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Le 10n vite del libro
ROBERTO SEGATORI Le 10n vite del libro
Un libro è una cosa vivente dove il numero 10 sta ad indicare: 1) l’autore, 2) il traduttore, 3) l’editore, 4) il tecnico editor, 5) il tipografo, 6) il distributore, 7) il libraio, 8) il recensore, 9) il bibliotecario, 10) i lettori. L’apice n significa che i lettori possono essere pochi, molti o moltissimi.
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La domanda è molto semplice: a chi appartiene un libro? O meglio: di chi è la vita (l’anima) di un libro? La stessa domanda può essere formulata per un quadro, una sonata, un film, un’opera di architettura. Per il libro, una prima risposta sta nell’apice n associato al numero 10. Ma che cosa significa quell’espressione? Per scoprirlo, basterà seguire insieme il viaggio di un libro come creatura vivente.
L’avvio sta ovviamente nella testa, nel cuore, nella scrittura dell’autore. Ci sono autori che fin dall’inizio del lavoro (ovvero, prima ancora della fase diretta della scrittura) abbozzano i passaggi e l’organizzazione pressoché completa del testo; ce ne sono altri che invece procedono a partire da uno spunto iniziale e poi lasciano che la storia si sviluppi da sola per associazioni successive. In ogni caso è innegabile che l’autore sia il padre, anzi la madre (perché lo partorisce), del libro.
Nel caso che l’opera di un autore voglia essere diffusa in un altro Paese, ovvero che debba essere resa nella lingua ospitante, un ruolo decisivo è ricoperto dal traduttore. Tale figura tende ad essere sottovalutata, anche se non dai veri bibliofili. La sottovalutazione è un errore perché, com’è noto, tradurre è (un po’) tradire. E il successo o l’insuccesso di un libro “straniero” è talvolta decretato dalla qualità della traduzione. In altri termini, il traduttore ridà la vita al libro (maternità surrogata?) al di fuori dei confini del luogo in cui è nato linguisticamente1 .
Il terzo passaggio si ha quando il testo (un manoscritto, un dattiloscritto, un file) viene proposto a un editore, o, nei casi più fortunati, viene richiesto da un editore. Anche costui, a modo suo, si appropria del libro, lo fa suo, decide della vita del prodotto cartaceo. La differenza rispetto all’autore sta nel fatto che per l’editore (il publisher inglese) il libro è come una tessera di due mosaici. Il primo mosaico si chiama catalogo. Quanto più l’editore è serio e persegue un’organica politica culturale, tanto più il catalogo è fondamentale. E nel catalogo il libro diviene come una perla di una collana: può essere bello e importante da solo, ma può diventarlo ancora di più se è collocato in una collana che ne impreziosisce l’immagine e il valore. In questo senso un editore particolarmente accreditato è il primo autorevole critico che riconosce – accettando di pubblicare l’opera – il valore della stessa. Il secondo mosaico (ma vale anche per i best-selleristi) è il portafoglio. Pubblicare l’Eco de Il nome della Rosa o il Camilleri del Commissario Montalbano ha fatto la
1. Si veda, in proposito, il bel libro di Anna Aslanyan, I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.
fortuna dei rispettivi editori. Per tutti questi motivi, anche l’editore ha ragione a considerare il libro come cosa sua.
Se l’autore e l’editore possono essere ritenuti la madre e il padre di un libro, il tecnico editor può essere assimilato a un genitore putativo o piuttosto a una babysitter. Lasciando da parte la figura dell’agente letterario usata dagli scrittori professionisti, l’editor è il curatore editoriale e redazionale che si occupa del trasferimento del testo dall’originale alla copia finale. È colui che dà all’autore consigli e suggerisce modifiche e integrazioni. Se l’autore è alle prime armi, l’editor può chiedere il cambiamento di intere parti e spesso il taglio di pagine superflue: ma tutto ciò avviene nel doppio interesse dello scrittore e dell’editore. Tra i suoi compiti rientra in genere pure la negoziazione, se non la definizione, del titolo dell’opera. Come negare dunque che, come ogni babysitter che si rispetti, egli non consideri quella creatura come un po’ sua? Da autore di numerosi libri di sociologia, ho potuto apprezzare personalmente l’ottimo lavoro di editing svolto nei miei confronti dagli (più spesso dalle) editor di Laterza e di Donzelli. Di recente, per la pubblicazione di un mio testo con Gianluca Galli, editore della Morlacchi di Perugia, ho potuto contare sul prezioso lavoro redazionale della bravissima Jessica Cardaioli.
Il publisher e l’editor passano poi il dattiloscritto (oggi il file) al tipografo per il confezionamento del prodotto cartaceo. Qui la storia da richiamare sarebbe troppo lunga anche per l’Umbria. Uno dei primi e più noti casi è la stampa dell’editio princeps della Divina Commedia realizzata a Foligno l’11 aprile 1472 (almeno un secolo e mezzo dopo la redazione del testo originale) dall’orafo, incisore e medaglista Emiliano degli Orfini e dal prototipografo Johan Numeister. Nei secoli successivi le tipografie regionali si sono moltiplicate. Poi alcune sono morte, altre sono rinate. Oggi, tra le altre realtà, Città di Castello ospita un vero e proprio distretto industriale del settore cartotecnico e poligrafico. Ma – per tornare al filo rosso dell’appartenenza materiale e simbolica del libro – anche il tipografo non può non considerare i libri come propri figli. I suoi strumenti e la sua attività ruotano infatti tutti intorno a questa “genitorialità”: dai diversi tipi di caratteri (Old e New Roman, Gothic, Bodoni, Garamond, ecc.) alle incisioni e ai disegni; dalla stampa a caratteri mobili con matrici e torchi alla stampa in offset e a quella digitale; dalla grammatura alla opacità/lucidità della carta; dalla scelta del formato a quella del colore; dal tipo di copertina all’eventuale logo (raro del tipografo, quasi sempre dell’editore)2. Alla fine del suo lavoro un bravo tipografo non può che dire orgogliosamente “questo libro è mio”.
Appena esce dalla tipografia, tramite l’editore, il volume è avviato al distributore. In passato i centri di distribuzione (grandi e piccoli) erano più numerosi di oggi e dotati di rappresentanti (es. Messaggerie) che proponevano libri e raccoglievano ordini. Oggi molti grandi editori procedono tramite proprie catene (Mondadori, Feltrinelli, Giunti, ecc.). Dal distributore il libro arriva nelle librerie (bookshops) o direttamente al lettore con consegne a domicilio. Il libraio storico (figura che tende progressivamente a scomparire per lasciare spazio a commessi veloci o a ordini on line) era il primo consulente dell’appassionato di lettura e, nei confronti del libro, un vero nonno buono. Sapeva riconoscere le propensioni dei propri clienti e consigliarli al meglio. Talvolta, addirittura, si faceva venire opere rare proprio per i clienti più affezionati. Se ne trova una bellissima testimonianza in Charing Cross Road, un film del 1987, in cui Anna Bancroft, amante di libri americana, e Anthony Hopkins, libraio inglese, intrattengono una corrispondenza ventennale (1949-1969) per la richiesta e l’invio di libri, rivelando forme di fedeltà e, grazie ai testi rintracciati e recapitati, di felicità assolute.
Tra l’editore e il libraio, il libro può talvolta incontrare la figura del recensore (reviewer).
2. Un esempio illuminante del mestiere di tipografo è quello di Alberto Tallone (1898-1968), che operò a Parigi presso l’officina di Maurice Darantiere e ad Alpignano in Val di Susa. Oltre al carattere Tallone, creò il carattere Palladio, mentre i suoi eredi conservano la Phoenix V, il torchio di stampa sul quale è stata tirata la prima edizione dell’Ulysses di James Joyce (Cfr. Domenico Scarpa, Fare libri, il più bel mestiere, Domenica del Sole24Ore, n. 83, 25 marzo 2018, p. 21).
Il quale può essere un “padrino di battesimo” buono o, all’opposto, un’infanticida. Il ruolo del recensore è spesso decisivo, perché nelle migliaia di titoli che escono ogni anno, egli ha il compito di semplificare la scelta dei lettori, riducendo la complessità dell’orientarsi nella stessa scelta e indirizzando all’acquisto. La cosa è così chiara alle case editrici che, grazie a dinamiche amicali e a pressioni ben esercitate, ultimamente i casi di infanticidio del libro si sono fatti sempre più rari.
Si arriva quindi alla categoria dei proprietari (acquirenti, possessori) del libro, che si divide a sua volta in gestori delle case del libro e proprietari dei singoli esemplari. Il gestore di casa del libro (non solo organizzatore, ma anche affittacamere) è il bibliotecario, che, a somiglianza dell’editore, può seguire criteri di acquisizione generalisti o specialistici. Forse l’analogia che meglio inquadra il bibliotecario è quella col banchiere. Come un banchiere, infatti, egli è responsabile di un doppio movimento: da un lato, deve accrescere il patrimonio librario della biblioteca, con fondi e acquisti mirati (dalle cinquecentine ad opere di narrativa contemporanea, dalle enciclopedie ai testi di saggistica); dall’altro deve promuovere il prestito in modo che – come fa il banchiere con gli imprenditori a cui affida i soldi raccolti – la circolazione dei libri assicuri la crescita della ricchezza culturale del contesto.
Alla fine della catena ci sono i singoli lettori, il cui numero dà ragione di quel 10 elevato all’ennesima potenza. Infatti, per ogni libro, i lettori possono essere pochissimi, mille, centomila o più. Ed è qui che avviene il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: l’eco che un testo suscita in ognuno di essi può essere molto diverso, per cui, al di là dell’intenzione dell’autore (che sarebbe ingenuo se pensasse che quel “figlio” è solo suo), quel libro (ma anche qual quadro, quella sonata, quel film, quell’opera architettonica) rinasce ogni volta nuovo per quante sono le sensibilità dei diversi lettori. Per dare un’idea della moltiplicazione delle rinascite, accenno a mero titolo d’esempio alla mia esperienza personale. Come ogni lettore di lungo corso ho attraversato stagioni che mi hanno segnato: in avvio la fortuna di avere trovato editori attenti alla mia ristretta scarsella di ragazzo (la BUR, gli Oscar Mondadori, addirittura i libri Millelire); poi la stratificazione delle letture giovanili di narrativa (a 16 anni i nord-americani Hemingway, Scott Fitzgerald, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck; a 17 i francesi; a 18 i russi con una folgorazione per Dostoevskij; a 19 i mitteleuropei con Mann e Musil); quindi, quando ormai bussava alla mia porta la saggistica per interesse non solo professionale (sociologia, filosofia, storia, psicologia – ma questa sarebbe un’altra lunghissima storia), le ripartenze con i sud-americani alla Màrquez, i nord-americani alla Philip Roth, gli ebrei erranti alla Isaac Singer e alla Chaim Potok, con una consuetudine di letture aggiornate che non si è mai interrotta. Due accenni ancora alle mie fisime. Gli italiani contemporanei? A parte i passaggi scolastici (che sono riusciti nell’ardua impresa di complicare il mio – e di altri giovani – apprezzamento di capolavori come I promessi sposi), non li ho mai ritenuti eccezionali, divertendomi al più a farne una specie di graduatoria regionale: al primo posto i siciliani, poi in ordine sparso toscani, piemontesi, campani, laziali, veneti e così via. Tutto ciò, ovviamente, secondo me. Quindi due blocchi. Nonostante le migliori intenzioni, non sono mai riuscito ad andare oltre la ventina di pagine dell’Ulisse di Joyce, né a terminare Alla ricerca del tempo perduto di Proust (anche se, in questo caso, solo per una questione di ritmo: i miei vettori mentali, le mie sinapsi, non reggono più il passo lento della carrozza a cavalli di Marcel). Ora che ho accumulato una notevole biblioteca di volumi di saggistica e di narrativa e, soprattutto, sono avanti con gli anni, sto maturando una consapevolezza che descriverei così: si passano i tre quarti della vita ad accumulare libri e l’ultimo quarto a disfarsene. Mi viene addirittura il sospetto – capovolgendo Fahrenheit 451 in un processo funzionale al bene e non censorio – che non avesse torto l’investigatore Pepe Carvalho, creato dalla fertile penna di Manuel Vásquez Montalbán, nel riscaldare le fredde serate d’inverno accendendo ogni volta il camino con un libro debitamente selezionato. In fondo, a pensarci bene, è sempre calore quello che ci restituisce un buon volume.
Per tornare infine alle questioni sopra trattate e alle tante riappropriazioni effettuate dai nove attori della filiera e dalle migliaia di destinatari/fruitori/lettori, è il caso di aggiungere alla domanda di partenza un altro interrogativo: oggi i libri sono ancora amati? Il linguista Raffaele De Simone ha scritto che la lettura di libri è soprattutto un’abitudine degli anziani, che su di essa sviluppano un’intelligenza sequenziale, consistente della pratica di leggere una-due pagine, fermarsi a meditare, andare in profondità. Nei giovani, esposti a cellulari e tablet, prevarrebbe invece un’intelligenza simultanea, che permetterebbe loro di essere colpiti da molti più stimoli video-sonori nell’unità di tempo, ma lasciandoli a navigare in superficie senza gli approfondimenti resi difficili, se non impossibili, dai tempi e dai ritmi della loro fruizione. Mi pare evidente che l’unica cosa da augurarsi sia che ciascuna delle due generazioni provi ogni tanto – o magari sempre più spesso – a mettersi nei panni dell’altra.