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Più tangibile e materiale di così…: il libro manoscritto
ATTILIO BARTOLI LANGELI
Più tangibile e materiale di così…: il libro manoscritto
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Da quando l’uomo lo inventò fino alla fine del millennio scorso, cioè per circa settemila anni, cinque prima e due dopo Cristo, il libro è stato cosa materiale. È stato anche cosa manuale, però per seimilacinquecento anni: nell’ultimo mezzo millennio, dall’invenzione della stampa in poi, alla mano dell’uomo è subentrata la macchina, all’ars naturaliter scribendi è subentrata l’ars artificialiter scribendi. Due modi diversi della materialità del libro.
Il codice, una forma di libro
Anzitutto, capiamo che cosa è libro. Un libro è un insieme di pezzi di materia morbida (i fogli ovvero pagine), scritti o destinati a essere scritti. Si hanno anche scritture su un solo foglio: per esempio, su un solo foglio sono scritti i documenti e le lettere, gli uni obbligatoriamente, le altre di preferenza su una sola facciata; su un solo foglio (di pietra) sono scritte le epigrafi. Per testi più lunghi si fa un libro. Il libro si fa con più pagine della stessa materia misura consistenza, legate insieme. I modi di unire, legare le pagine sono i più diversi. Libro è il volumen antico, con i fogli di papiro incollati l’uno accanto all’altro in orizzontale. Libro è il rotolo medievale, con i fogli di pergamena incollati o cuciti l’uno sotto l’altro in verticale. Libro è il libro a fisarmonica, antenato del tabulato di oggi (o almeno in voga fino a poco tempa fa), il modulo continuo coi fogli piegati a soffietto. Libro è il block notes, o il fascicolo ad anelli, o il libro coi fogli incollati a caldo. Eccetera.
La forma dominante di libro, in uso dalla tarda antichità a oggi, è il codice, che è una forma di libro più complessa di tutti quegli altri che ho citato alla rinfusa, perché risulta da una composizione a due livelli. Primo livello, il fascicolo. Secondo livello, il codice. Il fascicolo è composto da più fogli piegati al centro e disposti uno dentro l’altro, cuciti con un semplice filo. Il secondo livello, il codice appunto, è formato da più fascicoli disposti uno sopra l’altro e cuciti tra loro.
Il codice dunque è una delle molte forme storiche di libro; ma, ripeto, è in assoluto la forma massimamente usata per tutti i venti secoli dell’era cristiana, essendo nata in ambito romano nel primo secolo dopo Cristo come libro popolare rispetto all’aristocratico volumen, avendo dominato nel medioevo, essendosi perpetuata nel libro a stampa. Questo, infatti, libro a stampa, è il suo nuovo nome, che lascia il nome di codice solo al libro tardoantico e medievale. Ma il libro a stampa è, strutturalmente, un libro in forma di codice. Che è dunque la forma di libro più duttile e pratica di tutte le altre forme di libro. E prevale tuttora, nel mondo di carta, sulla fresatura: non c’è confronto tra la legatura a filo refe e la brossura a colla.
La materia: pergamena e carta
Con che cosa è fatto un codice? C’è qualche raro esempio di codice papiraceo, ma la cucitura è mal sopportata dal papiro, che preferisce la colla. C’è qualche raro esempio di
“codice” fatto di due o più, ma sempre poche, tavolette cerate, legate l’una all’altra con spago (Pompei ne ha conservati un bel po’, quelli costituenti l’archivio del banchiere Lucio Cecilio Giocondo). Ma le materie per eccellenza del codice sono due: la pergamena e la carta. La pergamena domina nel tardo antico e nel medioevo, la carta compare nel Duecento e per un po’ convive con la pergamena, dandole il cambio nel Cinquecento. La pergamena resiste, però solo per i documenti, fino agli inizi del Settecento; quanto ai libri continua per i giganteschi corali, fino al Concilio di Trento; poi scompare.
La pergamena è, come a tutti noto, una pelle animale depilata, trattata, essiccata in tensione e, spesso, sbiancata con calce su entrambi i lati. L’animale che più di tutti ha dato, contro la sua volontà, la propria pelle ai libri non è la pecora, come farebbe sembrare la parola “cartapecora”, il sinonimo di pergamena; è invece la capra, almeno in Italia; c’erano poi la pergamena pecorina, la vitulina, la bovina. C’erano la pergamena “velina” (antenata della nostra carta velina) e quella “virginea”, tratte rispettivamente dalla pelle di vitelli nati morti e di capretti molto giovani. Sta di fatto che il primo attore sulla scena del libro era il macellaio, il beccaio come si chiamava allora. Il grande lascito culturale del medioevo nasce nel macello.
Poi veniva la seconda fase, la trasformazione della pelle in pergamena. Allora i casi sono due: o la pergamena viene confezionata dalla stessa officina scrittoria che la utilizzerà, e questo è il caso dei centri di scrittura insediati nei monasteri e nei conventi medievali fino, diciamo, a tutto il XII secolo, all’interno dei quali lavora il monaco-pergamenario; oppure viene confezionata da officine specializzate, che la vendono ai clienti che ne faranno l’uso che vorranno. Sono le botteghe del cartolaio. Il nome, cartularius, non c’entra nulla con la carta: fa riferimento alla cartula, com’era chiamato il documento pergamenaceo scritto su un solo foglio. Quello che sarà il facitore della carta si chiama cartaio, chartarius.
Dunque, la carta. Il percorso è quello solito di tante invenzioni, per mare e per terra: dalla Cina (II secolo d.C.) ai Paesi arabi (VIII secolo) alla Spagna e ad Amalfi (XII secolo), dove però l’uso della carta “bambagina” (così si chiamava) fu proibito da Federico II nel 1220. Cosicché bisogna arrivare, per l’Italia, al 1276, che è il primo anno documentato di attività di un cartaio a Fabriano.
La carta era fatta con gli stracci, triturati in acqua in mulini speciali detti gualchiere. Almeno si era passati dal macello al mulino, dal sangue dell’animale all’acqua del torrente. Leggo dal manuale di Petrucci:
La tecnica della fabbricazione della carta europea medievale, che rimase sostanzialmente immutata sino al secolo XVIII, consisteva nella preventiva macerazione degli stracci, selezionati, lavati e sfilacciati, che, ridotti in pasta, erano posti in tini; in essi venivano poi immerse e quindi estratte le forme, cioè telai rettangolari di legno, che serravano una rete di fili metallici disposti in senso orizzontale (vergelle) e verticale (filoni), nonché la filigrana [ossia un disegno formato dai fili metallici, una sorta di marchio di fabbrica della cartiera]; le forme, nelle quali era rimasto un uniforme strato di pasta, venivano quindi svuotate e gli strati di pasta disposti ad asciugare; infine i fogli, che risultavano il prodotto di questo processo, erano sottoposti alla collatura, cioè all’immersione in colla animale, compressi, asciugati ed impaccati.
Solo col Settecento si introdusse al posto degli stracci la pasta di legno prima e le fibre di cellulosa poi.
Le doti della carta, che nel medio periodo ne decretarono il successo, erano evidenti: levigatezza della superficie, leggerezza, economicità. La pergamena fece resistenza un paio di secoli, ma con l’invenzione della stampa il suo destino fu segnato; qualche prototipografo stampò dei libri in pergamena, ma senza successo e senza futuro.
Per fare un libro: 1) la fornitura
Quanto alla pergamena, il cartolaio forniva le pelli a misura delle esigenze del cliente. Per i libri usava tutta la zona centrale della pelle, a forma più o meno rettangolare, lasciando le zone marginali ai notai. Una pelle bastava di solito per due fogli (piegati, otto pagine) di un libro di formato medio; libri di formato più
grande avevano bisogno di una pelle per un foglio (quattro pagine). Per i grandissimi servivano bestioni: pensate ai grandi corali tre-quattrocenteschi, che misuravano da 65 a 70 centimetri in altezza e 50 per due in larghezza. Un libro di quelle dimensioni di seicento pagine significa la strage di centocinquanta buoi di grossa taglia. Si andava anche oltre questa misura, quando un architetto aveva bisogno di una pergamena per mettere nero su bianco (si fa per dire: bruno su giallognolo) i suoi progetti architettonici: nel 1310 Lorenzo Maitani disegnò la facciata del Duomo di Orvieto su un foglio di un metro e venti per 90 centimetri, che il notaio chiama gavantonem magnum. Un simile gavantone, che però supponiamo di forma rotonda anziché rettangolare, servì a fra’ Bevignate di Perugia, nel 1277, causa designandi fontem, “per disegnare il fonte”, cioè la Fontana maggiore. Il gavantone orvietano è conservato, quello perugino no.
Con la carta il rapporto s’inverte. Non è il cliente che, avendo in mente quel certo libro, ordina al cartolaio dei fogli determinati. È il cartaio che vende i fogli di un formato prefissato (le misure del telaio rettangolare). Sarà poi l’acquirente a piegarli tante volte quante servano al formato del libro che desidera: in-quarto, in-8°, in-16° eccetera.
Saltiamo la fase mediana, riservandola a dopo, e passiamo direttamente all’ultima fase, la legatura. I fascicoli, impilati dall’amanuense, vengono dati al legatore, che 1) li cuce tra loro usando o un telaio o un ago grande da cuoiaio, 2) li rifila, con un forbicione o con una sorta di sega, 3) li copre con tavole di legno o con un foglio di pergamena robusta, poi legando questa coperta al corpo del manoscritto.
In mezzo tra la fornitura e la legatura c’è la scrittura del testo. Una scrittura manuale oppure una scrittura artificiale.
Per fare un libro: 2) la scrittura e la composizione
L’amanuense faceva tutto da solo, attrezzato con gli strumenti del caso: per rigare i fogli, il righello, la squadra e, volta a volta, il tiralinee o la rotella dentata o il punctorium); per scrivere, la penna e la boccetta o le boccette con l’inchiostro (fatto da lui stesso o dal chimico della bottega); e poi il coltellino per temperare la penna, il raschietto per radere gli sbagli, ma solo dopo che l’inchiostro si è asciugato, le forbici; eccetera. L’armamentario dell’amanuense è rappresentato efficacemente dai pittori, con maggiore o minore realismo, nelle immagini degli evangelisti o di santi scrittori, che scrivono comodamente seduti alla scrivania, scribania.
Operazione leggera, da intellettuale, quella dell’amanuense? Niente affatto, ce lo dicono loro stessi nei colofoni, le dichiarazioni che essi scrivono al termine del lavoro (gli antenati dei titoli di coda), che sono un inno alla fatica dello scrivere. Ma lo scriptor aveva comunque la sua ricompensa: il Paradiso se era un monaco, per il quale lo scrivere era un’opera di pia penitenza; un salario abbastanza alto rispetto agli altri lavoranti di bottega, se era un amanuense alle dipendenze di un editore del tempo. C’era poi chi faceva da sé e per sé, come il notaio Francesco di ser Nardo da Barberino che, intorno alla metà del Trecento, «con ciento Danti ch’egli scrisse maritò non so quante figliuole», come scrisse due secoli dopo l’erudito fiorentino Vincenzo Borghini; i suoi codici della Divina Commedia, alcuni dei quali sono sopravvissuti, costituiscono il gruppo dei cosiddetti “Danti del cento”.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, Magonza, 1450 circa) cambia tutto. L’invenzione consiste nei caratteri mobili, detti tipi. Tipografia significa “scrittura per tipi”. Si coniano nelle fonderie, da matrici in rilievo, tanti tipi quante sono le lettere nelle diverse forme e i segni d’interpunzione e diacritici; il tutto a rovescio, a specchio. Il compositore (che opera obbligatoriamente in piedi) raccoglie dalla cassa, uno per uno, i tipi necessari per formare le parole e le righe, disponendoli sul telaio, detto compositoio; forma così la pagina. Il tutto in negativo: il compositore, il testo da stampare lo legge da sinistra verso destra e, contemporaneamente, lo compone da destra verso sinistra. Un’acrobazia oculare e mentale. Non solo: a partire
dalla metà del Cinquecento il compositore, che prima lavorava seduto, cominciò a lavorare in piedi, perché la positura eretta lasciava più liberi il braccio e la mano. Non a caso, il mobile sul quale si componevano le righe e le pagine era detto “scriviritto” o “scrivimpiedi”. Se l’amanuense lamentava la fatica dello scrivere, che cosa avrebbe detto il compositore? Il quale, a differenza di quello, non aveva diritto di parola. Il colophon era riservato allo stampatore, non ai suoi operai.
La pagina, legata strettamente con lo spago, è il blocco di composizione; il compositore ne incolonna da quattro a otto sui banconi in tante pile, disposte nell’ordine giusto. Dei blocchi di composizione si tirano col torchio una o più stampe provvisorie su fogli singoli, le bozze, che vengono controllate prima dal tirabozze, l’addetto interno a una immediata revisione, e poi dall’autore/cliente. Le correzioni da loro eseguite vengono riportate in piombo. Una volta soddisfatti del risultato, viene dato il “visto si stampi”.
Per fare un libro: 3) la tiratura
La tiratura ovviamente è solo del libro a stampa. Il codice manoscritto è fatto appena l’amanuense ha finito il suo lavoro. Semmai dopo di lui interviene il miniatore, quando si voglia fare una cosa elegante. Ogni codice manoscritto, anche quando riporti un testo per la millesima volta, è irripetibile, è un unicum. Un libro a stampa è un esemplare di un’edizione, di una tiratura.
Nell’officina tipografica, una volta sicuri del testo, entra in azione l’operaio impaginatore, che ha il compito di dare forma di pagina regolare e precisa ai pacchetti di composizione. In particolare egli procede all’imposizione (lat. impositura), ossia dispone i pacchetti-pagina in modo opportuno su un grande telaio; è questa la “forma di stampa”, che può assemblare due, o quattro, o otto, o sedici pagine. Prima una facciata, poi la retrostante. Perciò quei numeri vanno raddoppiati per avere il conto esatto delle pagine; due forme recto-verso di otto pagine danno luogo a un sedicesimo.
A quel punto subentrano gli operai stampatori, che lavorano al torchio. Sono di solito due: il battitore, che dispone la forma di stampa sul ripiano e la inchiostra in maniera regolare e pulita; e il torcoliere o tiratore, che manovra la macchina. Appoggia un foglio sulla forma di stampa inchiostrata e aziona la barra del torchio: la forte pressione trasferisce l’inchiostro sulla pagina. Estrae il foglio di carta e lo mette ad asciugare. E via andare, tante volte quante sono le forme di stampa. Dopo di che ricomincia da capo, perché gli stessi fogli devono essere stampati sul verso. Ciascuna di queste operazioni va rifatta tante volte quant’è la tiratura stabilita dal tipografo-imprenditore. (Si è detto pressione del torchio: di qui le parole italiane ‘impressione’ e ‘impresso’ nonché quelle francesi imprimé e dintorni e, soprattutto, la parola inglese press).
Come si comprende bene, la stampa non portò affatto una riduzione dei tempi, del numero degli addetti, della loro fatica. Quanto al numero degli addetti, gli unici operatori comuni ai due procedimenti erano l’amanuense e il compositore, che lavorava più e peggio dell’altro (e guadagnava meno di lui). Per il codice manoscritto, oltre all’amanuense poteva lavorare il miniatore, che era un optional. La produzione tipografica si arricchiva di tirabozze, impaginatori, battitori, torcolieri eccetera, tutti operatori sconosciuti fino ad allora. Fare un libro a caratteri mobili costava molto più denaro e molto più tempo che fare un libro “a penna”; la novità è che con i caratteri mobili di libri se ne potevano fare, da quell’un libro, tanti. L’invenzione della stampa consiste non tanto nei caratteri mobili in sé quanto nella produzione in serie di libri, per mezzo di quelli. Con tutto ciò che ne seguì: per esempio l’asservimento dei processi di produzione e circolazione culturale alla legge della domanda e dell’offerta.
Per fare un libro: 4) la legatura e copertura
Mentre l’amanuense compone i fascicoli e li dispone uno sull’altro, la tiratura a stampa produce i fogli di grande formato, che, stam-
pati sulle due facciate e piegati tot volte, formano il fascicolo.
I fascicoli vengono dati al legatore, che 1) li cuce tra loro usando o un telaio o un ago grande da cuoiaio, 2) li rifila, con un forbicione o con una sorta di sega, giù giù fino alla taglierina e alla macchina tagliacarte, 3) li copre con tavole di legno o con un foglio di cartone, poi legando questa coperta al corpo del manoscritto. Esegue anche la raffilatura, che è necessaria per un codice in pergamena, perché il taglio dei fogli da parte del cartolaio era approssimativo ed è lo scrittore che in fase di rigatura segna dove il legatore deve tagliare; mentre con la carta o il problema non si pone, se il tipografo lascia il libro intonso cioè coi fascicoli piegati (sarà poi il lettore a provvedere), oppure si procede appunto alla raffilatura.
Gli ultimi tempi
Nel corso dell’Ottocento si ebbero varie innovazioni, che hanno caratterizzato la produzione tipografica fino allo spirare del millennio. Prendo le notizie che seguono da Wikipedia.
Quanto alla composizione, si passa da quella a mano a quella meccanica: prima, nel 1886, con la linotype; poi, nel 1892, con la monotype. Entrambe seguitano a utilizzare caratteri-matrici metallici, ma compongono mediante una tastiera (90 tasti la prima, tra i 230 e i 270 la seconda). Il lavoro compositivo si velocizza enormemente: un bravo monotipista era uno spettacolo. Da poco si è passati alla composizione digitale: una cinquantina di tasti, poca roba.
Quanto alla stampa, le novità, dopo secoli di torchio manovrato manualmente, sono molte: 1811, la macchina da stampa; 1845 circa, la rotativa; inizi del Novecento, la stampa offset. Infine la stampa digitale.
Mi soffermo sulle macchine linotype e monotype. La macchina ad ogni battuta pesca dal magazzino un carattere e lo imprime su un nastro che arriverà alla macchina fonditrice. Come dicono le parole, la lynotipe compone e fonde una riga intera (la correzione di una lettera comporta la ricomposizione di tutta la riga), la monotype compone e fonde un carattere alla volta. È da questi sistemi, per inciso, che venivano le bozze “in colonna”, ora desuete.
Con la linotype e la monotype, ma specialmente con la prima, la tipografia, già risonante di suo, diventa fragorosa. Prendiamo la linotype: a ogni battuta sulla tastiera cade (fisicamente) dal magazzino un carattere, che perfora (fisicamente) il nastro corrente; il campanello avverte il linotipista, che deve spezzare manualmente le parole, dell’avvicinarsi della fine del rigo; quando la riga è completata essa precipita nel raccoglitore con un caratteristico rumore di ‘cascata’. Non parliamo poi della macchina fonditrice. Un po’ di frastuono, e basta? magari. Tutto quel piombo portava ben altro. Quanti operai delle tipografie sono morti di saturnismo, l’intossicazione da piombo? Bisognerebbe contarle, le vittime della materialità del libro.
Il tempo presente: l’immaterialità del libro
Oggi il libro si fa in silenzio, se non fosse per il lieve ticchettio della tastiera; e in ambienti salubri (volendo). Nessuna cosa materiale e morbifera, il mezzo è ora la luce: bisogna solo proteggere la vista. Maestranze, poche o nulle: un libro, volendo, lo si può fare da soli. Prendiamo un e-book. Basta una persona e un computer. La persona fa, per via di polpastrelli e tasti, da autore (o traduttore), da compositore, da impaginatore, da stampatore. Il computer fa il dovere suo.
Questo in teoria. Nella realtà le varianti sono molte. Anzitutto, un minimo di serietà impone che un libro lo faccia una casa editrice, il che significa di per sé una pluralità di compiti. Poi, dipende da che tipo di libro si vuol fare. Si è detto dell’e-book. Già più complesso è fare un audiolibro: serve un buon impianto di registrazione, una buona voce leggente e il doppio del tempo. Si volesse, poi, fare un libro cartaceo, allora occorrerebbero materiali (la carta e il toner o l’inchiostro), macchine (il computer e la stampante, che sia offset o digitale) e due o tre officine e altrettante maestranze, l’ufficio, la tipografia e la legatoria. C’è poi
tutto il dopo del libro, la commercializzazione, le librerie, il mercato.
Appartengono al passato certe pratiche della editoria materiale travolte dalla rivoluzione digitale. Per esempio le minute e le bozze d’autore. Da oggi in poi non si potrà più esercitare quella che Gianfranco Contini chiamava, difendendola da Croce e praticandola da par suo, la “filologia degli scartafacci”. Una filologia, detta più elegantemente “genetica”, che consisteva nel capire come lavoravano gli scrittori, da Petrarca a tutto il Novecento. Petrarca ha lasciato un “codice degli abbozzi” del Canzoniere (il Vaticano latino 3196). Ariosto postillò fittamente le prime edizioni del Furioso prima di arrivare alla definitiva del 1532. Notissima è la storia degli infiniti passaggi di Manzoni dal Fermo e Lucia del 1821-27 alla edizione a puntate dell’ultimo Promessi Sposi nel 1840-42, intrapresa da lui stesso. Destinato dunque a esaurirsi è il Fondo manoscritti di autori contemporanei fondato da Maria Corti a Pavia nel 1969, autentico monumento degli autografi, minute, bozze d’autore. Mentre sembra avere più lunga prospettiva la creatura di Saverio Tutino (1984), l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, però rassegnandosi a vedere le memorie private scritte a mano superate, e infine obliterate, da quelle scritte al computer.
L’editoria digitale ha ridato nuova, infinita vita al libro. A maggior ragione bisogna mantenere al libro la sua dignità di prodotto culturale alto, perfetto, bello. Troppo facile far libri, oggi, perché non avvenga di vedere brutti libri, stampati all’avventura. Il mestiere di far libri, e di farli bene, dev’essere salvato. Oggi più che mai c’è bisogno delle scuole di arti grafiche. E, inutile dirlo, di buoni editori.