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- Scrive Maria Pia, la vita di Luigi boldrini raccontata dalla figlia
SCrIVe MarIa PIa
“Avevo 2 anni quando è morto mio padre nella Prima guerra mondiale, sei quando morì mio nonno Costanzo, infortunatosi nella Miniera di Pietrafitta dove lavorava”. Inizia così il racconto di mio padre, con i brevi scritti che ci ha lasciato. Una vita di duro lavoro in quella miniera che, nel bene e nel male, è stata il fulcro di tutta la sua vita.
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Luigi nasce a Pietrafitta dall’unione di barbieri Enrica e Aurelio boldrini. Aveva due fratelli più grandi di lui, Roberto nato nel 1911, e Adelmo nel 1913. Il primo ricordo, per quello che riguarda la miniera, è la morte del nonno, che aveva sostituito il padre. La sua vita continuò insieme alla madre, i fratelli, la nonna Caterina e zia Adele che seppure non vedente, influirà molto sul piccolo Luigi. Furono anni molto duri: la miseria e la mancanza del genitore, rendevano Luigi affranto, ma nello stesso tempo il suo carattere si formava, forte e determinato. Siamo intorno agli anni ’20. Mia nonna rimasta vedova
con tre figli da sfamare, non ebbe vita facile. Una persona al di fuori della famiglia ricoprì per mio padre un ruolo importante. In paese, tra le persone più influenti c’erano il prete e il medico. E proprio di quest’ ultimo ne parlava sempre con affetto e riconoscenza. Il dottore si chiamava Fantocchiotti, un nome non comune, e forse per questo impresso nei miei ricordi. Si rivolgeva al ragazzo con un nomignolo non ben accettato, ma che lo sopportava, perché comprendeva il senso di affetto col quale gli era indirizzato. Con un calesse trainato da un cavallo, così era solito recarsi a visitare i pazienti, o a Perugia a fare acquisti; quando andava in città, il dottore gridava: - “Orfanello” ! stringendosi al suo grande mantello nero, e Luigi di corsa gli sedeva, con un balzo, accanto.
Durante questi viaggi cominciò ad imparare tante cose. Il medico gli parlava di tutto; storie vere e non, di musica e di tanto altro, trascorrendo giornate piacevoli e spensierate, potendo anche mangiare. Alla fine gli lasciava qualche soldino aiutandolo ad affrontare meglio la vita per lui così difficile. Gigino era sveglio e fece suoi tutti quegli insegnamenti. Frequentò la scuola fino alla quarta elementare, anche se non tutti i giorni, e raccontava che riusciva meglio degli altri. All’età di 14 anni cominciò a lavorare in miniera; era l’anno 1930, un lavoro durissimo, usando il piccone e la pala, con ai piedi stivali di gomma, tanto d’inverno che d’estate. nel 1938 con il fratello Adelmo saranno chiamati a lavorare nella Miniera. Purtroppo Adelmo muore sul lavoro, a causa di una forte scarica di corrente elettrica che lo colpisce.
E’ in quel periodo che Luigi si fidanza con Guendalina Gildezza, sua coetanea di Cibottola. La madre della ragazza non accettava quella unione perché sapeva benissimo in che vita misera sarebbe andata incontro. Mia madre rifiutò di tornare a Foggia dove aveva trovato lavoro in un negozio della Perugina, così decisero di sposarsi, a 29 anni. Era il 5 novembre 1945, giorno del compleanno di mio padre. Affittarono due stanze in una specie di casa al centro di Pietrafitta. Ci raccontavano che dal pavimento potevano vedere gli animali sotto dove c’era una stalla, e l’odore rendeva la vita insopportabile. Mio padre lavorava molte ore al giorno, sette giorni alla settimana, non si risparmiava; voleva realizzare il loro sogno di costruirsi una casa. Mia madre riuscirà a fare delle economie, crescendo contemporaneamente tre figlie: Wilma nata nel ’46, Lidia nel ’49, Armanda nel ’53, così la casa fu terminata nel 1956, in Via Costa a Pietrafitta. Il 9 maggio 1957 nasce Maria Pia, una bella bambina che sarà amata e coccolata dai genitori e dalle sorelle. Questa figlia che si è occupata di valorizzare l’impegno del padre, che in quegli anni sarà incaricato di sondare la zona mineraria di Pietrafitta alla ricerca di lignite. Si trattava del giacimento fra i più grandi d’Italia. nel 1963 la Centrale e la Miniera verranno incorporate dall’EnEL. Questo cambierà la vita dei tanti operai che vi lavoravano, di Pietrafitta e di tutti i paesi vicini.
Con EnEL vi sarà un miglioramento nel modo di lavorare e gli stipendi aumenteranno di molto. Finalmente la vita di tutta la famiglia diventerà più che dignitosa; costruirono un secondo piano della casa e nel 1965 comprarono la prima automobile.
Il ricordo dell’arrivo della 500 è nitido nella mia memoria.
Mio padre si recò con un amico a Tavernelle all’officina bardi, mentre noi donne della famiglia aspettavamo fuori sulla strada. Quando arrivò esplodemmo di gioia. Scese vicino al nostro garage e fece vedere la 500. Gli occhi gli brillavano e noi si faceva a gara per sedersi dentro. Mise in moto la macchina e ci faceva vedere come rimetterla in garage. La metteva dentro e poi la riportava fuori e andò avanti per parecchie volte, dentro e fuori, finché alla fine riuscì anche a graffiarla, rimanendo molto male, mentre noi figlie e la mamma ci facemmo una bella risata. Quando nel 1966 la Centrale Termoelettrica si fermò per riparazioni, il personale venne trasferito in varie centrali EnEL, e mio padre fu incaricato come tecnico in Calabria, nella miniera di lignite del Mercure. È proprio lì che trovò, dei resti fossili. La prima volta che ci fece vedere un fossile è un ricordo che difficilmente dimenticherò. Era la testa di femore di un elefante, che spuntava dalla sua valigetta avvolta in un asciugamano. -“Guardate cosa ho trovato! Un fossile che ha la stessa età della lignite”-. noi tutte guardavamo stupite e confuse. - “Cosa ci fai con quell‘osso”? Gli domandò mia madre. “non senti che puzza? Lui era affascinato da quel ritrovamento ma noi non gli demmo molta importanza, e lo ripose. Certo non potevamo immaginare che a causa di quell’osso, la vita della famiglia boldrini non sarebbe stata più la stessa.
Tornando a lavorare alla Miniera di Pietrafitta volle continuare la sua ricerca. Alla fine del 1966 trovò una tibia di leptobos, un animale oggi estinto. Fu felice e meravigliato allo stesso tempo e corse dal direttore della Miniera e della Centrale EnEL, l’ingegner Curli, e chiese se poteva – nel tempo libero – cercare e recuperare eventuali reperti. L’ing. Curli lo autorizzò con il consenso della Soprintendenza delle belle Arti e dell’Università delle Scienze naturali di Perugia. Ogni volta che si recava alla Miniera per cercare i fossili non rimaneva deluso perché riusciva sempre a trovare qualche resto. Ricercatore per caso, divenne uno dei più noti paleontofili ad avere recuperato tante specie di fossili di animali nello stesso sito.
Per la ricerca e il recupero doveva seguire la macchina escavatrice e essere presente quando questa incontrava un fossile nei banchi di lignite, seguire le tracce alla ricerca del resto dell’animale e questo tanto sotto il sole d’estate che il gelo d’inverno. Luigi ha lavorato durante il suo tempo libero per oltre 35 anni. A volte, dopo essersi impegnato per riportare alla luce un frammento, tornando il giorno dopo, deluso, scopriva che non era rimasto nulla, perché la macchina escavatrice aveva divorato tutto. Lui non si è perso mai d’animo, ha continuato a coltivare questa sua passione, riuscendo a recuperare migliaia di resti. La miniera di Pietrafitta infatti era un vero cimitero di animali, soprattutto elefanti. nel 1969 venne alla luce un Elefante meridionalis (detto Mammut) intero, cosa veramente straordinaria e sorprendente per tutti. Con l’aiuto della Soprintendenza e l’Università di scienze riuscì a recuperarlo anche se, molti pezzi si ruppero
perché l’Università mandò studenti che non erano certamente degli esperti. Finito il recupero dell’elefante, da quel giorno non vide più nessuno, per mancanza come disse il professore Ambrosetti, responsabile dell’Università, di personale disponibile e che anche se dispiaciuto, non poteva mandare nessuno ad aiutarlo. Tutti sapevano che alla miniera vi erano ancora tantissimi fossili e mio padre continuò da solo il recupero. Così venne costruita la prima baracca. Durante questi anni mio padre lavorava 8 ore al giorno in miniera. Veniva a casa per mangiare e vi ritornava subito per continuare le ricerche. Altre 4-5 ore secondo ciò che trovava.
Poi riportava a casa il fossile e iniziava a restaurarlo lavorando ancora, sempre disponibile a ricevere coloro che facevano visita a casa nostra per ammirare i fossili. È venuta gente da tutte le parti d’Italia e dall’estero. Sono venuti pullman con scolaresche, sono venuti studiosi, paleontologi, gente esperta e non; lui si è reso sempre disponibile con tutti. Lo ammiravano per il suo lavoro e gli arrivavano cartoline da tutto il mondo per ringraziarlo della sua disponibilità e per il suo ingegno. Queste, credo, siano state le uniche vere soddisfazioni per boldrini: avere recuperato innumerevoli resti di elefanti, rinoceronti, bovidi, cervi, orsi, scimmie, pesci e anfibi, castori, tartarughe, uccelli, cigni, topi, foglie e semi, conchiglie, bivalve, gasteropidi, pannonictis e una specie di cervo chiamato Megaloceros boldrinii, in onore dello scopritore. Quando penso alla Sua storia e ai fossili, l’immagine che più amo ricordare è quella nel locale di casa dove
accuratamente conservava i reperti, mentre spiegava a qualche visitatore tutti i particolari e la storia di ogni singolo pezzo. Lo faceva con entusiasmo, con quel suo gesticolare con le mani, come se le parole non fossero sufficientemente esaurienti.
Intanto, agli inizi degli anni settanta la collezione era già molto ampia. Il prof. Ambrosetti, responsabile della facoltà di scienze dell’Università di Perugia, veniva a casa nostra insieme ai suoi studenti a catalogare ogni singolo pezzo, anche il più piccolo frammento. nel 1984 ci fu un episodio che ha portato scompiglio e dispiaceri nella nostra famiglia. Arrivarono una mattina carabinieri in divisa con un mandato di perquisizione nella nostra casa. La Questura di Perugia, dietro una segnalazione anonima, accusava Luigi boldrini di nascondere reperti fossili e di truffa ai danni dello Stato. Egli cercò di dare spiegazioni e invitava i carabinieri nei locali dove erano custoditi i reperti, che non erano nascosti. Tutta la collezione era a disposizione di chiunque e aveva avuto l’autorizzazione sia della Sovrintendenza delle belle Arti che dall’Università di Scienze di Perugia, anche se solo verbalmente. Spiegò loro che i fossili erano stati studiati e catalogati dal prof. Ambrosetti responsabile dell’Università e tutti ne erano al corrente.
La perquisizione durò poco tempo perché nel frattempo i dirigenti dell’EnEL venuti a conoscenza dell’accaduto, confermarono tutto quello che aveva detto boldrini. Restò l’amaro in bocca poiché il danno morale era già stato compiuto. Inoltre, la mattina seguente uscì un articolo sulla stampa che riportava l’accaduto, descrivendo
boldrini come un tombarolo. Il dolore leggendo quella mattina il giornale fu enorme. La persona che tutti stimavano, apprezzavano per la sua grande passione e i sacrifici sopportati per riportare alla luce migliaia di fossili, era stata trattata come un delinquente. Dopo circa un anno dall’accaduto il direttore della Miniera EnEL, il prof. Ambrosetti e un incaricato della Sovrintendenza lo pregarono di riprendere le ricerche. Lui non ne voleva sapere, a causa di quanto subìto; le ferite erano ancora aperte, ma dopo tante insistenze si persuase e ricominciò di nuovo a scavare. Oggi lo si può spiegare conoscendo quanta passione aveva per i suoi ritrovamenti. Continuò ancora fino all’inizio degli anni ’90 trovando ancora tantissimi fossili. Si prestava con altri colleghi pensionati dell’EnEL ad accompagnare gruppi di visitatori alla Centrale, la miniera e i fossili.
L’onestà, il suo grande spirito di sacrificio e la grande voglia di imparare hanno caratterizzato la sua vita. Date le precarie condizioni di salute di mia madre Gigino iniziò a rallentare le sue ricerche e smise definitivamente nel ’90. nonostante una vita di sofferenze arrivò a 80 anni in buona salute. Aveva una memoria lucida e sempre pieno di vita. nel 1998 inizia a sentirsi male e appena due mesi dopo muore in un letto di ospedale; era il 23 luglio. nel comodino trovammo le foto dei fossili che portava sempre con sé.