Sei chianino DOC se....

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IDENTITÀ E IPSEITÀ

Paolo De Simonis

ei Chianino doc della Valdichiana Sud … se hai mangiato almeno una volta i Pici all’Aglione, se sei andato almeno una volta al Primo di Maggio a Montepulciano, se ti senti un po’ Etrusco, se hai visto almeno una volta un Toro Chianino, se vai all’Outlet la domenica a Foiano, se hai fatto “festa” al lago di Chiusi, se sei andato da piccino al carnevale a Foiano …”1. E via elencando in una lista aperta su Facebook. Per i giovani dunque l’identità della Val di Chiana sembra passare per il cibo, la storia remota, i consumi nei non-luoghi, il calendario della tradizione. Un’identità leggera, composita e abbastanza autoironica. Incerta del suo percorso quasi come la sua paleostruttura di conca tettonica intermontana: indecisa se inviare le sue acque verso l’Arno o verso il Tevere. Ma non c’è troppo da preoccuparsi: semmai da consolarsi, risultando il problema largamente condiviso dal mondo. È infatti da tempo esplosa quasi dovunque l’unione indissolubile e tranquilla fra luogo, identità e cultura2: elementi che oggi si limitano a convivere, separati in casa e disponibili a nuove esperienze. Viaggiano e ospitano spesso, muovendosi tra confini altrettanto dinamici. Non si tratta allora, anche in Val di Chiana, di considerare identità e tradizioni come un numero chiuso di presenze e nozioni: andrebbero in tal caso solo ‘conosciute’ come devono fare i turisti e, per certi versi, anche i giovani del posto. Entrambi accomunati da ignoranza rimediabile. Il fatto è che i saperi del passato, ce lo ha insegnato il geografo e storico Lowenthal3, sono rimasti a lungo ‘contemporanei’. Nel senso che, pur avvertendone la senilità, venivano stimati come ancora direttamente utili e pertanto ospitati ogni giorno nell’intimità di una famiglia comune. Un po’ come il vecchio proverbio secondo cui “val più un vecchio nel canto4 che un giovane nel campo”. Il trauma provocato dalla modernità tecno-economica ne ha invece disvelato l’impraticabilità d’uso nel presente: il passato, da familiare, si è fatto ‘straniero’. Per recuperarlo lo abbiamo canonizzato nella nozione pratica di patrimonio, o heritage: il passato viene così valorizzato come esterno alla vita reale, primaria, e se ne sta ben

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http://www.facebook.com/group.php?gid=42515929310 Cfr., almeno, Appadurai, 2001. Cfr. Lowenthal, 1985. In un angolo della stanza, disposto a trasmettere i suoi saperi anche se non più in grado di tradurli in operatività fisica all’esterno.

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custodito in vetrina, come un oggetto museale. Luogo, strumento, canto, festa, cibo: tutti restaurati per rendersi visitabili, essenzialmente, nei circuiti del turismo che, si dice, tutto renderebbe falso e mercificato. Ma l’identità può esser vista non come annullata o tradita quanto piuttosto ri-formata dall’iridescente palesarsi del turismo. I saperi locali – sottolinea Vincenzo Padiglione – dimostrano di “aver saputo trasformare i loro prodotti o inventarne di nuovi, coniugare riflessivamente auto-immagine ed etero-immagine, venire incontro alla domanda turistica senza rinunciare sovente ad esprimere competenze tecniche, stili, repertori e significati propri” (Padiglione, 2006, p. 85). Ai giovani la ‘com-prensione’ serve almeno quanto la ‘conoscenza’. Forse anche di più. Occorre infatti ‘tenere insieme’ informazioni e livelli diversi. E sentirsi consapevoli, in fondo orgogliosi, di come identità e tradizioni non siano già date ma siano ancora tutte da costruire, selezionando i segni del passato per distillare significati e finalità che meglio ci corrispondano oggi. Le pagine che seguono sono appunto organizzate in questa direzione. Forniscono approcci di metodo e notizie dirette o da approfondire tra bibliografie, archivi, musei e mondo web perché i giovani si sentano attivi: non carenti ma al contrario contribuenti al progetto di costruzione della memoria locale in veste di patrimonio utile al futuro. Paul Ricouer5 dell’identità non apprezzava l’idem sinonimo di ‘sempre uguale a se stesso’, ‘bloccato nel tempo’. Avvertiva il bisogno complementare di una postura flessibile, disponibile all’incontro e al cambiamento: l’ipseità. LUOGHI Chiani, Vingone, Arno: idronimi chianini non esclusivi della Val di Chiana. Chiani si ripete varie volte nell’aretino e in provincia di Firenze (Battisti, 1934, p. 187). La Chiana

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Cfr. Ricoeur, 2003.

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Vingone è raffigurato da Leonardo come confluente del Canale Maestro della Chiana presso la Chiusa dei Monaci. Non è quindi da confondere con il suo omonimo di Castiglion Fiorentino e tantomeno con quello di Scandicci. Arno non è solo quello nato sul Falterona: portano lo stesso nome un torrente che scorre in provincia di Varese e un altro, in Abruzzo, affluente di destra del Vomano. Perché sono nomi originariamente ‘comuni’, come spesso capita nella toponomastica. Chiani rimanda infatti a una base mediterranea dal senso di ‘acqua’, probabilmente ‘stagnante’ o ‘fangosa’ (Mastrelli, 1988, p. 44). Vingone ad altra equivalente a ‘pozzo naturale di baratro’ (Fronzaroli, 1961, pp. 3-4). Arno è infine riconducibile all’indoeuropeo *arnos ossia ‘acqua corrente’ (Nocentini, 2004, p. 698). Le comunità umane hanno ‘nominato’ i loro territori osservandoli e analizzandoli con sguardi molto spesso simili che hanno prodotto descrizioni ‘geografiche’ non meno che ‘simboliche’. Il candore del carbonato di calcio contenuto nell’acqua che stilla nelle grotte e produce concrezioni mammelliformi ha sollecitato associazioni al latte materno. Non mancano in area chianina le cosiddette grotte lattaie. Iris Origo ne ricordava una6 dove “i contadini conducevano le vacche sterili e qui venivano anche le madri che stavano perdendo il latte e, sempre dopo avere bevuto dell’acqua, le richieste venivano esaudite. Chi veniva recava con sé, come offerta propiziatoria, sette frutti della terra: una manciata di grano, orzo, avena, segale, veccia, piselli secchi, e a volte una ciotola di latte” (Origo, 1970, p. 201). L’odore di zolfo delle sorgenti calde (localmente puzzole) di Rapolano Terme ha provocato leggenda appunto ‘sulfurea’: “Per Sant’Anna, tanti e tanti anni fa, alcuni contadini trebbiavano. Passò per il luogo della trebbiatura (il Bagno Marii) una donna e disse: “Perché trebbiate? Non sapete che è peccato lavorare il giorno della festa?” I contadini per tutta risposta ribatterono: “A noi Sant’Anna non ci trebbia”. Allora il terreno si aprì, i contadini furono inghiottiti dall’apertura e da quel giorno nacque la Puzzola del Bagno Marii”7. Una strada bianca, luminosa, si dice appaia sulle acque del lago di Chiusi ogni anno, all’alba del 3 aprile: eco narrabile di una delle varie leggende sviluppatesi attorno a Santa Mustiola, nobile romana perseguitata e in fuga dalla capitale dell’impero che passò prima da Perugia e quindi si diresse alla volta di Chiusi fermandosi però in territorio umbro a Ceraseto, tra Panicale e Panciano. Dove, a trenta passi dalla chiesa del Santissimo Salvatore, sono rimaste impresse su di una roccia le impronte del piede e del ginocchio della santa, che si prostrò ai piedi di un sacerdote per riceverne la benedizione. Infine arrivò, stanchissima, sulle rive del lago di Chiusi sperando di poterlo traversare e raggiungere così degli amici che abitavano sull’altra sponda: ma ormai sentiva vicini i cavalli dei suoi inseguitori e 6

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Celebre, fino al recente passato, anche la Fonte del Latte di Pastina, nel Comune di Monte San Savino. Per ulteriori localizzazioni e interpretazioni cfr. Dini, 1980 e Fortugno, 2005. http://www.le7camicie.it/Leggenda-puzzola-bagno-Marii.html).

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Lago di Chiusi

barche non ce n’erano. Allora si mise a pregare e le apparve un angelo, suggeritore di una miracolosa via di salvezza che Mustiola si affrettò ad attuare: gettò nelle acque del lago il mantello che si irrigidì come una tavola e, spinto da una brezza favorevole, navigò fin sull’altra riva lasciando dietro di sé una scia risplendente. “Tra Totona e Totonella / c’è una vacca e una vitella. / Tra Totona e Cappuccini / c’è la chioccia coi pulcini” recita una vecchia filastrocca (Totona è un rilievo antistante Montepulciano e località limitrofi sono le altre due) non sufficiente a ritrovare la tomba di Porsenna che, secondo leggenda, volle lasciare grandiosa memoria di sé facendosi costruire in oro massiccio un carro trainato da dodici cavalli con sopra una sua statua e un non meno aureo complesso formato da una chioccia attorniata da 5.000 pulcini. Plinio descrive la tomba come formata, all’esterno, da quattro cuspidi a cono che circondavano una piramide: labirintica invece la struttura interna, che la tradizione locale individua nella rete di cunicoli che in effetti si sviluppa nel sottosuolo di Chiusi. Altri poi hanno chiamato in causa l’insieme di tombe situate all’interno della collina detta Poggio Gaiella. Resta comunque intatto il mistero della vera ubicazione della tomba. Perché dopo la morte del re le porte della reggia si aprirono per far passare lo straordinario corteo funebre ma, improvvisa, una grande nube bianca avvolse le strade e le piazze di Chiusi: e nessuno poté vedere dove fossero diretti, assieme a Porsenna, carro, cavalli, chioccia e pulcini. 1. Mezzadria: anche in Val di Chiana si è dimostrata cornice determinante e pervasiva, dal paesaggio alle relazioni sociali. Il proprietario offriva abitazione, attrezzi e terra al contadino che, con i suoi familiari, metteva a disposizione il lavoro. I raccolti venivano divisi a metà e dovevano esser variati perché la parte del mezzadro costituiva l’unica sua forma di nutrimento: pax mezzadrile e campagne come giardini si è quindi detto e, soprattutto, elogiato a lungo. Tutto quasi vero ma a scala alta e grossa: da implementare e raffinare muovendosi entro cartografie conoscitive più prossime alla dimensione quotidiana, individuale e locale. E senza dimenticare che, nei rapporti sociali, ‘relazione’ è quasi sempre sinonimo di ‘asimmetria’. 

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Iris Origo ricordava che già nel ’400 è attestata la ‘denuncia’ dell’equità superficiale del patto colonico: “Noi ci stiamo tutto l’anno a lavorar E lor ci stanno al fresco a meriggiare; Perché s’ha da dar loro mezzo ricolto, Se n’ abbiam la fatica tutta noi?”. (Origo, 1970, p. 206)

Al 1772 risale la Lettera parenetica di Giuseppe Ippoliti, vescovo di Cortona: una straordinaria anticipazione della ‘dottrina sociale della Chiesa’ dedicata alla specificità del contratto di mezzadria, la cui sostanziale disparità finisce addirittura per quasi legittimare l’occulta compensazione praticata dal mezzadro. “Il contadino ruba” è affermazione “che io sento sempre in bocca di quei crudi, ed inumani Padroni, che stimano il Bifolco qualche cosa meno dei Bovi aratori”. Ma questi “ha diritto di campare, e vestire da Contadino sulle terre che egli lavora, quando sieno proporzionate alla sua Famiglia”. E “alcune volte il Padrone deve rifare al Contadino, perché ha ricevuto troppo anche col ricevere la sola metà del fruttato di una terra sterile, ed ingrata”. “Disapprovo, come devo e condanno” il furto, pertanto, ma condanno “egualmente, e riguardo come complici, e cagione di tale peccato i loro inumani, ed ingiusti Padroni; che se i miserabili Contadini allungano tremando la mano al monte comune della raccolta, e se appropriano uno o due staia, non ne troverete uno solo, che si sia preso questa libertà per divertirsi con dei Compagni, per mantenere dei vizi segreti, o per erigere un traffico straordinario. No, la necessità gli ha costretti, hanno preso quel poco di più per non ridursi ad una nudità vergognosa, o per non morirvi di puro stento” (Ippoliti, 1987, pp. 4546). Consapevole ed esplicita, naturalmente, la reazione dei mezzadri poté manifestarsi solo tra ’800 e ’900. Il loro primo sciopero regionale data al 7 aprile 1902 e avvenne a Chianciano Terme, come ricordava il 19 dello stesso mese il periodico socialista “La Martinella”: “La mattina dopo, verso le sette, al suono della lumaca8, che da diversi poderi chiamava i contadini a raccolta, si cominciò a veder partire dalle case coloniche i bianchi buoi, prendere le strade che menavano al paese, e poco dopo il gioco del pallone9 era rigurgitante di uomini, bovi, pecore e maiali […] tutti scioperanti. E qui prima e disagevole sorpresa per i proprietari, che non credevano allo sciopero: ma essi si cullavano sempre in vane illusioni sulla loro potenza padronale ormai svanita. I contadini erano pieni di buon animo, e risoluti a continuare nello sciopero anche otto giorni: ‘noi non ci muoveremo di qui che quando sarà tutto accomodato’ dicevano alcuni; ‘vedete, diceva un altro, quest’albero come ha ficcato le radici nel terreno, e così saremo noi: prima mi devono tarlare i piedi che muovermi di qui con le bestie’” (Meoni, 2002, p. 32).

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Conchiglia utilizzata come strumento acustico. È il gioco del pallone col bracciale, allora in tutta Italia molto più popolare del pallone usato nel football. In Val di Chiana è ancora praticato a Chiusi e Monte San Savino.

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La mezzadria, entrata in crisi irreversibile a partire dal secondo dopoguerra, vide la sua conclusione ufficiale tra il 1964 e il 198210. Ma prima ancora che fuori dalla legge la mezzadria si era dimostrata fuori dalla storia: “Padrone è rinfurbito il contadino Non va più col paniere e colla sporta E i capponi e prosciutti di suino In fattoria più non glieli porta. Cappello in mano e faglielo l’inchino E d’ova fresche mantene’ la scorta. Al cinquantotto so’ di già arrivato E fa ruba’ di più nun è peccato”. (Orlandini, Venturini, 1980, p. 212)

2. Tra i ’40 e i ’50 del secolo scorso uno tra i principali oggetti del contendere coincise con la richiesta di miglioramento delle case coloniche. Fu in particolare l’ottica femminile a riguardare i vecchi muri leggendovi soprattutto lontananza dagli standard abitativi della modernità urbana: luce elettrica, acqua corrente, servizi igienici, superfici di agevole manutenzione. Altri invece, per postura e senso, gli sguardi culti del passato sulla casa contadina che, in veste di archetipo dai materiali effimeri, appare negli sfondi di affreschi e cassoni nuziali, tra medioevo e rinascimento. Consolidatasi poi in pietra e cotto, dialogando con modelli alti e urbani, è largamente presente nelle descrizioni fascinosamente puntuali dei cabrei. Tra ’800 e ’900 pennelli e obiettivi la ritraggono come arredo edilizio del paesaggio agrario, in chiave spesso di ideologia retorica: “L’indole mitica, cosmica, perennale, e pertanto classica, della casa rurale più che altrove mi sembrò palese in Toscana […] La casa contadina riveste sempre, ancora, un carattere, un sentimento di religiosità. […] Tutto spira purezza, tranquilla armonia” (Tinti, 1935, p. 7) rapidamente infranta negli scontri sindacali che caratterizzarono la fase terminale della mezzadria. Le case, abbandonate come i campi, divennero gusci vuoti: effimero l’affitto a giovani di città, spesso studenti, che le risignificarono tra i ’60 e i ’70 come spazi di una libertà extrafamiliare e neocomunitaria da organizzare nel fine settimana. Infine il progressivo e decisivo mutamento di segno: da simboli di arretratezza a soluzioni abitative prestigiose, acquistate e restaurate da nuovi abitatori le cui professioni erano e sono in massima parte lontane dal rapporto con la terra. Fortemente a rischio, pertanto, la memoria contadina di quelle stanze: cosa ci fosse e come ci si vivesse. Gli oggetti e gli affetti. Tutto il complesso ‘sentire’ costituito dalle relazioni tra i vari membri dell’unità familiare mezzadrile: dalle speranze al dolore, dai rancori alla gioia. Mantenerne oggi consapevolezza arricchisce logge e colombaie restaurate: anche quando ci appaiono tradotte in musei, ristoranti, agriturismi, spot pubblicitari e manifesti.

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Dalla legge 756 del 15 settembre 1964 (che vietava la stipulazione di nuovi contratti a far data dal 23 settembre 1974) alla 203 del 3 maggio 1982 (che imponeva la trasformazione di quelli comunque ancora esistenti in contratti di affitto).

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Per questo, in opposizione complementare all’astrazione ideale, propongo la concretezza di una casa colonica dei dintorni di Montepulciano tra gli anni ’30-’50 del ’900: con i colori caldi che la memoria di Elide Falciani11 ha assegnato, almeno, alla dimensione materiale. Un museo vivo perché narrato a voce: “S’arrivava c’era l’orto, perché c’era tant’acqua, si faceva tutta roba di orto, ortaggi, poi c’era l’aia, dov’erano i pagliai, tutto quello spazio, poi c’era una scalinata di una decina o dodici scale, c’era una loggia, si chiamava la loggia, col murelletto giro giro e poi c’era un portone di legno e si entrava in cucina”. Al pianoterra erano “stalla, cantina, rimessa e magazzini de’ maiali”. “Fòri” c’era anche una “capanna” per gli attrezzi e il ‘bagno’: “un capannello, un affarino tutto di paglia, di segala era chiamata. C’era un grande ziro. S’andava là, poi ogni cinque sei giorni si prendeva un bigonzo e poi si votava. Si portava alle piante, agli olivi”. Casa chiamava Elide la cucina in quanto ‘stanza per eccellenza’. A travi e correnti del soffitto venivano appesi, subito dopo la lavorazione del maiale, i diversi pezzi (prosciutti, salami, salsicce etc.) che “poi quando scaldava l’aria si mettevano in cantina”. In estate dal soffitto pendevano strisce di carta moschicida. Il pavimento era di mattoni molto rovinati (“alzando il mattone si vedeva le bestie di sotto”) anche se “quando s’era noialtre signorine, che ci piaceva la casa più in ordine, allora si prendeva un rosso, e po’ un tipo una cera e si pulivano e lustravano”. Lungo le pareti “c’erano delle mensole […] che ci si teneva un po’ tutto, noi, perché non è che c’era il mobile, il secondo mobile, il terzo mobile. Lì ci si teneva salsa di pomodoro che la facevamo noi, bottiglie di vino dolce che rimanevano durante l’anno”. La salsa di pomodoro era contenuta in garaffe. Stavano qui anche le marmellate e tegami di coccio e pignatte, rosse e verdi: “ora sembrano anfore però allora ci si faceva il mangiare, addirittura”. L’acquaio era di pietra: “Per le mani ci si teneva una catinella di rame”. Per rigovernare venivano impiegati catini di metallo. L’acqua veniva attinta a delle “vene d’acqua” non molto lontane da casa con delle brocche di rame che poi stazionavano sull’acquaio. Tra i mobili: una vetrina, “alta, con i vetri e sotto aveva dei cassetti con gli sportelli. Mettiamo: ’un so, c’era un servizio di piatti o di bicchieri un po’ più delicato, allora quello non veniva mai adoperato e si lasciava in questa vetrina. Poi c’erano queste mensole di legno, o ci si faceva queste trinine a uncinetto oppure da ragazzette a noi ci facevano fare… si prendevano dei giornali, si ripiegavano e poi si tagliuzzavano per sagomarli tutti, si facevano questi”. Foto e cartoline postali venivano inserite tra vetro e telaio di legno, nella parte alta: “si pienava tutta la vetrina di fotografie, degli amici, dei parenti, dei matrimoni. Un ricordo di tutta la generazione. Ora c’è l’album e invece allora si appiccicavano a ’ste vetrine. Uno veniva a casa e chiedeva: questo chi è?”.

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In una serie di interviste registrate su nastro, a Montepulciano, nel settembre 1996 e ora conservate nel mio archivio.

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Casa colonica di Poderi medicei

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La madia “era bella grande, s’era una famiglia noi di sette persone, e allora era un bel mobile grande, e da parte così c’erano due sportelli che ci si teneva un po’ tutto, l’olio, fiaschi di vino, il sale, l’aceto, questa roba qua e po’ c’erano de’ cassetti che ci si teneva la tovaglia, l’asciugamani, gli asciughini pe’ piatti. […] ci si faceva il pane e ci si teneva, ’un so, la roba che rimaneva, durante il giorno, se rimaneva un po’ di minestra, se rimaneva fagioli, si metteva dentro questa madia perché il frigo non c’era.” Attorno alla tavola le panche e le sedie costruite da familiari. Ma c’è anche il ricordo di seggiolai professionisti che “venivano dalla montagna della Badia. Erano in due. Portavano una specie di zaino e dicevano: Ecco i sedai. Chi c’ha bisogno? A vederli era uno spettacolo: uno tagliava, l’altro li incastrava. In mezza giornata facevano anche dieci seggiole”. La camere erano gli spazi dell’intimità possibile: “Noi quando ci siamo sposati siamo passati pe’ la camera della mia socera che era grandissima, c’era i letti di tutti questi figlioli, mia socera ha avuto otto figli. Dopo noi siamo passati nell’altra camera, poi dopo c’era un’altra stanzina che era chiamato il granaio. Allora quando andavino in questo granaio passavano per la nostra ancora anche se s’era appena sposati… a letto… eh, passavano”. Alle travi del soffitto erano tese corde dove si appendevano a seccare grappoli d’uva: “per far colazione, con un pezzo di pane, o per la ciaccia. Addirittura erano corde che le facevano i miei da sé perché si faceva quella canapa nel podere, e poi veniva messa a macerare nell’acqua”. L’imbiancatura era a calce, come in cucina. Solo “nella camera di mia madre giro giro c’era come una decorazione, tipo fatta a fiori, a rombi, sagomata, giro giro, in cima in cima. Le camere eran quasi tutte celeste. Se c’era un paio di ragazze allora si faceva rosa”. “I letti tutti di ferro, con la spalliera, davanti c’erano de’ colori, c’erano specie pitture di madonne, scuri di colore”. Sulle “reti, quelle vecchie, nodose” poggiava il saccone riempito di foglie di granturco. “Ogni anno le foglie dopo il raccolto del granturco si cambiavano” e ogni mattina venivano rimescolate introducendo le mani Val di Chiana Toscana. Territorio, storia e viaggi


nell’apposita buca “chiusa con delle fettucce, come le federe, ci si faceva un fiocchetto”. Su tutti gli armadi veniva sistemata frutta ad essiccare: “Mettiamo ora c’era il raccolto delle mele, allora ognuno sopra questi armadi ci si metteva le mele, le noci, perché si asciugasse e dopo durante l’inverno si mangiava […] Noi s’era lì tutti a tavola, d’inverno, si diceva: ci vai sopra all’armadio a prende du’ mele, ci vai sopra all’armadio a prende du’ noci? Faceva parte del pranzo, della cena, quella roba là”. Le finestre si chiudevano con nottolini di legno: se i vetri si rompevano poteva capitare che ci si limitasse a tenere chiusi gli scuri. Sull’esterno “niente persiane”: “all’estate ci si teneva gli stoini per via delle mosche, all’inverno niente, si levavano. Li faceva anche quelli mio padre, mi pare, con quella cannuccia, che s’andava giù al lago, al chiaro di Moltepulciano, e se le facevano”.

La Chiana

3. “Non dico quasi farsi le scarpe, ma gli zoccoli se li faceva, le ceste per portare i prodotti se le faceva da sé” (De Simonis 1986, p. 305). Nell’intreccio di cesti, panieri e altri contenitori si è soprattutto manifestata l’artigianalità contadina spazialmente prossima alle materie prime necessarie: “Per rivestissi ce avevimo le Chiane che c’era il vinco, la pagliola, si ‘ndava a rubà la pagliola al palude che era del comune si faceva ‘sciutta’, s’imbiancava e se vendeva, c’ereno i coltori che veniveno a cercalla; poi se faceva il vinco, c’ereno le vertiche che buttaveno i giunchi lunghi così, la sera quande tramontava il sole noialtre s’entrava nel palude, accosto al Chiaro e se faceveno dei fasci di vinco grossi così”12. Fondamentalmente, per ottenere un cesto, occorreva una struttura di base (rami di quercia o di frassino) su cui avvolgere una trama (piccoli e flessibili rametti di vimini o giunco): tecnica che presentava analogie evidenti con la tessitura manuale, non di rado annoverata tra i lavori femminili praticati all’interno della casa colonica. 12

Intervista a Caterina Toppi del 12. 4. 1980. Tesi inedita Donatini, p. 141 a.

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Quello che non sapeva o poteva fare, il contadino lo delegava agli artigiani di paese: falegnami, sarti, calzolai, fabbri, maniscalchi, carradori, ceramisti. Mestieri che in seguito, anche per il venir meno della strutturale ‘domanda’ agricola, sono emigrati, mutati, estinti. Il “fatto a mano” è soprattutto transitato dalla funzione pratica a quella estetica, rispondendo ad una domanda in massima parte esterna, legata al turismo. Diversi d’altra parte anche gli artigiani, per formazione, motivazione e provenienza: in ogni caso largamente visibili nel territorio di cui rappresentano uno dei caratteri più “attesi” da parte di quanti lo visitano. Val la pena, in questa direzione, soffermarsi su due diversamente significative produzioni di ceramica. A Monte San Savino si è riarticolata in modalità artistiche autoriali, già dalla prima metà del ’900, una lunga tradizione di oggetti d’uso e di gusto popolare: celebre lo ‘scaldino con il fischio’, con applicazioni a rilievo e verniciato a minio con chiazze di manganese. Sul ceppo plurisecolare, tutto interno e ‘basso’, di prodotti domestici è sorta una neotradizione attenta all’esterno (con mostre e rassegne di livello nazionale) e ad una creatività che dialoga e traduce originalmente forme e colori del passato. Oltre ai laboratori presenti nel paese è raccomandabile la visita del Museo Comunale della Ceramica Popolare che “si pone come momento di recupero e valorizzazione della forte tradizione popolare del territorio, risponde alle esigenze di documentazione e di tutela e riordino della ceramica popolare della Val di Chiana e rappresenta un doveroso collegamento e riferimento alle botteghe tuttora operanti nella cittadina nel recupero di valenze fattuali, morfologiche e decorative, patrimonio della produzione tradizionale savinese. Il museo ha avuto origine dalle esposizioni di ceramiche organizzate ogni anno dal Comune a partire dal 1971, ma solo nel 1989 si decise di organizzare una esposizione permanente nel Cassero. Si segnalano la sezione di ceramica popolare (orci, scaldini, scaldapasta ecc. del Settecento e Ottocento) per il suo interesse etnografico, alcuni pezzi antichi di manifattura pregiata (Deruta), le ceramiche di artisti contemporanei famosi”13. Certamente almeno al medioevo risale la tradizione ceramica di Petroio, nel Comune di Trequanda: una produzione che, fino agli anni ’50 del secolo scorso, era indirizzata a manufatti domestici (soprattutto conche da bucato, catini e orci per l’olio) che interessavano il mercato provinciale. Su scala anche internazionale invece vengono distribuiti oggi altri prodotti, legati all’arredo domestico o del giardino. Un bel Museo14 consente inoltre di ritrovare, nella descrizione della tecnica, le voci dirette e profonde del sapere locale: “Di botteghe ce n’era tante in paese. Tutte nemmeno me le ricordo. Ma noi si stava anche nelle case: in cucina no ma quasi. Il nostro è un mestiere che si fa dappertutto. Si prendeva la terra e si andava su per le scale di chiesa, nelle piazze. Petroio era tutta una fabbrica. La terra che dalla cava veniva nelle botteghe si metteva come

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http://web.rete.toscana.it/cultura/musei http://www.museisenesi.org/index.php?id=182

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in delle vasche, con l’acqua. Noi si diceva il terraio. Poi la si trapalava sul bancone: uno di qua e uno di là, erimo due, si cominciava a battere col coltellaccio, fina fina fina. Questa terra fina s’appastonava a mano, per fare una palla, il pastone. E di lì se ne prendeva un po’ alla volta e si arrotolava come per fare la pasta, come per fare i pici. E infatti si chiamava il picio: un diametro, sarà stato, di 3 o 4 centimetri. Con quello si faceva tutto. Dal nulla si faceva il fondo. Poi il picio ci si metteva sulla spalla e per fare, mettiamo, uno ziro ci si girava intorno. Il tornio s’era noi. E si tirava su a poste. Il picio diventava una striscia, si aspettava seccasse e su su via via. Per cominciare non c’era età. A du’ anni io facevo omini, palline, per giocare. Poi dopo s’imparava con l’occhio. Guardando i maestri. Anche dieci anni, per avere un operaio finito. Qualcuno non finisce mai. La mi’ mano la riconoscevo tra cento. Anche quelle degli altri. Vedevo un pezzo e sapevo se l’aveva fatto Cacco, o Romeo”.

Podere Rialto con casa abbandonata

POESIA “Paolino, She does not count, because they weigh the mill”. Ossia: “Paolino, ulle conta’!!! Tanto le peseno all’oliviera!!!”. È “frase detta da Dirceo, al genero Parissi, direttore di banca, che a coglitura d’olive l’aveva presa con parecchia calma”15. Così su Facebook sfogliando Il Vocabolario della lingua chianina: spazio web di raccolta e dibattito, sul filo dell’ironia ma anche in nome del ruolo forte esercitato dalla lingua nel configurare l’appartenenza locale o, meglio, glocale. Figurando infatti tra gli obiettivi dell’iniziativa anche quello di “esportare la saggezza contadina della Val di Chiana in tutto il mondo (worldwide)”.

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Più o meno esterna e compiaciuta, l’attenzione diversamente valorizzante alle parlate chianine ha del resto conosciuto precedenti illustri e remoti. Attorno alla metà dell’800, in piena ‘questione della lingua’, l’abate piemontese Giambattista Giuliani visitò diversi luoghi della Toscana dilettandosi a “conversare colla gente del campo e delle officine, per attingerne il soavissimo e proprio linguaggio” (Giuliani, 1865, V) che cercava quasi di ‘stenografare’: in realtà idealizzando romanticamente la realtà delle parlate locali quando poi gli appunti passavano alla stampa. A Lucignano, nel settembre 1858, incontrò un’anziana coltivatrice di bachi da seta: “Ma tanti mali patiscono i bachi! ora per una cosa, ora per un’altra, ci fanno disperare. Parecchi ne va in capogrossi, tutti pieni d’acqua, e altri ne vanno in capovuoti, che lustra il capo come una spera, e non concludono nulla. […] È degli anni, che della seta se ne fa poca; non c’è allegrezza a sbozzolare; tante fatiche, tante fatiche, e non se n’ha la spesa!” (Giuliani, 1865, pp. 246-247). Opposto l’approccio di Raffele Luigi Billi, di Castiglion Fiorentino, che pubblicò la “lingua dei rozzi contadini della nostra Valle di Chiana […] in forma poetica” che “fece molto ridere i miei amici, che nelle amene brigate sempre mi richiedevano, che io facessi loro udire questi scherzi” (Billi, 1870, pp. 5-6). Billi si muoveva, evidentemente, nel solco della ‘poesia rusticale’16 che, fin dalla Nencia da Barberino, aveva elaborato in genere letterario il disprezzo urbano per l’eloquio contadino. Ecco come il vecchio Bistone si rivolge a Pasquino, aspirante alla mano di sua figlia: Si le cécere, e i grégli ’l frusilio Te fèn tul chépo, nun me maravéglio; Ch’éri un gran rompecollo già ’l sapio, E si te canzi, sirà sempre meglio: Sinonnò sintirè che scucciulio, Si la bubbola, e l’ciuffo te scompiglio! Si più duri de rompem’ i calzoni, T’aciacco la puntura, e i stranguglioni. Se le zanzare e i grilli e il brontolio Ti fanno in capo, non mi meraviglio Ch’eri un figuro lo sapevo anch’io. Se di qua parti sarà sempre meglio; Sennò sentirei tu che scocciolio, Se il ciuffo ed il toppé te lo scompiglio; Se più duri di rompermi i calzoni, Ti schiaccio il mal di petto, e i sanguiglioni. (Billi, 1870, pp. 26-27)

Ricchissima di interessanti materiali linguistici è la raccolta di tradizioni pazientemente strutturata nel corso di tutta una vita da Sante Felici, parroco dell’Abbazia di Farneta. Sfogliarla significa ritrovare, soprattutto, la capacità creativa della parlata popolare, intessuta di 16

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Cfr., tra l’altro, Atti del convegno sul tema: la poesia rusticana nel Rinascimento, 1969 e Arbizzoni, 1997. Vedi anche, per l’area aretina, l’opera e la fortuna di Antonio Guadagnoli tratteggiata da Guglielmo Amerighi in Guadagnoli, 1973.

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metafore, allusioni, ammonimenti strutturati in proverbi o diluiti nella narrazione. Si veda questo vertice di surrealismo ironico, ascrivibile al genere del ‘paese degli sciocchi’17 che, nella fattispecie, viene fatto corrispondere a Garmana: “Se’ da quante que’ de Gàrmena, che piantèon gli èghi, e mietetéon có’ la gliésana; e, quando brucèa la neve a San Giglio, vèttono a spéggnala có’ la cànnapa”. Indispensabile la glossa del parroco: “Avendo piantato gli aghi per trarne pali da leva e non vedendoli crescere, ne incolpano i grilli che li avrebbero mangiati; imbracciano i fucili da caccia e si pongono a guardia del campo; ad un certo punto, uno addita al compagno un grillo posatosi sul proprio petto, invitandolo a sparargli, ma, purtroppo, col grillo muore anche l’incauto Garmanese; e lo sparatore torna in paese, gridando con aria di trionfo: ‘un di noi e un di loro!’” (Felici, 1977, p. 135). Quanto raccolto con passione da Felici è ormai in gran parte uscito dagli usi quotidiani attuali. Vita nuova e diversa hanno però conosciuto alcuni canti popolari grazie alle riesecuzioni di vari gruppi folkloristici. Come si è verificato per questi ‘canti di mietitura’, passati dal campo di grano al libro e infine al web18: “E canta la cichéla perché è ciéca, e chji l’ha semmenéto él batta e ’l miéta. E canta la cichéla perché è matta, e chji l’ha semmenéto él mieta e ’l batta. Atàcca, capofàlcia, e tira via, si tu m’aspetti, te fo compaggnìa. Oh, tàgglia, taggliá!, dice la Maremma, finito ’sto campin, se va a merènda. Oh, tàgglia, tàgglia!, dice ’l Maremmano, finito ’sto campìno, ce n’andiamo”. (Felici, 1977, p. 427)

Tra i ’70 e gli ’80 del secolo scorso ha conosciuto momenti di ripresa la Vecchia, una forma di teatro popolare carnevalesco il cui intreccio prevedeva poche varianti e improvvisazioni rispetto ad uno schema sostanzialmente fisso: il Vecchio medita di uccidere la Vecchia, sua moglie, per sposare una donna più giovane ed è in questo aiutato dal figlio, cui la Vecchia nega il permesso di sposarsi: “Ma senti tu quest’annemele, nun ha vent’anni e se vu’ maritere”. Saranno i “segantini” a giustiziarla grottescamente “smezzandola” dopo la lettura di un testamento satirico: “Tu che se’ la mi unneca figliola a te lascio il bucatin segreto e quella coda de baccalà che ancora ce magnete per un mese”. Padre e figli a questo punto si pentono e corrono a chiamare un medico che, valendosi di improbabili strumenti, riesce a far ritornare in vita la Vecchia: conclusione in allegria e consegna agli attori, da parte della famiglia ospitante, di uova o altri generi alimentari. Lo spettacolo durava una ventina di minuti e veniva ripetuto di podere in podere, non diversamente dalla “maggiolata” e da altri tipi di spettacoli itineranti di questua:

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Cfr. Carnesecchi, 2008. Cfr. http://www.cortonaweb.net/musica/index.php

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“Buona sera, padroni di casa! Siam venuti per fare una prova; se ci date una coppia dell’òva, questa vecchja voggliamo segar”. (Felici, 1977, p. 500)

Poderi delle casine di Paterno

Al momento però la Vecchia può dirsi ‘in sonno’ al pari del Bruscello: il cui intreccio riproponeva lo sviluppo di temi classici, epici, religiosi. Dal Guerrin Meschino alla Pia de’ Tolomei, da Nerone a Santa Margherita da Cortona: “Il Re Astillodoro un gran progetto ha fatto: e contro li cristiani da solo vuol pugnar”. (Felici, 1977, pp. 474-475)

Memoria viva, di queste ed altre forme di drammaturgia popolare, è comunque visitabile a Monticchiello grazie al TePoTraTos (Scene del Teatro Popolare Tradizionale Toscano): un Museo ricavato da un granaio e dove il visitatore si trova “immerso in un universo comunicativo costituito da rumori, voci, frammenti di dialoghi, immagini,” ed è chiamato “ad interagire e a ritrovare i frammenti di quelle forme di teatro non come relitti di antichi riti custoditi da ignari contadini, ma come un modo di vivere la vita e di sentire la bellezza e l’arte”19. TePoTraTos è nato come articolazione dell’ormai quarantennale attività del Teatro povero di Monticchiello che, ogni luglio, propone i suoi “autodrammi”: composti e recitati coralmente dalla comunità per ripensarsi ed esibirsi dentro e oltre la memoria. Come quando, nel finale dello spettacolo del 2002, si è reso protagonista della finzione e dell’intreccio il futuro del paese. Realmente immaginato e contrastato:

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http://www.museisenesi.org/index.php?id=298

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“Luchino: Arrediamo il paese come un grande unico, immenso museo Andrea V: Facciamo pubblicità … Attrarremo gente da tutte le parti … Voci: Poi? E poi? Luchino: Lo vendiamo Paolo: E questa sarebbe la soluzione conveniente? Andrea V: Sì, è l’unica … Costruiamo una società con tutti gli abitanti … anche con quelli che se ne sono andati da qui.. Vendiamo il museo … Lui fa da mediatore (e indica Alpo) Alpo: Ho già il cliente … anzi due … Luchino: Col ricavato costruiamo il paese in una zona più moderna … una zona da vivere Alpo: Con tutti i servizi necessari … a un passo dall’autostrada … non lontani dalla ferrovia Luchino: Fermati qui Alpo: I compratori vogliono investire in cultura … milioni … miliardi ci aspettano Luchino: Fermati Alpo: Loro comprano tutto … campi, boschi, paesi, piazze, monumenti … tutto. E poi anche l’anima Luchino: In questo modo ricostruiamo l’anima del paese … un’anima moderna finalmente … un’anima più amata … da molte parti stanno facendo quello che si vuol fare noi … Luchino: Allora? Paolo: (secco) NO Alpo: Nooo??!! … come no?!”. (Teatro povero di Monticchiello, 2002, pp. 19-20)

FESTA Tempi e spazi che si dilatano e sdoppiano anche mutando senso. Sempre quelli infatti i dodici mesi dell’anno ma al loro interno momenti e scenari festivi si sono moltiplicati e, soprattutto, risignificati. Nuove date si sono aggiunte al calendario religioso e agricolo della tradizione e vecchi appuntamenti hanno conosciuto variazioni di forma e ancor più di motivazione. Anche perché la cultura popolare espressa oggi nelle feste è ben diversa da quella che una volta si caratterizzava per chiusura e separatezza: processioni e palii si svolgevano e rivolgevano quasi esclusivamente all’interno della comunità che si dimostra oggi, al contrario, quanto mai aperta e ricettiva. Anche troppo, per le vestali dell’autenticità. “Si può scegliere l’identità, se ne possono scegliere molte, si può cambiare mondo cambiando paese o festa” (Clemente, 1997, p. 100). Nel panorama festivo attuale ci sarebbero soprattutto invenzioni recenti e false, elaborate per i turisti: vero ma non necessariamente negativo. La stessa ‘nozione’ di festa, intanto, è nata nel secolo delle invenzioni, l’800, generata dall’angoscia che fosse in via di estinzione la festa ‘vera’20. La valorizzazione dell’identità locale sembra non potersi esimere da rapporti con esigenze analoghe tendenzialmente globali. All’interno di uno spazio comune le feste si guardano e si ibridano in regime di concorrenza per guadagnarsi spazi

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Cfr., tra l’altro, Apolito, 2007.

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maggiori di visibilità e visita. La località richiede, sempre più, un pubblico non locale da costruire e attrarre. A livello popolare inoltre, estremizzando, si costruisce l’immaginazione di sé, della propria storia, non solo discorsivamente ma anche, tramite semilavorati di varia natura, realizzando forme spettacolari ‘concrete’. Quanto poi alla loro ‘autenticità’ è noto come l’antropologia contemporanea preferisca spostare la questione sul terreno dell’‘autenticazione’21 centrando l’oggetto di indagine sul percorso “messo in atto dagli stessi soggetti portatori secondo pratiche coscienti di culturalismo, vale a dire di utilizzo della differenza culturale con obiettivi politici” (Vereni, 2008, p. 8). Senza peraltro rinunciare, beninteso, a qualche ancoraggio sostantivo, indispensabile per non annegare nella liquidità del divenire assoluto. Identità, utopica essendo l’atopia, non può fra l’altro non rimandare a ‘luogo’22: una precisa determinazione spaziale, un ‘dove’ entro cui si compongono le motivazioni dell’appartenenza sentita. ‘Appaesarsi’: sentimento di località personale che sostantivandosi contrasta l’astrazione universalizzante del percepirsi nel mondo. La festa contribuisce, in questa direzione, al sempre più necessario restauro tra il sé e un ubi23. Anche in Val di Chiana, in questo quadro, sarà intanto da tener conto delle scadenze del calendario religioso. Il 3 febbraio a Scrofiano (Sinalunga) la festa del patrono S. Biagio si caratterizza per l’esibizione processionale di un trofeo ottagonale (detto mazza, realizzato con pasta di farina di grano e uova, cotta al forno) sormontata da una Cupola sul cui apice posa la statuetta del santo. Densa di appuntamenti significativi si presenta la Settimana Santa: anzitutto le processioni del Venerdì, dette giudeate a Chianciano Terme e a Guazzino di Sinalunga, e particolarmente scenografiche a Cortona e Foiano. A Castiglion Fiorentino si tiene poi ogni due anni la Sacra Rappresentazione della Passione mentre il Sabato è attesa la Volata: al Gloria una statua del Cristo Risorto percorre velocemente tutta la navata centrale della Collegiata fin sotto la grande cupola. Attorno al Natale è variamente vissuta la tradizione del Presepe: con allestimenti artistici a Cortona e a Bettole (Sinalunga) e con ingegnose animazioni meccaniche a Cesa (Marciano della Chiana) e a Fratta e Ossaia di Cortona. Recente il proliferare dei Presepi viventi: l’insieme ‘pittoresco’ di vicoli, scalette ed archi del proprio paese viene ripensato in chiave esotica, assolvendo la stessa funzione tradizionalmente delegata a stagnola, muschio e sughero. Le stratificazioni della realtà storica si neutralizzano in iper- o arciluoghi dell’immaginario popolare. Come attualmente si riscontra a Montepulciano, Castiglion Fiorentino, Marciano della Chiana, Torrita di Siena. A Pietraia (Cortona), nell’edizione 2006 ha trovato per la prima volta accoglienza una componente multietnica con “figuranti di religioni diverse da quella cattolica romana”24.

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Sull’oggettivazione dell’‘autentico’ cfr. Clemente, Mugnaini, 2001 e de Sanctis Ricciardone, 2007. Cfr., tra l’altro, Grasseni, Ronzon, 2004. Cfr. Tarì, 2003, p. 17. http://www.cortonaweb.net/eventi2004/scheda_db.php?codice=434

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Paesaggio agrario

Nel calendario delle stagioni agricole si distingue, tra i vari Carnevali, quello di Foiano per la qualità dei carri allegorici che sfilano per quattro domeniche consecutive. Nutrito il capitolo degli appuntamenti ‘agonistici’, quasi sempre connessi alla suddivisione in rioni di paesi e città nella forma del palio, per evidente attrazione imitativa del modello senese. Cavalli e somari, rispettivamente, gareggiano a Castiglion Fiorentino e Torrita di Siena25: mentre a Chiusi corridori umani si portano sulle spalle una torre di legno. Botti da vino vengono rotolate in salita a Montepulciano durante il Bravìo26 e a Cortona, per l’Archidado, si sfidano squadre di balestrieri. Eredi dei carretti autocostruiti dai ragazzi con assi di legno e vecchi cuscinetti a sfera sono i veicoli protagonisti, a Sinalunga, della Carriera di San Martino. Da notare come in vari casi l’organizzazione di questi giochi abbia dovuto confrontarsi con l’esigenza di ‘sportificare’27 la tradizione virandone la ratio agonistica dalla forza all’agilità per adeguarsi alla rapidità standard, ‘televisiva’, delle competizioni contemporanee. Regole praticamente immutate presenta invece il gioco del pallone col bracciale praticato e rivitalizzato a Chiusi e Monte San Savino. La competizione non è comunque l’unica ragione di queste ed altre iniziative: indispensabile si mostra infatti l’additivo ‘storico’ rappresentato da cortei, figuranti e ambientazioni complessive collocabili tra medioevo e rinascimento28. Una variante del settore è, a Monte San Savino, la rievocazione della battaglia di Scannagallo (2 agosto 1554) contornata da un mercato con magi, giullari e nobili: un caso di quella Living History, praticata largamente in Europa, che genera una sorta di reincantamento civico. Spesseggiano anche i mercati medievali, con artisti di strada, mangiatori di fuoco, artigiani e ciarlatani.

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Cfr. Mugnaini, 2010. Cfr. Fiorilli, 2010. Cfr. Bausinger, 2005 e 2008. Cfr. Cavazza, 1997. Al 1929 rimanda il Palio di Asti, al 1930 il Gioco del Calcio, al 1931 la Giostra del Saracino di Arezzo, al 1935 il Gioco del Ponte di Pisa e il Palio del Carroccio di Legnano, al 1937 il Carnevale della Mea di Bibbiena, al 1939 il Bruscello di Montepulciano.

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Evidentemente, a livello locale e popolare, c’è forte esigenza di immaginarsi molto all’indietro nel tempo: i subalterni della storia che conta si fanno oggi protagonisti della sua citazione scenografica. Variante dell’imitare è in questa logica il travestirsi, che dell’identità attuale segnala i limiti superandoli con immaginazione, desiderio, sogno di alterità e di sortita dalla routine. Meno praticata è la rievocazione del passato prossimo contadino, come nel caso della Mostra del carro agricolo29 di Fratticciola (Cortona) o della sfilata di carri che caratterizza la Maggiolata di Lucignano, gestita da un Gruppo Folkloristico musicale e coreutico che ha esportato le sue radici nel mondo, dall’Europa, al Giappone agli Stati Uniti. L’aspirazione a reimpiantarsi nella comunicazione globale, e con esplicità finalità etica, è testimoniata a Cortona dal Festival europeo di musica e danza popolare che intende “offrire l’anticipazione di un mondo che rinuncia ai conflitti e preferisce la conoscenza reciproca e il dialogo”30. Trasversale quanto embricata alla dimensione festiva si manifesta con evidenza quella dell’alimentazione: contorno frequente delle scadenze appena ricordate o addirittura occasione di scadenze proprie, mirate alla celebrazione del ‘prodotto tipico’. Spenti i vecchi focolari delle case coloniche e di paese, non per questo si è completamente interrotta la tradizione alimentare. Diverse modalità di cottura e altri contenitori perpetuano ricette antiche quasi sempre modificandole soprattutto nel passaggio dalla pratica casalinga alla visibilità pubblica dei ristoranti e delle sagre. Come nel caso dei piatti nati dal bisogno di riciclare il cibo e che invece sono oggi eseguiti per libera scelta di gusto e ‘citazione’. In ristoranti di alto livello possono così comparire i pici (spaghetti grossolani fatti a mano) conditi con briciole di pane raffermo e aglio. Assai più corposi sughi a base di anatre e paperi accompagnano invece pici o altra pasta nelle rievocazioni dei pranzi di battitura: il grano e la vecchia mietitrebbia assumono funzione museale ma la ricchezza del pasto è la stessa di quando il procedimento di lavoro era reale e lo sforzo muscolare andava adeguatamente reintegrato a tavola. E quindi lesso, coniglio in umido, porchetta (particolarmente a Monte San Savino), pulezze coi rocchi (Civitella), baccalà coi ceci, gobbi e sedani. Tra il dolce e il salato sono citabili anche la ciaccia, la panella di Rapolano (delicata e sottile sfoglia di pasta di pane fritta), la ciaramiglia di Cortona (sorta di panettone), i corolli di Civitella e i Ciambellini incotti di Sinalunga. Attorno ai laghi di Chiusi e Montepulciano, in particolare, il brustico (pesce arrostito sulle canne di padule) e il tegamaccio (‘cacciucco’ di luccio, tinca, carpa, anguilla). La valorizzazione del tipico infine è forse più disponibile al confronto con l’esterno in misura maggiore di quanto non dimostrino altri settori. La Festa della birra di Cortona consente di scoprire i prodotti di nicchia usciti dai microbirrifici toscani e a Castiglion Fiorentino il Mercatale della Valdichiana, nato per promuovere e valorizzare le produzioni di qualità del territorio, ha proposto anche, nel 2009, una fusion gastronomica fra Brasile, mondo arabo, Toscana e Sicilia.

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Cfr., a specifico riguardo, Menconi, Fresta, 2000. http://www.cortonaweb.net/eng/events/scheda_db.php?codice=1070

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