sorgente fino al confine amministrativo del comune di Capolona, ormai in prossimità di Ponte a Buriano. Il percorso, per la ricchezza di emergenze culturali di varia specie e in particolare di archeologia industriale, potrebbe prospettarsi come una sorta di parco culturale, dedicato alla scoperta di ambienti naturali e paesaggi storici costruiti nei millenni dagli uomini che hanno interagito con il fiume utilizzato nell’agricoltura e nell’allevamento, come idrovia, come spazio per il tempo libero e per la produzione di energia, collegata a produzioni subindustriali. Il percorso parte dalle sorgenti del fiume Arno sul Monte Falterona e termina poco prima del leonardesco Ponte a Buriano (che non è Casentino ma ormai Valdarno di Sopra dal punto di vista geografico), lungo l’alto corso dell’Arno alla scoperta di antichi opifici andanti ad acqua, della navigazione dei foderi, di ponti e attraversamenti, di leggende che nei secoli hanno contribuito a rendere il Casentino una terra ricca e collegata economicamente e culturalmente a Firenze. Il viaggio virtuale lungo le sponde dell’Arno permette di scoprire una fascia di Casentino non del tutto conosciuto anche da chi vi abita nelle vicinanze, ma consente anche di fare un salto indietro nei secoli, attraverso la conoscenza di un patrimonio culturale minore che ha mantenuto intatto il proprio fascino e talvolta anche la propria funzionalità, e che potrebbe contribuire, se organizzato in sistema, allo sviluppo del territorio. L’itinerario prosegue “naturalmente” lungo le convalli che confluiscono all’Arno, dove si è conservata una notevole ricchezza di testimonianze architettoniche legate agli opifici andanti ad acqua che ancora oggi sono ben riconoscibili nel tessuto paesaggistico e che, inseriti nell’Ecomuseo del Casentino, sono stati recuperati alla fruizione turistica e in qualche caso anche produttiva: il Mulino Grifoni a Pagliericcio (Castel San Niccolò), il Mulino di Morino (Ortignano Raggiolo), lungo il torrente Salutio il mulino di Bonanno (Castel Focognano), le emergenze riconoscibili lungo l’Archiano. E ancora, a Papiano esistevano gualchiere poi trasformate in cartiere e lungo lo Staggia veniva lavorata la lana per realizzare tessuti. Falciano (Subbiano) conserva un sistema formato da due mulini alimentati da un’unica conserva d’acqua ancora oggi produttivi; nelle vicinanze, alle pendici dell’Alpe di Catenaia, erano attivi un mulino sul torrente Gravenna e uno sul rio Lendra (Subbiano).

L’

Saida Grifoni

L’ARNO CASENTINESE L’Arno, nasce a 1385 metri s.l.m. sull’Appennino tosco-romagnolo, sul versante meridionale del Monte Falterona; ha le caratteristiche


di un torrente di montagna fino a Stia e scorre, torrentizio, scivolando, da nord a sud, tra le propaggini dell’Appennino di Serra e di Catenaia e il massiccio del Pratomagno, fino alla gola di S. Mama, dove lascia il Casentino ed entra nella piana aretina. All’inizio del suo percorso è caratterizzato da paesaggi con morfologia aspra e vegetazione boschiva fitta. Poi sopraggiunge l’alta collina che interessa il segmento casentinese del fiume tra i 500 e i 650 metri s.l.m. Nei tratti dove il fondo è mobile, già a monte a di Stia, l’asta fluviale comincia ad essere regolata da traverse e pescaie. Più a valle incontra paesaggi di bassa collina (con quote comprese tra i 250 metri s.l.m. ed i 450 metri s.l.m.), intervallati da ridotte superfici pianeggianti e rilievi minori, con suoli diversificati nella loro composizione, ma con una diffusa presenza di sabbie e argille, in parte comprendenti vaste formazioni di depositi fluvio-lacustri ed alluvionali. Questi ultimi depositi derivano dal corso arnino risalente al quaternario, epoca nella quale dalla piana aretina scorreva verso la Valdichiana formando il tronco superiore del Tevere. Dopo la stretta di S. Mama l’Arno scorre, tra l’Alpe di Catenaia e il massiccio del Pratomagno, in direzione sud; in località Giovi volge bruscamente a ovest e scorre tra la piana aretina, a est e a sud, e il massiccio del Pratomagno a nord. Durante il Pleistocene inferiore (1,6 milioni – 700.000 mila anni fa) e all’inizio dell’Olocene, il bacino lacustre del Casentino si colmò per interramento, causato dai depositi trasportati dalle acque degli affluenti, e l’Arno formò le pianure alluvionali nella zona di Pratovecchio e Poppi (LAzzERI 1995). Durante il Quaternario l’Arno scorreva verso la piana aretina con poca pendenza per le numerose alluvioni; una volta colmato l’alveo e per la progressiva erosione dello spartiacque tra Pieve a Sietina e Giovi, probabilmente già due milioni di anni fa, ebbe origine la brusca inversione di scorrimento dell’Arno verso il Valdarno Superiore, che scorre “verso il mare in una direzione affatto diversa da quella del maggior numero dei corsi d’acqua che scendono dall’Appennino nel Mediterraneo” (REPETTI, I, p. 116; NATONI 1944, pp. 30-31). La toponomastica e i resti archeologici documentano la frequentazione antica di questo tratto di fiume, che fu punto di riferimento per le comunità umane fin dalla preistoria, quando i gruppi di cacciatori-raccoglitori in transito lungo il Casentino vi cercavano selvaggina e acqua. Ma l’Arno casentinese è stato anche nemico perché nei secoli è dilagato con grande pericolo tanto che già in epoca romana, probabilmente, furono eseguite le prime opere idrauliche connesse con i lavori di bonifica per lo sfruttamento agricolo (Profilo di una valle 1999, p. 75). Nel XIV secolo i documenti attestano che il fiume continuava ad uscire dall’alveo, occupando quasi tutto il fondovalle e rendendo difficile lo sfruttamento agricolo (BENI 1983, p. 39), ed alluvionava le piane casentinesi tanto da ispirare la celebre descrizione della piena in Dante: “Indi la valle, come ’l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento, sì che ’l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde e a’ fossati venne di lei ciò che la terra non sofferse; e come ai rivi grandi si convenne,

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ver’ lo fiume real tanto veloce si ruinò, che nulla la ritenne”. (Purgatorio, V, 115-123)

Fino al XVIII secolo erano i proprietari frontisti ad occuparsi delle opere idrauliche. Poi sono sopravvenute le prime sistemazioni e finalmente il piano organico di sistemazione idraulica degli anni 18161840; tali sistemazioni hanno causato la scomparsa delle numerose isole fluviali, l’aumento della velocità dell’acqua e il peggioramento della situazione idraulica a valle, che comporta ancora oggi una continua manutenzione per la tendenza del fiume a corrodere alveo e sponde (NATONI 1944, pp. VII, 22-23; BIGAzzI 1990, pp. 147-148). L’Arno, fino alla costruzione della barrocciabile del Casentino per la Consuma e Firenze, alla fine degli anni ’80 del Settecento, rappresentò per millenni anche la principale via di trasporto e costituiva un’importante risorsa per la produzione di energia idraulica necessaria agli opifici tessili e per il lavaggio della lana grezza e dei panni di lana.

LA FALTERONA Il viaggio alla scoperta del fiume Arno inizia poco sotto la cima del Monte Falterona (chiamato al femminile “La Falterona”), dove nasce “per l’amore delle tre fonti gentili le quali sanno la forza e gli immensi tesori della montagna” (ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 7), due delle quali in realtà sono i primi due affluenti dell’Arno, l’Arnino e l’Arnaccio. Le sorgenti dell’Arno sono state inserite nel programma comunitario LIFE Natura 1998 grazie al progetto “Riqualificazione ambientale dell’area delle sorgenti dell’Arno” che ha previsto, anche a Capo d’Arno, interventi naturalistici (riqualificazione della zona boscata, mantenimento dei “prati radura”, realizzazione di un Sentiero Natura). Il “fiumicel che nasce in Falterona / E cento miglia di corso nol sazia” (DANTE, Purgatorio, XIV, 15-18), come tutte le sorgenti d’acqua – e di più di fiumi – nel passato era luogo di sacralità: perciò non lontano dalla sorgente d’Arno, fin dal Mesolitico, e in maggior misura in epoca etrusca, sorse un templum naturale, denominato dagli archeologi Lago degli Idoli; la continuità sacrale del luogo proseguì con la fondazione, presso la sorgente dell’Arno, dell’abbazia di San Monte Falterona, la sorgente dell’Arno

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Monte Falterona, La Gorganera

Salvatore a Capo d’Arno (REPETTI, I, p. 225; Santuari Etruschi 2004). Col tempo tale sacralità fece nascere credenze popolari. La tradizione narra che sul Falterona fosse la Gorga Nera, un lago senza fondo e in collegamento con altre montagne o forse anche con il mare, che un giorno diventò simile ad un vulcano e, lanciando colonne di acqua in aria, causò una tremenda alluvione (anche in occasione dell’eccezionale piena del 1966 una parte dei Casentinesi riteneva che l’inondazione fosse causata dalla Gorga Nera). Si racconta poi che nel 1335 una frana sul versante di Castagno d’Andrea intorbidò per due mesi l’Arno e trasportò grandi serpenti. Un’altra leggenda legata alla sorgente del fiume racconta invece di un serpente “lungo sei buone braccia” che emergeva dalla profondità del monte solo dopo lunghi periodi. La Gorganera è oggi uno stagno e potrebbe essere il catino della grande frana del 1335 (MOROzzI I, p. 18; ALINARI, BELTRAMELLI 1909, pp. 4-5; NORCINI 1981, pp. 41-42). Scendendo a valle, sulla strada statale per il passo della Croce ai Mori, si trova il primo ponte che attraversa l’Arno: fu progettato negli anni 1885-1887 e realizzato nel 1910 ad arco ribassato con unica arcata a mattoni; distrutto durante l’ultimo conflitto mondiale, come la maggioranza dei ponti sull’Arno, il ponte attuale è stato ricostruito tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del ’900. Presso il ponte è in funzione una piccola centrale idroelettrica che, tramite una presa d’acqua e una traversa ubicata più a valle presso la confluenza del fosso di Vallucciole, sfrutta le acque dell’Arno e del torrente Gravina che qui confluisce in Arno (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 90).

IL MULINO DI BUCCHIO Percorrendo una valle stretta, dopo una serie di traverse di recente costruzione, l’Arno è attraversato dal ponte del Mulino di Bucchio. Fu distrutto e ricostruito dopo la Seconda Guerra Mondiale e in seguito danneggiato dall’alluvione del 1966.

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Lo storico e geografo Emanuele Repetti descrive come era nel XIX secolo: “Il più vicino alla sorgente, e il più moderno di tutti … costruito nel secolo che corre con piloni di materiale e piano di legno. Esso cavalca l’Arno tre miglia sopra Porciano e giova alla via mulattiera che dalla Falterona conduce per Londa in Val di Sieve” (REPETTI, I, p. 120; ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 12; GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 91). Il ponte è in stretta relazione con il complesso mulino-frantoio del Mulino di Bucchio, il primo mulino sull’Arno. Il binomio attraversamento del fiume-impianto molitorio, nel passato, era irrinunciabile per l’accesso da entrambe le sponde, per mezzo di una barca, di una passerella o di un ponte più o meno elaborato, al rifornimento della preziosa farina e delle altre derrate da macinare. Il complesso del mulino e frantoio è citato dalle fonti documentarie medievali, poiché risulta danneggiato nel 1269 dalle truppe ghibelline impegnate nella distruzione di Castrum Castagrarii. E sin dal medioevo questa zona risulta controllata dai castelli di Porciano e Castel Castagnaio appartenenti alla famiglia dei Guidi ed è segnata dalla presenza di opifici idraulici sull’Arno di proprietà del conte Guido, figlio del signore di Porciano, il conte Tegrimo (REPETTI, I, pp. 287 e 407; ALINARI, BELTRAMELLI 1909, pp. 11-12; GRISOLINI 2005). L’attività molitoria, che era servita nel passato da una pescaia in materiale deperibile (Carta idrografica 1889, pp. 234-235), è rimasta per oltre settecento anni della famiglia Bucchi. Agli inizi del Novecento il mulino funzionava giorno e notte e vi lavoravano solo il mugnaio, un ex garibaldino, e un aiutante; nel 1902 la famiglia Bucchi, sfruttando l’acqua della gora, avviò anche l’allevamento delle trote, destinate ai villeggianti che in estate affollavano Stia, attività che ricevette anche premi dal Ministero dell’Agricoltura negli anni ’30 del ’900. Così il mulino è descritto agli inizi del Novecento “vedemmo un gruppo di case grige, ricoperte di lavagna, occhieggiare fra gli alberi spessi; distinguemmo le caratteristiche scale esterne e le loggette, le piccolissime loggette dove siedon le donne e dove fioriscono i garofaOttavo itinerario

Mulino di Bucchio, impianti per la troticoltura


Mulino di Bucchio, il mulino con le aperture del vano dove è conservato il ritrecine

ni rossi; e in quella tranquillità serena, Mulin di Bucchio ci piacque” (Alinari, Beltramelli 1909, p. 10). Il mulino di Bucchio è stato teatro di episodi legati alla guerra di Resistenza: qui è avvenuto l’eccidio del partigiano Pio Borri catturato in occasione della sua venuta a Bucchio dal Monte Falterona per fare rifornimento di farina. Il complesso molitorio è documentato in uso fino al 1955, e saltuariamente fino al 1960 (per macinare le biade). L’ultimo mugnaio è stato Pietro Bucchi detto “Pietrone”. Il mulino, dopo aver ricevuto, negli anni ’70, la visita di scrittori, giornalisti e della Rai che vi ha realizzato un documentario sulle leggende del Casentino (http://www.comune.stia.ar.it/ turismo/edifici/molin%20di%20bucchio.asp), da alcuni anni, per volontà di un discendente della famiglia Bucchi, è oggetto di interventi di recupero e salvaguardia, finalizzati alla rimessa in funzione degli impianti molitori. E oggi il complesso è una struttura turistico-museale inserita nel percorso dedicato ai mulini dell’Ecomuseo del Casentino e nelle attività del Parco delle Foreste Casentinesi. Fino a Santa Maria delle Grazie continuano le traverse che regimano lo scorrere energico del giovane fiume. Qui il paesaggio non è del tutto diverso da quello che si presentava agli inizi del XX secolo: “la via più piacevole per Santa Maria delle Grazie è, però, quella lungo il fiume, fra incantevoli prati verdi e ciuffi di pioppi dal tronco bianco, con il fresco, veloce scorrere e incresparsi del fiume…” (NOyES 1905, p. 85). E a quell’epoca era ancora attivo il mulino di Molinuzzo, al quale si arrivava per una passerella di legno e che era servito da una “diga costruita con terra e fascine” (Carta idrografica 1889, pp. 234-235).

L’ANTICO PONTE DELLE MOLINA A Le Molina, toponimo che tradisce la presenza di opifici idraulici, sorge il terzo ponte sull’Arno: ricostruito dopo il secondo conflitto mondiale, riprende le forme del ponte realizzato nel 1905 e probabilmente ne riutilizza i piloni originari. Poche centinaia di metri a monte, sulla sponda, coperti dalla vegetazione, e in alveo, sono nascosti i lacerti di un manufatto di pietra e

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di parte di una spalletta in bozze ben squadrate impostate a filaretto interpretabili come i resti di un antico ponte ubicato lungo una deviazione della via Flaminia Minor, che congiungeva il Casentino con il Mugello attraverso Campolombardo e il passo della Consuma, e per questo da alcuni studiosi attribuito all’epoca romana. Nel medioevo questo tracciato viario continuava la “via delle pievi battesimali” (che passava per Socana, Arcena, Buiano, Romena), ma dopo Stia si fa incerto; tuttavia i resti del ponte documentano che qui era l’attraversamento sulla via per il Mugello e Bologna (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, pp. 92-93; Profilo di una valle 1999, p. 136). Il percorso giunge, poco a monte di Stia, al Parco Comunale del Canto alla Rana: è un parco naturale (con impianti sportivi e un’area attrezzata per pic-nic), dove è possibile passeggiare e fare il bagno nelle acque dell’Arno, che qui sono balneabili (Casentino, p. 307).

STIA, TRA ARNO E STAGGIA Si entra a Stia transitando sul ponte sull’Arno, fondato sulla roccia affiorante nel letto del fiume; ricostruito dopo il secondo conflitto mondiale, fin dal medioevo servì come attraversamento per andare al castello di Porciano e fu fattore determinante per lo sviluppo di Stia: era “costruito tutto di pietra con un solo arco che ha una corda arditissima di 37 braccia” (REPETTI, I, p. 120). Era detto “ponte foderino” perché qui, come nella vicina Carpaneta, a valle della confluenza del torrente Vincena, è documentato uno “scivolo per tronchi”, ovvero un attracco fluviale per il trasporto dei foderi che rappresentarono nell’economia casentinese un settore di grande rilevanza (CIPOLLARO, NOTARIANNI 1974, p. 97). Il termine fòdero indicava una sorta di zattera formata da tronchi segati e legati insieme, utilizzata per il trasporto fluviale di legname. Per secoli i tronchi tagliati nelle foreste del Casentino erano squadrati, poi a traino, su apposite tregge, tirate da buoi o a mano, erano condotti attraverso la Via dei legni (oggi recuperata alla fruibilità turistica e del tempo libero) agli attracchi o ai porti sulle rive dell’Arno; qui i tronchi erano accatastati sotto un loggiato per la stagionatura e partivano alla volta di Arezzo, Firenze e Pisa per essere utilizzati come materiale da costruzione o per armare le navi. Stia grazie ai suoi due fiumi, lo Staggia e l’Arno, divenne un centro specializzato nella lavorazione della lana, poiché poteva contare su una produzione di energia idraulica pressoché costante durante l’arco dell’anno. Alla fine del XIX secolo è documentata una “diga costruita con terra e fascine”, di certo connessa con il mulino del “Ponte d’Arno”. Nel XVI secolo sono documentati tiratoi presso la confluenza del torrente Staggia in Arno; nel 1759 è documentata una tintoria, probabilmente la più antica attestazione di opificio laniero a Stia, presso l’Arno lungo la strada “della Tintaccia sotto Borgo Vecchio che va all’Arno”; nel 1844 è documentata anche una funeria; e poi rimane l’odonimo “via della Ferriera” (Carta idrografica 1889, pp. 234-235; DELLA BORDELLA 1984, pp. 62, 73). A valle del paese, dopo il 1839, Carlo Siemoni, ispettore e amministratore della Regia Foresta di Casentino, fece costruire una pescaia in località Maestà del Barba, funzionale ad un mulino posto sull’Arno, alla confluenza del Fosso del Mulino, detto anche mulino dell’Ecceomo (Carta idrografica 1889, pp. 234-235).

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IL PORTO DI BADIA Anche Pratovecchio sfruttò l’energia idraulica nelle attività manifatturiere: sulla riva sinistra dell’Arno, poco a valle del Cassero, presso il Casone Rontani, dove era un attracco fluviale (lì sarebbe sorto il ponte sull’Arno), nel 1454 esistevano una gualchiera e un mulino che funzionavano solo quando l’acqua dell’Arno era in grado di azionare le macchine idrauliche. Il termine gualchiera indica una “Macchina che, mossa per forza d’acqua, pesta e soda il panno” e per estensione “un mulino da acqua destinato a far cadere grossi mazzapicchi sulle stoffe per purgarle d’ogni impurità, o per dar loro in secondo luogo la consistenza del feltro”. La gualcatura, detta anche follatura o sodatura, serviva per dare compattezza, spessore e resistenza ai tessuti, che erano, a questo scopo, imbevuti di soluzioni alcalino-saponose o acide e posti in recipienti di pietra (pile), che alla sommità avevano delle aste terminanti con un pesante martello (Dizionario della lingua italiana, II, p. 847, p. 1231, gualchiera). Un disegno del XVII secolo raffigura la pescaia, descritta alla fine del XIX secolo come “costruita con terra e fascine”, insieme alla gualchiera e al mulino (ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 24). Ancora per buona parte del XIX secolo nel complesso continuava a funzionare il mulino, detto mulino del Tittino, che dal 1887 fu trasformato in lanificio a motore idraulico da Angiolo Ragazzini; dal 1893 ospitò il Lanificio Berti. Agli inizi del XX secolo erano “varie industrie e soprattutto lanifici e segherie idrauliche impiantate su la riva dell’Arno…” (Carta idrografica 1889, pp. 234-235; ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 24; DELLA BORDELLA 1984, pp. 132 e 136). A valle di Pratovecchio, in località “Porto”, sorgeva l’importante porto fluviale dell’Opera del Duomo di Firenze, posto alla confluenza del torrente Fiumicello in Arno, presso la villa che fu dei Lorena, nel luogo in cui terminava la “via dei legni” proveniente da Camaldoli (i legni potevano anche fluitare da Biforco nel torrente Fiumicello). Rimangono le tracce degli argini e dei moli, manufatti funzionali alla preparazione e al trasporto dei foderi (provenienti dalla foresta tra Casentino e Romagna, antica proprietà dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze passata nei primi decenni del XIX secolo ai Lorena), fatti costruire o ricostruire in epoca lorenese. Da una carta del 1633 si evince che lo scalo era diviso in due dalla gora del mulino della Badia, aveva un capannone, in forma di loggiato con 14 pilastri di pietra che sostenevano il tetto di laterizi, per la conservazione del legname, i foderi erano predisposti nel ghiareto sull’Arno (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1977, pp. 82 e 132; AGOSTINI, BALDINI 1982, p. 85). Nel 1762 Ferdinando Morozzi, ingegnere idraulico e cartografo, fece una relazione, corredata da una pianta dello scalo, dove evidenziava la situazione di precarietà del porto esposto all’erosione e alle piene dell’Arno: “… non senza ragione il Provveditore dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze ha luogo di temere che un giorno o l’altro il porto dell’Opera sia dall’Arno portato via poichè dalla visita fattavi ho veduto essere questo attaccato da una fiera corrosione del fiume Arno. I muri che vi sono stati fatti non hanno giovato a nulla e anzi vi si è fatta una gran voragine d’acqua che rende frustraneo in quel luogo ogni qualunque rimedio. Questo deve essere una steccaiola o schifaiola ben piantata all’imboccatura del Fiumicello, conforme lo schizzo di pianta. Questa schifaiola va fatta con paloni di quercia ben piantati

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nella ripa dell’alveo e intessuti di vetrice fresca e sia fatta da 2 o 3 ordini con le sue catene anch’esse intessute con le vetrici, come ho tutto chiaramente mostrato al Signor Ministro ed in testa alla quale vi si faccia un gabbione il quale so che l’acqua lo disfarrà, ma serve per sostegno della schifaiola e per scemare l’incomodo alla medesima nel dover resistere all’urto del’acqua dell’Arno. Questo lavoro produrrà l’effetto che l’Arno ritornerà a correre nel mezzo del suo alveo e dove è di presente la corrosione, comincerà a riporvi ed egli stesso che ha fatto il danno ne porterà rimedio…” (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1977, pp. 92 e 132-134). A valle del porto fluviale era il “mulino di Badia”, proprietà della comunità di Pratovecchio: aveva due gore, una per l’estate e una per l’inverno, con due ponticelli fatti di legno di castagno; fu atterrato dalla piena del 1745 e, ricostruito, fu danneggiato dall’alluvione del 1844. Nel XIX secolo il mulino era ancora attivo ed era servito da una pescaia “costruita con terra e fascine” (REPETTI, I, p. 116; Carta idrografica 1889, pp. 234-235). Più a valle un documento del 1645 attesta nella piana di Borgo alla Collina il toponimo La Macea, luogo in cui erano legati i foderi (AGOSTINI, BALDINI 1982, pp. 120-121) e anche a valle della confluenza del fosso delle Pilluzze in Arno, sotto Romena, era ubicato uno scivolo da cui partivano i foderi, documentato come “porto foderino”. Qui sorse in seguito il “ponte foderino”, un attraversamento sull’Arno con annessi spedale e osteria: la presenza di un guado è comprovata dai toponimi “guado di Borgo”, Varlunga, attribuito ad un edificio non lontano dal fiume, e “La Barca”, che documenta la presenza di un traghetto (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopodino, Comunità di Castel S. Niccolò, sez. A, f. 4). In epoca lorenese fu progettato il Ponte Foderino, in connessione con la costruzione della Barrocciabile Casentinese (1787-1840): il progetto originario era di costruire un ponte nella piana di Campaldino a tredici arcate, lungo circa trecento metri, presso la confluenza del Solano in Arno dove era il guado che collegava la strada di Borgo alla Collina con la strada Stia-Arezzo, ma il guado continuò ad essere usato per lungo tempo, il progetto cambiò e il ponte fu realizzato soltanto nel 1838-1840 a tre luci con fiancate e impalcatura in legno. È stato ricostruito negli anni ’50 del XX secolo con volta in mattoni a vista, piloni in pietra, rivestimento in arenaria (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, pp. 99-101). Borgo alla Collina, Ponte Foderino

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Quando l’acqua non era sufficiente per la fluitazione, i foderi erano trainati dalle sponde fino a Ponte a Poppi (Lettera sopra l’incendio 1790, p. 4; GABBRIELLI, SETTESOLDI 1977, pp. 132-134; AGOSTINI, BALDINI 1982, p. 85).

DIVAGAZIONI DELL’ARNO E DEVOZIONE POPOLARE A valle di Santa Maria delle Grazie fino alla piana di Campaldino l’Arno inizia a scorrere più lentamente e quindi nel passato ha creato situazioni di dissesto idraulico, che oggi restano documentate nei toponimi (ad esempio Paduli). All’altezza di S. Maria delle Grazie, a monte di Stia, il fiume formava due isole fluviali tanto grandi e stabili da essere divise in più appezzamenti coltivabili (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Stia, sezione D, foglio V, sezione G); un’altra isola fluviale è documentata nella piana sotto Borgo alla Collina a Casa Spedale (Carta idrografica 1889, pp. 234-235). Qui i toponimi documentano anche l’attività di regimazione: ad esempio Case d’Arno e Case Triboli; quest’ultimo toponimo potrebbe derivare dal tribolo acquatico, una pianta che produce frutti spinosi detti “triboli” e rimanda quindi alla particolare situazione idraulica di questo tratto d’Arno (Dizionario della lingua italiana, IV, p. 1593). Rapporti della Magistratura di Parte Guelfa del 1553 e 1558, una pianta del XVII secolo, le mappe del catasto lorenese e le riflessioni di Repetti documentano che da questa località, a valle di Romena e del Fosso di Cambòffoli, per almeno tre secoli l’Arno divagò per circa quattro chilometri fino alla confluenza del Solano, raggiungendo una larghezza di circa trecento metri (ancora negli anni ’40 del XX secolo risulta essere una zona problematica) (BIGAzzI 1990, tav. 3). Le difficoltà idrauliche dell’area furono tali che ne nacquero leggende e forme di devozione popolare. Il culto del Cristo di Orgi, dipinto legato alla “magia tempestaria” per il potere di intervenire sul tempo atmosferico, è dunque legato anche alle alluvioni dell’Arno perché si narra che durante uno straripamento nella piana di Orgi l’acqua si fermò proprio ai piedi del Cristo (DA MONTE 1984, pp. 10-11). Il disordine idraulico inoltre non impedì di avviare, con grandi disagi, l’attività molitoria del “mulino del Campo” o “di Sala”, servito da una pescaia costruita dopo il 1839 (Carta idrografica 1889, pp. 234-235). Il disordine idraulico continuava fino a Ponte a Poppi e probabilmente derivava dalla presenza della strettoia naturale formata dai due colli di Poppi e Torricella e dalla presenza del ponte a Poppi: così l’Arno divagava e formava ramificazioni nella piana di Campaldino non rendendola asciutta e del tutto sicura per uomini e attività. A metà del XIII secolo sono documentate, nell’ampia golena formata dall’Arno, una o più isole fluviali insieme all’eloquente termine aquaiolum. Anche Lagacciolo è toponimo connesso con una situazione idraulica instabile che risulta documentata in una carta del 1776, mentre il toponimo Case d’Arno conferma l’avvenuta regimazione di questo tratto d’Arno nel XIX secolo (Arno Casentino 1985, tavv. 11 e 14-15; BIGAzzI 1990, pp. 147 e 150-153).

IL PORTO DI CAMALDOLI Il ponte a Poppi fu costruito nel XII secolo probabilmente dove già

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esisteva un guado: Morozzi puntualizza che prima della costruzione del manufatto “non era ponte alcuno, ma si passava col fodero e la strada principale per salire a Poppi era quella del Trogone, chè vi erano più logge con fornace e s’entrava in Poppi per la porta detta di Tiggiano, che ora è murata ed ora è la clausura delle Monache”, segno tangibile che l’edificazione del ponte determinò anche il mutamento della viabilità. Per certo esisteva in epoca anteriore al 1225, anno in cui un documento del monastero di Camaldoli cita la presenza a capo del ponte di un ospedale per lebbrosi. Secondo la tradizione fu edificato per volontà del Conte Guido il Vecchio; storicamente fotografa l’ascesa dei Conti Guidi che si servirono del ponte per controllare al di là dell’Arno la piana di Poppi e di Campaldino e il monastero di Camaldoli. Il ponte, inoltre, sorgeva alla convergenza di importanti direttrici viarie per il Casentino meridionale e Arezzo, la Verna e la Valtiberina, la zona della Consuma e Firenze. Un sopralluogo della Magistratura di Parte Guelfa dopo l’alluvione del 1557 ha prodotto una pianta disegnata a penna su carta ed allegata ad una relazione datata 21 maggio 1558, una tra le riproduzione più antiche: è raffigurato il ponte a cinque arcate con luci variabili tra 18 e 25 braccia e modesti rostri triangolari, che necessitava di essere consolidato nelle fondamenta scalzate dall’esondazione e di una fila di pali a rafforzare l’argine. Il ponte fu demolito nel corso degli anni ’30 del Novecento per essere allargato e consolidato ed era quasi completato quando fu minato e distrutto durante la seconda guerra mondiale. È stato ricostruito con rivestimento in pietra ad imitazione del ponte originario ed è stata riedificata anche l’edicola (MOROzzI, II, p. 10; GUERRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, pp. 102-104). Nei pressi del ponte erano attivi opifici andanti ad acqua: sulla sponda destra l’Arno azionava le pale di un mulino, di una gualchiera e di una segheria, oltre a consentire l’attività di una fornace e, in località “Gorga del Paradiso”, di incerta ubicazione, è documentata la presenza di una riserva di pesca (DELLA BORDELLA 1984, p. 162; BICChIERAI 2005, pp. 47, 62 e 65). A valle del ponte si trovava il porto fluviale del monastero di Camaldoli: posto presso la confluenza del torrente Sova in Arno, variamente

Ottavo itinerario

L’Arno e la piana bonificata tra Poppi e Bibbiena


denominato nelle fonti Il Porto, Porto de la Sova, Porto d’Arno, fu creato nel corso del XVI secolo per la gran quantità di legname che arrivava dalla Foresta di Camaldoli di proprietà dell’omonima abbazia. Fu chiuso nel 1863 (Arno Casentino 1985, nn. 16 e 18). Un componimento in versi offre una vivace descrizione del porto (BICChIERAI 2005, p. 72): “Una isoletta ch’è non molto di fori appresso a Poppi, la Sova nominata, ove fan porto tut’i foderatori; quivi dimorano tutti di brigata, chi talglia, chi fora e chi legnami legha commessi insieme sì come leppecchata; navicando per Arno tutti ad una legha com molta faticha alla città del gilglio quivi si fermam come pesscie in fregha. Questi per Arno vanno a gran perilglio, ma l’utile grande di tocchare el quatrino gli fa far questo con sì lieto pilglio”.

Alla fine del XIX secolo presso la confluenza della Sova in Arno era presente una grande isola fluviale. E anche a valle del porto fluviale per secoli fu presente un’estesa isola: già documentata nel 1718, nella prima metà del XIX secolo era occupata parte da un vetriciaio e parte da pastura (BIGAzzI 1990, p. 147). Nonostante i progetti di rettifica dell’asta fluviale (a Toppoli nel 1725 sono documentate sistemazioni idrauliche ed è documentato il toponimo L’Arginone), il disordine idraulico rimase, per circa quattro chilometri, da Ponte a Poppi fino a Bibbiena documentato tra gli altri nell’idronimo “Fosso del Ristagno”. Oggi in questo tratto sono ancora visibili i pignoni della regimazione ottocentesca (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Ortignano, sez. E, f. 1; Arno Casentino, 1985, n. 19). Anche presso la confluenza dell’Archiano in Arno, laddove Dante scelse di ambientare la morte di Buonconte da Montefeltro (DANTE, Purgatorio, V, 85-129), il toponimo Le Chiane si riferisce a luoghi paludosi e documenta il dissesto idraulico in questo tratto d’Arno.

L’ANTICHISSIMO PONTE DI ÀRCENA Nonostante il dissesto idraulico, questo tratto d’Arno nei millenni risulta essere strategico per le vie di comunicazione. Forse vi è da riconoscere l’ubicazione di un attraversamento in vocabolo Il Pontaccio databile ad epoca etrusca e romana (il Pontaccio è ritenuto un ponte distinto, anche se finitimo, a quello di Arcena). Proprio in questo segmento fluviale nel 1872 i comuni di Ortignano Raggiolo, Poppi e Castel Focognano fondarono un consorzio per la realizzazione di un ponte in località Toppoli, realizzato nel 1877 a due arcate a sesto ribassato con pila in pietra (il ponte attuale è stato ricostruito dopo la seconda guerra mondiale in cemento armato e rivestimento in pietra) (FATUCChI 1996, p. 282; GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 106). Anche nel piano di Àrcena, alla confluenza del torrente Vessa, sono documentati quattro archi e una pigna pertinenti all’antico ponte che collegava la strada fiorentina con le strade per la Romagna. Il pon

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te è ritenuto romano poiché in questo punto è attestata la presenza di un insediamento di epoca romana e una pieve alto-medievale. Il ponte serviva un itinerario trasversale che si staccava sulla sponda destra dalla strada lungo l’Arno, attraversava il ponte e conduceva in Romagna. Il manufatto è documentato nel 1134 per la donazione ai Camaldolesi di un ospedale ubicato alla testa del ponte; nel XVIII secolo era già rovinato e interrato a circa metà degli archi, che nel XX secolo risultano del tutto coperti dalle alluvioni dell’Arno (Profilo di una valle 1999, pp. 136 e 140; REPETTI, I, pp. 104 e 120; MOROzzI, II, p. 11). Sono documentati anche una passerella sull’Arno e in località La Nave la presenza di un traghetto. A valle continuavano i dissesti idraulici fino all’abitato di S. Mama: il toponimo Pollìno rimanda a un termine che indicava un’isola di materiale natante e quindi un terreno paludoso “d’onde i passeggieri difficilmente possono cavar fuori i piedi” (Dizionario della lingua italiana, III, p. 1088; BIGAzzI 1990, p. 155).

IL PONTE DE SOKA Arrivando a Rassina il piano dove scorre l’Arno si fa man mano più esteso: un attraversamento del fiume in questo tratto, pure molto largo, è ipotizzabile probabilmente già in epoca etrusca per la presenza del santuario di Pieve a Socana e per la confluenza di importanti percorsi viari tra Valdarno e Valtiberina, collegati con la strada consolare che attraversava il Casentino e anche con il passaggio delle greggi durante la transumanza dal Casentino e dalla Valtiberina in Maremma; l’esistenza di un ponte è ipotizzabile già in epoca romana; anche se il “Pontem de Soka” è documentato soltanto nel 1144. Agli inizi del ’900 era “assai pittoresco, ma la sua carreggiata serve a mala pena al raddoppiato traffico di quelle campagne”, aveva sette arcate di pietra con luci variabili ed edifici a capo del ponte sulla sponda sinistra. I documenti archivistici legati ad un progetto di ampliamento del 1923 testimoniano che il ponte medievale, a linea spezzata inclinata, si era conservato, ma le modifiche apportate nel 1925 alterarono la forma originaria (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 108; DI COCCO 2000). Non lontano dal ponte sono documentate anche una passerella e, sul greto del fiume, una colonia fluviale attiva negli anni ’30 del Novecento (NASSINI, MARTINELLI 2002, pp. 143 e 156). Sulla sponda destra presso il ponte nel XIX secolo era attivo il “mulino dell’Arno” a due macine il cui canale di derivazione iniziava poco a valle del ponte, presso una fornace, e si gettava in Arno presso la confluenza del Soliggine (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Castel Focognano, sez. B, f. 4). Tornando al percorso dei foderi, a valle dell’abitato di Rassina in vocabolo Altarino, nel 1648, è documentato “un legatoio de foderatori e per ordinario è quello della prima sera del lor viaggio e non è altro che un poco d’albereta” e il Sasso della Siepe, un masso presente in alveo, che era un ostacolo per i foderi (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1977, p. 257).

LA GOLA DI SAN MAMA L’itinerario incontra a questo punto l’antico abitato di San Mama. Il toponimo deriva il nome da san Mamante, santo bizantino, e atteOttavo itinerario


sta la frequentazione e l’attraversamento dell’Arno in questo tratto in epoca altomedievale. Le fonti documentano, in effetti, i ruderi di un ponte, probabilmente romano, “presso all’imboccatura dello stretto di S. Mama o S. Mamante, a piè del colle della Montanina”, nel luogo dove è segnalata anche una torre (romana?) posta a guardia del ponte. In seguito, scomparso il ponte, vi ha funzionato un traghetto (MOROzzI, II, p. 12; RITTATORE, CARPANELLI, 1951, foglio 114, I, N.E., n. 5). Nel 1072 vi esisteva la chiesa di “S. Mamante in briglia”, così denominata per l’abside posta sulla riva dell’Arno presso una pescaia che era connessa ad un mulino attivo ancora nel XIX secolo, sulla sponda destra, denominato “Mulino di San Mama”. Alla fine del XIX secolo è attestata l’esistenza di due pescaie costruite con terra e fascine e di una polveriera (Carta idrografica 1889, pp. 234-235). La gola di San Mama, e in particolare lo stretto del Groppino, è caratterizzata da un percorso tortuoso e da correnti impetuose che hanno creato disordini idraulici, come dimostra il toponimo Casa Lago, e che hanno contribuito alla distruzione di parte del paese di Calbenzano durante una piena dell’Arno (REPETTI, I, p. 301). All’uscita della gola il toponimo “Molinaccio” ricorda la presenza di un opificio molitorio: in effetti nel 1114 e nel 1137 nella curtis di Lorenzano sono attestati due mulini in località “Remoli” e un diploma di Federico Barbarossa del 1154 autorizzava i monaci dell’Abbazia di Selvamonda a costruire un “acqueductum”, cioè un berignolo, per migliorare la resa dei mulini (SODERI 1994, p. 187). A Spedaletto è documentata una strada denominata localmente “La silice”, di probabile epoca romana, che probabilmente saliva da un guado sull’Arno all’insediamento di Vogognano: lo confermerebbe nella vicina Baciano l’intitolazione della chiesa a S. Cristoforo, santo legato agli attraversamenti fluviali (RITTATORE, CARPANELLI 1951, foglio 114, I, N.E., n. 6). Anche in questo tratto rimane traccia del viaggio dei foderi verso Firenze e Pisa: un luogo sull’Arno chiamato Bucarino indicava nella fluitazione dei foderi un tratto di fiume dove “l’opera spende ogni anno spesse volte assai, e questo avviene perché il letto d’Arno vi si riempie…” (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1997, p. 257).

IL SASSO ALLA REINA Un altro importante luogo di passaggio viario e fluviale spicca in località Travigante: il toponimo e le testimonianze orali indicano, almeno nel passato recente, l’esistenza di un attraversamento (SODERI 1980, p. 100). Poco più a valle, in verità, dopo la confluenza del torrente Lendra, le fonti documentarie citano un luogo dove “sono vestigia o fondamenta di qualche fabbrica antica chi dice pescaia chi altro”, che è designato nel tempo come Reina, Pontevecchio, Sasso alla Reina o Calcinaccio della Vecchia: sono i resti di fondamenta in opera cementizia riferibili ad un ponte di epoca romana posto a difesa dell’insediamento di Subbiano (RITTATORE, CARPANELLI 1951, foglio 114, I, S.E., n. 1; Profilo di una valle, 1999, p. 135). Invece il primo ponte in corrispondenza del centro abitato di Subbiano, fatto con travi e impalcato in legno su pile e forse spalle in pietra, risale al 1886; ma nel 1910 era diventato insicuro per i numerosi carri che raggiungevano la vicina stazione ferroviaria; e così fu ricostruito in travi in ferro nel 1920-23 (poi distrutto del 1944 e ricostruito in cemento armato) (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 113).

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L’insediamento di Subbiano era dotato di un mulino attivo ancora alla fine del XIX secolo che riceveva l’acqua per produrre l’energia idraulica da una pescaia, documentata nel 1015, che alla fine del XIX secolo era fatta “in legno e sassi” (in seguito ricostruita in pietrame) (Carta idrografica 1889, pp. 234-235; SPINI 1976, fig. 52; Arno Casentino 1985, tav. 46). L’Arno scorre adesso tra strette pareti rocciose e scoscese fino a lambire la torre del Palazzo che svetta sul greto dell’Arno, nota anche come “Molino di S. Flora” o “Palagio”: insieme alla sua gemella sulla sponda opposta in località “La Casella”, risale ad epoca longobarda; faceva parte di un sistema difensivo insieme agli avamposti di Subbiano, Caliano, La Nussa e Cuprena e serviva per controllare la strada e l’Arno, che probabilmente era in parte navigabile in questo tratto. La tipologia architettonica ed i particolari costruttivi dell’edificio attuale datano l’alzato ai secoli XI-XII, epoca in cui l’edificio, isolato, faceva parte del sistema difensivo organizzato dai feudatari circostanti e si ergeva a guardia di un mulino. La tradizione popolare vi ambientava leggende e storie di streghe, spiriti e fantasmi (ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 46; BINI, BERTOCCI, MARTELLACCI 1991, p. 42; SODERI 1994, p. 137).

Subbiano, la pescaia del mulino

IL PONTE A CALIANO Si prosegue poi verso lo splendido complesso storico di Ponte Caliano o Caliano Minore. La pescaia vi è attestata dal 1213, quando era alta “quantum unus homo longus est”. La foderaia (sorta di scivolo per il passaggio dei foderi) era posta sulla destra a lato della riva. Infatti proprio nel 1213 i monaci benedettini di S. Flora fecero costruire una chiusa e un mulino, distrutti di lì a poco da una piena; in seguito, poiché l’Arno aveva abbassato e cambiato il corso, il mulino fu ricostruito lungo la sponda sui terreni dei canonici di Arezzo e ne nacque una controversia, finché nel 1218 i Canonici di Arezzo cedettero ai benedettini la pescaia con i mulini e la gualchiera: e da qui deriva la denominazione “mulino dell’Abate”. Ottavo itinerario


Il Palazzo, Molino di S. Flora

Ancora oggi si riconoscono elementi della muratura medievale pertinenti alla ricostruzione; essi testimoniano che l’edificio del mulino era più grande, dotato di una gora coperta per lo scarico delle acque, affiancato da un edificio del quale oggi si riconoscono gli stipiti e un portale e difeso da una torre edificata con pietrame a filaretti e finestra con arco di pietra, databile ai secoli XII-XIII (REPETTI, I, p. 121; Carta idrografica 1889, pp. 234-235; ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 48; SODERI 1994, pp. 148 e 151). L’opificio era adiacente al ponte, difeso da una torre e con annesso ospedale, sorto presso un importante incrocio viario sull’Arno: il ponte in epoca romana congiungeva una via vicinalis con la via consolare del Casentino, la Flaminia minor, ed era punto di connessione per le strade provenienti da Valdarno, Arezzo e Casentino. Il ponte conosciuto dalle fonti iconografiche, citato nel 1211 e nel 1218, fu costruito in epoca romanica forse in sostituzione di uno più antico e subì nei secoli numerosi restauri: tra gli altri, nel 1320 al tempo del vescovoconte Guido Tarlati. Un disegno e una relazione del 28 aprile 1558 di Battista Battaglioni, agente di strade della Magistratura di Parte Guelfa, informano di un consistente restauro e descrivono il ponte romanico: ad archi a tutto sesto con rostri triangolari, che presentava lesioni nell’intradosso degli archi, sulla spalla e sul parapetto di destra. L’agente di strade annota “ò veduto il Ponte a Chaliano. Così il quale è sopra il fiume Arno nel Comune di Castelnuovo Podesteria di Subbiano Vicariato di Anghiari, il quale ponte à di molti disordini nei suoi archi parte per chausa della piena del mese di Settembre e parte cominciati suoi tempi sono ne’ suoi archi li quali pongono gran pericolo di rovina […]. Il quale è di buona importanza e molto necessario perché dal Ponte a Poppi infino a Ponte a Buriano non è altro ponte oggi restato in sul detto fiume di Arno e rovinando darebbe grande incomodo a quello ponte e anco a passare innanzi e indietro per la volta il valdarno […]. E al detto occorre restaurarlo per quello arco rovinato circa b[racci]a quatro della circonferenza dell’arco della pietra come dal diIl Casentino. Territorio, storia e viaggi


Ponte a Caliano, resti della gora e del mulino

segno si dimostra”. Nel 1763 il cancelliere della Podesteria di Subbiano Antonio Soldani lo descrive come “[…] ponte murato … di tre archi… largo braccia 5 in muratura”. Il granduca Pietro Leopoldo lo descrive nelle Relazioni generali del Granduca quando vi passò nel giugno del 1778: “Al ponte a Cagliano, che è di pietra e bello sull’Arno”. Un restauro del 1836 abbassò le rampe di ingresso, che erano molto ripide, tramite la sostituzione del selciato con una lastricatura fatta a filari scalpellati in “buona pietra arenaria”. Fu distrutto nel 1944 e in seguito è stato ricostruito a tre campate in pietra e laterizio negli anni 1948-1950. Ancora oggi, pur essendo assorbito nell’abitato di Capolona, il ponte con le sue adiacenze è considerato autonomo tanto che il borgo è denominato “Il Ponte” (FATUCChI 1995, p. 28; GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, pp. 115-117).

IL MUSEO DELL’ACQUA A valle del ponte si incontra la pescaia della Nussa, documentata già nel XVII secolo. Nel 1731 l’architetto Bernardino Ciurini per conto del Magistrato dei Fiumi stese una relazione sullo stato degli argini tra Ponte a Caliano e La Nussa e nel 1738 concesse di edificare un mulino a due palmenti presso il castello della Nussa; alla fine del XIX secolo vi era attiva anche una polveriera (Carta idrografica 1889, pp. 234-235; SODERI 1994, p. 156). Il mulino fu trasformato agli inizi del Novecento in centrale idroelettrica in stile neogotico, “lo stabilimento per l’illuminazione elettrica di alcuni paesi del Casentino”, poi distrutta nel 1944 e ricostruita nel 1946 (Carta idrografica 1902, p. 118; BINI, BERTOCCI, MARTELLACCI 1991, pp. 6364). Oggi in una parte del complesso è ospitato il Centro di documentazione e polo didattico dell’acqua che illustra i diversi usi dell’acqua in relazione alla produzione di energia idraulica ed è organizzato in sezioni dedicate alla rete idrica del Casentino, a ponti e porti, agli opifici andanti ad acqua ed ha un laboratorio sui principi chimico-fisici dell’acqua. Ottavo itinerario


Da Ponte a Caliano fino a Giovi inizia una stretta gola dove l’Arno scorre vorticoso in un canyon con scenari naturali e paesistici apprezzabili e adatto alla discesa in canoa. Qui si trovava il Ratto di Spaliano, tratto d’Arno pericoloso per i foderatori che vi transitavano sui foderi a causa della presenza di massi e per la velocità della corrente (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1997, p. 257). I foderatori incontravano poi l’ostacolo della Chiusa o Steccaia del Mulino della Lama, realizzata in legname e sassi posticci, e poi in muratura, con foderaia sulla sponda destra, che alimentava una polveriera, una gualchiera e un mulino. Probabilmente la pescaia prese il posto di quella posta più a valle, detta pescaia del Raggio, che nel 1648 versava già in cattive condizioni (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Arezzo, sez. L; Carta idrografica 1889, pp. 234-235; GABBRIELLI, SETTESOLDI 1997, p. 258).

La Nussa, la Centrale Idroelettrica

LA CARTIERA DI GIOVI L’itinerario giunge a Giovi dove meritano interesse testimonianze di archeologia industriale quasi uniche nel territorio aretino legate alla produzione della carta. Già nel XVII secolo qui era presente una pescaia in muratura con foderaia sulla destra: essa serviva opifici andanti ad acqua attivi almeno dal XVI secolo. Sebbene il Castello di Giovi, alla confluenza del torrente Chiassa in Arno, sia attestato dal XIV secolo, soltanto nel 1515 si ha notizia di un mulino di proprietà di Cristofano Guadagni, la cui famiglia nel 1558 possedeva nella stessa area tre mulini. Un’incisione di Ferdinando Morozzi, eseguita nel 1776, mostra due edifici sull’Arno, dei quali quello sulla gora è sicuramente il mulino. Nel 1844 è citato il mulino di Giovi e la “casetta sotto la quale sono le Gualchiere”. Nel 1886 il mulino era un edificio a due piani divisi in cinque vani e aveva vicino una costruzione accessoria di sette vani adibita ad abitazione e nel sottocorpo tre vani usati come tintoria (MOROzzI, II, p. 26; Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Arezzo, sez. K, f. 2; Carta idrografica 1889, pp. 234235). I “molini di Giovi” sono destinati a diventare il nucleo originario della cartiera: nel 1906 l’edificio vicino al mulino, di diciassette vani, è “diruto”; i fratelli Boschi convertono gli opifici dismessi in cartiera a paglia in parte demolendo, in parte riusando i vani esistenti. La cartiera produceva la “carta gialla”, un tipo di carta per alimenti prodotta con la paglia, metodo inventato agli inizi del XIX secolo. L’ubicazione era strategica per lo sfruttamento dell’energia idraulica e anche per l’arrivo del legno dal Casentino.

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Inizialmente l’edificio della cartiera, a due piani, aveva al pianoterra undici vani per i macchinari e al primo piano un unico locale che serviva da stenditoio della carta. Nel 1910 in località “Molini di Giovi” la ditta Boschi possedeva una cartiera, un mulino annesso alla cartiera, un altro mulino in disuso detto “dello zolfo e della gualchiera” (sul torrente Chiassa) e un’abitazione annessa al mulino. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la produzione è stata convertita in cartone da imballaggi. Nel 1966 a seguito dell’alluvione fu innalzata di un piano la centralina elettrica e furono modificate le aperture nei prospetti. La produzione è cessata nel 1983 a causa dell’ubicazione di difficile accesso ai mezzi di trasporto. La struttura conserva ancora oggi i macchinari originali connessi con la lavorazione della carta gialla: trinciapaglia a tre lame, raffinatoi, pilli e macchina da carta e la possibilità di riconoscere i processi produttivi. La buona conservazione di questo complesso di archeologia industriale ha permesso di progettare una struttura museale dedicata alla produzione della carta (FOGNANI 1991). Questo tratto d’Arno alla confluenza del torrente Chiassa risulta frequentato fin dall’epoca altomedievale per la presenza di un guado (BACCI 1986, p. 309). A valle della pescaia, subito dopo la seconda guerra mondiale, fu costruita una passerella dalla comunità locale per agevolare il transito degli operai che lavoravano nella vicina fornace Carnesciali. Erano stati recuperati i piloni di pietra di un antico ponte, forse mai costruito, realizzandovi una passerella sospesa fatta con piccole assi collegate con cavi di metallo, che fu distrutta dall’alluvione del 1966. Nello stesso luogo, ricostruita nel 1987, sorge una moderna passerella pedonale con struttura portante in legno e quattro campate in cemento armato rivestito di pietra (GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 120). Sulla sponda destra, davanti all’abitato di Giovi, nel secondo dopoguerra esisteva una balera sulla riva del fiume.

Ottavo itinerario

Giovi, il complesso della cartiera con la gora e in lontananza la passerella


LE “PAURE” A valle di Giovi l’Arno corre in una gola angusta, profonda e di non facile accesso per la presenza di rapide, frequentate dagli appassionati di canoa. La pericolosità del tratto fluviale e il paesaggio orrido nel passato hanno dato origine alle “paure”, causate da apparizioni di fantasmi e da presenze soprannaturali, con le quali la saggezza popolare segnalava fortemente situazioni di pericolo. Nel canyon tra Giovi e Vado, dove la corrente è forte, i racconti tradizionali tramandano, infatti, che si sentivano risate, urla, rumori e si vedevano di notte, quando non c’era la luna, dei “lumicini” che si spostavano, sulla sponda sinistra, da Villa Occhini (in località Petrognano) nel bosco e poi si gettavano nell’Arno e la gente riteneva che fossero le anime dei morti affogati, mai ritrovati; in realtà doveva trattarsi di pescatori che di notte pescavano alla luce di lanterne o torce (testimonianza orale di Galli Gina, Capolona, AR, 2008: la tradizione risale alla fine del XIX secolo perché la fonte orale riporta i ricordi del nonno). Nel XVII secolo qui esisteva una pescaia, oggi scomparsa, che aveva la foderaia sulla destra; nella prima metà del XIX secolo vi era annesso un mulino, i cui ruderi oggi sono segnalati dal toponimo Mulinaccio (CIPOLLARO, NOTARIANNI 1974, p. 141). Questo antico mulino era di proprietà dei monaci di S. Flora e Lucilla di Arezzo e in seguito del Marchese Corsi e poi della famiglia Mancini che possedeva anche una villa con fattoria nel paleoterrazzo soprastante (MOROzzI, II, p. 28; Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Arezzo, sez. E; SODERI 1994, p. 150; GABBRIELLI, SETTESOLDI 1997, p. 258). Poco più a valle era un’altra pescaia: la Chiusa o Steccaia di Vado, attestata nel 1648 e fatta di legname e “palafitte deboli” (GABBRIELLI, SETTESOLDI 1997, p. 258). Essa si trovava presso un attraversamento, come indica il toponimo Vado, in un tratto del fiume dalla morfologia del tutto adatta al passaggio a guado: una strettoia con acqua bassa e calma, dal fondo sassoso adatto all’attraversamento dei carri e dalla presenza di un agevole accesso carrabile al fiume. L’utilizzo del guado risale all’epoca antica e serviva probabilmente a connettere la consolare Cassia Vetus proveniente da Ponte a Buriano con la Flaminia Minor del Casentino. Alcuni autori ritengono che in epoca romana esistesse anche un ponte in muratura. Questo attraversamento ha avuto importanza locale fino alla costruzione del ponte di Buon Riposo (SODERI 1994, p. 21; GURRIERI, BRACCI, PEDRESChI 1998, p. 121).

LA NAVE DI CARONTE L’ultimo tratto dell’itinerario fino al confine amministrativo del comune di Capolona è anch’esso denso di storia. In località I Pozzi, la Steccaia dell’Abate, pescaia oggi distrutta, servì per secoli a deviare l’acqua necessaria a produrre l’energia idraulica al Molino dell’Abate, un grande impianto molitorio, che alla fine del XIX secolo alimentava tre opifici tra i quali una gualchiera. Il Molino dell’Abate fu proprietà dei monaci benedettini dell’Abbazia di Campoleone ed era uno dei pochi mulini attivi in estate nell’agro aretino e nella Val di Chiana. Agli inizi del XX secolo il paesaggio intorno al Molino dell’Abate presentava “una viottolina fiancheggiata da due alti filari di salici ar

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gentei” e una gora oggi quasi scomparsa (rimangono a segnalarne la presenza i salici) (ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 51). Oggi le strutture molitorie si conservano nell’abitato denominato “La Bade” (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Leopoldino, Comunità di Arezzo, sez. C, f. 2; Repetti, I, pp. 147-148; Carta idrografica 1889, pp. 234-235; Archivio di Stato di Arezzo, Stato Unitario, Genio Civile di Arezzo 2, Disegni e piante, 26, 3; BIGAzzI 1990, p. 171). Sulla sponda destra l’abitato di Isola rivela nel nome la presenza di un’isola fluviale e di divagazioni del fiume avvenute fino agli inizi del XIX secolo quando il tratto fu regimato (BIGAzzI 1990, pp. 147 e 173-174). Il disordine idraulico era tale che il mulino, posseduto dai monaci dell’Abbazia di Campoleone, risulta già interrato nel XVIII secolo e definitivamente demolito nel 1778 (SODERI 1994, p. 66). Le due rive erano unite da una passerella tra Buon Riposo e L’Isola e più a valle da un traghetto presso La Nave. Il toponimo Buon Riposo, documentato dagli inizi del XIX secolo, sottolinea l’amenità del luogo: l’ampio greto sassoso con piccoli spiazzi sabbiosi e sponde ombreggiate da pioppi hanno trasformato almeno dalla seconda metà del Novecento questo tratto di fiume nella spiaggia degli aretini. Ancora negli anni ’70 sull’argine sinistro funzionava un dancing nato proprio sulla scia della frequentazione estiva dell’Arno, in un periodo in cui il fiume ormai non era più balneabile. Nel tratto d’Arno chiamato Pèlleco nel dialetto locale, dal greto sassoso, emerge un complesso di rocce arenarie dalle bizzarre forme arrotondate per la particolare azione erosiva della corrente fluviale. Il toponimo deriva da Pelago ed indica uno spazio d’acqua dove l’acqua era profonda e vi era dissesto idraulico (MOROzzI, II, pp. 26, 29; GRIFONI 1998, p. 157; TOMMASEO, n. 2275). L’itinerario termina presso la casa colonica La Nave, oggi vittima di un pesante e inopportuno restauro. Qui era la casa del navalestro che gestiva l’attraversamento sull’Arno, tanto importante da essere servito da una strada rotabile già nella prima metà del XIX secolo (REPETTI, I, p. 357). Così è descritto il traghetto agli inizi del Novecento: “La chiamano nave ma, se vogliamo, è, più propriamente, una vecchia barca alla quale ci affidiamo e che, grazie all’abilità del nuovissimo Caronte, ci depone sani e salvi su la riva destra dell’Arno. Qui troviamo una strada che si biforca per Castelluccio e Capolona a destra, per Cincelli e Ponte a Buriano a sinistra” (ALINARI, BELTRAMELLI 1909, p. 52). Il navalestro che operava presso questo guado era chiamato, di generazione in generazione (perché l’attività aveva carattere ereditario), Caronte, denominazione che recupera la reminescenza dantesca e che testimonia non solo la sapienza contadina, ma anche rimanda all’ancestrale significato di pericolo connesso con l’attraversamento dell’Arno. Il guado, come di solito accadeva, era per questo protetto da un santo specializzato, S. Michele Arcangelo, al quale è dedicata la locale chiesa parrocchiale (DINI 1980, pp. 85-86; SCATTIGNO 1988, p. 27).

Ottavo itinerario


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