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Sarebbe il caso di capirsi

GIUSEPPE BEARZI

Sarebbe il caso di capirsi

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Si sta perdendo il senso vero del libro: da soggetto è diventato oggetto e da lettore si sta trasformando in consumatore.

Il libro è soggetto unico e, se non plagiato, irripetibile dal momento in cui lo si concepisce, organizza, scrive, corregge, rifinisce, confronta, lo si presenta a quell’editore che lo accetta. Lo è da quando lo si accompagna alla pubblicazione al momento in cui è sullo scaffale di una libreria o appare sulle piattaforme di Amazon, ebay, Feltrinelli, IBS, Mondadoristore, Newton Compton, Unilibro e compagnia cantante; da quando lo si presenta e si soffre per le critiche che riceve. E dacché lo si segue passo dopo passo nella sua vita, oggi sempre più breve, fino alla sua agonia, fino a quando ingiallisce, si sfascia e scompare, prima dalla vista e poi dalla memoria.

Oggi qualcosa è cambiato. Chi acquista non vuole più libri “soggetti”, ossia autonomi e indipendenti, opere di fantasia o di narrazione di una determinata realtà: vuole “oggetti”, come la cocacola e il crispy mcwrap nella fragrante tortilla, oggetti composti di tot ingredienti – aggettivi, personaggi, descrizioni, alternanza tra testo e dialoghi, centottanta o duecentoquaranta pagine… – e un preciso procedimento per impastarli – ambientazioni, rincorsa di eventi, filosofie, riflessioni, messaggi anticonformistici, amori lesbici, consigli pratici, considerazioni estetiche, avventure e disavventure, lacrime e sangue –, che non corregge ma presenta e segue nella loro durata sempre più breve.

Attenzione, però, perché da un malo intendimento possono nascere crisi anche gravi: l’adagio «non è il lettore che deve conquistare il libro, è il libro che deve conquistare il lettore», per esempio, sarebbe logico e corretto, se avesse un’anima e non un conto corrente.

È accaduto per le catene di libri su Angelica, Piero Fenoglio, Sophie Kinsella, Robert Langdon, Montalbano, Harry Potter, Sandokan o Sherlock Holmes; oppure per le saghe di Andrzej Sapkowski e di John Ronald Reuel Tolkien, che mi ricordano i Massimo Boldi, le Luciana Littizzetto e gli Alvaro Vitali cinematografici del nostro cinema. Con il proprio ascendente un editore potrebbe imporre (e talora lo fa) un libro che venda, piaccia, diverta, interessi; potrebbe riproporlo per mesi come opera di livello, dichiarandolo superiore a quelli di Anna Achmatova, Boccaccio, Bruno, Vittoria Colonna, Dante, Darwin, Erodoto, Eschilo, Flaiano, Foscolo, Gončarov, Lucrezio, Morselli, Alice Munro, Omero, Pirandello, Shakespeare, Wisława Szymborska, Virginia Woolf… E, come confermano certi quarti di copertina, talvolta lo fa.

Non lo vorremmo, anche se alcune opere di quelle catene le compriamo. Solo che letti due tre capitoli e capito il gioco, le lasciamo. Eppure, da lettori consumati quali siamo, dovremmo essere capaci di scegliere, di estrarre dalla

libreria dei diamanti: perché allora, e spesso, ci limitiamo a cogliere sassi?

Eppure i libri, scelti dopo averne letto alcune pagine, riescono a conquistarci più di tante spinte, solleciti o grida, mentre con quelli imposti, la lettura s’insabbia, l’interesse s’invola, la voglia di leggere cessa.

Cessa specie quando il libro non è un “soggetto”, provvisto di corpo e di spirito più o meno cosmico, di essenza talvolta divina talaltra umana, di capacità esperienze e conoscenze ricercatamente creative o ricreative. Cessa perché è un “oggetto”, plasmato con l’argilla richiesta dal mercato, dalla politica, dalla finanza; perché è un oggetto poco interessato alla grammatica, alla sintassi, al nuovo o alla scoperta, alla qualità o alla bellezza; perché è un bene più o meno raffinato di consumo che ha un unico scopo: quello di essere venduto. O svenduto.

Non è sufficiente che il lettore s’immerga nella lettura: è il libro che deve penetrare nel lettore, rompere il carapace della sua diffidenza, farlo uscire dalla palude della sua pochezza, aprire la porta della sua mente e del suo cuore. È il testo a farlo, non la copertina o il commento critico del NYT, la posizione in vetrina, la pubblicità in tivù o del mezzano che lo ha suggerito, corretto o corrotto egli sia. Sono i pregi del libro, non l’invito sul carro diretto al paese dei balocchi, alle chiacchiere dei persuasori occulti più che colti, all’offerta speciale, alle ruffiane o ai paraninfi. Sono le parole, i concetti, le idee, gli insegnamenti, lo stile, il sapere, i ragionamenti, il linguaggio, le favole, le storie, le voci, i pensieri, i messaggi, le aperture, le chiavi, le ispirazioni, le licenze, le arie, le note, le formule, le speranze, la forma, le mete, le spiegazioni, le tesi, le eccellenze, la logica, la luce, gli echi, le memorie, le proposte, le vanità. È l’armonia della sua bellezza.

La crisi del libro non va imputata ai lettori, bensì a chi scarica nelle librerie – sugli scaffali o impilati sui tavoli – le opere che oggi vediamo. Non va imputata nemmeno agli autori, anche se talvolta sono presenti solo sulla copertina, insieme al titolo. Vi appaiono, perché la notorietà agevola quando (addirittura e sempre più spesso) non determina le vendite. Per questo le case editrici o i gruppi editoriali preferiscono pubblicare personaggi della tivù, della mafia, del calcio e degli stupri: la scelta è curata da decisori più o meno occulti che, dopo un’attenta analisi delle domande più o meno lecite del mercato e sentiti gli sciamani della comunicazione, decidono di pubblicare l’oggetto di questo o quella mitomane.

I lettori solitamente non sono interpellati e, uno dopo l’altro, quatti quatti se ne vanno. Non è il lettore che deve conquistare il libro, è il libro che deve riconquistare il lettore, ma se il “libro” non c’è, non può esserci nemmeno il lettore.

Come sa chi ha frequentato le scuole elementari, è “soggetto” quella cosa o quella persona che è o fa qualcosa, mentre oggetto è quella persona o quella cosa cui è destinata. Oggi, non solo il libro ma anche il lettore è diventato oggetto: ha perfino la sua brava etichetta, quella di “consumatore”.

E il futuro? Sarà dei libri che non sono oggetti, dei lettori che non sono consumatori: solo se i libri saranno scritti per i lettori, questi torneranno.

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