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Libri, testimoni del passato per fare il futuro: Fiume
FRANCO PAPETTI
Libri, testimoni del passato per fare il futuro: Fiume
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Se chiedi ad un italiano cosa sia Fiume, le risposte saranno le più variegate: c’è chi ti risponderà, e purtroppo sono la maggior parte, che non lo sa, chi legherà il nome a D’Annunzio senza saper altro e chi, i più informati, pochissimi, diranno che è Rijeka, il più importante porto della Croazia.
Ma cosa è successo a questa città posizionata sul golfo del Quarnaro che con una storia bimillenaria gli italofoni hanno sempre chiamato Fiume e ora chiamano Rijeka? E qui val la pena parlare del valore della carta stampata che ci può dare qualche indizio sul passato di questa meravigliosa città.
Fiume è sempre stata una città di frontiera, si badi bene dico di frontiera, non di confine, ossia è stata una città dove si sono incontrate le culture italiane, slave, tedesche ed ungheresi dove la lingua di comunicazione era il veneto “di là da mar” come era detto. Se un turista va oggi a Fiume in quella che era la piazza delle erbe vede un busto dedicato al principale storico fiumano dell’epoca moderna Giovanni Kobler (1811-1893) che in mano ha un libro sul quale c’è scritto in italiano “Storia della città liburnica di Fiume”. Ecco questo è un indizio importante della storia di questa città che ha difeso con testardaggine e decisione la sua particolarità di essere una città multietnica “ante litteram” dove l’italiano era la lingua utilizzata.
Difese sempre la sua autonomia municipale nei secoli, confermata da Ferdinando d’Asburgo nel 1530; non fu mai dominata da Venezia a parte la distruzione del 1507 e 1509 e la lingua franca era l’istroveneto confermata da un documento del notaio Antonio De Reno nel 1449 con la “tariffa del mercato del pesce” che dimostra appunto che l’italiano era la lingua del popolo, la lingua di comunicazione tra tutte le nazionalità che vivevano nella città.
D’altro canto era già citata da Dante nel canto IX dell’Inferno come limite dell’Italia “Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna” (Inferno, Canto IX, 113-114)”, confermando che già nel trecento al golfo del Carnaro, dove si trova Fiume, venivano posti i confini della nazione italiana.
Il censimento asburgico del 1910 rileva che su un totale di 49.806 abitanti il 48,61% era di lingua italiana, 25,95 % di croati, il 13,04% di ungheresi. Con l’annessione all’Italia il 27 gennaio 1924 la maggioranza di lingua italiana salirà ancora fino a raggiungere il 70% del totale nel 1945 quando avverrà la cesura storica a seguito dell’annessione alla Jugoslavia.
Nel censimento di Fiume del 1942 su una popolazione totale di 60.892 abitanti, coloro che si dichiaravano di lingua italiana erano 41.314 (67,8%). Se prendiamo il censimento jugoslavo del 1961, quando l’esodo si era con-
cluso, coloro che si dichiarano di nazionalità italiana ammontavano a 3.247. Considerando la differenza tra questi numeri e anche coloro che giunsero a Fiume dopo il 1945, i così detti monfalconesi, coloro che abbandonarono la propria città in meno di un decennio furono circa 38.000 (oltre al 90%).
L’urbicidio di Fiume si stava compiendo.
Cambiavano i nomi delle vie della città, veniva cambiata la bandiera della città, cancellati i simboli plurisecolari, l’aquila bicipite collocata sulla Torre civica, già decapitata di una testa dai legionari dannunziani, veniva tolta nel 1949 perché simbolo dell’Impero austro-ungarico e poi del regime fascista italiano, abolite le insegne in italiano dei negozi, abolito il bilinguismo, chiuse la maggior parte delle scuole in italiano.
Ma la domanda che ci assilla è quella perché oggi gli italiani chiamano Rijeka una citta che si è chiamata per secoli Fiume?
Nel 1867 lo storico croato e uno dei principali teorizzatori ottocenteschi dello jugoslavismo, nativo di Fusine nel Goski Kotar nei pressi di Fiume e fondatore con il vescovo J. J. Strossmayer delll’Accademia jugoslava delle scienze e delle arti di Zagabria, scrisse un libro nel quale voleva sottolineare la croaticità della città di Fiume che aveva il titolo Rijeka prama Hrvatskoj; Racki volle poi tradurre il suo libro in tedesco per meglio diffondere le sue teorie ma si rese conto che per identificare la città era necessario utilizzare il nome con il quale era conosciuta e scelse il titolo Fiume gegenueber von Croatien.
Il nome della città che è succeduta alla romanica Tarsatica è sempre stato quello di Fiume, derivato da quello di San Vito al fiume, ed utilizzato non solo dagli italofoni ma in tutte le lingue del mondo, ad eccezione della lingua slave naturalmente. Questo è dimostrato anche da tutte le stampe dei maggiori cartografi del Seicento, Settecento e Ottocento (Mercatore, Ortelius, Magini, Blaeu, ecc.).
Ancora oggi in molti Paesi del mondo il nome ufficiale della città di Rijeka è abbinato a quello di Fiume.
Il nome Fiume accrebbe la sua fama e conoscenza nel mondo ed in Italia nel diciannovesimo secolo per essere uno tra i porti più importanti del mediterraneo e nel Ventesimo secolo sia per l’epopea dannunziana che per essere divenuta provincia italiana nel 1924.
Questo durò fino al 1945/1947 quando a seguito dell’inclusione di Fiume nella Repubblica socialista jugoslava il nome ufficiale divenne Rijeka che poi non è altro che la traduzione in croato del toponimo italiano.
Vale la pena chiarire che i nomi delle città hanno sia una denominazione che chiameremo “ufficiale”, che è il nome che viene dato dall’autorità dominante, sia un nome che chiameremo “culturale”, frutto della tradizione e cultura di un popolo.
Chiameremo quindi endonimi stranieri i nomi ufficiali delle località in aree in cui non si parla la lingua italiana ma sono utilizzati da chi parla la lingua del posto ed esonimi italiani per riferirsi ai nomi impiegati dalla tradizione e cultura dagli italofoni per riferirsi a località poste in zone in cui non si parla la lingua italiana.
Facciamo alcuni esempi: all’endonimo Paris corrisponde l’esonimo Parigi, Belgrado per Beograd, Zagabria per Zagreb, e così via.
Nel caso della nostra città all’esonimo Fiume corrisponde l’endomino Rijeka.
È chiaro che quando non esiste una tradizione culturale esiste solo un nome che è quello che abbiamo chiamato ufficiale e quindi endonimo ed esonimo coincidono.
Sono trascorsi 75 anni da quando Fiume con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 è parte prima della Jugoslavia ed ora dal 1991 della Repubblica croata.
Ora sorge naturale una domanda dopo quanto abbiamo detto: perché frequentemente capita di veder utilizzato dai mass media in Italia ma anche da storici ed intellettuali l’endonimo Rijeka al posto dell’esonimo Fiume?
Le motivazioni sono varie e possono essere così riassunte: • perdita di coscienza nazionale ed ignoranza; • per oltre settant’anni è stata completamente nascosta la storia del confine orientale sia da storici, intellettuali che dalla cultura in genere. Solo dopo la caduta del
Muro di Berlino ed il tracollo della Jugoslavia si è aperto uno squarcio sulla triste storia della Venezia-Giulia; • per una cultura specificatamente di sinistra Fiume è stata per lungo tempo considerata una conquista fascista e quindi è prevalsa l’ideologia di considerare giusto il ritorno all’uso del nome croato precedente (sic) che quindi era Rijeka; • mancanza di informazione nelle scuole, come appurato dalla studiosa Maria Ballarin nel libro Il trattato di pace del 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia: nei libri di scuola di ogni ordine le vicende del confine orientale o sono state trattate in maniera non obiettiva oppure sono state completamente trascurate. Solo recentemente le cose sono cominciate a cambiare; • la pubblicità turistica, soprattutto da parte della Jugoslavia, ha usato sempre endonimi croati e quindi, nel vuoto causato dai punti sopra citati, ha imposto il nome
Rijeka; • a tutto questo si aggiunga un vezzo tutto italiano di esterofilia che non guasta mai.
Ora a questo problema che è proprio della cultura italiana in generale si innesta il fatto che esiste una minoranza italiana a Fiume. La minoranza ha dovuto negli anni Novanta, quando si è costituita la Repubblica di Croazia, lottare per far sì che fosse riconosciuta la sua autoctonia e quindi la denominazione della città in Fiume rappresenta il suo bastione culturale ed identitario.
La seconda guerra mondiale ha portato – come diceva lo storico Ernesto Sestan – allo “sradicamento della quercia della cultura romana e poi veneziana dalla sponda orientale adriatica”.
Molti, anzi moltissimi fiumani, esuli nel mondo tra mille difficoltà, sono riusciti ad emergere nei propri campi professionali; ne citerò con orgoglio solo alcuni: Leo Valiani, giornalista, politico, costituente, senatore a vita; Paolo Santarcangeli, scrittore e professore universitario; Giorgio Radetti, storico, filosofo e professore universitario; Enrico Burich, filosofo e professore universitario; Gemma Harasim, pedagogista; Marisa Madieri, scrittrice; Enrico Morovich, scrittore; Mario Dassovich, storico e scrittore; Giovanni Angelo Grohovatz, scrittore e giornalista; Diego Bastianutti, scrittore e poeta; William Klinger, storico e scrittore; Gino Brazzoduro, scrittore; Valentino Zeichen, poeta; Giovanni Stelli, filosofo e storico; Diego Lazzarich, professore universitario; padre Sergio Katunarich, scrittore e poeta… e tantissimi altri.
Ma anche coloro che sono rimasti hanno dovuto affrontare la tragedia di essere diventati minoranza, esuli nella loro città natale che aveva cambiato completamente la propria stuttura etnica.
“Esule a me stesso mi sento” – scrive in una poesia il poeta Osvaldo Ramous, una delle voci più alte del panorama letterario fiumano, in un contesto che “ogni giorno mi ridiventa straniero”. Si sentiva esule in patria con i pochi che come lui considerava “veterani di fughe mancate”. Quanta sofferenza.
Ecco dopo questa lunga dissertazione culturale innestiamo il progetto delle biblioteche a tema di INTRA al quale come Presidente dell’Associazione fiumani nel mondo sono particolarmente interessato in quanto permetterebbe la riunione in una sola biblioteca degli scritti sia storici, sia letterari di coloro che decisero di esodare dalle terre annesse alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale, sia di coloro che decisero di restare.
Termino questa mia relazione dedicando al progetto INTRA un aforisma di Gustave Flaubert: “non leggete come fanno i bambini per divertirvi, o, come fanno gli ambiziosi, per istruirvi. Leggete per vivere”.