La valle del Tassobbio

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La Val Tassobbio è una piccola “enciclopedia” geologica, storica e naturalistica che tutti noi possiamo sfogliare, apprezzare, nella speranza che l’intera valle, ma soprattutto l’intero corso d’acqua, che lungo i suoi 21 Km attraversa 5 Comuni, possa essere maggiormente tutelato, valorizzato e attrezzato con una rete sentieristica ben organizzata

Ecco cosa troverai all’interno Introduzione geologica della Val tassobbio di Silvia Chicchi Origini morfologiche e catture fluviali nella valle del Tassobbio di Sergio Guidetti Preistoria e Protostoria nella valle del Tassobbi di James Tirabassi Topografia storica del bacino del Tassobbio fra l’età romana ed alto medioevo di Nicola Cassone La valle del Tassobbio - l’ambiente vegetale di Villiam Morelli La valle del Tassobbio - La fauna di Luca Bagni e Massimo Gigante La valle del Tassobbio è area protetta di Alessandra Curotti

La Valle del Tassobbio La vita nei secoli prima dei Canossa

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La Valle del Tassobbio La vita nei secoli prima dei Canossa con saggi di: Nicola Cassone, Silvia Chicchi, James Tirabassi, Sergio Guidetti, Villiam Morelli, Massimo Gigante e Luca Bagni



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Prefazione

di Giovanna Caroli Assessore alla Cultura del Comune di Casina

Ciò che fa la differenza nell’avere cura è la continuità, il guardare avanti, il non accontentarsi, il cercare nuova armonia per le tessere di quell’unico grande mosaico che unisce insieme la storia e la vita di una comunità. Ecco allora che dopo le singole biografie si cerca la storia del paese nel suo contesto, si approda alla valle, all’ambiente che la accoglie e se ne indaga l’origine e l’evoluzione. Non è bastato alla ProCortogno il successo della pubblicazione “La Valle del Tassobbio”, troppo poche le pagine, troppe le richieste inevase. Ecco allora la nuova edizione, riveduta e corretta e soprattutto ampliata! Dal fascicoletto è passata al libro, questo, che non nasce all’improvviso, in forma estemporanea, per un caso fortunato: alle spalle ci sono un sapere e un fare individuale e collettivo, ci sono competenze e assunzioni di responsabilità coltivate nel tempo, come abbiamo più volte richiamato, in particolare nell’edizione dello scorso anno: “Anno dopo anno, la ProCortogno, in particolare nelle persone di Piero Torricelli e Davide Costoli, restituisce alla memoria collettiva pagine di storia con la profondità e insieme facilità di lettura che solo i grandi esperti e i veri appassionati riescono ad avere. Anno dopo anno il patrimonio di conoscenze dei Cortognesi e dei Casinesi intorno al loro territorio e alla loro comunità si accresce e arricchisce. Talvolta sono le biografie compilate da Primo Rinaldi e lette nelle ricorrenze della borgata, talaltra le ricostruzioni storiche di Piero Torricelli, corredate di moniti e insegnamenti sul presente, altre ancora le illustrazioni di Davide Costoli - valgano per tutte le tavole relative alla fornace romana - o i suoi disegni preparatori a un restauro; qualche volta protagonisti sono momenti di storia collettiva, altre le biografie di cortognesi che si sono distinti come Giuseppe Guidetti o il mae-

stro Medardo Domenichini, altre ancora la diffusione delle parole rivolte alla comunità, come le “Lettere ai giovani” di don Luciano. Varie anche le modalità, dalla collaborazione a scavi e ricerche, all’allestimento di mostre, più spesso l’organizzazione di convegni; sempre l’inserimento di pagine culturali nell’annuale depliant delle iniziative”. Tra i tanti meriti di Piero Torricelli e Davide Costoli c’è sicuramente quello di saper coinvolgere e motivare, lo dimostra la collaborazione di sempre nuovi studiosi specialisti dei diversi settori: all’archeologo James Tirabassi e al geologo Sergio Guidetti si aggiunge quest’anno Nicola Cassone, la geologa Silvia Chicchi, l’educatore ambientale e guida escursionistica Villiam Morelli, il naturalista Massimo Gigante , il biologo Luca Bagni e l’esperta ambientale Alessandra Curotti. Insieme guardano al territorio culla della comunità e ne descrivono le origini, studiano le condizioni geologiche e ambientali, le prime presenze degli uomini: Insieme danno vita a una sorta di educazione permanente in cui ciascuno può essere attivo, interrogarsi e ricercare, trovare insieme ad altri appassionati esperti risposte e nuove domande: un centro di ricerca che merita l’attenzione anche della scuola istituzionale per un vantaggio reciproco. Lo studio dell’ambiente naturale e della propria storia così condotto favorisce l’ambiente sociale in cui ciascuno può meglio comprendere ed esprimersi. Ai tanti che si sono spesi con competenza e generosità il grazie dell’Amministrazione Comunale e, ne sono certa, di tutta la comunità. Casina, 21 settembre 2011


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Con il consiglio della Proloco ci interroghiamo spesso su “chi siamo” e “cosa dobbiamo fare”, lo statuto ci aiuta, e ci invita a valorizzare e a tutelare il territorio. Abbiamo pensato di farlo partendo da una domanda semplice e diretta: chi sei Tassobbio e come sei vissuto? Migliaia di anni fa, (come vedrete), il Tassobbio, ha preso un’altra strada e noi l’abbiamo seguita e ci ha portati fino a valle, abbiamo allargato i nostri orizzonti, il nostro limite fisico fino a scoprire che un fiume non esiste senza il suo bacino idrografico, e sono 100 Km2!. Tutto quello che succede qui dentro, finisce in Enza, in Po e poi in mare. Mancava un qualsiasi volume che parlasse del Tassobbio punto e basta, quasi fossero tutti irritati dal suo percorso tortuoso e verso i monti. Ogni amministrazione ha sempre sezionato e analizzato il Tassobbio viaggiando dentro i suoi confini politici, ma la vita scorre di qua e di là senza limiti. Non volevamo un “mattone”; volevamo un

libro agile e divulgativo, per dare il nostro piccolo contributo ad una valorizzazione complessiva e non settaria. Oltre ad aver consolidato legami con studiosi che vivono nella valle come Sergio Guidetti, abbiamo cercato un’istituzione pubblica come i Musei Civici di Reggio Emilia, e trovato, in James Tirabassi amico che stimiamo, una guida che ci ha consigliato e messo in collegamento con altri giovani studiosi che si sono avventurati con noi nel tracciare la prima “biografia” del Tassobbio. Siamo consci che “l’enciclopedia” del torrente è ancora da scrivere, ma siamo una piccola Proloco, siamo uno “strumento” per la comunità, siamo spesso il legante e il reagente, e vorremmo che lo stesso facesse questo volume che avete tra le mani. Creare consapevolezza e stimolo. La responsabilità rimane nostra e di tutti quelli che ogni giorno vivono nella valle, sia chi la usa e la rispetta che chi ne abusa e ne fa scempio. Buona lettura!

Ideazione e realizzazione

Con il patrocinio dell’ Assessorato alla Cultura del

Comune di Casina

La Proloco Cortogno ringrazia tutti gli autori che hanno realizzato, espressamente e gratuitamente per questo volume, i testi, e che, con generosità e sensibilità, ci hanno sostenuto in questa iniziativa. Un ringraziamento particolare a Stefano Landi Grafica e impaginazione: www.up-comunicazione.com Stampa e confezione: La Nuova Tipolito - Felina - info@lanuovatipolito.it

1ª ristampa - Dicembre 2012

Proloco Cortogno - 42034 Cortogno di Casina - www.cortogno.net - info@cortogno.net

di Davide Costoli Consigliere Proloco Cortogno


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Indice Prefazioni

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Indice

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Il torrente Tassobbio

pag. 4

La Valle del Tassobbio La Geologia di Silvia Chicchi

pag. 9

Origini morfologiche e catture fluviali nella Valle del Tassobbio di Sergio Guidetti

pag. 23

Preistoria e Protostoria nella Valle del Tassobbio di James Tirabassi

pag. 35

Topografia storica del bacino del Tassobbio fra etĂ romana ed Alto Medioevo di Nicola Cassone

pag. 75

La Valle del Tassobbio L’ambiente vegetale di Villiam Morelli

pag. 103

La Valle del Tassobbio La Fauna di Massimo Gigante e Luca Bagni

pag. 113

Una nuova area protetta: Paesaggio naturale e seminaturale Protetto della Collina Reggiana - Terre di Matilde di Alessandra Curotti

pag. 135


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Il torrente

Vista da

sud-ovest

Tassobbio Il torrente Tassobbio nasce a Marola (Carpineti) a 735 m s.l.m., e sfocia dopo 21,5 km a valle di Vetto in località Compiano (258 m s.l.m.). Il suo bacino idrografico è di circa

parte di Carpineti (6,36%). Da un punto di vista orografico, il bacino è situato in una parte del medio Appennino Reggiano nella Provincia di Reggio Emilia, è

100 kmq e interessa, da nord verso sud e da ovest verso est, i territori comunali di Canossa (11,28% della superficie totale), Casina (26,18%), Vetto (20,00%), Castelnovo né Monti (36,18%), ed una minima

caratterizzato da quote comprese tra i 960 m s.l.m. della porzione della Pietra di Bismantova (compresa nel sottobacino del rio Maillo), e i 258 m s.l.m. della confluenza TassobbioEnza.

Vista da

nord-est Milano Torino

Piacenza

Verona

Venezia

Parma Reggio Emilia Modena

Bologna

La Spezia Aulla Firenze

800 m

0m

2 Km

Casina

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Rio Leguigno

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Rio Maillo

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RioTassaro

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Altimetria del torrente Tassobbio

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Bacino Idrografico del Torrente Tassobbio Bacino idrografico Torrente Tassobbio Sottobacini

Foce Mt. 256

Affluenti e sottobacini Rio Maillo Nasce nelle vicinanze di Castelnovo né Monti a 654 m s.l.m. e sfocia dopo 26,7 km a sud-est di Vedriano (350 m s.l.m.). Durante il percorso raccoglie diversi segmenti fluviali. Il bacino idrografico interessa i comuni di Vetto e di Castelnovo né Monti. Per estensione e valore del rapporto di rilievo, è molto simile al sottobacino del Tassobbio. RioTassaro

Rio di Leguigno Questo bacino nasce alle pendici meridionali del Monte Tosco, a 785 m s.l.m. e sfocia dopo 8,6 km nei pressi di Ariolo (385 m s.l.m.). Interessa i territori di Carpineti e di Castelnovo né Monti e Casina.Le caratteristiche idrogeomorfologiche di questo bacino sono del tutto simili a quelle del rio Maillo

Rio Tassaro Nasce nei pressi di Ronchelvetro a 760 m s.l.m. e dopo aver ricevuto l’apporto di pochi piccoli affluenti, sfocia dopo 5,5 km di percorso, vicino al Mulino di Chichino (307 m s.l.m.). Questo bacino idrografico interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Vetto. E’ il bacino che ha la dimensione areale ed il perimetro minori.

Vetto

Comune di : Carpineti Vetto Castelnovo ne’ Monti Casina Canossa

Cast ne’ M


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Canossa

Casina

Rio Leguigno

Sorgenti del

Tassobbio

Rio Maillo

Carpineti

Castelnovo ne’ Monti

Pietra di Bismantova Mt. 926

0

200O m


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La Valle del Tassobbio La Geologia di Silvia Chicchi

Geologa, ha collaborato per la Regione alla Carta geologica dell’Emilia Romagna. E’ ora responsabile della sezione naturalistica dei Musei Civici di Reggio Emilia.

La lettura degli aspetti geologici di un paesaggio apre una vera e propria finestra sul passato più remoto: le rocce registrano i paleoambienti, le strutture geologiche ne testimoniano l’evoluzione, le forme del paesaggio riflettono l’interazione tra le caratteristiche litologiche del terreno e gli agenti che lo hanno modellato. La lettura non è però di immediata interpretazione, in particolare in aree come l’Appennino dove le coperture vegetali e i suoli mascherano il substrato e dove le vicende che hanno portato alla edificazione della catena montuosa sono state particolarmente complesse. Per ricostruire la geografia del lon-

tano passato del nostro territorio è opportuno quindi ripercorrere brevemente le tappe dell’evoluzione dell’Appennino, che come ogni catena montuosa è il risultato di movimenti che interessano a scala globale la crosta terrestre, modificandone nel corso delle ere geologiche i lineamenti.

La formazione dell’Appennino Circa 220 milioni di anni fa, i continenti appaiono tutti riuniti in un unica massa emersa, cui è stato dato il nome di Pangea.


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L’oceano ligure-piemontese nel Giurassico

Verso la fine del periodo Triassico, a circa 200 m.a., a causa dei moti convettivi presenti nell’astenosfera, questo supercontinente inizia a frammentarsi, dapprima con una lunga frattura che separa l’Eurasia dall’Africa: tra le aree emerse si creano dapprima depressioni, presto invase dalle acque marine, poi vere fratture della crosta continentale, lungo le quali risalgono dall’astenosfera magmi basaltici che, solidificando, danno origine ad una nuova Schema della frattura tra due placche ed espansione di un fondale oceanico

crosta, chiamata oceanica (circa 180 m.a.). Per diversi milioni di anni questo bacino oceanico, cui i geologi daranno il nome di Oceano ligure-piemontese (perchè le rocce in esso formatesi caratterizzano in particolare le montagne di queste due regioni), si espande, fino a che, in concomitanza con l’inizio dell’apertura dell’oceano Atlantico meridionale, circa 130 milioni di anni fa, l’Africa inizia a ruotare verso nord, avvicinandosi all’Europa, e comprimendo l’area oceanica interposta. La crosta oceanica, densa e pesante, a seguito della compressione entra in subduzione, mentre i sedimenti accumulatisi su di essa nei milioni di anni vengono ‘scollati’ dalla crosta, deformati ed impilati gli uni sugli altri a formare un rilievo sottomarino. Con il progredire della compressione la crosta oceanica finisce per essere completamente subdotta e si arriva allo scontro tra le due masse continentali. In questo momento si raggiunge il culmine della deformazione, ampie porzioni di roccia vengono ad accavallarsi le une sulle altre e il rilievo fino a quel momento sottomarino diventa una catena emersa. Questo avviene dapprima nelle Alpi (circa 40 milioni di anni fa), successivamente per l’Appennino, che arriva ad emergere circa 10 milioni di anni fa, sospinto anche da una rotazione verso W del microcontinente costituito da Corsica e Sardegna. La pianura padana rimane invece occupata dal mare fino alla parte alta del Pliocene, circa 1,8 milioni di anni fa.

Evoluzione della Pangea

Permiano 225 milioni di anni fa

Triassico 200 milioni di anni fa

Giurassico 135 milioni di anni fa

Cretaceo 65 milioni di anni fa

Oggi


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a

a

a

a

Schema di avvicinamento tra placche, con subduzione di crosta oceanica e formazione di una catena montuosa

Le rocce che costituiscono l’Appennino reggiano, nella quasi totalità rocce sedimentarie di origine marina, si sono formate in parte sulla crosta oceanica basaltica del cosiddetto oceano ligure-piemontese (dominio Ligure) e in parte sul margine sommerso del continente africano, del quale l’ossatura profonda della penisola italiana costituisce un promontorio (dominio Toscano). Sono rocce formate per accumulo di particelle di varia natura, soprattutto spoglie di microrganismi ed alghe a scheletro calcareo o siliceo nella fase di espansione oceanica, materiale detritico di varia composizione e dimensioni quando la compressione tra le placche provoca nel bacino una grande instabilità, innescando terremoti, frane sottomarine, apporti detritici dalle terre emerse, soggette ad erosione. La deformazione che ha generato l’Appennino si è propagata da SW verso NE, interessando prima la porzione oceanica, poi il margi-

ne continentale africano, sul quale hanno finito per essere trasportate e impilate le successioni sedimentarie dell’antico oceano: in questo modo nella catena si può osservare la sovrapposizione di Unità liguri (corpi rocciosi originatisi nel Dominio Ligure), più antiche e deformate, su Unità toscane (originate nel Dominio Toscano). E’ importante notare che parte delle rocce che formano l’Appennino si sono sedimentate mentre la catena già si stava delineando, ancora in ambiente subacqueo, per cui alle rocce molto deformate del Dominio ligure, sono sovrapposte altre formazioni, meno interessate dalla deformazione, che costituiscono la Successione epiligure, data dai sedimenti deposti sulla catena in via di edificazione, a partire da circa 40 milioni di anni, fino all’emersione. Questa successione è arealmente molto estesa nel medio appennino reggiano, connotandone la morfologia e il paesaggio, tra Vetto, Castelnovo ne’ Monti, Carpineti, Casina, Cerredolo de’ Coppi e nella valle del Tresinaro.

La geologia del bacino del Tassobbio Nel bacino del Torrente Tassobbio sono presenti essenzialmente tre gruppi di formazioni rocciose. Il primo gruppo comprende le formazioni originatesi nel Dominio ligure, cioè nel bacino a crosta oceanica apertosi tra Africa ed Europa. La loro età va da circa 125 a 50 m.a. Sono distribuite prevalentemente nella parte centrale, inferiore del bacino.


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Il secondo gruppo comprende le piÚ recenti formazioni appartenenti alla Successione epiligure, deposta sopra alle precedenti nel corso della loro deformazione e traslazione verso NE in ambiente ancora sottomarino. Esse contornano a sud, est e nord-est la parte alta del bacino. Il Tassobbio e i suoi affluenti hanno pertanto generalmente la loro sorgente all’interno della Successione epiligure, per poi scavare il proprio corso nelle formazioni liguri. Il terzo gruppo, affiorante nella sola area di Monte Staffola comprende formazioni argilloso-calcaree e arenacee che sono state attribuite ad un

ambiente di transizione tra il Dominio ligure e il Dominio toscano, chiamato Dominio subligure, di cui si accenna solo brevemente: si tratta di argilliti marnose nerastre, con strati calcarei, alternanze arenaceopelitiche, arenarie, affioranti tra Ve-

Frana di Roncovetro


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Rupe di Pietra Nera

Schema geologico del medio appennino reggiano. I colori sui toni del verde corrispondono alle formazioni del Dominio ligure, i colori marrone chiaro e scuro corrispondono alle formazioni della Successione epiligure. (dal foglio 218 della Carta geologica d’Italia, realizzata dalla Regione Emilia Romagna)

Rupe di Pietra Nera, particolare di basalti in pillows

driano, Albareto, Borzano e il fiume Enza. In queste litologie sono impostati importanti fenomeni franosi, come la frana recentemente riattivata che dal monte Staffola scende fino nel Tassobbio (lavina di Roncovetro). L’età di questi sedimenti è compresa tra Paleocene superiore ed Oligocene, 60-25 m.a. circa

Il dominio ligure Il dominio ligure è caratterizzato, come detto, dalla crosta oceanica che costituiva il fondo del bacino. Essa è in gran parte scomparsa nella subduzione, ma frammenti di essa, sfuggiti a questo processo, si trovano ora intercalati in formazioni argillose più recenti. Si tratta di rocce magmatiche intrusive, quali gabbri e peridotiti, che costituivano la parte più profonda della crosta oceanica o addirittura porzioni di mantello, e basalti, rocce magmatiche effusive, costituite da silicati di ferro e magnesio. Di colore verde scuro, in superficie possono mostrarsi rossastri per alterazione dei minerali di ferro. La caratteristica struttura a cuscini, che spesso presentano, deriva dal rapido consolidamento della lava, eruttata in ambiente sottomarino, a contatto con l’acqua fredda. Per il colore prevalentemente verdastro, che può ricordare la livrea di un serpente, queste rocce vengono collettivamente denominate ofioliti (dal greco ophìs: serpente e lithòs: roccia) e serpentiniti le rocce metamorfosate da esse derivate. Gli esempi più importanti di rocce ofiolitiche della zona sono le rupi di Rossena e Campotrera, con una bella esposizione di basalti a cuscini

(pillows) sotto la torre di Rossenella. Nel bacino del Tassobbio risalta, a sud di Vedriano la rupe di Pietra Nera, dove si possono osservare basalti in pillows accompagnati da brecce ofiolitiche. Altri piccoli affioramenti di brecce e serpentiniti sono presenti nella zona, e, più a valle, presso il Mulino di Chichino e nei pressi di Piagnolo (serpentiniti). Il forte contrasto di durezza delle ofioliti rispetto alle argille che le inglobano fa sì che esse emergano in modo molto evidente nella morfologia per erosione selettiva. Alle ofioliti possono trovarsi associati lembi della copertura sedimentaria più antica della crosta oceanica, Diaspri e Calcari a Calpionelle,

costituiti gli uni dall’accumulo di


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fanghi silicei e spoglie di organismi silicei (radiolari) gli altri dalla deposizione di microrganismi calcarei (calpionelle). Di tali coperture rimangono nell’area poche tracce nei pressi di Vedriano (Case Pizzone).

Brecce ofiolitiche nelle Argille a Blocchi

Le formazioni argillose Nelle Unità liguri è diffusa la presenza di formazioni argillose, che nella valle del Tassobbio affiorano estesamente nella parte medio bassa

del bacino. Esse costituiscono la base dei flysch ad elmintoidi di cui si parlerà in seguito. Le argille sono rocce formatesi per sedimentazione di particelle detritiche di piccolissime dimensioni, inferiori a 0,062 mm. Esse sono spesso associate a strati calcarei (Argille a palombini) o a brecce ad elementi ofiolitici, silicei e calcarei (Argille a blocchi). Generalmente di colore grigio, presentano talora colorazioni tra il rosso, il violaceo e il nero (Argille varicolori). La deposizione di sedimenti argillosi nel bacino ligure coincide con l’i-

nizio della compressione tra Africa ed Europa (attorno a 130 milioni di anni), che crea instabilità nel bacino e il prevalere nella sedimentazione di elementi detritici. Queste formazioni, già nelle fasi precoci della strutturazione della catena, sono state frequentemente rimobilizzate da franamenti in massa, piegamenti e traslazioni, responsabili del loro aspetto ‘caotico’, per il quale, fino a non molti anni or sono venivano chiamate, collettivamente, “Argille scagliose”. I rilievi di dettaglio che hanno portato alla realizzazione della Carta geologica regionale hanno negli ultimi anni permesso invece di evidenziare formazioni argillose differenti per caratteristiche, età e posizione stratigrafica, come le Argille a palombini (Cretacico inferiore, 125-100 m.a. ca.), diffuse in una fascia a est di Vedriano, le

Argille a Palombini

Argille varicolori


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Morfologia calanchiva nelle Argille varicolori

Argille a blocchi (Cretacico superiore, 100-75 m.a.) che stanno alla base del Flysch di M.Caio, presenti nella parte inferiore del corso del Tassobbio, e le Argille varicolori (90-75 m.a.) che sono la base del Flysch di M.Cassio, affioranti nel Rio di Leguigno e suoi versanti e, nel Tassobbio, al Mulino di Cortogno e da Ariolo alla confluenza con il Rio Maillo. Alle Argille varicolori si trovano spesso associate arenarie e localmente conglomerati (Conglomerati dei Salti del Diavolo, che affiorano sotto Massandara, a SE di Vedriano)

I flysch ad elmintoidi

Conglomerati dei Salti del Diavolo

Dal punto di vista morfologico le argille sono rocce poco coerenti, che danno luogo a versanti instabili, soggetti a frane e caratterizzati spesso da morfologie calanchive ben visibili, ad esempio tra Leguigno e Beleo, dove sono interessate Argille Varicolori

Le formazioni più tipiche del dominio ligure sono sicuramente i flysch ad elmintoidi (Cretacico superiore, 75-65 m.a.), il cui nome deriva dalla diffusa presenza di caratteristiche tracce fossili riconducibili a organismi di natura sconosciuta ai quali è stato attribuito il nome di Elmintoidi. I flysch sono spesse successioni di strati calcareo-marnoso-pelitici originatesi per risedimentazione di materiali incoerenti deposti in aree di scarpata e piattaforma continentale, mobilizzati da frane sottomarine probabilmente innescate da eventi sismici. La loro genesi testimonia la crescente instabilità del bacino, stretto nella compressione tra Africa ed Europa. Mescolandosi all’acqua questi materiali franati dalle piattaforme continentali formavano nubi torbide che percorrevano velocemente ampie distanze prima di depositare il loro carico solido nelle parti più profonde del bacino. Il risultato del ripetersi di questi eventi sono strati piano paralleli, di spes-


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sore da pochi centimetri a diversi metri e di grande estensione areale, in successioni spesse anche migliaia di metri. Gli strati sono caratteristicamente gradati, cioè le particelle più grosse si trovano alla base dello strato e quelle più piccole, della dimensione delle argille, nella parte superiore. I flysch nel bacino del Tassobbio non presentano gli imponenti affioramenti che caratterizzano altre zone. Sono comunque presenti a Roncroffio, Costa Medolana, Leguigno, alla chiesa di Gombio, M.Venera (località in cui affiora il Flysch di M.Cassio, che prende il nome dalla località del parmense dove si trova una bella esposizione) e a Crognolo, Piagnolo e Compiano (Flysch di M. Caio). Lungo la Valle dell’Enza affioramenti di Flysch di M.Caio si possono osservare sulla sponda sinistra del fiume, a valle di Compiano, il Flysch di M.Cassio è invece ben esposto all’altezza di Currada e lungo il rio omonimo. Per le caratteristiche litologiche i flysch costituiscono in genere dei rilievi che emergono nella morfologia rispetto alle formazioni argillose.

Flysch di M.Cassio sopra il Rio di Currada

Flysch ad Elmintoidi (Flysch di M.Cassio) sotto Leguigno

La successione epiligure I sedimenti deposti sulle formazioni liguri in fase di deformazione costituiscono una successione di formazioni prevalentemente marnose ed arenacee di età compresa, nell’area in esame, tra 42 e 13 milioni di anni circa. Essa giace in discordanza su diverse formazioni già ampiamente strutturate e presenta un grado di deformazione nettamente inferiore, caratterizzato in particolare,

Flysch di M.Caio in Val d’Enza


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Successione epiligure nel Rio Maillo

Arenarie di Ranzano, frazione a dominante pelitica, presso Ariolo

nell’area compresa tra la Val d’Enza e la Val Secchia, dall’ampia sinclinale Vetto-Carpineti. La successione epiligure contorna a sud, est e nord-est il bacino del torrente Tassobbio, i suoi termini più antichi si trovano a diretto contatto con le formazioni liguri, i terreni più recenti costituiscono la parte più elevata dei rilievi. E’ costituita da una alternanza di formazioni pelitico-marnose e arenacee. La sua deposizione ha inizio con brecce argillose (Brecce argillose di Baiso) e con marne e peliti di colore rossastro (Marne di Monte Piano), che non affiorano in modo significativo nell’area considerata. Prosegue con la deposizione delle

Arenarie di Ranzano, frazione arenaceoconglomeratica

Arenarie di Ranzano (Oligocene inferiore, 35-28 m.a. ca.), formazione caratterizzata da grande variabilità laterale, costituendo il riempimento di piccoli bacini sulla catena sommersa, costituita da arenarie grigioscure, talora conglomeratiche, e localmente da alternanze arenaceopelitiche (cioè più ricche di argilla).

Essa borda la parte inferiore della successione epiligure ed è presente lungo la sponda sinistra del Tassobbio, tra il Mulino di Chichino e il Rio Maillo, a monte di Gombio, nel Rio di Beleo, a Pianzo. Nel paesaggio è spesso evidente il contrasto morfologico tra queste arenarie, che sostengono versanti più acclivi e boscosi, e le sottostanti, più aride,

formazioni argillose, interessate da dissesti e morfologie calanchive. La sovrastante formazione di Antognola (Oligocene superiore - Miocene inferiore, 28-22 m.a. ca.) è costituita da marne e peliti verdognole, con stratificazione mal distinguibile. Affiora in modo abbastanza limitato nel bacino del Tassobbio, sopra a Gombio e a monte del Mulino di Cortogno. Affiorano invece estesamente nella Costa di Sabbione, tra Monchio dell’Olle e Barazzone, le Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa, imponente corpo argilloso contenenti blocchi da centimetrici a metrici di calcari, arenarie, ofioliti, denominato in passato “Olistostroma di Canossa” e ricondotto ad uno o


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più episodi di colata gravitativa sottomarina: dalle formazioni argillose liguri già in corso di deformazione e sollevamento si sarebbero staccate ampie porzioni, andando a intercalarsi nella normale sedimentazione della successione epiligure. L’affioramento più spettacolare di queste brecce argillose si può osservare nei calanchi sottostanti la Rupe di Canossa. Nella morfologia esse danno luogo a versanti brulli, interessati da dissesti, ricchi in superficie di blocchi calcarei e di altre litologie, senza accenni di stratificazione. La formazione che sta sopra le Mar-

ne di Antognola o, dove presenti, alle Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa prende il nome di Formzione di Contignaco (Miocene inferiore, 22-20 m.a. ca.). Si tratta sempre di marne argillose grigio verdognole, differenti dalla Marne di Antognola per il forte contenuto in silice, che si esprime anche con la presenza di noduli e liste di selce, che è stato messo in relazione con la presenza di una intensa attività vulcanica in questo periodo. Questa formazione, è presente con continuità alla base del soprastante Grup-

po di Bismantova, begli affioramenti si trovano al M.Castello, nella parte bassa del Rio Maillo. Il Gruppo di Bismantova (Miocene medio, 18-13 m.a.) è il complesso di formazioni più esteso del medio appennino reggiano ed è da toponimi di questa zona che molti dei membri che compongono questo eterogeneo insieme hanno preso il nome, perché qui sono stati studiati, grazie alle esposizioni favorevoli. Il Gruppo, nel suo complesso, è caratterizzato da sedimenti di ambiente meno profondo delle formazioni sottostanti, segno che la futura catena appenninica stava avvicinandosi gradualmente all’emersione, e più ricchi in carbonato di calcio, per la abbondante presenza di bioclasti calcarei, ossia frammenti di organismi di composizione carbonatica. La formazione più antica del Gruppo è la formazione di Pantano (1815 m.a.), costituita da arenarie e arenarie marnose grigio chiare, bioturbate (in cui cioè gli originali caratteri sedimentologici sono stati completamente obliterati dall’azione di organismi), in cui si rinvengono localmente fossili di molluschi, coralli e di echinidi e che testimoniano un ambiente di piattaforma di non elevata profondità. A seconda dell’aspetto, molto variabile, di questa formazione, sono stati distinti alcuni membri, vale adire porzioni contraddistinte da caratteri

Formazione di Contignaco, a monte di Gombio

Formazione di Pantano, a Pantano


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Fossili di gasteropodi e denti di squalo dalla Formazione di Pantano

Formazione di Cigarello, intercalazione arenacea del M.Battuta

comuni, differenti da quelle delle porzioni adiacenti, come il membro di Monte Castellaro, arenaceo, affiorante nella valle del Tassobbio tra case Castellaro e Legoreccio, e il ben conosciuto membro della Pietra di Bismantova, costituito da biocalcareniti, con ricco contenuto in clasti di molluschi, echinidi, briozoi, den-

ti di pesci, riferibili ad un ambiente di piattaforma carbonatica di scarsa profondità. La grande compattezza e cementazione delle biocalcareniti di Bismantova è la ragione per cui, per erosione selettiva, la Pietra emerge in modo così caratteristico dalla morfologia. Chiude in quest’area la sedimen-


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tazione della successione epiligure la Formazione di Cigarello (15-13 m.a.), caratterizzata da marne e marne arenacee grigie, sottilmente stratificate, entro le quali si intercalano lenti di arenarie, come le arenarie di Vetto, le arenarie affioranti al M.Battuta, presso Predolo, sfruttate come pietra da taglio, e le Arenarie di Marola, affioranti estesamente tra il M.Frombolara e Marola e tra Sarzano, Monchio dei Ferri e Cortogno, che su questa formazione è situato. L’assetto strutturale di queste

formazioni, non troppo deformate, la predominanza di arenarie e marne sulle argille, fa sì che esse costituiscano un substrato stabile, poco soggetto a dissesti. Dove prevalgono le marne si osserva una morfologia ondulata, ad esempio nella vallata tra Marola e Carpineti, con terreni che ben si prestano allo sfruttamento agricolo, mentre le porzioni più arenacee danno luogo a rilievi sui quali è diffusa la coltivazione del castagno, pianta che predilige i terreni ricchi in silice.

Arenarie di Marola presso Cortogno

Arenarie di Marola presso Faieto


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Chi volesse approfondire queste brevi note e conoscere più a fondo la geologia del territorio, può trovare uno strumento prezioso e utili riferimenti nel Foglio 218 Castelnovo ne’ Monti della Carta Geologica d’Italia, realizzata dalla Regione Emilia Romagna, a scala 1:50.000, e nelle allegate Note illustrative. Glossario Astenosfera: Il calore interno della Terra comporta la presenza, a profondità comprese tra 100-120 km e 250, forse 400 km, di uno strato di materiale parzialmente fuso, con il comportamento di un fluido molto viscoso, definito astenosfera, che per effetto del calore proveniente dall’interno subisce lenti movimenti: il materiale profondo, più caldo, tende a salire, ma una volta risalito, raffreddandosi, tende a scendere, generando dei flussi convettivi, paragonabili a quelli che si formano in una pentola d’acqua posta sul fuoco. La litosfera, lo strato solido che sta sopra l’astenosfera e che comprende anche la crosta terrestre, viene così sollecitata e si frattura in grandi placche che vengono lentamente trascinate le une rispetto alle altre dai flussi di materiali che avvengono nell’astenosfera, ora allontanandosi, ora avvicinandosi, ora scorrendo l’una a fianco dell’altra. Sono questi movimenti che danno origine alle diverse strutture geologiche della crosta terrestre, catene montuose, dorsali e fosse oceaniche, ecc. e ai fenomeni che le accompagnano, quali vulcani e terremoti. Subduzione: processo per cui, in seguito alla convergenza tra due placche, la crosta oceanica interposta, densa e pesante, è condotta ad immergersi al disotto di una placca continentale

Flysch: Il termine flysch, che ha avuto origine in Svizzera, è utilizzato per indicare una successione di strati costituiti tipicamente da alternanze cicliche di arenarie, calcari, marne e argille deposte in ambiente marino tramite frane sottomarine e correnti di torbidità, cioè ‘nubi’ di materiali in sospensione che si muovono rapidamente sui pendii sottomarini per effetto della gravità, fino a sedimentare nelle parti più profonde del bacino Sinclinale: Il termine sinclinale indica una piega, in cui gli strati più giovani si trovano nella zona di maggior curvatura (nucleo). In situazioni geologiche semplici ha la concavità rivolta verso l’alto. Si contrappone ad anticlinale, termine che indica viceversa una piega che ha al nucleo i terreni più antichi e la convessità generalmente rivolta verso l’alto. Mantello: La struttura interna della Terra è data da una serie di involucri concentrici che differiscono tra loro per composizione chimica, densità e stato fisico. La crosta è l’involucro più esterno, solido, che presenta due tipologie differenti, la crosta continentale, di composizione granitica, e la crosta oceanica, di composizione basaltica. Lo strato sottostante è il mantello, pure solido, che differisce dalla crosta per la composizione, data da minerali di ferro e magnesio. All’interno del mantello, che costituisce l’84% della massa della Terra, si individua l’astenosfera (vedi). L’involucro più interno è il nucleo, allo stato fuso nella parte esterna, solido in quella più interna, costituito da minerali di ferro e nichel.


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23

Origini morfologiche e catture fluviali nella Valle del Tassobbio di Sergio Guidetti

Geologo e insegnante all’Istituto Comprensivo “G.Gregori” di Casina, ha svolto la tesi di laurea sulla Val Crostolo e Tassobbio

Perché un famoso geologo, già agli inizi del ‘900 ha compiuto studi sulla Val Tassobbio? Perché la Val Tassobbio presenta “stranezze” rispetto ad altri corsi d’acqua emiliani? Per citarne una, lo sapete che nel tratto che va da Ariolo sino a Mulino Zannoni il Tassobbio è diretto verso l’Appennino, invece che scendere verso la Pianura? E ancora, lo sapete che la Val Tassobbio non è sempre stata così come appare a noi, ma che ha subito, anche in tempi abbastanza recenti (ultime ere glaciali), notevoli trasformazioni, per colpa (o grazie!) al Torrente Tassobbio? Per citarne un’altra, lo sapete che il primo tratto del Torrente Tassobbio, quello che

scende da Marola ed arriva a Casina, una volta apparteneva al Torrente Crostolo (fenomeno geologico chiamato “cattura fluviale”)? Studiando questo territorio si può capire come la terra, dunque il paesaggio, non sono statici, immutabili, ma in continua trasformazione. La Val Tassobbio è una piccola “enciclopedia geologica” che tutti noi possiamo sfogliare, apprezzare, nella speranza che l’intera valle, ma soprattutto l’intero corso d’acqua, che lungo i suoi 21 Km attraversa 5 Comuni, possa essere maggiormente tutelato, valorizzato e attrezzato con una rete sentieristica ben organizzata


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Se ci soffermiamo sulla fascia di territorio che va da Castelnovo ne Monti sino alle zone collinari si osserva che è solcata longitudinalmente da 4 fiumi: > Enza e Tresinaro ad andamento SW-NE, come gran parte dei corsi emiliano - romagnoli > Secchia il primo tratto ha direzio-

ne + obliqua rispetto all’Enza, anche se dopo si raddrizza. > Crostolo ad andamento SW-NE ha dimensioni molto inferiori dei primi due al punto che non è ancora ben formata la sua valle La direzione di questi fiumi è molto netta, in quanto dovuta a faglie, cioe a fratture della crosta terrestre. Inol-

Crostolo Enza

Tassobbio

Tresinaro

Secchia Nord

La situazione idrografica attuale


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Rio Beleo Leguigno

I pricipali affluenti del torrente Tassobbio

Rio Tassaro

Rio Maillo Nord

Miocene epoca geologica iniziata circa 23 milioni di anni fa e terminata 5 milioni di anni fa.

Dott. Mario Anelli 1882-1953 Geologo e professore all’Università di Parma. Nella prima metà del Novecento operò nell’appennino parmigiano e reggiano compiendo i primi studi scientifici sulla struttura geologica dell’appennino.

tre questa è la direzione più breve per raggiungere la pianura e scaricare acqua e materiale trasportato, costituito da sabbie e ghiaie provenienti dal disfacimento delle montagne. Il T.Tassobbio invece non ha andamento rettilineo, ma vista dall’alto la sua valle disegna una “S”molto anomala nel contesto paesaggistico dell’Appennino Emiliano. Inoltre un tratto del suo corso è “controcorrente”, cioè si muove da Sud verso Nord, dalla pianura verso la montagna. Già nel lontano 1918 il Dott. Mario Anelli dell’Università di Parma ha pubblicato, sul Bollettino della Società Geologica Italiana, uno studio che si prefiggeva di dare una spiegazione scientifica a questa forma della valle. Il Tassobbio ha avuto la forza di “strappare” le acque da altri corsi d’acqua. Interessante perchè di solito in un territorio si vede una sola cattura fluviale, il Tassobbio ne ha catturati addirittura sei!. Prima di descrivere il fenomeno della cattura fluviale è importante sapere che il Tassobbio riceve le acque di 3 importanti torrenti: il Rio Tassaro (passa da Pineto e confluisce in prossimità del M.no Chichino), il Rio Maillo (parte da C-Monti e confluisce in prossimità di M.no Zannoni, il Rio Beleo - Rio

Leguigno ( parte dal Fariolo e confluisce in prossimità del ”giunto dei Re” in località Gombio). Secondo Anelli in questa parte di territorio i corsi d’acqua non sono sempre stati così, ma hanno subito diverse trasformazioni. Per raccontare la storia del Tassobbio, è necessario quindi  spingersi qualche milione di anni or sono, alla fine dell’Epoca Miocenica. Il Tassobbio che vediamo oggi non è quello che videro i nostri antenati, e, probabilmente, non fu quello che attraversarono i dinosauri (o loro parenti prossimi). Le catene delle Alpi e degli Appennini erano ormai completamente emerse e il mare, che aveva occupato la Pianura Padana si stava ritirando, al suo posto era un enorme baratro di parecchie centinaia di metri che ora è colmato dai detriti originatisi dalla erosione dei torrenti tra i quali il Tassobbio). Mancava la traccia del Tassobbio odierno: all’epoca c’erano altri torrenti, il territorio era più regolare, senza grosse valli, c’era  un grande tavolato, un altipiano (altopiano miocenico) di due o trecento metri più alto del livello attuale di cui sono rimaste le roccie più dure come la Pietra di Bismantova e i principali monti affacciati sul torrente. Non si sa con certezza quando il


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La cattura fluviale

Corso d’acqua catturato

I soggetti sono un corso d’acqua catturato e uno catturatore.

Corso d’acqua catturatore

I corsi d’acqua catturati si trovano ad un certo punto della storia evolutiva in condizioni di svantaggio rispetto ai catturatori per cause riconducibili alla maggiore resistenza offerta all’erosione da parte della roccie presenti nell’alveo dei primi. In tal modo il corso d’aqua catturatore, che scorre in roccie più tenere, ha potuto approfondire il proprio alveo in misura maggiore, facendo

Arenarie mioceniche

così arretrare la propria linea di spartiacque a danno dei bacini contigui  e giungendo infine a catturare tratti via via più importanti di quei corsi d’acqua. Nel nostro caso il tratto catturatore (rappresentato dal tratto finale del torrente Tassobbio) scorreva

Argille scagliose

nelle erodibili “argille scagliose”, invece i corsi d’acqua catturati erano impostati su rocce più resistenti (arenarie Mioceniche). Residui di queste catture sono i gomiti di cattura e valli .

T.Tassobbio iniziò a scolpire la sua valle: sicuramente ha avuto bisogno di molta acqua, che, come si sa, conferisce ai corsi d’acqua notevole forza erosiva. Possiamo dunque prendere come periodo di riferimento le ultime glaciazioni (10.000 anni fa circa) che coprirono di ghiacci tutto il nord europa e generarono anche un ghiacciaio che arrivava fino all’odierna Castelnovo ne Monti. Durante lo scioglimento dei ghiacciai il clima era particolarmente pio-

Schema della cattura fluviale

voso con molta acqua nei torrenti e fenomeni di erosione molto forti. In questa situazione il Tassobbio non esisteva ancora, o meglio era un piccolo rio di qualche chilometro che partiva subito dopo il Tassaro e si buttava subito nell’Enza. Questo primo tratto del Tassobbio scorreva su un terreno molto argilloso, quindi molto erodibile che ha cominciato ad erodere il terreno e ad approfondire la sua valle e quando una valle si approfondisce le sue sorgenti arretrano sempre di più.

Tassobbio prima delle glaciazioni

Terreno eroso 300 metri circa

Tassobbio oggi

Gli effetti della sedimentazione e della successiva erosione


27 Gomito di cattura Valle morta

Inversione di flusso

Erosione tramite agenti atmosferici

erosione tramite frane piene e flusso

Immaginiamoci la rete idrografica di 10.000 anni fa dopo l’ultima grande glaciazione. Ora comincia a nascere il Tassobbio che vediamo oggi.

Currada

Cortogno

Fiume Enza

TrinitĂ

Rio Busanella Borzano

Torrente Tassaro

Vecchio Tassobbio

Sarzano Leguigno

Piagnolo

Gombio

Torrente Tassaro Legoreccio

Casina

Rio Leguigno

Pietranera

Migliara

Torrente Crostolo

Rio Maillo Monte Castagneto Marola


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Prima cattura fluviale L’erosione del Tassobbio arriva a lambire il torrente Tassaro che scende in senso parallelo all’Enza,  sfociando in esso poco sotto Roncaglio. A questo punto il corso viene cattu-

Prima

raro e tutte le acque che scendono verso la valle padana vengono incanalate nel Tassobbio verso L’Enza; rimane un tratto relitto alle pendici di Roncaglio che scende nell’Enza.

Dopo Currada

Currada

Fiume Enza

Rio Roncaglio

Borzano

Fiume Enza

Vecchio Tassobbio

Borzano Piagnolo

Vecchio Tassobbio

Rio Maillo Legoreccio

Torrente Tassaro

Piagnolo

Valle del rio Tassaro

1

° Cattura

Fluviale Legoreccio

Rio Tassaro


aglio

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Seconda cattura fluviale

Legenda Bacino fluviale

Il rio Maillo, anticamente, prima della cattura, scendeva verso nord e continuava in quello che adesso è il rio Cerezzola. Il secondo  fenomeno di cattura avviene a Mulino Zannoni: il Rio Maillo devia il suo corso verso sinistra dentro il piccolo Tassobbio, che si trova ad una quota decisamente più bassa, cioè il suo alveo era più profondo. Per un pò, a valle della cattura, le acque continuava-

Valle morta Gomito di cattura

Prima Trinità

Dopo

Cortogno

Currada

Rio Maillo

Cortogno

Rio Busanella

Trinità

Torrente Crostolo Torrente Crostolo

Rio Maillo

Borzano

Vecchio Tassobbio

no a scendere verso Cerezzola, ma incominciando da monte, parte di queste defluirono verso Nord, verso il Tassobbio che era più profondo. Questa inversione della direzione di deflusso interessò ben presto gran parte del corso di valle, sino ad un punto in cui si generò uno spartiacque che esiste tuttora: la Costa del Sabbione. Da li in poi le acque hanno continuato a fluire verso Sud.

Torrente Fiume Tassaro Enza

Sarzano Leguigno

Rio Bus

Trinità

Sarzano Leguigno Casina

Casina

Pietranera

Rio Leguigno

Rio Leguigno Rio Maillo

Migliara

Gombio

Vecchio Tassobbio Migliara

Gombio Monte Castagneto Marola

2

° Cattura Torrente Crostolo

Fluviale Torrente Crostolo

Pietranera

Valle del rio Maillo Monte Castagneto

Ma-

Legoreccio

Monte Castagneto

Rio Maillo


30

Terza cattura fluviale Anche un affluente dell’antico Maillo, il Rio Beleo-Leguigno, ha subito la stessa sorte, venendo

catturato: in località Ariolo le sue acque deviano verso Ovest per l’invasione del Torrente Tassobbio.

Prima

Fiume Enza

Dopo

Currada Rio Busanella

Trinità

Torrente Crostolo

Rio Maillo

Fiume Vecchio Tassobbio Enza

Cortogno

Trinità

Sarzano Leguigno

Casina

Borzano

Piagnolo

3

Rio Leguigno Rio Maillo

Migliara

Vecchio Tassobbio

Gombio

Torrente Tassaro

monte Venera

° Cattura Torrente

Crostolo Fluviale

Sarz Leguigno

Monte Castagneto

Piagnolo

Monte Venere

Leguigno

Rio Leguigno Migliara Gombio

Rio beleo Leguigno

Monte Castagneto Marola

Rio Maillo

Leguigno

Costa di Sabbione

Monte Venera


31

Quarta cattura fluviale L’aggressività del Tassobbio quindi continuò, minacciando un altro torrente, che partendo da Busanella (tra Migliara e Leguigno), scendeva verso Cortogno per poi incunearsi tra il Monte di Barazzone e il Monte Pulce, scendendo dove ora è il tor-

rente Cerezzola. La cattura avvenne in località Mulino di Cortogno. Tra il monte Barazzone e il Monte Pulce  rimane tuttora, ormai priva d’acqua, una tipica valle morta, relitto del vecchio alveo del corso d’acqua sopramenzionato.

Prima

Dopo

Currada

RioCurrada Busanella

Trinità

Rio Maillo

Borzano

Fiume Enza

Cortogno

Torrente Tassaro

Vecchio Tassobbio

monte Pulce

Torrente Cerezzola

Cortogno

monte Barazzone

Trinità

Sarzano

Leguigno

Torrente Crostolo

Casina Pietranera

Piagnolo

Borzano Rio Leguigno

Vecchio Tassobbio

Rio Maillo Legoreccio

orrente assaro

Migliara

Torrente Crostolo

Gombio

4

° Cattura

Sarzano

Leguigno

Monte Castagneto Marola

Fluviale Casina

Pietranera

Piagnolo

Migliara

Torrente Crostolo torrente

Monte

Cerezzola

Barazzone

Torrente Tassaro

Barazzone

Monte

Pulce

Valle morta

Cortogno > Foto aerea di Giovanni Bertolini Servizio Tecnico dei Bacini degli affluenti del Po (RER)

torrente Tassobbio Mulino di

Cortogno


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Quinta cattura fluviale A questo punto il torrente Tassobbio è quasi completamente realizzato. Manca solo il suo tratto iniziale che è ancora di dominio del Crostolo. La quinta importante cattura avviene proprio a spese del Torrente Crostolo, che allora traeva origine nelle alture di Marola e attraversava l’attuale

abitato di Casina in corrispondenza di piazza 4 Novembre. La sua cattura e “decapitazione” avviene in località Ca Matta. Si nota qui come il Tassobbio compia una curva di 90º (gomito di cattura). Il Crosstolo una volta perse le proprie sorgenti deve ritirarsi a valle di Casina. Dopo

Prima Currada

Currada Trinità

Cortogno

Rio Busanella

Torrente Tassaro

Torrente Crostolo

Rio Maillo

Borzano

Torrente Tassaro

cchio ssobbio

Trinità

Cortogno

Sarzano

Leguigno

Torrente Crostolo

Casina

Borzano

Pietranera

Migliara

Vecchio Rio Maillo Tassobbio

Torrente Crostolo

Sarzano Leguigno

Legoreccio

Marola

Casina

Pietranera

Alveo relitto del Crostolo

Migliara

Legorec-

Cattura Fluviale

Torrente Tassobbio

Marola

Tassobbio

Alveo relitto del Crostolo


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Sesta cattura fluviale Currada

Fiume Enza

ano

Il Rio di Beleo-Leguigno confluiva nel Tassobbio in località Ariolo, delimitando a Nord e a Est il Monte Venere. Il Currada tracciato è stato utilizzato come confine tra i Comuni di Casina e Castelnovo ne’ Monti.La forza erosiva del Tassobbio ha velocemente demolito il sottile argine Trinità

Monte Venera

di separazione tra i due corsi d’acqua, spostando la loro confluenza a Sud di Monte Venere ed abbreviando di conseguenza il corso del Rio di Leguigno. Del tratto vallivo abbandonato non è rimastoCortogno che una zona paludosa, ricca di vegetazione igrofila.  Trinità

Torrente Crostolo Dopo

Prima

Borzano

Monte Venera

Torrente Tassobbio

valle morta

Torrente Sarzano Tassobbio

Leguigno

Leguigno Casina

Piagnolo

6° Cattura Fluviale

Foto aerea di Giovanni Bertolini Servizio Tecnico dei Bacini degli affluenti del Po (RER)

Legoreccio

Migliara

Cortogno

Gombio

Gombio Legoreccio

Pieve di

Ariolo

Pianzo Monte Castagneto

Monte Castagneto Marola

Leguigno

Valle

Monte

morta

Venera

Vecchio

corso

Torrente Tassobbio

Nuovo

corso Rio Leguigno Ora il Tassobbio ha la fisionomia attuale: da piccolo Rio è diventato un torrente di oltre 21Km, che raccoglie le acque di un territorio di 100Km2.

Ci riserverà nel futuro altre sorprese?


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35

Preistoria e Protostoria nella Valle del Tassobbio di James Tirabassi

Archeologo e ricercatore dei Musei Civici di Reggio Emilia, autore di numerosi contributi sulla Preistoria e la Protostoria nel territorio Reggiano.

Tracciare una “storia” della Valle del Tassobbio è un compito che mi ha trovato immediatamente disponibile poiché finalmente ho incontrato dei committenti-amici che, una volta tanto, non mi hanno chiesto di ricostruire la preistoria e la protostoria del loro paese o del loro comune, entità urbana, in un caso, e politica, in un altro, che nulla hanno a vedere con lo sviluppo delle “culture” umane che precedettero la storia. Per esse infatti confini e scelte insediamentali erano dettati dalla morfologia naturale del territorio e, di conseguenza, anche eventuali limiti “politici” coincidevano, generalmente, con i corsi d’acqua o con i crinali. Ecco quindi che, giustamente, non

affronteremo la storia di Cortogno o del comune di Casina, ma quella di un bacino imbrifero conchiuso che comprende i territori di ben cinque diversi comuni ( Vetto, Castelnovo ne’ Monti, Casina, Canossa, Carpineti) i quali, in epoca storica, si sono spartiti un’unità geografica morfologicamente inscindibile. Detto ciò dobbiamo tentare di ricostruire le antiche geografie umane a partire dalle età a noi più lontane e quindi meno documentate, per giungere, pian piano, all’alba della storia, cioè alla conquista romana della futura Regio VIII di Augusto. Per farlo dobbiamo tener conto della geomorfologia del territorio, ben documentata in un altro capitolo


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di questo volumetto, perché essa ci guiderà nella ricerca. La presenza di siti è infatti dettata dalla particolare conformazione e disposizione dei substrati geo-pedologici sui quali furono impiantati e l’intensità abitativa varia a seconda dei periodi e delle possibilità di sostentamento oltre che delle necessità di difesa, di riparo, ecc. che la valle, di età in età, fu in grado di offrire. Inoltre gli agenti atmosferici e le forze endogene (corrugamenti, sollevamenti, distensioni, subsidenze, ecc.) che hanno modellato la superficie della terra, oltre a influire sulle risorse alimentari prodotte da un terrritorio, innescarono fenomeni naturali (erosione, colluvio, alluvionamento, seppellimento, ecc.) che determinano il grado di conservazione o di distruzione dei siti, consentendoci, oggi, di trovare o meno parte

delle testimonianze pertinenti alla vita di popolazioni prive di storia alle quali l’archeologo tenta di dar forma e vita. E proprio con tale intenzione proverò, nel modo che mi sembra più semplice, a dare un’immagine virtuale di questi lontani passati. Per farlo dovrò spesso sintetizzare ed omettere molti dati scientifici, ma questo racconto non è rivolto agli specialisti bensì alle persone che abitano la valle del Tassobbio per le quali i termini scientifici sono ovviamente sempre troppo numerosi. D’altra parte non è semplice divulgare concetti spesso ostici salvaguardando la correttezza scientifica dell’informazione, ma ci proverò, nella speranza che il risultato sia accettabile.

Un’ipotesi di successione della linea evolutiva che conduce all’uomo moderno (da: F. Facchini, Le origini dell’uomo e l’evoluzione culturale, 2006 - modificato)

Un’ipotesi di successione cronologica dei principali reperti fossili umani (da: www. cronistoria.it, modificato)


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Paleolitico 2.000.000 10.000 anni fa

Mammiferi

Classe

Primati

Ordine

Ominoidei

Superfamiglia Famiglia

Ominidi

Genere

Genere

Homo

Australopithecus

Homo habilis Homo erectus

0

Homo sapiens arcaico

Homo neanderthalensis

Homo sapiens sapiens

Gli ominidi succedono agli ominoidei che sembrano essere gli antenati sia di questi che delle scimmie antropomorfe.

H.sapiens H. neanderthalensis H. heidelbergensis

1

H. erectus H. antecessor

H. ergaster

2 H. habilis rudolfensis

3

P. robustus

A. garhi

A. africanus

P. boisei

Paranthropus aethiopicus

A. bahrelghazali A. afarensis

4

5

E’ il più lungo periodo della storia dell’uomo, quello che ne ha visto la lenta ma inarrestabile evoluzione nel corso di oltre 2.000.000 di anni (i primi strumenti arcaici sembrano datare a 2.300.000- 2.500.000 anni fa: Archeolitico). Questa infinita alba umana, che si è conclusa circa 40-35.000 anni fa con l’affermazione dell’uomo moderno (Homo sapiens sapiens), è iniziata in Africa, dove, a seguito della comparsa dei primi ominidi, avvenuta già

Ardipithecus ramidus Milioni di anni fa

Australopithecus anamensis

Kenyanthropus platyops

5-6.000.000 di anni fa, troviamo il genere Homo che si diffonderà gradualmente su vasti territori di quel continente prima con Homo habilis poi con Homo ergaster/erectus. Circa 1.600.000 anni fa migrerà anche in Asia e in Europa occupando, nelle alterne vicende climatiche (glaciali e interglaciali) che contraddistinsero il Pleistocene, i territori di volta in volta liberi dai ghiacci. Alla fine del Paleolitico Inferiore (150100.000/90.000 anni fa) e nel corso del Medio (100.000/90.00040.000/35.000 anni fa), in concomitanza con buona parte dell’ultima grande glaciazione, le morfospecie più evolute di Homo ( H. sapiens arcaico e H. Sapiens neanderthalensis), adattandosi anche ai climi rigidi, si espanderanno in tutta l’Eurasia, forse anche ibridandosi, e costituiranno le premesse per la nascita del


38 Massima espansione dei ghiacciai (in azzurro) e distribuzione dei sedimenti eolici(loess) di clima freddo (in bruno) (da: M. Cremaschi, Paleosols and vetusols in the central Po plain-Northern Italy, 1987, modificato)

Le glaciazioni Le glaciazioni sono un fenomeno che ha caratterizzato il Pleistocene e le tracce lasciate sul terreno furono riconosciute nel XIX secolo in Austria nel bacino del Danubio. Là infatti la serie di terrazzi che si trova lungo il corso di questo fiume e dei suoi affluenti determinò le linee guida per lo studio delle glaciazioni. Furono riconosciuti i resti della fase glaciale più antica, la Donau (Danubio), e le quattro successive di Gunz , Mindell, Riss e Wurm. Tale scansione è però oggi superata dalle sofisticate ricerche condotte dagli scienziati che si occupano di tale problematica e che analizzando carote estratte dai

Tempo trascorso Periodo geologico

1.200.000 700.000 anni fa

Plestiocene inferiore Ordine

36.000

anni fa

anni fa

Plestiocene medio

Paleolitico inferiore

Periodo preistorico Culture

120.000

anni fa

Paleolitico Medio

Pebble Culture

Musteriano

punta denticolata Taiaziano

scheggia Levallois

Incavo Clactoniano

grattatoiobulino (Musteriano tipico)

raschiatoio denticolato (Musteriano denticolato)

Clactoniano

chopper

bifacciale raschiatoio trasversale (Musteriano tipo la Quina)

Abbevilliano

Aucheuleano

Castelperr


00

a

39

Caldo

Altezza sul livello del mare attuale

Freddo

600.000 Escursioni termiche del clima succedutesi da 650.000 anni ad oggi e relativi innalzamenti(in arancio) e abbassamenti ( in azzurro) del livello del mare. (da: Wikipedia. org, modificato)

400.000

500.000

300.000

200.000

100.000

0

ghiacciai dell’Artico sono riusciti a ricostruire, mediante istogrammi, le variazioni di clima che hanno interessato la terra negli ultimi milioni di anni, dimostrando che le glaciazioni sono ben più numerose delle cinque ipotizzate nell’Ottocento. Nonostante ciò, per convenzione, in Emilia si usano ancora le vecchie terminologie poiché i principali terrazzi riconoscibili in Pianura Padana sembrano cronologicamente coevi a quelli individuati nella valle del Danubio.

27.000

30.000

20.000

anni fa

anni fa

15.000

anni fa

11.000

anni fa

10.000

anni fa

anni fa

Plestiocene superiore

Paleolitico Superiore Castelperroniano

Aurignaziano

Gravettiano

Solutreano

Maddaleniano

Grattatoio carenato

Aziliano

punta punta di La-Gravette

punta di Chatelperron

punta di La-Gravette a cran bulino grattatoio grattatoio unguiforme

bulino Punta Musteriana

punta di La Font Robert Foglia di salice Foglia di lauro bulino di Noialles

Evoluzione dell’industria litica nel corso del Paleolitico (F. Facchini, le origini dell’uomo e l’evoluzione culturale, 2006, modificato)


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nostro più antico antenato, l’ Homo sapiens sapiens. Questa nuova morfospecie che sembra comparire circa 90.000 anni fa nel Vicino Oriente (Israele) si diffonderà gradualmente in Europa dove incontrando i Neanderthal darà origine anche a meticci. Sarà però solo con l’inizio del Paleolitico Superiore (40-35.000 anni fa) che l’uomo moderno prevarrà definitivamente sulle altre morfospecie, anche se alcuni dei caratteri neanderthaliani resteranno presenti fino a 20.000 anni fa. Trattandosi sempre e comunque di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, i quali fino all’inizio del Paleolitico Medio (100.000/90.000 anni fa), peraltro, non seppellivano i morti, lasciarono solo modeste tracce dei loro accampamenti all’aperto che non prevedevano apprezzabili modificazioni del territorio. Il lungo tempo trascorso e gli agenti atmosferici hanno inoltre modificato drasticamente ogni traccia e distrutto tutto ciò che non appartiene al regno minerale. In Pianura Padana i più antichi re-

perti del Paleolitico Inferiore (circa 800.000 anni), riferibili ad accampamenti di Homo antecessor, sono quelli rinvenuti su una spiaggia fossile a Monte Poggiolo (Forli), ora ubicata sui primi colli della Romagna a circa 200 metri s.l.m., mentre, solitamente, i resti del Paleolitico Inferiore e Medio presenti nella nostra regione, sono molto più recenti e conservati sui terrazzi pleistocenici del pedeappennino: quelli più antichi (clactoniani) si rinvengono in giacitura secondaria (cioè lontano dal luogo in cui furono abbandonati) all’interno degli strati sedimentari fluvio-glaciali dell’ interglaciale mindel-riss (circa 470-350.000 anni fa), mentre quelli più recenti (tardo acheuleani/musteriani), in giacitura primaria, stanno al tetto di simili depositi ma formatisi nell’interglaciale riss-wurm (circa 125.000-80.000 anni fa). Altri rinvenimenti riferibili al Paleolitico Medio sono stati effettuati nel riempimento di inghiottitoi (es. Cave IECME-Bologna) e cioè di cavità sotterraneee (diaclasi o fondi di doline) in cui defluivano le acque

Ricostruzione ipotetica del paesaggio con clima caldo del Paleolitico Inferiore. Ambiente del Pleistocene Medio superiore con Hippopotamus amphibius, Elephas antuquus e Cervus elaphus. (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

La caccia fu dedicata alle specie presenti nelle varie fasi climatiche. Ad elefanti, rinoceronti, ippopotami nelle fasi più calde; a mammuth, tigri con zanne a sciabola nelle fasi più fredde; a tante altre associazioni faunistiche nei climi intermedi


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Il diaspro è una roccia silicea costituita da gusci di piante e animaletti microscopici marini (diatomee e radiolari) defunti e scesi in profondità dove si cementarono fra di loro. Tali deposti furono poi riportati in superficie e addirittura spinti ad alte quote (il castello di Bardi in Val Ceno fu costruito su un enorme blocco di diaspro) grazie alle spinte orogenetiche che hanno dato vita al nostro Appennino.

Ricostruzione ipotetica di un paesaggio in un periodo freddo del Paleolitico Medio

(Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

piovane che trascinavano con sé dagli eventuali siti circostanti reperti di ogni tipo. Del Paleolitico Superiore (Homo sapiens sapiens 40.000/35.000-10.000 anni) nella nostra regione poco si è conservato, ma alcuni siti, sempre su terrazzo, sono stati rinvenuti nel parmense (es. Lemignano). E’ poi nota una “miniera” di diaspro a cielo aperto sul Monte Lama (PR) attiva fra Paleolitico Medio e Paleolitico Superiore. Nella montagna reggiana le sole testimonianze paleolitiche che non siano state asportate dall’erosione

dei versanti o sepolte nei fondovalle sono quelle che si conservano all’interno di paleosuperfici, cioè di antiche aree relativamente pianeggianti che furono frequentate dagli uomini dell’età della pietra e che da allora non hanno subito consistenti mutamenti. Ciò è ovviamente raro poiché, soprattutto dopo l’ultima glaciazione, il clima, divenuto sempre più simile a quello attuale, con le frequenti precipitazioni autunnali e primaverili ha intaccato tutti i depositi non pianeggianti. Ciò spiega perché uno dei siti più consistenti ed estesi sopravvissuti sia quello di Sel-


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vapiana, il cui toponimo dà ragione di quanto detto testè. Su questo esteso altipiano già da tempo sono noti ritrovamenti di manufatti in pietra grossomodo coevi a quelli rinvenuti al Ghiardo (datati fra 125.000- metodo geologico e 80.000 anni-metodo radiometrico) e diverse sono le indagini geo-pedologiche che sono state effettuate sui sedimenti che li hanno conservati fino ad oggi. Altro sito simile, ma di estensione inferiore, è quello di Marola, il quale, pur essendo meno pianeggiante e pertanto peggio conservato, ha restituito alcuni manufatti simili a quelli di Selvapiana. Oltre a queste due grandi aree, entrambe in parte ubicate nel bacino del Tassobbio, abbiamo episodiche tracce di frequentazioni segnalate nel comune di Ramiseto e di Canossa ed altre, ipotetiche, alla Grotta del Quartiere in prossimità del Torrente Riarbero. Del Paleolitico Superiore invece qualcosa è stato individuato alla Pietra di Bismantova e nei suoi pressi.

Degli accampamenti paleolitici dell’Emilia Romagna e delle loro caratteristiche strutturali poco sappiamo, ma, mutuando i dati da siti ben conservati della Francia meridionale (Terra Amata - Nizza - 400.000 anni) o dell’Europa nord-orientale (Molodova - Ucraina - 44.000 anni), possiamo ipotizzare che le capanne paleolitiche del nostro territorio fossero delle relativamente ampie costruzioni il cui alzato fu realizzato con materie prevalentemente vegetali, pelli animali, corde e pietre. All’interno della capanna era presente una “zona notte” e una “zona giorno” adibita a lavorazioni di vario tipo ( atelier di scheggiatura, preparazione dei cibi, focolare, ecc.). Il numero delle capanne, laddove è stato possibile verificarlo, è sempre piuttosto modesto e non abbiamo documentazioni relative ad eventuali demarcazioni territoriali del perimetro del villaggio. Visto che i siti che conosciamo, come si è detto, sono prevalentemente all’aperto su residui di ter-

Ricostruzione ipotetica dell’interno di una grotta del Paleolitico Superiore (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)


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Tecniche di scheggiatura e utensili derivati Lancia Propulsore

Armi composite specializzate

Abiti su misura

Strumenti d’osso

Palco di cervo

Ago

Tecnica di scheggiatura

Raschiatore

Coltello Bulino

Grattatoio

Lame Punteruolo

Lame

Nucleo


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razzi pleistocenici o su palosuperfici della collina e della montagna, tutte le strutture antropiche realizzate con materie organiche dopo decine di migliaia di anni sono andate completamente distrutte, inoltre il substrato argilloso su cui furono costruite le capanne ha subito gli effetti dei forti cambiamenti climatici pleistocenici (glaciazioni) che hanno provocato modificazioni nei suoli (pedogenesi). La plasticità dell’argilla, inoltre, ha alternativamente dilatato o contratto i sedimenti dando vita ad ondulazioni del terreno naturale (gilgai) che hanno contribuito a distruggere le tracce di eventuali fori di palo e a dislocare a varie altezze pietre e manufatti presenti. Di fatto, quindi, anche su importanti depositi come quello del Ghiardo (RE), dove periodicamente nel corso di un lunghissimo arco di tempo questi cacciatori si accamparono lasciando sul luogo una grande messe di reperti in

pietra, non sono rimaste tracce percepibili delle loro strutture abitative. Spesso quindi solo la frequenza, le caratteristiche e la disposizione di tali oggetti ci da l’idea dell’intensità abitativa e delle attività svolte negli accampamenti. Più significative, come è noto, sono le testimonianze in grotta e nei ripari sottoroccia, dove i depositi si conservarono al meglio. Qui, soprattutto in quelle frequentate nel Paleolitico Superiore, grazie alla presenza di sepolture e di luoghi di culto è stato possibile rinvenire non solo gli strumenti di pietra, ma anche monili e oggetti in osso, corno e conchiglia, mentre le scene dipinte sulle pareti (Lascaux, Altamira, Niaux, ecc.) ci restituiscono momenti di vita altrimenti inimmaginabili.

Veduta di Selvapiana

Reperti Paleolitici di Selvapiana


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L’Olocene è il periodo geologico in cui viviamo e che ha visto lo sviluppo dell’uomo attraverso Mesolitico, Neolitico, Età del Rame, Età del Bronzo, Età del Ferro, fino alle civiltà storiche che ci hanno transitato sino ad oggi.

Ricostruzione ipotetica del paesaggio d’altura nel Mesolitico reggiano (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

Mesolitico

circa 10.000 – 7.300 anni fa Con l’inizio dell’Olocene (circa 10.000 anni fa), quando gli ultimi fenomeni del Tardiglaciale (fase fredda decrescente della glaciazione wurmiana: 18.000-10.000 circa) furono esauriti, il genere umano, anche a causa della difficile situazione ambientale determinata dalla lunga fase glaciale, già da millenni si era ulteriormente specializzato nella caccia e nella raccolta. Nelle vaste estensioni di terra ora lasciate libere dai ghiacci, ma sempre più forestate, le tecniche di caccia vennero affinate, così che l’economia di sussistenza arrivò a contemplare un ampio spettro di animali selvatici di piccola taglia, pesci e molluschi, contribuendo, assieme ad un’articolata raccolta di vegetali e di invertebrati, all’integrazione della dieta consueta costituita dai grandi mammiferi erbivori, ora però diventati più rari. Sia nella fase antica del Mesolitico

padano, il Sauvetteriano (10.0008.000), che in quella recente, il Castelnoviano (8.000-Neolitico), i gruppi di cacciatori, nei periodi caldi dell’anno, si spostavano anche significativamente sul territorio per seguire i branchi dei grandi erbivori che migravano da un versante all’altro delle principali dorsali montane. La caccia d’appostamento fatta sui

Lago di origine glaciale in Val d’Aosta


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Trapezi da Lama Lite

bordi dei laghetti dove gli animali si abbeveravano o in prossimità dei passi, ove erano costretti a transitare, veniva attuata con lance o frecce di legno rese micidiali da “microarmature” in selce di forma triangolare o trapezoidale. Rari sono i siti di pianura, quelli che vengono definiti “campi base”, presupponendo che in essi la vita si svolgesse nell’arco dell’intero anno (Gazzaro e forse Madonna di Campiano a Castellarano), mentre numerose sono le tracce di “campi stagionali”, cioè di quelli che venivano

apprestati ad alta quota ( es. Bagioletto, Passo della Comunella, Lama Lite, Corni Piccoli) solo nella bella stagione per approvvigionare di carne i villaggi di pianura. I primi sono spesso sepolti da una consistente coltre di sedimenti alluvionali, mentre i secondi sono spesso preda dell’erosione, se ubicati presso selle e passi, o leggermente colluviati (scivolati verso il basso), se sulle sponde degli antichi laghi glaciali, quasi sempre poi prosciugatisi e divenuti torbiere. Nella media montagna e in particolare nella Valle del Tassobbio fino ad oggi non si conoscono siti di tale età, forse perché il territorio già allora risultava troppo boscato e pertanto inadatto alle tecniche di caccia o forse perché i pochi e piccoli siti sono stati erosi o sepolti, oppure ancora, come capita spesso in archeologia, perché nessuno li ha ancora individuati. Degli accampamenti mesolitici permanenti, quelli ubicati in pianura o collina, ben poco sappiamo, mentre

Scavi a Lama Lite


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di quelli stagionali, posti in montagna, abbiamo una maggior conoscenza, soprattutto grazie agli scavi e alle indagini condotte in area alpina e prealpina. Là infatti sono stati individuati ed esplorati diversi accampamenti estivi. In particolare attorno ai laghetti di Colbricon in Trentino, a quasi 2.000 metri di altezza, essi erano costituiti da modeste capanne di cacciatori che avevano diverse specializzazioni a seconda dell’ubicazione territoriale: in prossimità del crinale erano appostati coloro che tendevano l’agguato ai capi di bestiame; in prossimità dei laghetti c’erano atelier di scheggiatura e capanne residenziali. Tali capanne erano di forma pseudo-ovalare, leggermente incavate nel terreno e il tetto e le pareti erano sorretti da alcuni pali. Della forma che ebbero le capanne negli accampamenti reggiani, nonostante i numerosi sondaggi, poco sappiamo, perché solitamente di questi accampamenti stagionali restano dei non estesi affioramenti di industria litica accumulatasi nel corso di ripetute frequentazioni, poi riportati in luce dall’erosione. Il Arpione in osso

Triangoli dal Bagioletto

solo sito dove sono stati individuati fori di palo e forse un tratto di focolare è il Bagioletto, ma lo scavo fu di modesta estensione e non è possibile fare ipotesi ricostruttive. Degli accampamenti permanenti, laddove sono stati intercettati (Gazzaro, Mose-PC, Collecchio-PR), restano gli antichi suoli scuri su cui furono impiantati, ma delle capanne troviamo solo i focolari (piccole buche scavate nel terreno e arrossate dal calore), i resti di pasto (ossa sparse) e gli scarti di lavorazione della selce. In alcuni casi sono stati visti piccoli pozzetti o agglomerati di reperti ma mai un numero sufficiente di fori di palo per consentire di ipotizzare la forma delle capanne.


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Neolitico

7.300- 5.400 / 5.300 anni fa In questa età l’uomo passa da un’economia predatoria a un’economia agricola che consente, con il surplus alimentare, di provvedere all’allevamento delle specie addomesticate. Sia i cereali che i capro-ovini giungono in Europa dal Vicino Oriente, dando vita anche in Italia a un’agricoltura incipiente. Le genti neolitiche che arrivano in Pianura Padana si insediano in aree ancora gestite dai cacciatori-raccoglitori mesolitici che, pertanto, vengono con ogni probabilità gradualmente acculturati (assorbiti dalla nuova cultura). La nuova economia permette una certa stabilità territoriale e un risparmio di tempo, prima esclusivamente dedicato alla sussistenza, così come consente di sfamare una prole sempre più numerosa. Con la stabilità i villaggi vengono meglio strutturati accogliendo un più elevato numero di famiglie. Vengono delimitati con

difese perimetrali (fossati e palizzate) e serviti da infrastrutture indispensabili ad una vita sedentaria, quali pozzi e silos di immagazzinamento delle derrate alimentari. Il tempo libero, così ricavato, permette all’uomo di dedicarsi alla fabbricazioni di monili, tessuti, ceramica riccamente decorata, ecc. Proprio per conservare e cucinare i nuovi prodotti dell’agricoltura servono recipienti, che inizialmente (IX millennio a.C.), nei luoghi d’origine della neolitizzazione (Mezzaluna fertile), sono in pietra, ma, ben presto, vengono prodotti in ceramica, una delle invenzioni più funzionali realizzate dall’uomo preistorico. In questo periodo iniziano gli scambi di risorse naturali a grande distanza (pietre verdi, selce, ossidiana, conchiglie, steatite, quarzo, ecc) tant’è che l’ossidiana delle isole (Sardegna, Lipari, Palmarola, Pantelleria), gra-

Ricostruzione ipotetica di un paesaggio neolitico (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)


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Sepoltura femminile con corredo relativamente ricco (collana in steatite, vasetto, punteruolo, bracciale) da Chiozza di Scandiano

Cranio rivestito di argilla con conchiglie al posto degli occhi, da Gerico

zie a piccole imbarcazioni monossili (canoe scavate in un solo tronco), giunge fino alle coste tirreniche della penisola, quindi in Pianura Padana attraverso una catena di scambi organizzati fra chi controlla le fonti di approvvigionamento e chi non ne dispone. I fruitori di questa merce, considerata preziosa e con probabili valenze magiche, avranno dovuto acquisirla a caro prezzo, dando in cambio alimenti e/o oggetti di pregio. I terreni più facili da dissodare con attrezzi ancora poco efficienti (accettine in pietra, zappe in corno) vengono occupati sistematicamente, disboscati e coltivati a cereali. Ovviamente senza l’aratro e le pratiche di concimazione i villaggi esaurivano in modo relativamente rapido la fertilità del suolo e pertanto dovevano saltuariamente spostarsi per tornare dopo decenni, quando la fertilità era stata rigenerata naturalmente. Il senso di possesso del territorio, oltre che con le difese perimetrali, era ribadito dal seppellimento dei defun-

ti nei pressi, o, più probabilmente, all’interno del villaggio, onde rafforzare il senso di appartenenza al territorio abitato. Il culto dei morti, ben documentato nei luoghi d’origine del Neolitico, prevedeva infatti il seppellimento dei defunti o perlomeno dei leader, sotto la capanna della famiglia di appartenenza: in seguito, dopo la decomposizione, si provvedeva a recuperare il cranio, che, intonacato d’argilla e munito di nuovi occhi, realizzati mediante l’applicazione di conchiglie inserite nelle orbite vuote, veniva conservato ed esibito agli ospiti. Nelle tombe troviamo spesso modesti elementi di corredo che denunciano una società ancora poco diversificata. I villaggi neolitici presenti nella nostra regione e più in generale nella Pianura Padana, per quanto è stato possibile appurare, sono aree più o


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meno ampie delimitate da palizzate o da piccoli fossati. Al loro interno troviamo capanne che nel Neolitico Antico (seconda metà del VI – fine del VI millennio a.C. Ceramica Impressa e Cultura di Fiorano) sembrerebbero di pianta pseudocircolare o ovalare e provviste di pozzetti interrati: i così detti “fondi di capanne”. Nel Neolitico Medio (V millennio a.C. Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata) e recente (fine V- prima metà del IV millennio a.C. Cultura Chassey-Lagozza) le capanne diventano invece rettangolari e sostenute da pali posti sia negli angoli che lungo il perimetro a fare da ossatura alle pa-

reti, pareti che, più raramente, vengono realizzate anche internamente per separare gli ambienti. Esse sono costruite con canne e rami intrecciati ai pali (“incannucciato”) quindi intonacate di argilla. Nulla ancora sappiamo sulle strutture del Tardoneolitico (metà del IV millennio a.C. – inizio età del Rame) e ancora confuse sono le nostre conoscenze sui gruppi umani di questa fase che prefigura la complessità che troveremo nell’età del Rame. Oltre alle strutture abitative all’interno dei villaggi, come si è detto, troviamo anche pozzi per acqua e pozzetti di vario tipo: silos , per lo storaggio degli alimenti, clay-pit, per l’approvvigionamento dell’argilla, e anche i così detti “tan-pit”, ipotizzati come vasche per la concia delle pelli. Spesso i pozzetti caduti in disuso vengono reimpiegati come immondezzai che, quando li esploriamo, restituiscono una grande messe di reperti. All’interno del villaggio e/o in prossimità di esso sono presenti le tombe degli inumati deposti in nuda terra, generalmente in posizione rannicchiata sul fianco sinistro, con testa ad est e volto a sud. Non tutti hanno un corredo, ma dove c’è è rappresentato, per i maschi, generalmente da armi (asce, scalpelli, cuspidi di freccia) e, per le femmine,

Capanna del Neolitico Ricostruzione del parco archeologico di Travo (da: www. archeotravo.it)

Veduta parziale della palizzata neolitica di Razza di Campegine


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Ceramiche del Neolitico Antico (Cultura di Fiorano), da Fiorano

Vaso in ceramica depurata del Neolitico Medio (Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata) da un pozzo di Razza di Campegine

da ceramiche, strumenti in osso e monili, oggetti, questi ultimi, presenti anche in alcune delle tombe maschili. Delle palizzate restano normalmente solo i buchi di palo che appaiono come cerchi neri nel terreno chiaro del substrato (Razza – scavi TAV), o, qualora esse siano state distrutte da un incendio, come resti carbonizzati (Lugo di Romagna). Gli antichi fossati, poi colmati da sedimenti, appaiono invece come fasce di terra scura

che marginano il villaggio (Ospedale di Imola). Nella nostra montagna rarissime sono le tracce neolitiche perché rare sono le aree pianeggianti idonee all’agricoltura e fra queste ancora più rare quelle con un substrato fertile. A Selvapiana e a Marola infatti, dove, come abbiamo visto, sono presenti siti paleolitici, mancano frequentazioni neolitiche, forse a causa della scarsa fertilità dei suoli pleistocenici ricchi di sali di ferro e manganese e poveri di humus; idonei ad un’agricoltura irrigua moderna, ma non adatti a un’agricoltura primitiva. Mancavano pertanto le ragioni che potessero spingere degli agricoltori a colonizzare aree inadatte all’agricoltura, soprattutto quando si aveva davanti a sé una immensa e fertile pianura scarsamente abitata. La frequentazione della montagna in età neolitica diventa quindi episodica e legata alla ricerca di risorse minerali (steatite, conchiglie fossili, selce locale, calcedonio, ocra, calcite, ecc.) o a prodotti integrativi dell’alimentazione (castagne, bacche, funghi, selvaggina, ecc.). Non mancano infatti tracce di penetra-


52 Cuspidi di frecce neolitiche in selce (Raccolta Chierici)

zioni neolitiche in Appennino, ma sono del tutto sporadiche (singoli manufatti in selce e rare accettine in pietra verde). Nella Valle del Tassobbio, unica ipotetica presenza insediativa è quella di Prà di Lago, sito individuato nell’Ottocento da Rocco Nobili che lo segnalò a don Gaetano Chierici, fondatore e primo direttore del nostro museo. Come testimonia il toponimo si tratta di un ampio prato conformato a conca, per cui sembra di trovarsi di fronte ad un antico lago di cui sia franata a valle parte della sponda. Proprio grazie a tale conformazione pianeggiante l’area ben si presterebbe ad ospitare un insediamento neolitico, ma purtroppo i reperti rinvenuti nell’Ottocento, che probabilmente consentirebbero di daAccettine in pietra verde, simili a quella recuperate in Val Tassobbio

tare il sito, non sono identificabili all’interno della Raccolta Chierici, dove dovrebbero essere finiti. I nostri sopralluoghi effettuati a più riprese in questi ultimi trent’anni hanno fruttato solo piccoli ed insignificanti frustoli di ceramica. Rimane quindi aperta l’attribuzione cronologica del sito che, stando solo alle descrizioni ottocentesche, potrebbe anche risalire all’età del Rame, la quale, come vedremo, prevede insediamenti anche montani.

Gaetano Chierici Reggio Emilia, 1819 - 1886 Sacerdote, insegnante e paletnologo. Fu con Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel fra i fondatori della Paletnologia italiana, Introdusse nello studio della preistoria italiana il metodo degli scavi stratigrafici; esplorò i primi villaggi neolitici; riconobbe l’età del Rame, da lui definita Eneolitico; contribui notevolmente allo studio delle terramare e degli etruschi padani.


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Età del Rame

5.400/5.300-4.300 anni fa

L’uomo del Similaun (noto anche come Ötzi) è un reperto antropologico scoperto sulle Alpi Venoste (ghiacciaio di Similaun, 3.210 m s.l.m.,) nel 1991. Si tratta del corpo di un essere umano di sesso maschile, risalente ad un’epoca compresa tra il 3400 e il 3300 a.C. (età del Rame), conservatosi grazie alle particolari condizioni climatiche all’interno del ghiacciaio.

Ascia e pugnale con custodia dell’uomo del Similaun

Già dal Neolitico Recente l’uomo produce qualche piccolo strumento in rame quali lesine (punteruoli) e, forse, asce. Sembra inoltre che egli dedichi maggior attenzione alla pastorizia e alla produzione di tessuti, ben documentata, quest’ultima, dall’aumento del numero di fusaiole (piccoli volani per i fusi) e di pesi da telaio, oggetti che già nelle fasi media e recente del Neolitico avevano fatto la loro comparsa. E’ però con l’età del Rame che il metallo viene cercato intensamente e utilizzato per produrre oggetti di prestigio che ci documentano una differenziazione sociale mai vista prima. La ricerca del rame porta all’esplorazione intensiva del territorio e ad una movimentazione dei gruppi umani, agevolata anche dall’uso del carro, del tutto inedita (il lungo e difficoltoso percorso compiuto dall’uomo del Similaun ne è una chiara testimonianza), ciò fa sì che vengano scoperti altri metalli (oro, argento e antimonio) e altre materie prime (marmo, alabastro, diaspro, ecc.). Proprio in questa fase vengono scavati i primi filoni di minerali (miniere di Monte Loreto e Libiola in Liguria) e realizzate le prime “fonderie”. Anche l’agricoltura riceve nuovo impulso grazie all’impiego dell’aratro che consente un più efficiente sfruttamento del terreno. I territori scelti vengono quindi fortemente caratterizzati da necropoli monumentali (tumuli, grotte funerarie, tombe megalitiche) e in villaggi difesi da opere perimetrali. Anche la

sacralità è in forte aumento ed è testimoniata dalla ossessiva rappresentazione del sole, unito ai simboli del potere (pugnali, asce e alabarde) e da altre pratiche rituali messe in atto nelle aree sacre e/o funerarie (aratura rituale preliminare con successiva semina di denti umani). Si tratta quindi di una società molto diversa da quella neolitica e ben lo testimoniano nelle necropoli, le tombe che, spesso, hanno ricchi corredi grazie ai quali cogliamo una


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notevole differenziazione sociale e un forte valenza guerriera dei personaggi più ricchi. Oltre alle armi e agli oggetti da parata in rame che servono ad esaltare il potere dell’élite, la figura dei grandi personaggi dell’epoca (big-men) viene riprodotta su massi incisi e statue-stele, che, probabilmente, vogliono celebrare questi antenati mitici. Queste ultime peraltro non raffigurano solo guerrieri, ma anche donne dalle vesti sontuose che documentano ulteriormente l’attività della tessitura. Purtroppo gli scavi estensivi relativi agli abitati di questa età sono pochi ed effettuati in anni recenti o addirittura attualmente in corso. Ciò però ha già consentito di verificare

no spesso subito rifacimenti che ne hanno traslato l’impianto anche di soli pochi metri producendo un pa-

Statue-stele maschile di Minucciano

Pianta di una della grandi capanne di Via Guidorossi, Parma

che i villaggi sono spesso circondati da un fossato artificiale: ciò che non sappiamo è se esso sia sempre presente. Sappiamo inoltre che le capanne, solitamente rettangolari e a volte molto lunghe ( anche più di 50 metri), in alcuni casi risultano absidate su uno o su entrambi i lati corti (Parma). Quanto all’estensione degli abitati e al numero di strutture abitative che essi racchiudevano nulla sappiamo, sia perché fino ad oggi sono stati scavati solo lembi di villaggi, sia perché le capanne han-

Statue-stele femminile di Treschietto


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Tomba maschile con ricco corredo (pugnale in rame, pendaglio in marmo, cuspidi di freccia in selce, collana di conchiglie, decorazioni di madreperla), dalla necropoli di Remedello (BS)

Accettine in pietra verde dalla Tana della Mussina

linsesto di fori di palo non sempre decifrabile. Dell’articolazione interna, salvo l’ubicazione del focolare, nulla sappiamo dato che il suolo coevo alle strutture è solitamente distrutto dalle arature. Sono poi presenti, come nei siti neolitici, pozzi per acqua e pozzetti di vario tipo. Le necropoli rinvenute in pianura (Remedello –BS; Spilamberto – MO), ora ben distinte dall’abitato, sono sempre in nuda terra e gli scheletri sono sia distesi che rannicchiati. I corredi maschili e femminili ricalcano i caratteri neolitici, ma si aggiungono alle armi solite (accettine in pietra verde, cuspidi di freccia in selce, monili e ceramiche) asce, pugnali e alabarde in rame, pettorali e spilloni d’argento oltre a splendidi pugnali in selce. Le necropoli della collina sono invece ubicate all’interno di grotticelle dette, per l’appunto, “sepolcrali”, delle quali abbiamo una chiara testimonianza anche nel reggiano alla Tana della Mussina ove il Chierici ebbe modo di documentare un presunto “altare” in gesso sul quale si sarebbero svolte funzioni funerarie connesse con il fuoco (forse un primo tentativo di combustione dei resti umani o di sterilizzazione periodica del sepolcreto). Riconob-

be i resti di 18 scheletri e numerosi oggetti di corredo caoticamente accatastati sul pavimento della grotta


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sepolcrale (accettine in pietra verde, un pugnale in selce e uno in osso, vari elementi di collana in osso, diversi recipienti ceramici). Nella nostra montagna le tracce di questa età sono rare o di dubbia identificazione. Oltre alla Tana della Mussina abbiamo evidenti tracce di un abitato della fase finale dell’età del Rame, pertinente alla cosiddetta Cultura del Bicchiere Campaniforme a Campo Pianelli, pianoro ubicato alla base della Pietra di Bismantova. Infine, grazie ad una ricerca d’archivio, è stato pos-

sibile recuperare una notizia che denuncia la presenza nei pressi del Cerreto di una necropoli simile a quella rinvenuta a Remedello Sotto nel Bresciano. Purtroppo non ci sono pervenuti reperti, ma, dato che la segnalazione è di Giovanni Bandieri, uno dei principali esploratori della necropoli bresciana, oggi esposta nei nostri Musei, essa sembra essere del tutto attendibile. Sono poi noti alcuni oggetti sporadici da varie zone della collina e della montagna: due pugnali in selce (uno da Mattajano e uno recente-

Pugnale in selce dalla Tana della Mussina

Bicchiere campaniforme da Campo Pianelli (vista frontale e da sotto)


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Ascia piatta in rame da La Mandria di Monte Castagneto

mente recuperato dall’amico Piergiorgio Giaroli a Pulpiano di Regnano) e un’ascia in rame che è stata recuperata nella valle del Tassobbio: fu raccolta nel campo la Mandria di Monte Castagneto, sul versante che guarda il Rio di Maillo. Nessun abitato invece, salvo quello di Prà di Lago di ambigua cronologia, già ricordato a proposito del Neolitico, ci è noto nell’intero bacino, mentre la sola ipotetica area sepolcrale è presente a Cagnola dove i resti di alcune tombe vennero intaccate dall’aratro. Io ebbi solo modo di vedere pochi resti scheletrici e minuti frammenti ceramici, mentre un oggetto in rame o in bronzo fu rinvenuto e poi perduto da chi mi segnalò l’emergenza (Giuliano Ruffini): stando alla sua descrizione, sembra essere stato un pendaglio ad occhiali e pertanto un monile databile ad un momento compreso fra l’età del Rame e l’antica età del Bronzo. Per l’età del Rame, a differenza che per il Neolitico, non possiamo imputare la carenza di documentazione a scelte insediamentali: sappiamo che l’uomo, in questa età, non si dedicava più soltanto all’agricoltura ma esplorava sistematicamente il territorio integrando peraltro l’economia di sussistenza con la pastorizia, attività che, attraverso la transumanza, lo costringeva ancor più a conoscere la montagna, la quale doveva quindi far parte del suo complesso ed articolato mondo. Credo quindi che le scarse conoscenze in merito siano dovute piuttosto alla difficoltà di riconoscere i siti dell’età del Rame (già di per sé effimeri anche in pianura, settore della provincia in cui la visibilità archeologica è ben più elevata che in montagna) dove il bosco occulta molti dei siti esistenti.


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Età del Bronzo 4.300- 2.900 anni fa Nell’età del Bronzo proseguono le sperimentazioni metallurgiche, pertanto il rame, metallo base da oltre un millennio, continua ad essere estratto e fuso, ma per produrre oggetti in bronzo. Se infatti gia nell’età del Rame le leghe con l’arsenico, o con le impurità presenti nei solfuri di rame, casuali o volute che fossero, erano già state impiegate è solo nella seconda fase del Bronzo Antico, attorno al 1900 a.C., che cominciò ad essere prodotta in modo massiccio la lega classica di rame e stagno. Ed è proprio questa lega, il bronzo, che determinerà la fortuna del II millennio a.C. Dopo la produzione di oggetti da esibire come status symbol, continuando la tradizione dell’età del Rame, con il Bronzo Medio e vieppiù con quello Recente e Finale gli strumenti e gli attrezzi in bronzo sostituiscono quelli poco efficienti di osso, corno e selce, consentendo una produzione agricola e artigianale sempre più elevata. Il bronzo inoltre verrà spesso usato per fabbricare armi da offesa e da difesa a sottolineare l’aumentata bellicosità fra i villaggi che vanno accumulando ricchezza e che hanno bisogno di

Tempo trascorso Periodo preistorico

4300

nuove terre da coltivare. Questo periodo della protostoria che si è sviluppato fra il 2300 e il 900 a.C. circa, in Italia è caratterizzata da un ampio mosaico di culture, termine quest’ultimo che utilizziamo, in assenza di documentazioni scritte, per indicare gruppi umani che hanno cultura materiale (stoviglie, attrezzi, armi, ecc.), riti funerari e religiosi, strutture abitative, usanze, costumi, ecc. simili. Insomma un surrogato del termine popolo o etnia. Tali culture si sono sviluppate in oltre un millennio intersecandosi, influenzandosi a vicenda o sovrapponendosi, a volte con esiti nefasti per la cultura subalterna completamente cancellata da quella egemone. Inoltre visto che l’Italia è una penisola l’influenza dei popoli che navigavano nel bacino mediterraneo (Micenei, Shardana, Sicani, Tirreni, ecc.) hanno spesso inciso in modo determinante sulle culture che si affacciavano sul mare. Non è peraltro secondario l’influsso che le popolazioni poste oltralpe in vari momenti hanno avuto sulle genti che abitavano la Pianura Padana. Già in questo

3650

anni fa

Ordine

Bronzo antico monte del gesso

3350

anni fa

anni fa

Bronzo medio

Cronologia della età del Bronzo in Appennino Reggiano

3200 anni fa

Bronzo recente

2900 anni fa

Bronzo finale

Montecastagneto Felina Monte Venera Faieto di Cortogno

Campo Pianelli Monte Valestra


0

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Ricostruzione di un villaggio palafitticolo

periodo quindi viaggi di uomini, di merci e di idee avevano un peso significativo per lo sviluppo culturale ed economico delle popolazioni che tentavano di affacciarsi alla storia. Nell’Italia settentrionale l’età del Bronzo inizia con abitati che, per alcuni studiosi, sembrano sorgere ex novo, mentre, per altri, sembrano risentire del precedente periodo dell’età del Rame e questa seconda ipotesi dovrebbe essere quella più naturale poiché nella storia dell’uomo è abbastanza consueto che non ci siano brusche cesure fra un momen-

to storico ed un altro, ma, piuttosto, graduali trasformazioni verso civiltà più evolute e ciò anche quando ci troviamo di fronte ad episodi di occupazione non pacifica di un territorio. Anche in questi casi infatti la popolazione che riesce a soggiogarne un’altra assorbe quasi sempre, poco o tanto, elementi culturali dei vinti, se considerati migliorativi. Questa antica età del Bronzo, generalmente datata circa al 2.300 – 1650 a.C., nella zona del Garda diede vita a una caratteristica Cultura detta di Polada, dal nome del sito

in cui fu riconosciuta per la prima volta: una torbiera dell’anfiteatro morenico in cui venne impiantato uno dei primi villaggi palafitticoli. E proprio la tecnica usata per erigere questi primi complessi villaggi ha poi dato il nome di civiltà palafitticola a tutta quella rete di palafitte che è stata individuata sulle rive dei laghi alpini, nei laghetti inframorenici, all’interno o lungo i corsi d’acqua senescenti e, più raramente attivi, della pianura. Nel reggiano aree umide idonee ad accogliere questi abitati tecnologicamente avanzati ce ne dovevano essere diverse, ma, purtroppo, le alluvioni di età storica e il cambio d’alveo dei corsi d’acqua appenninici hanno obliterato l’antico paesaggio colmandole o erodendole. Solo scavi profondi hanno infatti intercettato rare tracce di questi abitati: una probabile palafitta è stata riportata in luce a Rubiera e un’altra nei laghetti di risorgiva di Ca’ del Lago/La Braglia. In montagna invece, dove l’assenza di dati non può essere giustificata con tale motivazione, gli eventuali siti, che ovviamente non sarebbero comunque palafitte, non sono ancora stati individuati a causa delle difficoltà insite nella ricerca oppure proprio non ci sono perché si tratta di genti che vivevano in simbiosi con piccoli e grandi bacini idrici che nella nostra montagna non esistono se non ad altezze proibitive per l’insediamento stabile. In sostanza nella montagna reggiana fino ad oggi abbiamo trovato solo i resti di un piccolo abitato a Monte del Gesso di Vezzano, peraltro scivolato in un inghiottitoio, e due ripostigli di asce, uno a Monte del Gesso di Ventoso e uno a Talada/Ca’ de’ Ferrari. Entrambi furono na-


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scosti da “venditori ambulanti” o da “fabbri itineranti” che poi, per varie ragioni, non certo ultima la morte, non tornarono a recuperarli. C’è chi, invece, sostiene che i ripostigli abbiano, comunemente, valenza votiva e pertanto siano stati volontariamente deposti ove li ritroviamo. Nel bacino del Tassobio, le sole tracce ipoteticamente attribuibili a tale momento o forse all’età del Rame, sono quelle gia citate nel capitolo precedente: la dubbia necropoli di Cagnola. Col Bronzo Medio iniziale e pieno (1650- 1400) in Pianura Padana gli abitanti dei grandi villaggi palafitticoli, che già da secoli si erano diffusi sulla sconfinata valle alluvionale, cominciano, probabilmente anche a causa di cambiamenti climatici, a costruire i loro abitati sempre più distanti dalle zone umide. In zone asciutte quindi, seppur in prossimità di corsi d’acqua indispensabili alla vita, oppure su piccoli dossi fluviali posti all’interno delle ampie valli prodotte dagli impetuosi corsi d’acqua che alla fine dell’ultima glaciazione solcarono la grande pianura. Questi primi abitati, sede di un popolo che non costruisce più solo palafitte, sono delimitati da un fossato e/o da una palizzata. Solo in un secondo momento diventano vere e proprie “terramare”, cioè abitati delimitati da un fossato alimentato dall’acqua derivata da un corso che, ovviamente, come in precedenza, è indispensabile per la vita del villaggio. Essa però viene tenuta a debita distanza, anzi, con la terra di risulta si erige un aggere che delimita e difende l’abitato. E’ questo un momento di grande fortuna per la civiltà nata come palafitticola e poi evolutasi in palafitticolo-terramaricola, essa si diffonde in modo

Foto aerea della piccola terramare mantovana di Corte Gandolfa

Ipotesi ricostruttiva della Terramara di Montale

Ipotesi ricostruttiva della Terramara di Santa Rosa di Poviglio


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Ricostruzione ipotetica dell’abitato di Monte Venera (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

capillare su vasta area della Pianura Padana centro orientale. I villaggi di questo tipo, sono numerosi e piuttosto ampi ( da 1/2 a 2 ha, con circa 100 abitanti per ha) in pianura, ma parecchi, seppur più modesti, sono anche quelli che vengono impiantati in collina e in montagna fino ad altezze che arrivano ai 1000 metri. Ovviamente le strutture che delimitano questi abitati montani sono del tutto diverse. Per quanto è stato possibile vedere sino ad oggi si tratta essenzialmente di villaggi impiantati su cime o su pendici appositamente terrazzate, a volte delimitati da muretti a secco. Nel bacino del Tassobbio quattro siti vengono impiantati fra la fase piena (circa 1550- 1400 a.C.) e tarda (circa 1400-1300 a.C.) del Bronzo Medio. Abbiamo due siti ubicati proprio all’interno della valle, su cime secondarie, uno, Monte Castagneto, ben visibile da buona parte della montagna e l’altro, Monte Venera,

ben protetto e celato alla vista dai rilievi circostanti. Il primo viene impiantato sul pianoro sommitale del monte, forse appositamente spianato, visto che una cima pianeggiante è piuttosto anomala in natura. Qui, nella fase piena della media età del Bronzo, viveva un piccolo gruppo di persone che, di generazione in generazione, ricostruirono le loro capanne fino al Bronzo Recente o addirittura all’inizio del Bronzo Finale. Poi arrivarono Liguri ed Etruschi a realizzare strutture che distrussero buona parte di quanto si era conservato ed infine il castello medievale che continuò l’opera di obliterazione. Gli scavi ottocenteschi, condotti dal Chierici, probabilmente proprio a causa delle sovrapposizioni più recenti, non hanno rivelato strutture abitative, perimetrali o difensive, ma riportato in luce solo materiali ceramici e uno spillone di bronzo. I recenti scavi realizzati dalla Soprintendenza per in-


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dagare i resti liguri-etruschi hanno interessato anche lembi del deposito più antico, ma non sono ancora terminati, pertanto staremo a vedere se si arriverà a nuove conoscenze. L’altro sito è posto su una coppia di pianori collegati da una sella, entrambi inclinati a valle verso est. Qui Pio Mantovani e Gaetano Chierici scavarono alcune trincee

che documentarono una consistente stratigrafia, ma non evidenziarono elementi strutturali relativi ad abitazioni o a delimitazioni ad eccezione di un muretto a secco non databile, ma forse pertinente alle successive, seppur scarse, testimonianze di frequentazioni etrusche. Tanti però furono gli oggetti in bronzo recuperati e spesso interi, rinvenuti, assieme a fornelli, forme per fondere

e cariche di crogiuolo. Insomma evidenti e consistenti testimonianze di una fiorente attività fusoria. Fu forse proprio la produzione di oggetti in metallo che suggerì la scelta insediativa: una montagna delimitata da corsi d’acqua e protetta da una serie ininterrotta di rilievi ricca di legname indispensabile per fondere il metallo. La produzione e il commercio di metalli doveva all’epoca suscitare non pochi appetiti perciò conveniva tenere nascosta tale attività onde non incorrere in scorribande. Monte Venera, però, per quanto è possibile dedurre dai materiali conservati in museo, nel Bronzo Medio pieno non era ancora stato insediato, sembra pertanto che in questa fase Monte Castagneto fosse l’unico villaggio a dominare l’intero bacino imbrifero. Altri due siti, Faieto e Felina, gravitavano sull’area, ma entrambi erano posti su quel tratto dello spartiacque destro della Val d’Enza che funge anche da spartiacque del nostro territorio, avendo cosi doppia valenza strategica. Faieto, recentemente esplorato da Musei e Soprintenden-

Ansa cornuta e oggetti in bronzo (rasoio, ascia ad alette e pugnale) da Monte Venera

Ceramica di tipo “Appenninico” da Monte Venera


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Scavi di Faieto: panorama; terrazzo; terrazzo in corso di scavo; capanna in corso di scavo

Dolio biconico da Felina

za con una campagna di scavi durata quattro anni, ha evidenziato un’occupazione a terrazzamenti della collina su cui fu impiantato il villaggio. Gli scavi hanno messo in luce, quasi completamente, un terrazzo di mezzacosta rafforzato a monte con una cortina muraria realizzata con pietre disposte a secco. Nella parte più larga del terrazzo fu edificata una capanna lunga m 9 e larga m 4, costruita su una fossa coperta con un impiantito ligneo sostenuto, verso valle, da pali. I reperti più antichi risalgono appunto al Bronzo Medio pieno, ma il sito si protrasse fino al Bronzo Recente evoluto e forse fino alle soglie di quello Finale. A Felina, dove fra 1974 e 1976 i Musei hanno eseguito tre trincee ortogonali, è stato indagato un abitato pluristratificato che sorse nel Bronzo Medio tardo, quindi un po’ dopo quelli di Faieto e Monte Castagneto, e che concluse la sua vita nel


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Anse cornute da Faieto

Bronzo Recente. Qui nessun elemento strutturale del Bronzo Medio è stato individuato, mentre della fase più tarda del Bronzo Recente è stata messa in luce parzialmente una grande capanna al cui centro si trovavano il focolare e un grande dolio biconico inserito nel pavimento. Probabilmente anche il sito di Felina può essere stato realizzato su più ordini di terrazzi, ma l’espansione del paese sulle pendici del colle e l’impianto del castello nel medioevo

impediscono ulteriori accertamenti. Come si è detto, mentre questi due siti erano nel pieno della loro attività, anche Monte Venera prosperava, ma qualcosa di particolare deve essere accaduto nel corso o alla fine del XIII sec. a.C. perché solo in esso la vita si ferma, mentre continua a Felina e ancor più a Faieto. Come ho ipotizzato in altre occasioni, forse proprio la ricchezza del sito ha determinato la sua fine violenta per mano di gruppi armati dediti alla


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Ricostruzione ipotetica dell’abitato di Faieto (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

Acia ad alette in bronzo da Bell’Essere

Metallurgia preistorica: disegno ricostruttivo (da “ Dal diaspro al bronzo”, Luna editore 1998)

Estrazione del minerale

guerra di rapina. La frequentazione della valle è poi sottolineata anche dal rinvenimento di un’ascia ad alette del Bronzo Recente raccolta dal Chierici durante una passeggiata esplorativa lungo l’affluente di Rio Maillo. Sul crinale che stava percorrendo, all’altezza di Bell’Essere individuò questo splendido reperto in un terreno che non recava tracce di abitati coevi. Si tratta di un oggetto sporadico perduto o del residuo di un ripostiglio andato distrutto. Ed è proprio fra la fine del Bronzo Medio e il Bronzo Recente iniziale (circa 1.400-1250 a.C.) che in pianura si assiste a una ristrutturazione degli abitati terramaricoli (raggiungono ampiezze di 6-7 ettari con punte addirittura di 20 ha) conseguente a una ridistribuzione del po-

Sminuzzatura

tere politico sul territorio, forse innescata dalle pressioni demografiche delle genti peninsulari che pressavano sempre più questo popolo. E’ in questo momento infatti che cominciamo a trovare più consistenti testimonianze di ceramiche subappenniniche (tipiche delle culture che nel Bronzo Recente abitavano la penisola) sia nei siti di panura che, soprattutto, in quelli di montagna. Di conseguenza assistiamo ad un potenziamento delle difese che in pianura corrispondono a un minor numero di siti, ma più ampi e con aggeri consi-

Fusione del Bronzo

Colatura negli stampi


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stenti, cui fanno riscontro in montagna abitati sempre più arroccati verso le cime. E’ durante questa fase che l’area terramaricola gradualmente, ma inesorabilmente, va spopolandosi per ragioni che ancora non conosciamo, ma che sempre più sembrano identificabili in sensibili cambiamenti climatici, nel depauperamento delle risorse alimentari, in crisi politiche e in significative migrazioni di genti. Quello che è certo è che all’inizio del Bronzo Finale nella pianura emiliana gli abitati sono estinti o quasi, nel senso che solo nelle terramare più grandi resta ancora, per poco tempo, qualche nucleo umano destinato ad estinguersi di certo entro la fine del XII sec. a. C. In montagna invece troviamo alcune teste di ponte poste a controllare le vie appenniniche che collegano il nuovo universo del Bronzo Finale situato nel Basso Polesine a quella parte di Toscana che vedrà in seguito lo sviluppo della Civiltà Villanoviana. Fra questi siti montani troviamo Campo Pianelli e Monte Valestra, entrambi posti sul crinale sinistro della Valle del Secchia, valle che, attraverso il Passo del Cerreto, con una certa facilità di percorrenza, conduce in Toscana e la cui foce, in quei tempi, doveva trovarsi in un punto posto di fronte alle Valli Veronesi o al Polesine, divenendo così forse la principale fra quelle vie di comunicazione testè ricordate che raccordavano mondo padano e mondo transappenninico. Da queste dinamiche ovviamente la Valle del Tassobbio era esclusa, visto che in ogni caso restava tagliata fuori da traiettorie di questo tipo. Al massimo era toccata solo tangenzialmente nel tratto Faieto-Felina dove, come abbiamo detto, il suo li-

Reperti da San Michele di Valestra: rotella in osso, tazza carenata, vaghi di collana in pasta vitrea


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Disco di Nebra in bronzo e oro: a destra e sinistra le linee dell’orizzonte, in basso la barca solare, al centro il sole (o luna piena) e la mezzaluna, sul resto del disco le stelle fra cui un gruppetto di sette, interpretate come Pleiadi. Carro Solare di Trundholm in bronzo e oro

mite orientale coincide con lo spartiacque dell’Enza al cui sbocco in pianura stava Servirola, certamente ancora in parte attiva nel Bronzo Finale. Nonostante ciò e nonostante tale crinale a Felina si fonda con quello del Secchia, su di esso a tutt’oggi non conosciamo nessun altro sito di Bronzo Finale. Le necropoli dell’età del Bronzo terramaricolo sono solitamente ad incinerazione e composte da centinaia di ossuari/pentola quasi sempre privi di corredo e solo nei villaggi arginati dell’attuale Veneto ne troviamo a rito misto, dove cioè la cremazione coesiste con l’inumazione, anche se quest’ultima tende a scomparire con il passare del tempo. L’incinerazione è un fenomeno rituale che ha radici più remote, ma che solo nell’età del Bronzo in coincidenza di una sacralità che vede negli elementi extraterrestri (sole, luna e stelle ben evidenti sul disco di Nebra recentemente scoperto in Germania) le divinità da onorare, prende il sopravvento. E’ in questa fase che gli astri diventano riferimento fisso della religione (carro solare di Trundholm in Danimarca, Stonehenge in Gran

Bretagna) e la cremazione serve a smaterializzare un corpo per ridonarlo a chi governa da “fuori” il destino degli uomini. Prima che il rito della cremazionie diventi ovunque ortodosso, distruggendo anche gli oggetti di corredo, fortunatamente le necropoli a rito misto ci consentono di vedere come la casta dei guerrieri, all’interno delle terramare fosse quella più importante: nella necropoli di Olmo di Nogara, fra XIV e XIII sec. a.C. in un’area riservata all’élite furono sepolti circa 40 guerrieri armati di spada e/o pugnale e diverse donne con ricchi monili di bronzo ed ambra. Col Bronzo Finale la cremazione diventa sistematica, e le urne non sono più vasi di uso quotidiano, ma veri e propri recipienti funerari. Al loro interno, finalmente, vengono, quasi sempre, deposti oggetti di corredo che ci consentono di cogliere la complessità di questa nuova società (necropoli di Campo Pianelli a Bismantova).


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Età del ferro, civiltà preromane 2.900-2.200 anni fa Con l’inizio dell’età del Ferro la montagna e la pianura reggiana, come del resto buona parte dell’Emilia, sembrano essere pressoché spopolate. Sembra cioè che, dopo la crisi che provocò la fine della civiltà terramaricola e dopo l’estinzione dei capisaldi del Bronzo Finale, nessuna abitato etrusco o ligure presidino la montagna reggiana. E’ solo in un momento avanzato (fine VII-inizi VI sec. a.C.) che la via del Secchia viene percorsa nuovamente in modo sempre più assiduo da genti etrusche che, probabilmente risalendo la Valle del Serchio e/o del Magra, poste all’estremità settentrionale del loro territorio, lasciarono le tracce della più antica penetrazione nella montagna reggiana a Bismantova e gettarono le basi per i centri protourbani di Servirola e Rubiera. Mentre gli Etruschi, già da tempo presenti nel bolognese e modenese, dove penetrarono grazie alla facilità di percorrenza del reticolo idrografico che collega Bologna alla Toscana, gradualmente prendevano possesso del nostro Appennino, dei Liguri citati dalle fonti antiche non

abbiamo traccia. Gli Etruschi, come i Romani, peraltro, non mostrarono un particolare interesse per l’Appennino, considerato probabilmente un territorio da controllare semplicemente per tenere fluidi i contatti e i percorsi che univano la madrepatria all’Etruria padana. Il problema è capire cosa andava controllato, visto che nel VI-V sec. a.C., momento della loro

Popolamento dell’Italia del Nord

Ceramiche etrusche dipinte da Campo Pianelli


d

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Reperti dell’età del ferro da Cortogno

Gancio di cintura in bronzo celtico da Servirola di San Polo d’Enza

Riscostruzione ipotetica dell’abitato etrusco di San Claudio a Reggio Emilia

Rem voltiamqua vocre conducit vica; int. Hebus omnos

massima espansione verso nord, nei nostri territori non sembrano esserci, siti liguri. Nella nostra montagna i siti di tale età individuati e/o parzialmente indagati risultano infatti tutti controllati dagli Etruschi che, tuttavia, commerciano beni di qualità e di prestigio sia con il mondo ligure, ben conclamato a ovest del torrente Magra, che con quello celtico, presente almeno dal VI sec. a.C. in poi a nord del Po; più difficile e ca-

pire se fra Etruschi e Liguri oltre agli scambi ci sia stata anche una parziale integrazione. Nella montagna reggiana i centri etruschi più importanti fino ad oggi indagati sono Campo Pianelli e Monte Castagneto, ma in molte altre località sono affiorati reperti indicativi di siti non ancora esplorati oppure di modeste frequentazioni. E per arrivare alla problematica che più interessa la montagna, dobbiamo dire che nell’ultimo decennio le cose sono sostanzialmente cambiate. Ciò grazie ai sondaggi realizzati


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congiuntamente da Soprintendenza e Musei Civici sulla cima di Monte Valestra, agli scavi sistematici diretti dalla Soprintendenza a Monte Castagneto, alle ricognizioni effettuate da Leonardo De Marchi nella valle dell’Enza ed infine al recupero ad

opera di Paolo Montanari e di chi scrive di tre tombe liguri alla Pietra di Bismantova, segnalate nel 2008 da Franca Melloni e l’anno successivo da Giampaolo Montermini. Si è infatti visto che molti sono i siti che contemplano oltre ai materiali etruschi anche reperti liguri. Inoltre l’excursus cronologico che tali rinvenimenti copre non è più relegato alla fine del III-I sec. a.C., come attestato in precedenza da sporadici rinvenimenti funerari: le tombe a cassetta di Luceria (Canossa), Villa Baroni (Quattro Castella) e Bosco Cernaieto (Canossa), località quest’ultima collocata sulla destra del bacino idrografico del Tassobbio, e quella in anfora di Villa Manodori (Quattro Castella). Questo, peraltro, è il periodo che vide la conquista romana della nostra montagna ottenuta dopo un quarto di secolo di feroci e sanguinose guerre contro i Liguri che, per essere completamente debellati, dovettero essere deportati in massa nel Sannio. Ora abbiamo reperti che sembrano innalzare la presenza ligure almeno al IV e probabilmente al V sec. a.C. Nella Valle del Tassobbio, in particolare, possiamo constatare che nel sito di Monte Castagneto le strutture murarie, già esplorate nell’800 dal Chierici, sono state recentemen-

Tomba di Case Pantani sul Monte Valestra

Frammenti di ceramica ligure d’impasto, da Monte Valestra

Tombe liguri dalla Pietra di Bismantova Tomba a incinerazione da Bismantova, Prato Rabotti


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Due fibule in bronzo e un coltello in ferro dalle tombe di Bosco Cernaieto

Ossuario con ciotolacoperchio, una fibula in bronzo, una punta di lancia in ferro e una moneta romana forata (vittoriato) impiegata come monile, dalle tombe di Villa Baroni

te riportate in luce dalla Soprintendenza e consistono di spessi muri di pietra, piuttosto anomali per un piccolo ed arroccato sito di montagna: gli studi in corso speriamo possano chiarirne la funzione. Qui, peraltro, stando alle notizie preliminari, pare che siano presenti sia reperti etruschi che liguri, mentre gli oggetti di corredo rinvenuti nelle tombe riportate in luce nell’800 nella piccola necropoli scoperta sul terrazzino di Ferniola, posto a mezzacosta del monte, sembrano prevalentemente etruschi, così come il rito inumatorio in nuda terra. Altri reperti, sebbene più modesti, sono stati rinvenuti sulla cima di Monte Venera, ma anche a Cortogno, in pieno centro storico, da Davide Costoli e a Barazzone, da Vincenzo Ferretti e Francesco Dell’Eva. A poca distanza verso nord, appena oltre il bacino del Tassobbio, sul Monte Tesa è presente un vero e proprio sito collocato in posizione panoramica su un balcone naturale che guarda sulla bassa Val d’Enza. Sito che è poi stato rioccupato in età romana e ora è sede di culto cristiano oltre che sede di un punto geodetico, come a ribadirne nel tempo l’importanza strategica. Al momento però è prematuro tentare di tracciare una ipotesi di antro-

pizzazione della montagna reggiana dall’inizio dell’età del Ferro all’arrivo dei romani. Certo è che tale territorio fu controllato fra VI e V secolo dagli Etruschi, mentre almeno dal IV in poi, nel momento cioè della crisi della dominazione etrusca in Italia Settentrionale innescata dai


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Bacile in bronzo impiegato come ossuario, due fibule e un diadema(?) in argento dalle tombe di Luceria

Celti, i Liguri sembrano contrastare o quantomeno non lasciare carta bianca agli Etruschi; il che, come ipotizzato più sopra, potrebbe anche

aver condotto ad una integrazione dei due popoli, fatto che spiegherebbe le difficoltà che si incontrano nell’attribuire il prodotto più significativo della cultura materiale, la ceramica, all’una o all’altra delle realtà storiche. In punti strategici quali Rossena, Monte Valestra e Bismantova troviamo infatti tracce conclamate della loro presenza. Che popolazione di Liguri siano quelle che occuparono il nostro Appennino ancora non sappiamo, anche se i reperti rinvenuti negli abitati di Monte Valestra e Rossena possono essere confrontati con quelli

Situla in bronzo impiegato come ossuario, una collana in pasta vitrea e due spade defunzionalizzate ripiegandole a S, dalle tombe di Luceria


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Scontri tra Liguri e Romani e deportazione dopo la sconfitta. (da “I Liguri” Skira, Milano 2004)

dell’Oltrepo pavese-alessandrino (Guardamonte), mentre le tombe di Bismantova rimandano a confronti con reperti della Garfagnana e delle Alpi Apuane. Insomma questi ultimi anni di ricerche hanno in parte colmato le lacune relative al mondo ligure. Se infatti, come sembra opportuno, consideriamo fondamentalmente liguri le tombe a cremazione racchiuse

in cassette di pietra, di IX sec. a. C., rinvenute nel 1958 a Case Pantani ai piedi di Monte Valestra, restano privi di documentazione ligure i secoli che vanno dall’VIII al VI, ma non è escluso che in futuro la montagna reggiana ce ne restituisca traccia.


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Topografia storica del bacino del Tassobbio fra età romana ed Alto Medioevo di Nicola Cassone Laureato in Storia Antica presso l’Università degli Studi di Bologna con una tesi sull’organizzazione amministrativa della Cispadana in età romanarepubblicana. Dal 1994 è collaboratore dei Civici Musei di Reggio Emilia per l’età romana. Ha al suo attivo una trentina di pubblicazioni scientifiche monografiche. Attualmente si occupa di restauro di beni storici ed archeologici presso una cooperativa di Reggio Emilia.

Dinamiche dell’ insediamento antropico in rapporto alla geomorfologia All’interno della vallata l’aspetto generale del paesaggio non è uniforme: in alcuni tratti appaiono con evidenza caratteristiche morfologiche che indicano un recente approfondimento erosivo, come la presenza di versanti ripidi, aree calanchive ed alte scarpate torrentizie; questa situazione si riscontra principalmente nel tratto finale del Tassobbio, compreso tra la confluenza con il rio di Maillo ed il punto di sbocco del torrente in Enza, presso Compiano. In questo settore i pendii appaiono formati da materiali poco coerenti e sono privi di un’adeguata copertura vegetale; questa situazione innesca sovente processi di degradazione che possono portare, nel caso di rocce argillose o marnose, alla formazione di calanchi. Numerosi sono i movimenti franosi attivi o quiescenti, che vanno dal piccolo movimento di po-

chi metri cubi alla grossa frana. In altri punti l’aspetto del paesaggio è invece decisamente caratterizzato da forme di evoluzione più antica, dove appaiono pendii più dolci, fondovalle concavi, o piatti, privi o con scarsi processi erosivi in atto, superfici di spianamento sommitali, depositi antichi; ciò si riscontra in particolare nel tratto mediano della valle, compreso tra Pietranera e l’abitato di Cortogno; in questo settore fluviale sono infatti ben evidenti gli effetti sul paesaggio di alcune “catture torrentizie” operata dal Tassobbio (vedi pag.22). Questa situazione dimostra, con evidenza, una attività geomorfologica in evoluzione, dove le forme di un modellamento più antico vengono incise dalla successiva ripresa di attività erosiva del corso d’acqua. Queste condizioni hanno condizionato negativamente l’insediamento antropico sia nel fondovalle che lungo i pendii di mezza costa; gli abitati storici e comunque gli insediamenti più antichi attestati dalle fonti documentarie sono infatti disposti principalmente lungo


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le frastagliate linee di spartiacque od in corrispondenza dei terrazzi o dei poggi più rilevati che circondano la vallata su entrambi i versanti: è il caso di Sarzano (prima attestazione nel 958), Migliara (976), Pianzo (1033), Leguigno (1022), Gombio (1022), Donadiolla (1021), Roncovetro (1116) ed infine Crovara (1197). Va comunque considerato che la valle del Tassobbio, per la sua morfologia tormentata e per la sua forma molto irregolare, legata sopratutto alla curvatura dell’asta fluviale che passa da un senso di scorrimento sud-nord ad un asse est-ovest, non si presta ad essere utilizzata come una agevole via di comunicazione, nonostante la sua posizione di potenziale “trait d’union” tra il bacino dell’Enza ed il distretto di Felina e Bismantova. Cortogno è l’unico abitato storico che si è sviluppato in posizione di mezza costa; esso comunque si trova nella parte più alta del solco vallivo, dove la portata media del corso d’acqua non è sufficiente a provocare fenomeni erosivi tali da pregiudicare la stabilità dei versanti. In posizione di fondovalle si trova invece Ariolo (prima attestazione nell’anno 1022), la cui origine è forse da far risalire alla presenza di un antico mulino

feudale; lo sfruttamento della forza idraulica per l’impianto dei mulini è ben attestata in tutta l’area di bacino: in età preindustriale, in un arco di tempo compreso tra il XVII ed i primi due decenni del XX secolo, lungo il corso del Tassobbio risultavano attivi ben nove opifici ad acqua. Partendo dal tratto più a monte della valle e scendendo in direzione dell’Enza troviamo i seguenti mulini: di Cortogno superiore e di Cortogno inferiore (inizi XIX secolo), di Leguigno (XVII secolo), di Ariolo (attestato a partire dal 1827 ma probabilmente di età medievale), il mulino Rosati (circa 1900), il mulino Rinaldi (1910), il mulino Paoli (XVIII secolo), il mulino di Chichino (XVIII secolo) ed infine il mulino di Buvolo, risalente con tutta probabilità al XVII secolo.

Elenco dei mulini ad acqua nel Torrente Tassobbio e indicazione dei mulini del bacino 1-Mulino di Casina (la Molinassa) 2-Mulino della Grotta (Casina) 3-Mulino di Cortogno 4-Mulino di Leguigno 5-Mulino di Ariolo 6-Mulino Rosati 7-Mulino Rinaldi 8-Mulino Paoli 9-Mulino di Chichino 10-Mulino di Buvolo

L’appennino reggiano occidentale in età romana Una serie di campagne militari condotte dalle armate romane pressochè ininterrottamente, dal 187 al 175 a.C., contro i Liguri Apuani e Friniates (il nome della nazione ligure dei Friniates ha lasciato traccia nella denominazione dell’entroterra montano modenese, l’attuale Frignano), portarono di fatto alla completa conquista dell’entroterra appenninico Tosco-Emiliano. Riguardo agli avvenimenti del 175 a.C., anno del secondo consolato di Marco Emilio Lepido con imperium esercitato in Cisalpina, le lacune del testo liviano ci hanno lasciato un deduxit come unica testimonianza di non meglio precisate imprese militari ed un breve excursus su altre popolazioni

Frana di Roncovetro, da: http:// www.regione. emiliaromagna. it/wcm/ geologia/ canali/frane/ rel_scien/ riattiv_frane_ antiche.htm


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Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), storico romano. Nacque a Padova. L’opera storiografica liviana “historiae” fu iniziata probabilmente intorno al 27 a.C., nel momento in cui il regime augusteo gettava le basi per il suo consolidamento politico e culturale. Comprendeva 142 libri contengono la narrazione degli avvenimenti a partire dalla fuga di Enea da Troia fino al 9 d.C. Ci sono pervenuti solo 35 libri che coprono gli anni: dalla fondazione di Roma al 293 e dal 218 al 167 a.C.

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liguri, altrimenti sconosciute, che abitavano la dorsale tosco-emiliana: Garuli, Lapicini ed Hergates. Nonostante i numerosi problemi testuali e la discordante tradizione tra gli Acta Triumphalia ed il testo liviano, unica fonte disponibile per la ricostruzione di questi avvenimenti, sembra che in quell’anno venne condotta da Roma un’altra vittoriosa campagna militare contro Liguri e Galli Cisalpini, che si concluse con operazioni di fondazioni coloniarie e, forse, di trasferimento forzato di popolazioni. Dopo la campagna del 175 a.C. la ribellione dei Friniates, l’indomita nazione che popolava il settore appenninico reggiano-modenese, venne pressochè del tutto soffocata; essi vennero in gran parte deportati in pianura ed il loro territorio venne confiscato ed inglobato nel territorio dello stato romano (Ager Publicus Populi Romani). Nell’anno 173 a.C., il governo romano istituì una commissione senatoriale, composta da dieci membri, con l’incarico di delimitare il territorio conquistato ai Liguri ed organizzarne l’assegnazione ai nuovi coloni romani e latini. A capo della commissione fu posto proprio

Marco Emilio Lepido, riconosciuto protagonista della conquista romana della regione cispadana. Un preciso riscontro attesta che la deduzione coloniaria del 173 a.C. coinvolse anche il settore appenninico reggiano; lo si evince dall’identificazione di una località menzionata in una serie di documenti relativi alla confinazione della Diocesi di Reggio Emilia di età alto medievale. La località in questione è il controverso termis Salonis, un capisaldo lungo il quale correva l’antico confine sud-orientale della diocesi reggiana, in adiacenza alle circoscrizioni vescovili di Lucca e di Modena. Come si desume dal testo di una petizione rivolta dal vescovo di Reggio, Tebaldo Sessi, al Marchese Niccolò d’Este nell’anno 1436, il nome della località era in realtà terminus Saloni, riferito con evidenza all’esistenza di un cippo terminale che sorgeva a poca distanza dall’Ospitale di San Pellegrino in Alpe; questo riscontro porta ad ipotizzare che l’antico terminus Saloni (letteralmente “il termine di Salonius”) tramandi il nome di uno dei decemviri di rango senatoriale che componevano la commissione del 173 a.C, quel Caius Salonius Sarra ricordato da Tito Livio, il cui incarico, oltre all’appoderamento dei fondi destinati ai coloni, doveva comprendere anche la terminatio, tramite la collocazione di cippi, del territorio di recente confisca. Vista la grande estensione del territorio posseduto da Galli e Liguri, oggetto della divisione del 173 a.C., ogni decemviro incaricato avrà agito in un ben delimitato settore del territorio confiscato, cosicché a Salonius Sarra dovette spettare l’ampio distretto montano posto tra Emilia e Garfagnana, nel cuore dell’antico territorio dei Friniates. Il “termine


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di Salonio”, locuzione antichissima e fortunosamente sopravvissuta al naufragio di tanta parte della toponomastica di età romana, correva lungo la linea displuviale tosco-emiliana che separava il territorio oggetto della distribuzione coloniaria del 173 a.C. con quello della colonia latina di Lucca, dedotta solo 4 anni anni prima, nel 177 a.C.; la confinazione in questo settore del crinale tosco-emiliano separava così il territorio dei coloni romani insediati a nord dell’Appennino da quello occupato dai coloni dipendenti amministrativamente da Lucca, originariamente colonia di diritto latino. Questi dati gettano nuova luce sui tempi e sui modi dell’occupazione

romana della montagna emiliana, considerata, a torto, tardiva e marginale rispetto alla imponente opera di colonizzazione che riguardò le terre di pianura, e contribuiscono a modificare sostanzialmente un panorama informativo assai carente sino ai primi anni ‘80 del XX secolo; infatti in tempi recenti, grazie anche all’avvio di un numero sempre crescente di ricerche “mirate” in aree campione dell’Appennino, ricerche finalizzate alla comprensione delle dinamiche insediative nel lungo periodo compreso tra la prima penetrazione romana (seconda metà del III sec. a.C.) ed il tardo antico, è emerso un quadro storico-insediativo assai più articolato, che ha contribuito a dare

Tannetum

Regium

Luceria

Poleografia, centuriazione e principali assi stradali della media val d’Enza in età romana


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Particolare della “ Sexta Europae Tabula” dall’atlante di Claudio Tolomeo nell’edizione di Venezia del 1598

aspetto e forme tangibili al concetto di “area marginale.”In particolare per quanto riguarda il territorio che gravita attorno al tratto mediano dell’Enza (compreso tra la stretta di Vignale-San Polo a nord e la confluenza del torrente Lonza a sud) si propone, per sommi capi, la seguente ricostruzione delle dinamiche insediative e delle vicende storiche che hanno caratterizzato la storia del popolamento in età romana: l’avvenuta colonizzazione ed organizzazione agraria della sottostante fascia di pianura portò, già nella prima metà del II sec. a.C., ad un capillare fenomeno di urbanizzazione di tutta la bassa val d’Enza, urbanizzazione che si articolava attorno a due assi generatori principali: il primo, costituito dalla via Emilia, metteva in successione la colonia di cittadini romani di Parma con il centro fortificato di Tannetum (insediamento di origine preromana) e con forum Lepidi (detta successivamente Regium). Il secondo asse correva in senso nord-sud perpendicolarmente al primo e, seguendo il corso dell’Enza, collegava il centro urbano e porto padano di Brescello con Tannetum per poi raggiungere, più a sud, il vicus di Luceria, ai piedi dei primi rilievi appenninici; verosimilmente anche il percorso che

seguiva il corso dell’Enza era dotato di un asse stradale che correva lungo la sponda reggiana del fiume, identificabile con il cardo massimo della centuriazione di Tannetum, ancora oggi in parte conservato, e con tratti stradali rinvenuti in più riprese nella zona di Montecchio Emilia (anche in questa località doveva sorgere un vicus di età romana). Tale tratto stradale doveva risalire la valle dell’Enza sino a San Polo, dove si intersecava con l’importante arteria costituita dal percorso Parma-Lucca, attestato nel cosiddetto “Itinerarium Antonini” del III sec. d.C. ed ivi menzionato come “via Clodia”. Il tracciato della via romana Parma-Lucca è oggi riconoscibile nel lungo tratto rettilineo che, in linea obliqua, si distacca dalla via Emilia nel centro di Parma (viale Alessandro Farnese) e, in direzione sud-est, si inoltra nelle campagne verso la valle dell’Enza; la strada lambisce la località di Pilastrello e punta successivamente in direzione di Traversetolo. La strada doveva attraversare l’Enza all’altezza della confluenza del torrente Termina in Enza, per risalire la sponda reggiana lungo il terrazzo fluviale sul quale sorgeva l’abitato di Luceria, dove sono stati individuati, in varie riprese, alcuni tratti basolati di una strada


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romana. L’abitato di Luceria, individuato archeologicamente a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, va con tutta probabilità identificato con il centro di NUKERIA menzionato nell’opera geografica di Claudio Tolomeo (metà del II sec. d.C.) ed ubicato dall’autore in Cispadana. Il centro di Luceria si andò organizzando attorno al tratto stradale Parma-Lucca, svolgendo il ruolo di stazione itineraria e, probabilmente, di centro di scambio commerciale tra la pianura e la montagna, nonché, ovviamente, luogo di incontro tra i nuovi coloni insediati da Roma e le popolazioni indigene. Sondaggi archeologici condotti in anni recenti hanno permesso di identificare al di sotto delle strutture dell’abitato di età romana livelli riferibili all’esistenza di un villaggio di età ligure, con fondazioni murarie in ciotoli,

pavimenti in battuto e cocciopesto, alzati in legno e tetti con manto laterizio. Questi livelli, databili al II-I secolo a.C., forniscono un parallelo molto significativo tra documentazione archeologica e le fonti storiche che descrivono, proprio in questa fase cronologica, migrazioni forzate dei liguri del crinale verso il fondovalle. L’abitato si disponeva attorno al tracciato della strada lastricata che lo attraversava in senso nord-sud; un area pubblica disposta a fianco di questa strada venne attrezzata già nel I secolo a.C. con la realizzazione di un portico, mentre in età giulioclaudia nella stessa area si insediò una grande piazza, probabilmente sede di un mercato e di un luogo di culto; la funzione di Luceria come centro di mercato è confermata dal ritrovamento da una località poco

La zona dell’insediamento di Luceria da un disegno del pittore A. Prampolini realizzato su commissione di G. Chierici. In evidenza il basolato stradale di età romana rinvenuto negli scavi del 1862 e pertinente all’asse viario che risaliva la valle dell’Enza


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Roma, Museo della Civiltà Romana: rilievo con mungitura di una capra da: “Archeo” monografie, VIII, 1].

Sulmona, Museo Civico: Bassorilievo della transumanza (I secolo a.C.)

distante di un’epigrafe segnalata dal Chierici, oggi purtroppo perduta, che ricordava l’esistenza di una antica fiera (nundinae) ripristinata per volontà dell’imperatore Claudio. Questi dati sembrano confermare l’attività della via di commercio e di transumanza che percorreva la valle dell’Enza collegando gli empori marittimi del Portus Lunae e di Pisae con le città della Cispadana. Se in età imperiale il centro di Luceria sia stato dotato o meno di autonomia amministrativa è questione dibattuta; verosimilmente l’abitato avrebbe potuto configurarsi come vicus dipendente amministrativamente dal municipium di Tannetum, la cui circoscrizione, anche se in via ipotetica, avrebbe dovuto spingersi in direzione sud sino a comprendere i primi rilievi collinari. Appare evidente come il passaggio della via pubblica Parma-Lucca abbia contribuito in maniera decisiva allo sviluppo urbanistico di Luceria; ma quando avvenne la realizzazione della strada? Un passo della narrazione liviana riferisce che nell’anno 176 si trovava a Parma, in veste di proconsole, il senatore Caio Claudio Pulcro, il quale venuto a conoscenza della ennesima ribellione dei Friniates, dopo aver radunato truppe di rinforzo da lì mosse verso le sedi montane dei Liguri emiliani. Questa testimonianza potrebbe costituire un indizio a favore dell’ipotesi che vede la realizzazione della via Parma-Lucca avvenuta in concomitanza alla spedizione militare condotta da Caio Claudio; si tratterebbe quindi di un asse stradale sorto per finalità militari, una vera e propria “strada di arroccamento” che mirava a smembrare in due il settore appenninico ancora in mano ai liguri ribelli, collegando la colonia di Parma sorta nel 183 a.C. con

quella di Lucca, realizzata solo l’anno prima, nel 177 a.C. Lo stessa denominazione della strada, così come riportato dall’Itinerarium Antonini, quella di via Clodia, potrebbe infatti riferirsi al nostro personaggio, secondo una prassi consolidata nella Roma repubblicana per cui una strada prendeva il nome dal magistrato che ne aveva promosso la realizzazione. Ovviamente tale ricostruzione, anche se suggestiva, è al momento del tutto ipotetica ed andrebbe vagliata alla luce di ricerche sul territorio al fine di individuare, archeologicamente, elementi riferibili al passaggio di una antica via pubblica romana. A questo proposito va considerato che a sud di Luceria, e quindi in direzione del cuore della montagna reggiana, sembra perdersi ogni traccia dell’antica strada romana, della quale non è possibile nemmeno stabilire con sicurezza il punto di valico del crinale appenninico; la completa mancanza di dati archeologici in merito è però parzialmente compensata da alcuni elementi offerti


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dalla documentazione di età medievale e dalla toponomastica; come vedremo in maniera più approfondita in seguito, tali dati permettono di ipotizzare l’esistenza di una via pubblica, attiva quantomeno in età alto medievale, che risaliva la val d’Enza, attraversava trasversalmente la valle del Tassobbio, si portava nei pressi di Bismantova e, dopo essere discesa in val Secchia, attraversava l’Appennino presso il passo di Pradarena, per poi discendere in Garfagnana seguendo la valle del Serchio. In mancanza di ricerche mirate condotte all’interno dell’ambito territoriale della strada, non è comunque possibile stabilire se questo percorso medievale abbia ricalcato o meno un più antico tracciato di età romana. Alla luce di queste riflessioni appare evidente come in età romana la valle del Tassobbio si collocasse nell’immediato retroterra di un ricco territorio, densamente urbanizzato e ben dotato di infrastrutture, a cui era collegata tramite una via pubblica transappenninica che risaliva la valle dell’Enza; la vicinanza con Luceria porta a ritenere che gli abitanti della vallata facessero proprio riferimento a questo centro per le loro attività di scambio commerciale e, forse, anche per le attività di culto (a Luceria è attestato il culto di Diana). Le antiche fonti letterarie ricordano che per tutta l’età imperiale e sino al tardoantico, l’entroterra appenninico emiliano era rinomato per l’allevamento degli ovini e la produzione di lane di qualità; la pastorizia doveva quindi svolgere un ruolo primario all’interno delle diverse attività produttive delle popolazioni insediate lungo la valle dell’Enza ed i suoi affluenti. In particolare l’alto bacino della valle, alle falde dei monti Ventasso, Casarola ed Alpe di Succiso, va

considerata come la meta privilegiata delle greggi verso i pascoli estivi; in questo settore le scarsissime tracce di frequentazione riferibili all’età romana vanno attribuite ad uno sfruttamento di tipo silvo-pastorale del territorio, dove la conduzione dell’alpeggio e del saltus doveva essere legata ad ancestrali pratiche di tipo compascuale; qui una serie di itinerari di transumanza a breve raggio dovevano fungere anche da assi di comunicazione viaria secondari. In mancanza di fonti storiche e di testimonianze archeologiche significative, la ricostruzione degli assetti territoriali e della storia del popolamento antico in ambito rurale può essere intrapresa solo per via deduttiva, appoggiandosi cioè, pur con molte cautele, ai dati relativi a comprensori vicini, la cui evoluzione storica presenti strette analogie con l’area in esame. Per quanto riguarda la valle del Tassobbio si possono utilizzare a tal proposito i dati offerti dalle ricognizioni archeologiche condotte nel comprensorio del comune di Toano, nel versante reggiano della valle del Dolo (sinistra idrografica). Qui al termine della ricerca sul campo, condotta

Ipotesi ricostruttive della parete di un edificio di età romana da: Ortalli 1995, disegno di V. Politi


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Ricostruzione grafica della villa romana di Correggio, da: http://www. archeobo.arti. beniculturali. it/comunicati_ stampa/villa_ correggio.htm

La Tabula alimentaria Contiene le disposizioni dell’imperatore Traiano per l’istituzione di un prestito ipotecario concesso direttamente dal patrimonio personale dell’imperatore, da: http://www. archeobo.arti. beniculturali.it/ parma/Veleia_ sale.htm

Ricostruzione di un tetto in laterizi romani

sui terreni dissodati nell’arco di un triennio (anni 1993-1996), all’interno di un’area campione di 12 kmq., sono stati individuati otto siti ed altre cinque emergenze con tracce di frequentazione di età romana. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di ritrovamenti riferibili a casolari isolati o delle cosiddette “stazioni a tegoloni”, così indicate nella dottrina scientifica per la prevalenza negli affioramenti di frammenti di embrici e l’assenza di ceramiche, riconducibili alla presenza di edifici di servizio”, come ricoveri per animali o depositi per derrate. Fa eccezione la situazione documentata lungo le falde del Monte della Castagna, che sembra essere stato occupato in età medio e tardo-imperiale da un piccolo villaggio di sommità composto da almeno quattro abitazioni, edifici di servizio e sepolture. Riguardo la cronologia dei siti indagati, se si esclude un’emergenza di età repubblicana, che sembra testimoniare la sopravvivenza di riti funerari di tradizione indigena anche dopo la conquista romana, si tratta in gran parte di attestazioni di media e tarda età imperiale. Dai dati emersi nelle ricognizioni nel toanese la tipologia abitative prevalente sembra essere stata la dimora rustica isolata; l’alzato nella maggior parte dei casi era costituito da una intelaiatura lignea rivestita da un rozzo intonaco argilloso (craticium); è stato possibile constatare che almeno in un caso questa intelaiatura poggiava su una semplice opera di fondazione a secco costituita da conci di arenaria rozzamente squadrati. Il frequente apparire tra gli affioramenti archeologici di blocchi di argilla concotta fa ritenere che le abitazioni fossero in gran parte pavimentate con questa semplice tecnica; del tutto assenti sono

infatti le attestazioni di elementi di pavimentazione in mosaico, laterizio o cocciopesto. La copertura del tetto doveva essere affidata alle tipiche tegole piane a bordi rialzati ed a coppi di probabile produzione locale, vista la grossolanità dell’impasto degli esemplari rinvenuti. Il popolamento a “casolari sparsi” attestato per l’età romana nel comprensorio di Toano sembra caratterizzare anche gli altri settori della media ed alta montagna reggiana; l’attività nel territorio del gruppo di volontariato “Archeomontagna” ha portato all’individuazione, nell’ultimo decennio, di

numerosi siti riferibili all’età romana nel comprensorio di Carpineti (Onfiano, Pieve di S.Vitale), di Castelnuovo Monti (Costa dè Grassi, Maillo) e di Casina (Pieve di Paullo); i dati di rinvenimento, ancorchè inediti, confermano la diffusione di un tipo di insediamento costituito


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in prevalenza da nuclei isolati, cioè casolari e fattorie che si distribuivano con una trama abbastanza fitta su tutto il territorio. La situazione insediativa dell’Appennino Reggiano sembra rispecchiare quanto attestato, per la media età imperiale, nella montagna piacentina: grazie ai dati catastali offerti dalla Tabula Alimentaria, un lungo elenco di fondi agricoli pertinenti al territorio dell’antico municipio di Veleia, sappiamo che l’estensione media delle proprietà registrate oscillava tra i 50/100 iugeri, quindi 12,5/25 ettari; si trattava quindi non di piccole proprietà, ma di fondi di estensione media, comunque non paragonabili alle enormi tenute latifondistiche di migliaia di iugeri di estensione, prevalentemente diffuse in Italia centro-meridionale, a prevalente manodopera schiavile e dedicate a produzioni agricole specializzate. Le abitazioni presente sui fondi dell’agro velleiate vengono infatti indicate con i termini di casae (casali) o coloniae (fattorie), manca invece del tutto la menzione di villae, ossia dei nuclei costitutivi le grandi aziende latifondistiche. A tali dati si deve aggiungere il repertorio di quei gruppi di toponimi che la dottrina specialistica ritiene di certa origine romana e che contribuiscono pertanto a ricostruire, almeno parzialmente, una carta del popolamento romano in assenza degli elementi forniti dall’indagine archeologica; mi riferisco in particolare a quei nomi di località che recano il tipico suffisso prediale latino -ANUM/ANA, che nel catasto romano veniva utilizzato, unitamente al gentilizio del proprietario dei fondi agricoli, ad indicare la proprietà privata dei singoli poderi; lungo il corso del Tassobbio tale ca-

tegoria di toponimi è rappresentata dai nomi delle località di Compiano (forse da un gentilizio COMPILIUS), Borzano (da un gentilizio BURCIUS), Vedriano (forse da VETERIUS), Sarzano (da un gentilizio SERGIUS); la maggior diffusione dei prediali di origine romana si riscontra proprio in area collinare, mentre diventa sempre più rarefatta man mano che si sale verso l’alta montagna, dove prevaleva lo sfruttamento comunitario (compascuum) dei pascoli e delle selve, a scapito della proprietà privata. Nell’area di bacino del Tassobbio si riscontrano altri toponimi che sembrano derivare da nomi familiari di età romana; essi non presentano però il suffuso prediale -ANUM/ANA; è il caso di Cortogno (da un gentilizio CORTONIUS) e Bergogno (da un gen-

Tipologie dei principali laterizi romani

Sesquipedale

Pedale

Coppo

Tegola o tegolone

Mattone manubriato


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Fasi di Lavorazione di una tegola romana (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

Ricostruzione ipotetica dell’area artigianale della fornace romana di Cortogno (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

tilizio BERGONIUS), la cui origine sembra derivare da onomastici di tradizione indigena (celto-ligure), forse riferiti a piccoli villaggi (vici) originatisi su base gentilizia in età preromana In area collinare e montana le scelte insediative sono da sempre condizionate dalla tormentata geomorfologia del territorio: appare infatti evidente la necessità di sfruttare le piccole porzioni disponibili di terreno pianeggiante o a bassa clivometria; qui gli insediamenti di età romana sorgono di norma o sui

terrazzi di mezza costa, su paleofrane assestate o, più sovente, appaiono allineati lungo i crinali, scelta motivata da una maggior facilità delle comunicazioni, favorite da una percorrenza ad altimetria costante e non ostacolate dal passaggio di corsi d’acqua o da compluvi profondi, come avverrebbe lungo i paralleli percorsi di fondovalle. Tale situazione rispecchia i pochi dati archeologici relativi a siti di età romana individuati nel bacino del Tassobbio; negli anni attorno al 1990, in località Castione di Leguigno, in prossimità di un


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Il piano di cottura forato

il fronte del praefurnium

Resti della camera di cottura


87 Vista da sud degli scavi della fornace

Spaccato della fornace romana di Cortogno (Ricostruzione e disegno Davide Costoli)

Frammento di dolium romano con iscrizione da Cortogno

pianoro sommitale che domina, da sud, il tratto mediano del Tassobbio, sono stati identificati in aratura due affioramenti di materiali caratterizzati dalla presenza di frammenti di embrici e di ceramica d’impasto, riconducibili ad una frequentazione del sito in età repubblicana (II-I sec. a.C.) La diffusione degli elementi laterizi di copertura come coppi ed embrici attesta, con evidenza, l’adesione a nuove tecniche costruttive di tradizione centro-italica; parallelamente si assiste all’introduzione di attività produttive particolarmente evolute, come quella delle fornaci, evidentemente connesse ad una filiera produttiva organizzata ed evoluta di materiali per l’edilizia. A questo riguardo è particolarmente significativo il caso della fornace rinvenuta presso l’abitato di Cortogno nell’estate del 1997, durante i lavori di escavazione delle fondamenta di un capannone agricolo; la struttura sorgeva su un piccolo terrazzo di mezza costa immediatamente sovrastante il fondovalle del Tassobbio; essa venne indagata archeologicamente nelle settimane immediatamente successive al rinvenimento. La fornace, di pianta quadrata con lato di m. 2,80, presentava un canale centrale collegato su entrambi i lati ad una serie di quattro

file parallele di muretti divisori realizzati in mattoni refrattari sui quali poggiava il piano forato, ancora ben conservato. Anche le pareti della camera di combustione erano costituite da mattoni refrattari della misura standard di cm 20x10x12. Il condotto del praefurnium, lungo m. 1,50 e largo alla base m. 1 era stato realizzato con blocchetti di materiale refrattario di minori dimensioni. Dal terreno circostante la fornace sono stati recuperati diversi materiali: un frammento pertinente al bordo di un grande contenitore ceramico per derrate (dolium) che reca un iscrizione mutila formata dalle quattro lettere “VECO”, forse un riferimento al nome del proprietario o del marchio di fabbrica della fornace; si segnalano inoltre un frammento di coppa a vernice nera ed una fibula del tipo “Aucissa” in bronzo, elementi che portano ad una datazione della fornace alla tarda età repubblicana, tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C. Dai campi coltivati circostanti la zona di rinvenimento della fornace sono stati rinvenuti, a più riprese, diversi materiali di età romana tra cui frammenti di laterizi, frammenti ceramici e monete; è la conferma che presso Cortogno doveva sorgere anche un nucleo abitato


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rurale di cui al momento è impossibile determinare l’estensione, ma la cui frequentazione dovette protrarsi almeno sino alla media età imperiale. Altre tracce di insediamenti di età romana sono state segnalate lungo la destra idrografica della bassa valle del Tassobbio, presso Vedriano e Roncovetro e nelle adiacente valle del rio Maillo; in tutti i casi si tratta di emergenze caratterizzate da affioramenti sui campi arati di mattoni ed embrici romani commisti a frammenti di ceramiche da fuoco e da mensa di tipo comune, inquadrabili in un generico orizzonte cronologico di età imperiale. Un ultima segnalazione riguarda il colle di Sarzano, fortificato nel corso del X secolo; recenti scavi archeologici condotti nell’area del castello hanno evidenziato la presenza di alcuni frammenti di mattoni manubriati ed embrici romani riutilizzati nelle strutture murarie difensive di età medievale; questa circostanza costituisce probabilmente la prova di un fenomeno insediativo di nuova natura, verificatosi a partire dal tardoimpero: l’occupazione di siti d’altura, di difficile accesso e facilmente difendibili, al fine di rioccupare po-

sizioni eminenti, spesso abitate in età protostorica. A questo proposito va infatti sottolineato come in tutta l’area montana del reggiano, a partire dal IV secolo d.C., sembra verificarsi l’inizio di un processo di destrutturazione del sistema di popolamento che si era costituito in età repubblicana e consolidato durante l’impero, con evidenti segnali di una rarefazione degli abitati; è proprio a partire da questo periodo che si assiste al rapido decadimento e poi al completo abbandono, nel corso del V secolo, di Luceria. Questa situazione trova riflesso in un brano dell’epistolario di S. Ambrogio (seconda metà del IV sec. d.C.), quando nel descrivere la regione emiliana, da lui percorsa durante una visita pastorale, il presule milanese lamentava lo stato di abbandono delle plaghe dell’appennino, un tempo fiorenti ma ormai incolte ed immiserite. Non è un caso che nella quasi totale mancanza di fonti relative alla storia del popolamento dell’Appennino reggiano tra età tardo-antica ed alto-medioevo faccia eccezione la menzione del kastron Bisimànton (Bismantova), attestato come già esistente negli anni attorno al 600610 d.C. dal geografo bizantino Giorgio Ciprio. Bismantova dovette costituire innanzitutto un distretto amministrativo militare (è questo il significato di kastron nel linguaggio giuridico della prima età bizantina)

Colonna Traiana, Roma. Città romana attaccata dalle popolazioni barbariche

Strutture pertinenti ad un edificio sacro, probabilmente una cappella castrense rinvenute all’interno del circuito murario della rocca di Sarzano nella primavera del 2011


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ma a tale distretto doveva far capo anche un omonimo insediamento fortificato per ospitare le truppe di presidio, come era consuetudine in età tardo-antica. Proprio sulle propaggini orientali della rupe di Bismantova, sul poggio detto “il Castelletto”, don Gaetano Chierici individuò negli anni “70 del XIX secolo alcune strutture murarie realizzate con mattoni “di modulo romano” all’interno delle quali si rinvennero numerosi reperti di età “barbarica”. Il distretto bismantino con le sue fortificazioni venne probabilmente creato già agli inizi del V sec.d.C., all’indomani dell’istituzione della provincia ”Alpes Cotticae et Appenninae” durante l’impero di Onorio; la nuova provincia venne istituita per difendere, lungo la dorsale appenninica e delle Alpi marittime, gli accessi verso l’Italia suburbicaria; uno di questi accessi era costituito senza dubbio dalla via publica che collegava Parma a Lucca e che sappiamo transitare nel VII secolo proprio presso Bismantova. Che la nuova provincia comprendesse anche l’Appennino emiliano è confermato da un passo di Paolo Diacono che nella sua celebre digressione sull’organizzazione amministrativa dell’Italia, dove riportava notizie relative ad antichi cataloghi provinciali di età tardo-antica, a proposito delle Alpes Apenninae affermava: “La nona provincia (italiana) è compresa negli Appennini che da lì prendono origine, laddove terminano le Alpi Cozie. Gli Appennini si elevano nel mezzo della penisola e dividono la Tuscia dall’Emilia e l’Umbria dalla Flaminia”. (“Nona denique provincia in Appenninis Alpibus conputatur, quae inde originem capiunt, ubi Cottiarum Alpes finiuntur. Hae Appenninae Alpes per mediam Italiam per-

gentes, Tusciam ab Emilia Umbriamque a Flamminia dividunt). L’erezione del kastron Bisimànton, nel cuore stesso dell’Appennino reggiano ben rappresenta la drammaticità della nuova epoca, che porterà all’inevitabile e progressivo abbandono degli insediamenti sparsi a base fondiaria di tradizione romana ed allo spopolamento di gran parte della montagna attestato, come abbiamo visto in precedenza, già nella seconda metà del IV secolo. Solo con il consolidarsi del dominio dei clan gentilizi Longobardi, e quindi dopo la metà del VII secolo, dopo un periodo di oltre due secoli di crisi demografica, si assisterà ad una ripresa del popolamento in area appenninica, ma con dinamiche insediative del tutto nuove, che costituiranno i primordi del sistema “curtense” di conduzione e gestione delle terre pubbliche e private.

L’Alto Medioevo Nella prima metà del V secolo, con la costituzione della provincia Alpes Appeninae, si verificò un fenomeno singolare, cioè la separazione amministrativa tra montagna e pianura emiliana, quest’ultima ancora compresa nella più antica provincia Aemilia; nel settore reggiano, come abbiamo visto, il perno della difesa del settore appenninico era costituito dal distretto militare di Bismantova, posto nel cuore geografico dell’area ed a presidio della strategica strada transappenninica che collegava Parma a Lucca. Tale strada venne verosimilmente utilizzata nell’anno 552 dalle truppe del generale bizantino Narsete che stavano assediando Lucca, città che si trovava ancora in


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mano dei Goti, per portare soccorso a Parma, minacciata da un contingente nemico. Il contingente inviato da Narsete, comandato da un generale germanico, venne sbaragliato presso l’antico anfiteatro di Parma che sorgeva proprio nel punto in cui l’antica strada romana proveniente dalla valle dell’Enza si intersecava con la via Emilia, in corrispondenza dell’attuale borgo Lalatta, presso il collegio Maria Luigia. Questi eventi, narrati dallo storico bizantino Agazia, fanno supporre che il distretto di Bismantova si trovasse all’epoca dei fatti saldamente in mano bizantina, altrimenti non si spiegherebbe la scelta di Narsete di inviare senza esitazioni una parte del suo contingente (peraltro scarso) ad occupare la città emiliana posta al di là dell’Appennino. Bismantova, ne fa fede la testimonianza di Giorgio Ciprio, rimase in mano bizantina sino alle soglie del VII secolo; all’indomani della calata dei Longobardi in Italia (anno 568), pur con fasi alterne, le armate guidate dal loro re, Alboino, avevano immediatamente consolidato il proprio dominio sulle città dell’Emilia occidentale, creando ducati nelle città di Piacenza, Parma, Brescello, Reggio e Modena, sottratte ai Bizantini. Una “riscossa” dei Bizantini di Ravenna, avvenuta attorno al 590, fece temporaneamente cadere nelle loro mani i ducati longobardi emiliani; successivamente, durante i primi anni di regno del bellicoso Agilulfo, i Longobardi ricacciarono i Bizantini ad oriente del Secchia; in quell’occasione (anno 603) Brescello fu completamente rasa al suolo, Modena rimase in mano bizantina, Piacenza Parma e Reggio vennero invece istituite a gastaldati longobardi, circoscrizioni amministrative rette da un funzio-

nario civile detto appunto “gastaldo” sottoposto ad un controllo diretto del monarca. Fu verosimilmente in questa occasione che anche Bismantova cadde in mano longobarda, per creare al contempo un varco alle difese bizantine sulla linea dell’Appennino ed un corridoio che mettesse in comunicazione la capitale della Tuscia longobarda, Lucca, con la pianura padana. Questa ricostruzione si appoggia ad un’altra testimonianza di età alto medievale: si tratta della biografia dell’abate Bertulfo di Bobbio, redatta dal suo biografo Giona di Susa alla metà del VII secolo; in essa si narra che Bertulfo, di ritorno da una missione che lo spinse sino a Roma, dopo essersi lasciato alle spalle la Tuscia, si trovò a transitare presso il “castello di Bi-


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Longobardi e Bizantini in Italia alla metà del VII secolo. Tratta da Rinaldo Comba, L’Età Medievale, Torino, Loescher, 1990, p. 105.

smantova” (“propter castrum cui Bismantum nomen est”). Sappiamo che il viaggio di Bertulfo avvenne nell’estate dell’anno 628: la sua missione era stata condotta sotto gli auspici del re longobardo Arioaldo, che gli fornì anche una scorta di milites; nel 628 i Bizantini controllavano ancora l’alto litorale tirrenico, grazie ai presidi di castrum Aghinulfi in Versilia e di Filattiera in Lunigiana; più ad est rimaneva in mano imperiale anche tutto il settore appenninico modenese, che faceva capo al distretto del Frignano (castrum Feronianum), che si arrese ai Longobardi esattamente un secolo dopo, nell’anno 728. Appare evidente come Bertulfo, abate del più importante monastero del regnum, autentico perno della politica di espansione longobarda nel nord Italia, dovesse evitare durante il suo viaggio località controllate dai Bizantini; l’unica via transappenninica che si trovava allora sotto il completo controllo longobardo era senz’altro costituita da quella che risaliva la valle del Serchio (Piazza al serchio, in alta Garfagnana ha restituito corredi tombali longobardi di fine VI/inizi VII secolo d.C.) per varcare l’appennino presso il Pradarena e raggiungere, attraverso l’alta valle del Secchia, Bismantova. Ancora in documenti della chiesa reggiana del X secolo è attestato sul versante reggiano del passo di Pradarena, nella valle del Riarbero, il passaggio di una strada che conduceva “usque finibus Tusciae”. L’anno 628 va quindi considerato un sicuro termine ante quem per la conquista longobarda di Bismantova; questo centro venne riorganizzato in gastaldato regio, il tipico distretto amministrativo longobardo. All’interno del gastaldato vennero create almeno quattro grandi corti fiscali in pieno

possesso della corona: Felina, Malliaco (località scomparsa che sorgeva a nord-ovest di Castelnuovo Monti), la grande selva fiscale del gaium Montis Cervarii, che comprendeva tutto il lato reggiano dell’alta val d’Enza, dal crinale appenninico sino al punto di confluenza della Lonza in Enza, ed infine la corte di Roncaglio, sorta tra il medio corso dell’Enza e l’ultimo tratto del Tassobbio (presso Roncaglio il monte “Staffola” costituisce una cristallina sopravvivenza del nome longobardo del confine curtense, detto nella loro lingua “STAFFIL”). La valle del Tassobbio venne dunque senz’altro a far parte del distretto longobardo di Bismantova, inserita con tutta probabilità in parte entro i confini della curtis regia di Malliaco in parte, il tratto inferiore, entro quelli della curtis di Roncaglio. L’esistenza di una importante via di comunicazione come quella che, attraverso Bismantova, collegava Lucca all’Emilia pose la necessità di un presidio militare stabile che la difendesse; tale presidio doveva essere garantito dall’afflusso di militari longobardi (exercitales) che in cambio della cessione da parte della corona di lotti di terra fiscale (era questa una delle principali funzioni delle corti regie) si insediavano con le famiglie sulle terre di nuova conquista, garantendone il presidio. Che le corti fiscali del gastaldato bismantino fossero sorte a presidio della strada pubblica Parma-Lucca, continuatrice, se non nel percorso, almeno nella funzione della via romana menzionata nell’Itinerarium Antonini, è dimostrato dalla presenza di alcuni interessanti toponimi localizzati proprio a cavallo della valle del Tassobbio; si tratta di due località denominate “La Strada” ancora esistenti una presso Vedriano, l’altra tra Le-


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Parma

goreccio e Pineto; almeno uno dei due toponimi, “La Strada” di Pineto, è attestata come esistente già agli inizi del XIV secolo, ed è quindi di sicura origine medievale (nel censimento delle famiglie del contado reggiano redatto nel 1315 tra gli uomini del comune di Crovara appaiono elencati i figli di tale “Zanis de Strata”). A cinquecento metri da “La Strada” di Pineto, lungo un impervio versante montuoso che separa il corso del Tassaro da quello del Tassobbio, sono ancora ben visibili i resti di un’opera stradale ottenuta dal-

In rosso ricostruzione del tracciato dell’asse stradale della via romana Parma-Lucca sulla base di dati archeologici, topografici e toponomastici. In viola viene messo in evidenza il percorso del manufatto stradale lastricato detto “via del Sale”, che collega la borgata di Legoreccio a La Strada (Vetto), località quest’ultima già attestata agli inizi del XIV secolo.

lo sbancamento artificiale di un fianco del monte poco al di sotto della linea di crinale. La carreggiata è stata realizzata con grandi conci di arenaria lavorati a regola d’arte a costituire un solido basolato. Sui lati della strada, strapiombanti verso i

Legoreccio

In quest’immagine ripresa da nord-est appare in tutta la sua evidenza come il percorso del manufatto stradale lastricato che collega Legoreccio a La Strada sia stato ricavato da un taglio artificiale realizzato poco sotto la linea del crinale che culmina nell’altura del Monte Fiore (m. 762 s.l.m.). Tale opera consentiva alla strada di seguire un percorso pressochè rettilineo ed al contempo protetto a monte dal crinale sovrastante. Lo sbancamento


93 Uno dei tratti meglio conservati del manufatto stradale si trova poco a nord della cima del monte Fiore. Il lastricato è costituito da grossi blocchi di arenaria sbozzati ricavati dallo sbancamento del fianco del crinale e posati “di piatto”.

del fianco del monte attesta l’imponenza dell’opera stradale e la volontà di realizzare un percorso agevole ed a pendenza costante, in modo da compensare la tormentata geomorfologia dei versanti di questo settore montano compreso tra il corso del Tassobbio e quello del rio Tassaro.

Questo tratto di lastricato stradale si è conservato per circa 30 metri di lunghezza e si trova lungo il crinale a nord di monte Fiore al di sopra dell’abitato di Campolungo (Comune di Vetto). La larghezza media della strada è di 2,70 metri.

sottostanti fondovalle, si notano inoltre grandi opere murarie di sostruzione realizzate a secco; il manufatto sembra risalire, nella sua ultima sistemazione, alla tarda età medievale o agli inizi dell’età moderna, quando a Legoreccio venne istituita una gabella daziaria del Ducato Estense

lungo il confine con Parma, gabella evidentemente connessa con il passaggio di un’importante via di comunicazione (la gabella daziaria dello stato di Parma sorgeva presso Compiano). Tuttavia l’esistenza del toponimo “La Strada” già in età medievale e l’attuale denominazione del tratto stradale, detto dai locali “via del Sale”, fanno presuppore una notevole antichità di questo manufatto, che potrebbe aver ricalcato in età moderna un tracciato ben più antico. Interessante, anche se non di sicura attribuzione, la denominazione del borgo di Scalucchia, che potrebbe derivare da un diminutivo (“SCULCULA”) della voce tardoantica “SKULKA” (oggi diremmo “Scolta”), forse di origine germanica, che indicava le località presidiate da truppe confinarie lungo i settori militarizzati dell’impero. Un’ulteriore indizio della presenza di un importante via di comunicazione medievale tra Enza e Tassobbio è costituito dalla sopravvivenza del toponimo “Currada”, pochi chilometri a nord di Compiano. Si tratta della volgarizzazione di un “locus Curratiae”, che indicava il punto dove, lungo le strade “regie” medievali, veniva pagata la gabella per il transito dei carri, imposta detta appunto “Curratia”. Questi dati, sinteticamente raccolti in questa sede, non sono sufficienti a ricostruire con esattezza le varie fasi di utilizzo ed il tracciato (fatte certamente di parziali abbandoni e ripristini di tratte diverse) di questo antico percorso viario, ma certamente invitano a ricerche mirate sul campo e nelle fonti archivistiche medievali. Il gastaldato di Bismantova sopravvisse alla caduta del regno longobardo ad opera dei carolingi (anno 774). In alcune fonti documentarie


Scalucchia (Vetto), m 473 s.l.m. Sul prospetto di un edificio restaurato di recente sono emerse le tracce di due antichi portali ad architrave monolitico. Del primo, in basso, è rimasto visibile il solo architrave lunato; il secondo portale, soprelevato, permetteva l’accesso al secondo piano dell’edificio, costituito senza dubbio da un “solarium”. La presenza di tali strutture, realizzate in grandi conci di pietra locale, attesta anche nella valle del Tassobbio la diffusione di edifici residenziali a più piani, detti nelle fonti documentarie “solaria”; tali edifici erano caratterizzati da muratura in conci lapidei e sono riconducibili a modelli abitativi di schietta impronta medievale. La loro diffusione nel settore montano reggiano è confermata dalla sopravvivenza dei toponimi Solara (comune di Canossa) e Solarolo (comune di Castelnuovo né Monti).

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del IX secolo esso è ancora menzionato come distretto minore dipendente dal comitato carolingio di Parma; tale comitato si estendeva ben aldilà dell’Enza sino a comprendere tutto l’alto Appennino Reggiano e giungere a ridosso del corso del Secchia. In questo periodo le antiche curtes longobarde di Felina e Malliaco vengono donate dal re carolingio Ludovico II al conte di Parma Suppone, membro di una delle più im-

portanti famiglie della nobiltà franca trapiantate in Italia; questi passaggi di beni fiscali dalla corona a dignitari laici o, come vedremo in seguito, ecclesiastici, sancisce l’inizio di un fenomeno di smembramento dei beni pubblici che contribuiranno alla crisi dell’impero carolingio e, di conseguenza, il manifestarsi di quei sintomi di dissoluzione dello stato centrale che porteranno alla nascita del feudalesimo. Durante il regno carolingio tutta la valle del Tassobbio si trovò a dipendere dal punto di vista amministrativo dall’autorità dei conti di Parma, mentre dal punto di vista ecclesiastico essa si trovava compresa all’interno della diocesi di Reggio, nel territorio della pieve di Campiliola (Santa Maria Assunta di Castelnuovo né Monti); facevano eccezione alcune parrocchie ubicate nella bassa valle: Vedriano, Roncaglio, Compiano e Pianzo dipendevano infatti dalla pieve parmense di Bazzano, anche se le decime di Pianzo venivano elargite al vescovo di Reggio. Nel corso del X secolo, in particolare sotto il regno di Berengario I, le cessioni di beni fiscali nell’area bismantina vennero elargite da parte della corona in massima parte ai vescovi reggiani che, in assenza di una vera e propria dinastia di funzionari pubblici laici, assunsero poteri e deleghe sempre più vasti non solo nella città, ma anche nel

Scalucchia (Vetto), m 473. Un secondo edificio porta tracce evidenti di un altro portale sopraelevato ad architrave monolitico lunato. Da notare la lavorazione “alla martellina” dei conci degli stipiti e dell’architrave, nonché la croce patente incussa incisa su quest’ultimo. L’architrave poggiava originariamente su due mensole successivamente rimosse: le lacune murarie sono state risarcite con un rinzaffo di mattoni e piccoli conci di pietra sbozzata.


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Carta Topografica dei Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla. Levata degli anni 1821-1822. Sino alla creazione del Regno d’Italia (1861) i confini del ducato e della diocesi di Parma si insinuavano ad est dell’Enza, risalendo le valli del Tassobbio e del rio di Leguigno sino a Beleo e Costa Medolana, località presso la quale è ancora visibile un cippo di confine settecentesco tra lo Stato di Modena e quello di Parma. In questo settore, sino all’altezza di mulino Zannoni, il Tassobbio costituiva il confine tra i due ducati. Questa anomala situazione confinaria trova la sua spiegazione nell’antica appartenenza del distretto orientale della montagna reggiana al cosiddetto “gastaldato Bismantino”, antica circoscrizione amministrativa longobarda incorporata in età carolingia nel comitato di Parma. I successivi mutamenti amministrativi, che videro dopo la metà del X secolo la soppressione del distretto di Bismantova ed il suo accorpamento nel distretto di Reggio, non impedirono che la bassa valle del Tassobbio (destra idrografica) rimanesse nella sfera d’influenza di Parma sia in età comunale sia in età signorile, quando venne infeudata in gran parte ai signori della famiglia parmense dei Da Correggio.

territorio. La grande selva fiscale del mons Cervarius, coincidente come abbiamo detto sopra con gran parte la porzione occidentale dell’alto Appennino Reggiano (odierni comuni di Ramiseto e Vetto) venne donata al vescovo di Reggio Pietro nell’anno 904, a parziale risarcimento delle depredazioni patite dalla chiesa reggiana all’indomani dell’incursione ungara dell’anno 899. Nell’anno 964 l’imperatore Ottone I donava un’altra grande selva fiscale, quella detta di Lama Fraularia, al vescovo reggiano Ermenaldo; nel documento che menziona la donazione la selva appare delimitata dal corso del Riarbero e del Secchia, dal torrente

Ozola e dal crinale appenninico: si trattava di una vasta estensione che dalle falde occidentali del monte Cavalbianco (comune di Ligonchio) scendeva sino all’alto corso del Secchia e, verso nord, giungeva sino alla stretta di Cinquecerri. A sud toccava le sorgenti del Riarbero, alle spalle del Pradarena e del Cavorsella. Un’altra grande porzione dell’antico gastaldato bismantino veniva dunque smembrata a favore della chiesa reggiana; questa situazione portò inevitabilmente, a partire dal regno di Ottone I, all’espansione del comitato reggiano nelle terre bismantine che furono in precedenza sottoposte al distretto civile di Parma. Da questo momento in poi un comitato reggiano esteso sino al crinale toscoemiliano sancì la scomparsa dell’antico distretto bismantino ed il controllo politico di Reggio sul suo entroterra montano. In val Tassobbio rimase compresa all’interno del comitato di Parma la sola località di Pianzo, almeno sino alla prima metà dell’XI secolo (anno 1033). Oltre all’azione dei potenti vescovi reggiani la contrazione del comitato di Parma al di fuori della diocesi reggiana va inquadrato in rapporto all’ascesa di una potente dinastia comitale il cui capostipite, Atto Adalberto da Canossa, un tempo vassallo del vescovo di Reggio, venne favorito dalla sua fedeltà al dinasta germanico Ottone I durante il conflitto che lo opponeva a Berengario II (formalmente re d’Italia dall’anno 950 al 961) per il dominio sulla penisola. Adalberto Atto proveniva da una famiglia della piccola nobiltà longobarda originaria della Lucchesia; suo padre, detto nei documenti “Sigifredus de comitatu Lucensi” si trasferì in Emilia come vassallo di Ugo di Provenza (re d’Italia dal 924 al 947), la


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cui politica tendeva a favorire i nobili longobardi a discapito delle famiglie della ormai troppo potente ed infedele aristocrazia franca. L’originaria base patrimoniale di Sigifredo e dei suoi eredi era costituita dalla curtis di Viliniano, località che sorgeva non lontano da Parma, e che si articolava in una serie di possedimenti terrieri ubicati lungo la bassa e media vallata dell’Enza. Alla morte di Ugo di Provenza, avvenuta nel 948, il marchese di Ivrea Berengario (poi Berengario II) ed Ottone di Sassonia, il futuro imperatore Ottone I, si contesero in armi il regno d’Italia; durante questa fase di aspri conflitti Atto Adalberto prese le parti di Ottone: nell’anno 951 egli prese posssesso con le armi della rocca di Canossa, antico possesso della chiesa reggiana che, dopo la morte del vescovo Adelardo, rischiava di essere occupato dalle truppe di Berengario.

Monte Valestra

In Canossa Adalberto Atto diede rifugio alla regina Adelaide, vedova del defunto re d’Italia Lotario II, braccata da Berengario che voleva farne la sposa del figlio per legittimare la sua posizione di aspirante re d’Italia. Berengario pose pertanto l’assedio alla rocca di Canossa, difesa strenuamente da Adalberto Atto, che riuscì infine a prevalere ed a consegnare Adelaide ad Ottone. La vittoria di Ottone su Berengario aprì al primo la strada per essere incoronato imperatore del Sacro Romano Impero a Roma, nel febbraio dell’anno 962; in riconoscimento della sua alleanza Ottone conferì ad Atto Adalberto il titolo di conte dei comitati di Reggio, Modena e Mantova, facendone uno dei suoi più potenti vassalli in Italia. Investito della carica comitale Atto Adalberto acquisì sempre maggiore forza grazie ad una disinvolta politica di “commistione” tra poteri pubblici, frutto della sua dignità di conte, e poteri privati, basati quest’ultimi sugli ampi possessi privati familiari. Il primo documento ufficiale in cui appare Adalberto Atto risale all’anno 958: si tratta di una vendita di beni a suo favore da parte di un suo omonimo cugino che risiedeva ad Isola di Tizzano, in

Monte Prampa

Monte Cimone Marola

Roncroffio

Pietra di Bismantova

Castelnovo ne’ monti Castello di Sarzano

Migliara

Leguigno

Castello di Leguigno

Gombio

Ottone I sconfigge Berengario II, Manuscriptum Medioalense, c. 1200

Atto Adalberto, la moglie Idelgarda e i figli Rodolfo, Tedaldo e Gotifredo che diventerà vescovo di Brescia. L’immagine è tratta dal codice detto “Vita Mathildis” che contiene il poema di Donizone su Matilde di Canossa

Monte Ventasso

Passo della Pradarena

Alpe di Succiso

Passo d Legoreccio

Monte Castagneto Monte Venere

Torrente Tassobbio Ariolo


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territorio parmense. Tali beni erano costituiti da sei poderi, composti da campi coltivati, vitigni, selve ed in-

e di ciso

Monte Caio

Passo del Lagastrello

colti, per un’estensione complessiva di 140 iugeri, pari a poco più di 163 ettari attuali. Curiosamente tali possessi appaiono allineati lungo una diagonale che attraversa la valle del Tassobbio: essi comprendevano le località di Verlano e Selvapiana nel comune di Canossa, nonché di Sarzano e “vallis Brumana” la cui oscura denominazione (nomen, omen) non deve atterrire lo storico, poiché va senza indugio identificata con la località detta oggi “valle Scura”, posta presso Cortogno di Casina, vicinissima peraltro a Sarzano. L’acquisto di questa serie di poderi da parte di colui che da lì a poco diventerà il massimo dignitario laico del distretto reggiano non appare una scelta casuale: risulta evidente la volontà di creare un corridoio di possedimenti che dalla media valle dell’Enza, dove Atto teneva la possente rocca di Canossa, potessero giungere, attraverso la valle del Tassobbio, a lambire il nodo di Bismantova, che doveva ancora rappresentare un saliente strategico per il controllo del medio Appennino e le comunicazioni stradali con la Tuscia; tale avvicinamento a Bismantova si rendeva a maggior ragione necessario perchè all’epoca il castelnovese, con le curtes fiscali di

Monte Fuso Pianura Padana

Legoreccio Monte Staffola

Fiume Enza

Borzano Trinità Montale

Pieve di Pianzo

Monchio delle Olle

Selvapiana Torrente Cerezzola


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Felina e Malliaco, era passato in possesso ai membri della dinastia comitale degli Obertenghi, grazie alle loro parentele con la linea femminile degli ormai estinti Supponidi. Ancora nell’anno 1033 il castello di Felina risulta in possesso di Adalberto Pallavicino, appartenente al ramo parmense degli Obertenghi. La politica di acquisizioni terriere di Adalberto Atto lungo la valle del Tassobbio comprendeva anche l’erezione di fortificazioni: il documento del 958 sottolinea come il podere acquistato dal Nostro presso Sarzano, costituito da due alture, avesse ospitato in passato fortificazioni militari ormai destrutturate. Si tratta, in assoluto, della più antica attestazione documentaria (fa eccezione la citazione letteraria di Donizone per la rocca di Canossa, ma è una descrizione “post eventum” di quasi due secoli) di un castello esistente nella montagna reggiana; il fatto che nel 958 il fortilizio fosse già stato defunzionalizzato sembra dimostrarne l’antichità, rendendo plausibile l’ipotesi che esso sia stato eretto in coincidenza con la calata degli Ungari in val Padana negli ultimi anni del IX secolo. Ovviamente il fatto che sul poggio di Sarzano fosse esistito in precedenza un castello, autorizzava il nuovo possessore ad erigerne uno ex novo, senza dover aspettare una autorizzazione regia, vista anche la situazione di anarchia che dominava all’epoca la scena politica italiana. Sarzano sembra quindi costituire il primo sito incastellato sorto a protezione della valle del Tassobbio; al termine di un periodo durato circa tre secoli (dal 950 circa al 1250 circa) le forme dell’insediamento antropico e del paesaggio risultarono trasformate dalla capillare diffusione dei siti fortificati in tutta

la valle; le antiche ville curtensi, come Verlano, Scalucchia, Ariolo, Gombio, Migliara, Cortogno, Leguigno, sorte negli ultimi due secoli dell’ alto medioevo, si organizzano amministrativamente attorno ad un sito incastellato, da cui sembrano dipendere: basti pensare al castello di Crovara che aggregava le comunità curtensi di Scalucchia, Legoreggio e Casalecchio, al castello di Gombio, a cui dovevano far riferimento Gombio e Soraggio, a Sarzano, che doveva aggregare gli abitati di Cortogno, Leguigno e Migliara, nonché all’enigmatico castrum Severi, attestato come già esistente nell’anno 1020 e che forse va identificato con la località “il Castello” ancora oggi esistente ad ovest di Marola, sul versante che degrada verso il rio di Leguigno non lontano da Boastra, probabile riferimento per le comunità circonvicine. Comunque, al tramonto del X secolo, anche se in parte destabilizzato e con evidenti segni di crisi, il sistema curtense costituiva ancora la più diffusa forma di sfruttamento delle terre; i mansi posseduti da

Ariolo (Casina) m. 401 s.l.m. In evidenza sul prospetto meridionale di questo edificio i resti di un imponente portale ad architrave monolitico “lunato”, pertinente ad un edificio residenziale di evidente origine medievale. Anche in questo caso si tratta con tutta probabilità di un “solarium” o di una “casa solariata”, forse pertinente ai possedimenti che in questa località, sin dall’anno 1022, vantava la Chiesa di Reggio.


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Vercallo nel particolare della pergamena di San Tommaso

Atto Adalberto nel 958, a cui si deve aggiungere Migliara nel 976, appartenevano ad un grande signore laico; troviamo poi la curtis di Spagnago, località oggi scomparsa che sorgeva presso il borgo di Vaglie di Cortogno (negli estimi di Sarzano del 1667 appaiono alcune proprietà terriere ubicate presso “L’Ara di Spagnago”). Spagnago fu concessa nel 943 dai re Ugo e Lotario ai canonici della Cattedrale di Reggio; nel corso del X secolo è attestato il possesso della curtis di Vercallo da parte del monastero reggiano di san Tommaso, mentre Felina e Malliaco passarono, come abbiamo visto, dalle mani degli estinti Supponidi a quelle degli Obertenghi, signori di Lunigiana. Le prime concessioni di terre lungo il Tassobbio ai vescovi reggiani sono documentate a partire dal 1022, e riguardano le località di Leguigno e Gombio. I vescovi di Parma rimasero invece in possesso di Pianzo almeno sino al 1033, questo in virtù della loro dignità comitale, poiché Pianzo costituiva l’ultimo lembo di comitato parmense posto a levante dell’Enza. Questa “anomalia confinaria” si protrasse sino al XIX secolo: il Ducato di Parma mantenne infatti, sino alla sua soppressione avvenuta nel 1859, il possesso di una porzione di terra reggiana che si protendeva all’interno della valle del Tassobbio; al suo interno si trovavano le ville di Compiano, Borzano, Crognolo, Roncovetro, Vedriano, Gombio e Soraggio. Nel pieno XI secolo la “carta dei possedimenti” ed il paesaggio agrario della val Tassobbio appaiono distribuiti a “macchia di leopardo”, situazione tipica della fase finale dell’alto medioevo, dove diversi attori detengono i beni terrieri e dove accanto ai poderi coltivati a vite e cereali rimanevano

ampie aree ricoperte da selve e da incolti. In questo periodo le fonti documentarie sono ancora silenti in merito all’organizzazione delle comunità rurali, che cominciarono ad aggregarsi attorno alle parrocchie di villaggio ed ai primi siti incastellati; tali comunità appariranno sulla scena solo al tramonto del XII secolo, quando verranno chiamate a presta-

re sottomissione al comune cittadino, ormai ben determinato nella sua espansione all’interno del comitato a scapito dei signori feudali, laici od ecclesiastici, che ne ostacolavano l’avanzata; tuttavia la descrizione di queste vicende riguarda un epoca storica assai diversa rispetto all’alto medioevo, dove nuovi poteri si scontreranno in un contesto in gran parte mutato rispetto all’età precedente.


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Appendice:

“fluvium Tasublum” La prima attestazione documentaria del Tassobbio (anno 1116) Un decreto del vescovo reggiano Buonsignore dato nel 1116 in favore del monastero di Marola, nell’indicare i confini di alcune terre pertinenti alla località di Carnione, citava, un po’ pomposamente, i due “fiumi” Tresinaro e Tassobbio: “..terra Carniuni, qua nunc noviter laboratur intra confinia fluviorum quoque Trisnarie atque Tasubli…” (…”il podere terriero di Carnione, che ora è nuovamente coltivato, si trova all’interno dei confini costituiti dai fiumi Tresinaro e Tassobbio…). La “terra Carniuni” indicata nel documento era stata donata al monastero di Marola da Matilde di Canossa: essa va senz’altro identificata con

Carnione, una borgata ancora oggi esistente nel comune di Carpineti; il piccolo abitato sorge alle falde meridionali del monte Le Borrelle, rilievo che è delimitato a sud dall’alto corso del Tresinaro, a nord da quello del Tassobbio; la stessa Carnione si trova menzionata tra le terre che, dopo la morte di Bonifacio da Canossa (anno 1052), la chiesa Reggiana reclamava come di sua pertinenza perchè arbitrariamente a lei sottratte dal potente marchese (“Inter Carnioni et Pantano mansos X..”). E’ questa, in assoluto, la più antica menzione documentaria del Tassobbio; citazione incidentale, in riferimento ad un’indicazione confinaria, percepita come semplice linea di demarcazione di un fondo rurale. La citazione riguarda il primo tratto del corso d’acqua, quello poco a valle della sorgente principale, alla testata della vallecola che separa l’abitato di Marola dalla vicina abbazia; dunque già in epoca medievale l’idronimo “Tassobbio” veniva riferito anche al tratto del torrente prossimo alle scaturigini e non solo a quello posto più a valle.


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La Valle del Tassobbio L’ambiente vegetale di Villiam Morelli nato a Bibbiano il 20 aprile 1957. Operatore del Centro di Informazione ed Educazione Ambientale dei territori Canossani della Val d’Enza Socio Coop Incia che si occupa di ambiente e turismo Socio della Società Botanica Italiana - Guida Ambientale Escursionistica

Premessa La valle del torrente Tassobbio ha un bacino idrografico di circa 100 km², è situata nel medio Appennino reggiano e fa parte del bacino idrografico del fiume Enza. La quota massima del bacino è di 960 m s.l.m mentre la quota minima (alla confluenza con l’Enza) è di 258 m s.l.m. Dal punto di vista geologico nella valle sono presenti substrati argillosi, marnacei e arenarie; questi, oltre alle forme di erosione e all’esposizioni dei versanti, condizionano fortemente la vegetazione presente. La vegetazione Tipi vegetazionali La vegetazione del bacino idrografico del Tassobbio è quella caratteristica della zona collinare della provincia. Un criterio utilizzabile per definire le principali macrotipologie vegetazionali è basato sul tipo di substrato rinvenibile, che concorre insieme alle condizioni geografiche e microclimatiche, a selezionare le fitocenosi rinvenibili. Le bancate arenaceo-marnose ospi-

tano spesso boschi decidui di latifoglie dominati dalla Roverella (Quercus pubescens Willd. subsp. pubescens) e dal Cerro (Quercus cerris L.). L’associazione del querceto misto è presente nelle sue varianti mesofila e xerofila. Il querceto mesofilo si sviluppa su suoli sufficientemente profondi ed umidi (tipicamente sui versanti più freschi), dove sono presenti anche, Acero campestre (Acer campestre L.) e Acero opalo e (Acer opalus Mill. subsp. opalus), Carpino bianco (Carpinus betulus L.) e Carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.). Ai margini delle boscaglie ritroviamo Acero minore (Acer monspessolanum L. subsp. monspessolanum), Biancospino (Crataegus monogyna Jacq.) e altri elementi a portamento arbustivo. La vegetazione che si insedia in corrispondenza degli affioramenti argillosi è soprattutto erbacea e arbustiva, sporadica e con ampi diradamenti nelle zone più scoscese, mentre dove si può sviluppare un sufficiente spessore di suolo, la roverella (Quercus pubescens Willd. subsp. pubescens) è il maggior rappresentante del querceto xerofilo che si ritrova nei microambienti più cal-


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di. Il ginepro (Juniperus communis L.) è ben rappresentanto tra gli arbusti colonizzatori delle praterie calcaree, assieme ad altre specie arbustive. Nelle zone più integre, la copertura arborea è senza limite di continuità trasformandosi risalendo dal fondovalle lungo i versanti, da bosco igrofilo a tipologie associative maggiormente svincolate dalla presenza dell’acqua. E’ da ricordare anche la presenza all’interno del territorio in studio, di due emergenze arboree: il Pino silvestre (Pinus sylvestris L.) ed il Faggio (Fagus sylvatica L. subsp. sylvatica). Affronteremo ora, in modo succinto, alcuni degli ambienti vegetazionali presenti nella valle.

Boschi mesofili Gran parte delle aree boscate della valle sono coperte da formazioni mesofile, soprattutto querceti; si tratta di formazioni che hanno l’esigenza di avere una moderata ma costante disponibilità idrica, situazione favorevole dove sono presenti suoli profondi e versanti ombreggiati. La loro struttura e la composizione floristica e spesso complessa e diversificata. La specie arborea caratteristica è il Carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.); ad esso sono associate, in base alle caratteristiche della

formazione forestale, alcune querce: la Roverella (Quercus pubescens Willd. subsp. pubescens), il Cerro (Quercus cerris L.) e raramente il Rovere (Quercus petraea (Matt.) Liebl. subsp. petraea), specie in rarefazione nel territorio considerato. Altre essenze e arboree e arbustive sono presenti in queste formazioni forestali nelle diverse tipologie presenti. Notevole la copertura di specie arbacee nemorali

che caratterizzano, con copiose fioriture, la stagione tardo invernale e primaverile, anticipando la copertura delle piante arboree all’emissione del fogliame. Tra queste citiamo le Pulmonarie (Pulmonaria officinalis L. e Pulmonaria apennina Cristof. & Puppi), dalla caratteristica maculatura fogliare simile agli alveoli polmonari, la Fegatella (Hepatica nobilis Schreb.), gli Anemoni (Anemonoides

specie arbacee nemorali

le Pulmonarie


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nemorosa (L.) Holub e Anemonoides ranunculoides (L.) Holub), la Scilla (Scilla bifolia L.) la Primula comune (Primula vulgaris Huds. subsp. vulgaris L.) e il Dente di Cane (Erythronium denscanis L.). Nelle aree dove non sono presenti suoli argillosi, troviamo spesso castagneti da frutto abbandonati. Il Castagno (Castanea sativa Mill.) è specie impiantata dall’uomo e il suo mantenimento a compagini pure, presuppone una continua eliminazione delle specie che carettrizzerebbero questa tipologia boschiva. Nella valle sono presente anche alcuni esemplari di castagno di dimensioni ragguardevoli e meritevoli di tutela.

bustive come le Rose (Rosa sp.pl.), il Prugnolo (Prunus spinosa L. subsp. spinosa), il Biancospino (Crataegus monogyna Jacq.), il Ginepro (Juniperus communis L.), utilizzato un passato per l’Albero di Natale, la Vesicaria (Colutea arborescens L.), dai curiosi frutti rigonfi e altre numerose specie. Tra le specie erbacee tipiche di queste cenosi troviamo il Camedrio (Teucrium chamaedrys L.), il Geranio sanguigno (Geranium sanguineum L.) e il raro Dittamo (Dictamnus albus L.) dal caratteristico profumo di limone e dalle splendide fioriture.

Pinete a Pino silvestre

Boschi xerofili Si tratta di formazioni forestali dove la componente arborea e arbustiva e caratterizzata da specie xerofile, cioè adatte a condizioni di aridità, anche estrema. La specie arborea dominante è la Roverella (Quercus pubescens Willd. subsp. pubescens), specie che ama i luogi asciutti e assolati. A differenza dei boschi mesofili, dove questà specie è generalmente sottomessa o convive con altre essenze, nei boschi xerofili, spesso, forma consorzi quasi puri e aperti, quindi estrema-

Bosco xerofilo

mente luminosi, questo permette l’isediarsi di numerose specie ar-

Il Pino silvestre (Pinus sylvestris L.) trova in alcune vallate emilane il suo limite meridionale dell’areale. Lo possiamo trovare entro compagini arbustive oppure boschi di roverella o orno-ostrieti. Su suoli arenacei poveri lo riveniamo in popolazioni quasi pure (pinete). La sua presenza nel nostro territorio è documentata a partire da circa 10.000 anni fa e ha raggiunto la massima espansione nel periodo Boreale. La nostra provincia conserva le maggiori popolazioni appennini-


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che. Si comporta spesso come specie pioniera e soffre molto l’ombreggiamento di altre specie arboree quando si trova misto ad esse. Una caratteristiche che distingue questa specie da altre delle stesso genere utilizzate un tempo per i rimbischimenti e presenti nella valle, è la corteccia che si squama a placche rivelando il caratteristico colore rosso aranciato. All’interno del bacino del Tassobbio ritroviamo il Pino silvestre nei boschi, sporadico e mescolato ad altre essenze, ma anche in alcune bellissime popolazioni pure. Il corteggio floristico in queste ultime cenosi risulta estremamente scarso a causa della copertura del suolo da parte degli aghi rinsecchiti che creano una vera e propria forma di pacciamature naturale e inacidiscono il suolo.

Calanchi Le tipiche erosioni calanchive che si formano su suoli argillosi si caratterizzano per le ripide pareti che accettano solo poche specie vegetali, che tollerano l’elevata aridità del suolo dovuta alla caratteristica collosità del suolo argillooso e all’elevata salinità delle acqua che vi circolano. Nella parte sommitale, oltre ad arbusteti a Ginestra odorosa (Spartium junceum L.), utilizzata un tempo per la produzione di fibre, sono presenti specie postcolturali come la Sulla (Sulla coronaria (L.) Medik.) e altre componenti erbacee; lungo i versanti più stabili si insediano solo poche specie estremamente adattabili a questi ambienti come l’Astro spillo d’oro (Galatella linosyris (L.) Rchb.f. subsp. linosyris) o la Scorzonera laciniata (Podospermum laciniatum (L.) DC). Alla base, dove sovente, nei periodi piovosi, ristagna acqua, troviamo spesso del canneti a Cannuccia di palude (Phragmites australis (Cav.) Trin. ex Steud.), la Farfara (Tussilago farfara L.) e l’Inula vischiosa (Dittrichia viscosa (L.) Greuter).

I Calanchi


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Prati aridi Queste estese cenosi, insediatesi su terreni calcarei, colonizzano aree incolte al margine di boschi o delle zone calanchive. La composizione floristica è essenzialmente composta da specie erbacee, molte delle quali a ciclo annuale. Si tratta di ambienti ricchi di biodiversità ma soggetti a estrema aridità nel periodo estivo con il conseguente disseccamento delle specie presenti, soprattutto Poaceae. Una delle Poaceae caratteristiche di questo ambiente e la Trebbia (Chrysopogon gryllus (L.) Trin.), il cui apparato radicale veniva usato un tempo per la produzione delle spazzole. Ma una delle caratteristiche di questi prati aridi e la presenza di copiose fioriture di orchidee, specie protette dalle legge regionale 2/77 e che fanno si che questi ambienti, spesso soggetti ad invasione progres-

Trecce di dama

siva da parte degli arbusteti circostanti, siano tutelati dalla Comunità Europea, all’interno delle aree Rete Natura 2000, come habitat prioritari di salvaguardia. La lista delle Orchidaceae presenti e lunga, ne citiamo solo alcune: Orchide minore (Anacamptis morio (L.) R.M. Bateman, Pridgeon & M.W. Chase ), Vesparia (Ophrys sphegodes Mill.), Cimiciattola (Anacamptis coriophora (L.) R.M. Bateman, Pridgeon & M.W. Chase) e l’autunnale Trecce di dama (Spiranthes spiralis (L.) Koch)

Arbusteti ed habitat in evoluzione Al margine delle aree boscate, nei coltivi abbandonati e nei prati calcarei in evoluzione sono presenti

estese formazioni arbustive, tipiche di ambienti in costante dinamismo. Si tratta di cenosi spesso complesse e diversificate. Presso i boschi formano una fitta cortina che funge da ambiente di transizione tra la vegetazione prettamente arborea e le aree circostanti, spesso coltivate. In queste situazioni si formano ambienti


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ricchissimi di specie che provengono da entrambi gli habitat con i quali vengono a contatto. Specie dominati sono il Prugnolo (Prunus spinosa L. subsp. spinosa) e i Rovi (Rubus sp.pl.). Situazioni diverse si creano quando l’arbusteto invade aree coltivate o acomunque aperte. In questo caso, soprattutto su suoli calcarei, le specie presenti si comportano come pioniere e la loro rapida colonizzazione dei terreni porta a una evoluzione della vegetazione nel tempo e spesso alla ricolonizzazione del bosco. Qui spesso domina il Ginepro (Juniperus communis L.), le Rose (Rosa sp.pl.) il Perastro (Pyrus spinosa Forssk). e il Biancospino (Crataegus monogyna Jacq.) con i cataratteristici grappoli di fiori rossi ricchi di vitamina C.

Ambienti acquatici e boscaglie ripariali Lungo il corso d’acqua e gli affluenti, la vegetazione strettamente acquatica risulta poco rilevante. Nelle acque correnti, solo poche piante vascolari riescono a insediarsi, a volte in moodo effimero, questo avviene soprattutto nlla parte bassa del Tassobbio, verso la confluenza con il fiume Enza. I boschi ripariali invece sono ampiamente diffusi lungo il corso d’acqua principale e i suoi affluenti. Spesso si tratta, soprattutto nella parte piu alta delle stesse compagni boscate illustrate in precedenza che arrivano finu all’acqua e alle quali si aggiungono specie tipicamente ripariali come i salici o i pioppi. Nella parte più bassa le cenosi tipicamente caratteristiche delle rive sono mag-

giormante caratterizzate e riconoscibili. Come dicevamo le specie più comuni appartengono alla famiglia delle Salicaceae: Pioppo nero (Populus nigra L.) , Pioppo bianco (Populus alba L.) , Salice bianco (Salix alba L.) generalmente a portamento arboreo, Salice ripaiolo (Salix eleagnos Scop.), Salice rosso (Salix purpurea L.) a portamento arbustivo. Le Salicaceae sono specie dioiche, ovvero hanno l’apparato riproduttivo maschile e quello femminile su piante diverse. A queste essenze si aggiugono l’Ontano nero (Alnus glutinosa (L.) Gaertn.), assieme a molte altre specie arbustive come ad esempio il Sambuco nero (Sambucus nigra L.) tipica specie colonizzatrice di suoli umidi e ricchi di sostanza organica. Alcune curiosità ed usi tradizionali dell’Ontano nero e del Sambuco nero saranno approfonditi nel paragrafo dedicato alla flora.

Coltivi e aree ruderali Si tratta di ambienti di origine antropica dove la vegetazione presente è dominata da specie coltivate o comunque commensali delle colture o invasive per le stesse.


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Anche se non sono habitat naturali, diventano spesso occasione per la colonizzazione da parte di specie ormai rare e in forte regressione come ad esempio quelle che da sempre hanno seguito la cotivazione dei cereali: Fiordaliso (Cyanus segetum Hill), Adonide (Adonis annua L.) , Papavero (Papaver rhoeas L.) , Speronella (Consolida regalis Gray). Molte aree ruderali e sono coloniz-

Fiordaliso

Capelvenere

zate da specie invasive espesso nitrofile come l’Ortica (Urtica dioica L. subsp. dioica) o la Parietaria (Parietaria officinalis L.). Ultimamente, anche nella valle del Tassobbio e nella collina in generale, si è assistito all’arrivo di numerose specie alloctone a volte estremamente invasive come ad esempio la Gramigna indiana (Eleusine indica (L.) Gaertn. subsp. indica), la lianosa Vite riparia (Vitis riparia Michx.), utilizzata come portainnesto e ora

in forte espansione, l’Euforbia prostrata (Chamaesice prostrata (Aiton) Small) o l’Acero negundo (Acer negundo L.), fanerofita di origine americana sfuggita alle coltivazioni e agli impianti a scopi ornamentali e invadenti in molte cenosi.

La flora Mentre lcon il termine di vegetazione isi indicano le associazioni o le comunità di specie che coprono una determinata area o un determinato territorio, con il termine flora vengono indicate le singole specie presenti in un’area o in un territorio, anche molto vasto. La flora della Val Tassobbio risulta estremamente ricca, come del resto quella di tutta la collina reggiana. Nella valle è presente il 20% di tutta la flora provinciale. Anche se non ci sono specie esclusive, la ricchezza e la importanza di quelle presenti risulta veramente notevole. Un esempio può essere quello del Capelvenere (Adiantum capillus-veneris L.), piccola felce caratteristica di pareti stillicidiose e muri umidi. Questa specie, un tempo comune anche nelle città è ormai diventata rarissima e minacciata di estinzio-


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ne nella nostra provincia. Ormai esistono solo quattro microstazioni: un cortile di un antico palazzo a Reggio Emilia, una forra umida al Rio della Rocca, in una fontana a Toano e appunto una stazione, presso Cortogno su una colata travertinosa soggetta a continuo stillicidio; questa sicuramente risulta la più abbondante e in buono stato di conservazione. Un’area di eccellenza dal punto di vista floristico è la valle del Rio Tassaro, sito d’importanza comunitaria e con presenza di habitat praticamente intatti e ricchissimi di specie, molte di queste protette dalla Legge Regionale 2/77 o inserite nella “Lista rossa delle specie rare e minacciate della Regione EmiliaRomagna” come ad esempio: Aquilegia scura (Aquilegia atrata W.D.J. Koc), Dittamo (Dictamnus albus L.), Elleborina palustre (Epipactis palustris

(L.) Crantz), Violaciocca appenninica (Erysimum pseudorhaeticum Polatscheck), Barbone (Himantoglossum adriaticum H. Baumann) Campanellino primaverile (Leucojum vernum L.), Giglio di San Giovanni (Lilium bulbiferum L. croceum (Cahix)Baker), Giglio martagone (Lilium martagon L.) e molte altre. Molte specie presenti nella valle avevano un utilizzo pratico da parte dell’uomo, non solo a scopi alimentari (circa 150 specie erano conosciute e utilizzate normalmente in cucina), medicinali e manufatturieri, ma anche legate a pratiche magiche, tradizioni e credenze; lo studio di tutto cio che lega le piante all’uomo è una scienza chiamata etnobotanica. Come accennato in precedenza approfndiamo usi e tradizioni legate a due specie caratteristiche e abbondantemente presenti nella valle del Tassobbio, l’Ontano nero (Alnus glutinosa (L.) Gaertn.) e il Sambuco nero (Sambucus nigra L.). L’Ontano nero ha da sempre evocato sinistre credenze, forse dovute al fatto che al taglio il legno diventa immediatamente rosso sangue oppure al fatto che lo stesso legno, che si deteriora facilmente al contatto con l’aria, diventa immarcescibile se immerso in acqua. Questa caratteristica era ampiamente sfruttata, tanto che i pali delle palafitte o quelli che sostengono la città di Venezia sono di Ontano nero. L’ontano nero fornisce diverse tinte: rosso dalla corteccia, verde dai fiori, marrone dai rametti giovani; la corteccia è ricca di tannino, usato in conceria e per la preparazione d’inchiostro. Le droghe ricavate da ramoscelli, foglie e gemme ricche di numerose sostanze hanno proprietà astringenti, diuretiche, febbrifughe e antinfiammatorie.

Altra rara e caratteristica felce tipica di luoghi molto ombrosi e presente a pochi chilometri da Cortogno è la Lingua cervina (Asplenium scolopen-

drium L., 1753)”.

Il Sanbuco nero

Ontano nero

Giglio di San Giovanni


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Il Sambuco nero è sicuramente una delle piante più sterttamente legate all’uomo. Praticamente tutte le parte della pianta erano utilizzare per vari scopi; nella tradizione locale venivano considerete sette le parti utilizzabili e quindi chi si accingeva alla raccolta si doveva prima inginocchiare sette volte di fronte ad essa per avere indilgenza. Oltre all’uso dei fiori e

dei frutti per uso alimentare, la caratteristica del legno, contenente un midollo spugnoso, era sfruttata dai bambini per la realizzazione di cerbottane e strumenti a fiato. E’ una pianta dal duplice simbolismo, nella tradizione cristiana veniva usata nei riti funerari, come viatico per il viaggio verso l’aldilà, nella tradizione pagana invece, come protettrice della casa e del bestiame e ad essa, in passato, si attribuivano poteri magici, contro i demoni e le streghe. Il Sambuco aveva anche proprietà divinatorie: se in estate i suoi fiori erano di colore giallo, meglio ancora di color ruggine, annunciava un nuovo figlio; un infiorescenza sottile indicava un anno di siccità, una robusta annunciava un buon raccolto.

Il Leccio (Quercus ilex L. subsp ilex) presente sul Monte Barazzone è una quercia sempreverde, ed è questa, una delle due stazioni del reggiano.


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Capriolo

foto di Roberto Parmiggiani


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La Valle del Tassobbio La Fauna di Massimo Gigante e Luca Bagni

Massimo Gigante si e’ laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie all’Universita’ di Bologna. membro della societa’ reggiana di scienze naturali “C.Iacchetti” e collaboratore del Museo Civico di Ecologia e Storia Naturale di Marano s/P. Da molti anni si interessa sopratutto di rettili e anfibi. Guardia Giurata Ecologica volontaria dal 1998, all’interno del raggruppamento e’ coordinatore del progetto “ censimento fauna minore”. Luca Bagni Biologo laureato all’Università di Parma, si occupa di censimenti e indagini faunistiche, in particolare ornitologiche. Collabora con associazioni impegnate nella conservazione della natura, come LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli), CISNIAR (Centro Italiano Studi Nidi Artificiali) e ASOER (Associazione Ornitologi Emilia Romagna). Svolge attività di educazione ambientale e didattica scientifica.

Chi percorre i tranquilli e ameni sentieri della Val Tassobbio incontra molteplici e differenti situazioni ecologiche che sfumano gradualmente l’una nell’altra, ciascuna con associato un preciso popolamento animale risultante delle relazioni fra diversi fattori (antropico, vegetazionale, geologico, climatico, ecc.) e il più delle volte composto da entità specifiche confinate esclusivamente a poche aree che presentano condizioni di vita a loro idonee. L’assetto faunistico odierno rispecchia, almeno in parte, quella che era la fauna del periodo susseguente

all’ultima glaciazione quando i grandi mammiferi come Mammut, Rinoceronti lanosi, Orsi delle caverne, Leoni delle caverne, Cervi megaceri, Bisonti, ecc., presenti in Italia fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale, erano ormai scomparsi ed estese foreste ricoprivano le valli e i monti appenninici. Il progressivo abbandono delle attività silvo-pastorali e i mutati rapporti fra uomo e ambiente hanno notevolmente favorito l’espansione delle comunità di ungulati (Caprioli, Daini, Cervi e Cinghiali), frutto di reintroduzioni a partire dagli anni


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‘70 del secolo scorso; ciò, assieme al regime di tutela di cui gode, ha consentito la ricomparsa del Lupo (Canis lupus), unico grande predatore presente nell’Appennino Settentrionale e oggi molto frequente anche in questo settore collinare.

Capriolo

Ambienti umidi

Cinghiale

Il patrimonio faunistico di questo territorio, però, non si limita alla sola fauna superiore, infatti alla grande varietà floristica si associa una numerosa e diversificata fauna invertebrata, soprattutto artropodi, che spesso per l’alimentazione dipendono da poche specie botaniche come il caso della Sfinge dell’Euforbia (Hyles euphorbiae), e che nel loro insieme svolgono un ruolo insostituibile nelle reti e catene ecologiche.

Sfinge dell’Euforbia

I torrenti e i ruscelli che numerosi solcano il territorio collinare erano un tempo dimora di invertebrati, pesci e anfibi oggi in grave rarefazione a causa dei cambiamenti ambientali. Tra questi un posto d’onore lo merita il Gambero di fiume (Austropotamobius pallipes Lereboullet, 1858) che, attualmente, a causa della forte sensibilità all’inquinamento idrico, è relegato in pochi rii con acque fresche, ossigenate e non inquinate. Questo crostaceo colonizza preferibilmente torrenti con fondali rocciosi e con acque ricche di carbonato di calcio. Il calcio, infatti, è indispensabile al suo biochimismo e viene accumulato dall’animale, sopratutto nelle fasi precedenti la muta, sotto forma di due sassolini di forma discoidale denominati gastroliti, localizzati nella parte anteriore dell’apparato digerente. Durante le mute i gastroliti vengono frantumati e dissolti all’interno dello stomaco e il calcio così disciolto viene utilizzato per indurire il nuovo esoscheletro . Di colore variabile in funzione delle condizioni ambientali, dal bruno chiaro al bruno-verdastro scuro, questo crostaceo decapode raggiunge una lunghezza massima di 12 cm e un peso di circa 90 grammi. E’ una specie notturna che di giorno si nasconde nelle anfrattuosità delle rocce. Sul capo, sopra l’apertura bocca-

Gambero di fiume

Gastroliti

Il gambero, come tutti gli artropodi, è rivestito da un esoscheletro rigido, composto da chitina e da sali minerali (sopratutto composti di calcio), che non permette l’accrescimento graduale dell’animale. Questi invertebrati sono perciò


me odi,

o to

o

brati

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costretti a rinnovare periodicamente l’esoscheletro attraverso un processo chiamato muta durante la quale la vecchia corazza viene perduta e sostituita con una nuova. Inizialmente il nuovo carapace è molle e ciò consente all’animale di accrescersi rapidamente prima che la stessa si indurisca nuovamente.

Ghiozzo di ruscello

le, possiede un paio di antennule e un paio di antenne. Le antennule, corte e terminanti in due flagelli, sono gli organi dell’equilibrio e dell’udito; le antenne, più lunghe, sono invece organi del tatto, gusto e olfatto. Le robuste chele, più grandi nei maschi, sono adoperate oltre che per la cattura delle prede rappresentate per lo più da invertebrati acquatici e piccoli pesci, anche per la difesa dai predatori. Tutte le appendici, se perdute accidentalmente o volontariamente attraverso l’autotomia, possono essere rigenerate. All’estremità dell’addome è presente una sorta di potente pinna natatoria utilizzata dall’animale per fuggire rapidamente all’indietro in caso di pericolo. Il periodo riproduttivo va dall’autunno (accoppiamento) alla tarda primavera (schiusa delle uova). Fino ad un tempo non troppo lontano era oggetto di un’intensa pesca da parte delle popolazioni locali che lo catturavano per mezzo di rudimentali fascine (al cui interno venivano posti resti alimentari come esca), che venivano immerse nei tratti più profondi dei ruscelli. Specie “vulnerabile” e minacciata, oggi è protetta su tutto il territorio provinciale. Più comune e più facilmente osservabile è il Ghiozzo di ruscello (Padogobius bonelli Bonaparte, 1846) noto ai locali col nome dialettale di “bòtel”. Diffuso in tutto il corso del Rio Tassobbio, oltre che in numerosi suoi affluenti, il Ghiozzo è un piccolo

pesce lungo al massimo 10 cm, dalla colorazione tendente al grigio. I maschi presentano sulla prima pinna dorsale una caratteristica macchia blu iridescente che diviene molto appariscente nel periodo riproduttivo. La testa è grande e tozza con occhi sporgenti. Endemita della regione padana, il Ghiozzo ha abitudini crepuscolari e bentoniche; le pinne ventrali sono fuse a formare una sorta di ventosa con la quale aderisce al substrato e che prende il nome di disco pelvico. Molto aggressivo sia con i suoi conspecifici che con altre specie ittiche, sia i maschi che le femmine mostrano comportamenti sedentari e territoriali. Di giorno ama stare nascosto sotto i sassi dove, con la bocca, scava delle vere e proprie tane facilmente individuabili per la presenza al loro ingresso di mucchietti di sabbia e ghiaietto. Caratteristica dei maschi di questa specie è la capacità di emettere suoni a bassa frequenza associati sia al comportamento riproduttivo che a quello di difesa del territorio. I suoni, dal momento che in questa specie manca la vescica natatoria, vengono probabilmente emessi grazie allo sfregamento dei denti faringei. In molti pesci i denti sono localizzati in profondità nella faringe, all’altezza dell’ultima arcata branchiale e la loro superficie permette di triturare il cibo ingerito prima che giunga nello stomaco.

La riproduzione avviene in primavera ed è preceduta da un rituale di corteggiamento durante il quale il maschio si esibisce in parate nuziali al fine di attirare la femmina nella propria tana; avvenuto ciò, la stessa, con l’ausilio del disco pelvico, aderisce alla volta della tana e inizia la deposizione delle uova, subito se-


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guita dalla fecondazione da parte del maschio; le uova sono poi affidate alle cure del maschio che provvede ad ossigenarle, difenderle dai predatori e tenerle pulite mediante secreti mucosi ad azione battericida fino alla loro schiusa. La sua carne bianca e saporita era, fino al dopoguerra, molto apprezzata per fritture e per questo il ghiozzo era oggetto di pesca che avveniva perlopiù a mano e con il prosciugamento delle pozze nei ruscelli. Oggi il Ghiozzo è particolarmente protetto in tutto il territorio provinciale. Lungo le sponde del Tassobbio nelle sere primaverili è possibile udire i rumorosi richiami dei maschi di Raganella (Hyla intermedia Boulenger, 1882), udibili a diverse centinaia di

metri di distanza e che spesso sono scambiati per il frinire delle cicale. La Raganella ha abitudini spiccatamente arboricole potendosi rinvenire anche a notevoli altezze sulla chioma degli alberi più alti del bosco; oltre che maestra nel salto, grazie alla presenza di dischi adesivi alle estremità di ciascun dito, è, infatti, un’abilissima arrampicatrice. Gli ambienti dove però si rinviene con una certa facilità sono le zone acquitrinose con presenza di fitti canneti dove, durante il giorno, ama starsene rannicchiata sulle foglie della comune Cannuccia di palude

(Phragmites australis). Questo piccolo ed elegante anfibio anuro dalla bella colorazione verde brillante diviene parzialmente acquatico in primavera durante il periodo riproduttivo; nel corso dell’amplesso la femmina può deporre fino a 1000 uova in forma di masserelle sferiche. In autunno, con l’arrivo del freddo, dopo essersi nutrita abbondantemente durante l’estate, si rifugia nel sottosuolo sempre in prossimità dell’acqua, dove supererà la stagione invernale. E’ insettivora e per la cattura delle prede si serve della lingua protrattile e prensile. In passato era considerata profeta della pioggia in quanto si riteneva che il suo squillante gracidio preannunciasse il mutamento del tempo. Inoltre, nella bassa reggiana, era impiegata per curare in particolare le slogature: veniva applicata viva, con un semplice bendaggio, facendo aderire bene il suo ventre alla parte dolente. Un tempo molto comune nel Reggiano, oggigiorno è divenuta scarsa. Tra i nomi dialettali che il popolo reggiano gli ha attribuito troviamo “rana dal sniòr” e “ranèina dla madòna”: strani e curiosi nomignoli, quasi deferenti nei confronti dei nostri piccoli anuri, che forse traggono la loro origine in un lontano passato quando spes-

Cannuccia di Palude da: wikipedia.it

Raganella foto di Roberto Parmiggiani

Ballerina gialla foto di Roberto Parmiggiani


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Sicofante foto di Roberto Parmiggiani

so alcuni animali erano considerati manifestazioni terrene di entità divine. Piuttosto frequente lungo i rii e i ruscelli è anche la Ballerina gialla (Motacilla cinerea Tunstall, 1771) , il cui nome dialettale “Squasacòva” rimanda immediatamente alla tipica abitudine di questo uccelletto di muovere la lunga coda in su e in giù mentre cammina o se ne sta posata al suolo. Nidifica generalmente presso l’acqua corrente, sotto a ponti o in altri manufatti, oppure in scarpate terrose con massi e pietre affioranti spesso vicino a cascatelle o altri salti d’acqua. La Ballerina gialla è un uccello insettivoro e non è raro vederla anche presso i cumuli di letame in campagna, dove può reperire facilmente le sue prede. Alla fine dell’estate, se le condizioni ambientali non sono più idonee a causa dell’abbassamento della temperatura, può spostarsi scendendo a quote inferiori.

Boschi xerofili

Aspide

In questi ambienti, nelle giornate soleggiate di inizio estate, è possibile sorprendere, durante la sua frenetica attività di ricerca di cibo, il Sicofante (Calosoma sycophanta L., 1758). Tra i più grandi e vistosi coleotteri predatori presenti in Italia, questo Carabide, lungo fino a 4 cm, presenta una splendida livrea verde metallica con riflessi dorati e rosso-violacei. Oltre a muoversi rapidamente sul terreno e arrampicarsi molto agilmente sugli alberi e cespugli grazie alle robuste e lunghe zampe, all’occorrenza il Sicofante è anche un ottimo volatore. Le sue popolazioni oscillano da un anno all’altro in relazione a quelle delle sue prede

rappresentate sopratutto da larve di lepidotteri defogliatori (Limantrie, Bombici , Processionarie, ecc.), nei confronti dei quali svolge un’importante azione di controllo (nel corso di una stagione un adulto può predare oltre un migliaio di bruchi); per tale motivo, questo coleottero fu in passato impiegato come efficace agente di lotto biologica in ambienti forestali e non. Se molestato è in grado di spruzzare dall’addome sul malcapitato un liquido caustico dall’odore acre e molto persistente. Gli adulti superano l’inverno sottoterra e possono vivere anche più di due anni. Le uova vengono deposte in piena estate in buche scavate nel terreno ai piedi degli alberi e i nuovi adulti compariranno nella primavera successiva. Data la sua notevole importanza per la conservazione degli ambienti forestali, il Sicofante è specie particolarmente protetta su tutto il territorio provinciale (Legge

Regionale n° 15 del 2006). Negli assolati boschi di roverella (specie se associata a copiosi arbusti di ginepro) è possibile rinvenire il temuto Aspide (Vipera aspis


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francisciredi Laurenti, 1768). Presenta corpo tozzo, testa triangolare, coda piuttosto corta e le squame che ricoprono il capo sono piccole. Il colore è variabile dal grigio al bruno rossiccio; il disegno ornamentale della regione dorsale, piuttosto costante, è costituito da una serie di barre scure trasversali e sfasate rispetto alla linea mediana dorsale. Le squame che circondano la bocca sono biancastre mentre sulla nuca è generalmente presente una macchia nera a forma di V rovesciata. La pupilla è verticale. Nel Reggiano la Vipera non sembra superare i 75 cm di lunghezza. Affatto rapidissima nei movimenti, all’avvicinarsi di un potenziale nemico si difende, il più delle volte, rimanendo immobile, confidando nel proprio mimetismo, con la testa leggermente sollevata e “caricata” all’indietro. Gli accoppiamenti avvengono in primavera, mentre i piccoli, lunghi 17-20 cm, sono partoriti a settembre; questi ultimi sono già autosufficienti e con apparato velenifero funzionante. Le femmine in gestazione, quando al mattino il terreno è umido e freddo, per termoregolarsi più rapidamente e favorire lo sviluppo degli embrioni, si portano in luoghi sopraelevati fino a 2 m di altezza dal suolo: da qui è forse nata la diffusa credenza che le vipere per partorire salgano sugli alberi. Fino ad un recente passato era impiegata, oltre che per fini culinari (la sua carne era considerata buona e saporita), anche per il confezionamento di importanti medicine tra le quali la più famosa era la theriaca, antico preparato farmaceutico la cui preparazione avveniva in Reggio Emilia sotto lo stretto controllo del priore e di un rappresentante del collegio dei medici, del podestà dell’arte degli speziali e di un nota-

io. L’utilizzo della theriaca, usata per molteplici patologie (peste, polmonite, febbri, ecc.), cadde in disuso nel Reggiano solamente agli inizi del XX secolo. Un curioso uccello abitatore dei boschi di quercia, specie se ricchi di

La forma e la lunghezza della coda non sono buoni caratteri diagnostici, in quanto capita sovente di imbattersi in serpenti appartenenti a specie innocue che a causa di traumi subiti hanno perduto porzioni di coda, così che la stessa assume un aspetto corto e tozzo.

Torcicollo foto di Roberto Parmiggiani

alberi morti o deperenti, è il Torcicollo (Jynx torquilla Linnaeus, 1758), appartenente alla famiglia dei Picchi. Campione di mimetismo, presenta un piumaggio dai toni marroni e grigi, finemente screziato, con una fitta trama di linee più scure e macchioline chiare, in modo da rassomigliare alla corteccia di un albero. E’ un picchio “degenere”, in quanto non ha la capacità di scavare buchi nel legno, avendo un becco piuttosto debole. Per nidificare, deve quindi approfittare delle cavità già scavate dagli altri picchi, in particolare dal Picchio verde (Picus viridis) e dal Picchio rosso maggiore (Dendrocopos major), entrambi molto comuni nel

Tra le curiose credenze appenniniche raccolte su questo ofide vi è quella secondo cui sparandogli addosso col fucile fosse in grado di attrarre a sé il piombo e, nel caso il colpo fallisse, di far scoppiare l’arma in mano.


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Biscia dal collare

territorio del Tassobbio. Non sono rari i casi di occupazione di cavità nei muri e nei pali; inoltre, può nidificare anche all’interno delle cassettenido artificiali, dalle quali all’occorrenza può scacciare gli uccelli più piccoli. Il suo cibo preferito è rappresentato dalle larve delle formiche, che cattura sul terreno all’interno dei boschi o ai loro margini. Per marcare il possesso del territorio, in primavera emette una serie di 10-20 suoni lamentosi in rapida successione: “piè – piè – piè – piè – piè, …”. Quando è seriamente minacciato, assume un atteggiamento “terrifico”, allargando la coda, soffiando e piegando il collo con movenze da serpente: in tal modo, riesce spesso a difendersi dai predatori come donnole e scoiattoli, capaci di introdursi nelle cavità dove ha il nido, che lo scambiano proprio per un pericoloso rettile. Il Torcicollo è una specie minacciata seriamente dal taglio degli alberi morti o marcescenti e dall’uso dei pesticidi. Essendo una specie migratrice su lunghe distanze, può risentire negativamente anche delle perturbazioni atmosferiche incontrate nel corso dei viaggi migratori e di eventuali condizioni ambientali svantaggiose nelle aree di svernamento africane.

Boschi mesofili In questi ambienti, soprattutto se confinanti con prati e campi coltivati, non è raro imbattersi in grossi esemplari di Biscia dal collare (Natrix natrix L., 1758). Questo serpente presenta una colorazione grigio-olivastra con barre nere trasversali e il capo è ornato da una sorta di collare biancastro, marginato posterior-

mente di nero. Di temperamento mansueto e poco mordace, la Biscia si ciba sopratutto di topi e anfibi e in particolare di Rospi e proprio per questa sua preferenza alimentare in dialetto locale tale serpente è chia-

mato “Bissa bodara” (i Rospi sono denominati col termine di “Bodda”). Non particolarmente legata all’acqua, frequenta anche luoghi aridi e rocciosi. Se minacciata può appiattire il corpo, arrotolarsi su se stessa, dilatare le ossa mascellari facendo assumere al capo la forma triangolare, sibilare, il tutto a perfetta imitazione della vipera; inoltre, negli esemplari più vecchi il collare chiaro che adorna il capo scompare del tutto, cosicché diventa molto difficile distinguerla dalla più pericolosa vipera. Sempre in caso di minaccia può fingersi morta girandosi sul dorso, strabuzzando gli occhi, spalancando le fauci, lasciando penzolare la lingua ed emettendo al contempo sangue misto a saliva. Altra sua difesa è quella di emettere dalla cloaca un liquido dall’odore molto persistente e nauseabondo prodotto da particolari ghiandole. Le femmine possono raggiungere e superare i 2 metri di lunghezza (con diametri del tronco superiori agli 8 cm) e deporre, generalmente nei letamai, fino a un centinaio di uova lunghe ciascuna 3 cm e più, che schiudono


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entro la fine di giugno. Proprio gli esemplari più grossi e senili di questa specie sono sempre stati circondati da un alone di terrore e rispetto dalle popolazioni locali e spesso su di loro sono fiorite credenze e leggende che tuttora persistono, come ad esempio quella dei temuti serpenti crestati. In passato si usavano preparare con tale specie dei saporiti brodi da impiegarsi a fini medicinali. La sua saliva non è particolarmente

pericolosa per l’uomo. Altro, e più grazioso, abitatore dei castagneti e dei boschi di quercia o di faggio è il Ghiro (Glis glis italicus Barrett-Hamilton,1898). Di aspetto simile allo Scoiattolo, lungo al massimo 35 cm (coda compresa), il suo pelame è di colore grigio-argento con parti ventrali più chiare. Noto per essere un dormiglione eccezionale, il Ghiro è di abitudini prettamente notturne e ama “passeggiare” tra le fronde degli alberi, saltando di ramo in ramo, in cerca di cibo rappresentato perlopiù da nocciole, ghiande, insetti, fiori, uova, nidiacei e molluschi. Si nutre anche di corteccia di giovani alberi che viene strappata in senso orizzontale rimuovendo spesso un intero anello intorno al tronco, con grave

danno per la pianta. Ama vivere in piccoli gruppi plurifamiliari e i nidi sono generalmente ubicati all’interno dei tronchi cavi ; è in grado però, al pari dello Scoiattolo, di costruirsi dei nidi di forma globosa fra i rami più alti degli alberi. Ama frequentare anche le abitazioni umane che utilizza come rifugio diurno. In autunno aumenta considerevolmente di peso (fino a pesare anche 300 g) per poter far fronte al lungo digiuno invernale che può durare anche 7 mesi. Durante il lungo letargo le sue orecchie si ripiegano a chiudere i meati acustici al fine di non farvi entrare eventuali parassiti. La carne di Ghiro, fin dalla più remota antichità, è sempre stata considerata una ghiottoneria: basti pensare che in epoca romana questi animaletti erano allevati e “ingrassati” in appositi grandi vasi di terracotta. Nell’Appennino settentrionale la caccia e l’utilizzo culinario dei Ghiri si sono protratti fino agli anni ’70 del Novecento. Lo si catturava anche per mezzo di profonde fosse scavate nel terreno che poi venivano riempite con paglia, foglie, rami, muschi e sopratutto ghiande e faggiole. Tali fosse erano poi utilizzate e occupate dai Ghiri durante il periodo del letargo e in questo modo durante l’inverno se ne potevano catturare molti esemplari senza fatica. Uno dei più temuti predatori del Ghiro è l’Allocco (Strix aluco Linnaeus, 1758), rapace dalle abitudini strettamente notturne che ama soprattutto i boschi maturi con alberi ricchi di cavità dove nidificare (ma può sfruttare anche i nidi abbandonati dei corvidi e degli scoiattoli, così come i solai degli edifici). Se si ha la fortuna di avvistarlo durante il riposo diurno, si nota innanzitutto la colorazione criptica del suo piumaggio

I ghiri possono anche scavare gallerie e creare nidi sotterranei.

Ghiro foto di Roberto Parmiggiani

A chi a notte fonda ha attraversato un bosco, sarà capitato senz’altro di udire i trilli, i brontolii e i sommessi gorgheggi emessi da questa simpatica bestiola soprattutto nel periodo degli accoppiamenti. Spesso le case abitate da colonie di questi rumorosi roditori sono state considerate infestate da spettri (ar-ghà séinta).


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Allocco foto di Roberto Parmiggiani

Scoiattolo foto di Roberto Parmiggiani

La parola latina sciurus, di derivazione greca, significherebbe letteralmente “colui che siede all’ombra della sua coda”

e la forma tondeggiante della testa, priva dei “ciuffi auricolari” caratteristici invece del Gufo. Gli esemplari di Allocco possono essere riuniti in due categorie a seconda della tonalità di colore del piumaggio: quelli appartenenti alla forma “grigia”, da noi più comune, e quelli della forma “rossa”, più rara. La sua presenza sul territorio viene spesso tradita dalle frequenti vocalizzazioni emesse durante le ore notturne nelle varie stagioni dell’anno: tipico e inconfondibile è infatti il richiamo territoriale, costituito da un tremolante “ululato”, che in passato deve aver certamente alimentato le paure e le diffuse credenze sui rapaci notturni come portatori di morte e di sventura. Come tutti i grandi predatori, l’Allocco svolge un insostituibile ed importantissimo ruolo ecologico, contribuendo a tenere sotto controllo le popolazioni di molti piccoli animali, in particolare roditori, che, se presenti in alte concentrazioni, spesso possono arrecare danni al patrimonio forestale.

Pinete Particolarmente ghiotto dei semi del pino silvestre è lo Scoiattolo (Sciurus vulgaris italicus Bonaparte, 1838). Lungo 45 cm di cui 20 spettanti alla coda, questo grazioso roditore è sempre stato tenuto in gran

simpatia dall’uomo. La colorazione del mantello, soggetta a dimorfismo stagionale, varia dal rossiccio al grigiastro fino al marrone scuro e non sono rari esemplari completamente neri con o senza macchie bianche ad esempio all’estremità della coda. Le parti inferiori sono sempre più chiare, spesso bianche. Le orecchie, rivolte verso l’alto, hanno ciuffetti di pelo più evidenti nel periodo invernale. Formidabile arrampicatore, questa bestiola usa la sua lunga coda come Esemplari mutilati della coda, durante un salto sono in grado di coprire distanze inferiori alla metà di quelle consuete.

timone e per aumentare la superficie portante durante gli acrobatici salti. I robusti e aguzzi artigli associati alla particolare conformazione delle caviglie consentono allo Scoiattolo di scendere velocemente

lungo il tronco a testa in giù. Possiede una visione dicromatica per cui i suoi occhi distinguono il rosso dal blu ma non il rosso dal verde o il rosso dall’arancione; quindi per chi voglia avvicinarsi a questi simpatici animaletti risulta assolutamente indifferente vestire di verde, rosso o arancione, mentre risulterà


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leggermente svantaggioso vestire in blu. Costruisce evidenti nidi sulla biforcazione dei rami degli alberi, con l’entrata generalmente rivolta in basso e imbottiti internamente di muschio. Tali ricoveri sono coperti con una sorta di tetto conico che impedisce alla pioggia di penetrare. Diurno e poco socievole, si ciba di gemme, germogli, semi, frutti, funghi (tra cui la tossica Amanita muscaria), tartufi, insetti, uova, pesci, piccoli uccelli, piccoli mammiferi, ecc. Non ama molto le ghiande. Mangia di solito stando eretto, utilizzando le dita delle zampe anteriori come quelle di una mano per rigirare in ogni verso e con incredibile rapidità il pasto. Quando vi è abbondanza di cibo crea delle provviste generalmente seppellendo i frutti e i semi, ad uno ad uno, sotto terra; l’olfatto, poi, lo aiuterà a ritrovare il cibo nascosto. E’ in grado di emettere brontolii, fischi, grida acute e altri suoni di eccitamento. In inverno, pur riducendo l’attività, non va in ibernazione. Partorisce di solito una sola cucciolata all’anno composta al massimo da 6 piccoli. La sua pelliccia, soprattutto quella del petto e del ventre (indicata col nome di “vaio”), era oggetto in passato di commercio, mentre ancora oggi sono in vendita pennelli ricavati dai peli della coda di varie specie di scoiattoli che si distinguono per morbidezza ed elasticità e sono impiegati sopratutto nella tecnica pittorica dell’acquerello. Si riteneva, in passato, in virtù delle sue eccezionali doti acrobatiche, che il cervello disseccato di questo animale riuscisse a preservare da cadute ed infortuni. In alcune regioni italiane questa specie è in declino e a grave rischio di estinzione locale a causa dell’introduzione in tali aree dello Scoiattolo grigio americano

(Sciurus carolinensis), specie più versatile e competitiva. Nelle pinete prive di uno strato arbustivo, soprattutto nelle umide notti autunnali, non è difficile imbattersi in qualche grosso esemplare di “bodda”, nome dialettale indicante il Rospo comune (Bufo bufo

Rospo comune

Secondo molti studiosi la parola rospo deriverebbe dal latino haruspex che indicava il sacerdote etrusco-romano che aveva poteri divinatori, ed era in grado di predire il futuro. Il rospo (o meglio il suo veleno), assieme ad altri elementi sia vegetali che animali, era infatti utilizzato nei riti e nelle cerimonie religiose (come quelle che avvenivano nei sacrari oracolari) per produrre stati mentali alterati e per indurre visioni.

L., 1758). In un tempo molto antico questo anfibio anuro era considerato una vera divinità benevola, Spesso la dea madre era raffigurata con le sembianze di un rospo

simbolo di fecondità e prosperità, il cui culto era collegato a quello degli antenati; successivamente, con l’avvento della religione cristiana, questo innocuo animale fu considerato rappresentante e legato del demonio e per questo ingiustamente perseguitato e ancora oggi disprezzato. La pelle del Rospo è disseminata di ghiandole velenifere, che, se laceraAltra credenza popolare vuole che il rospo sia in grado di sputare il veleno negli occhi delle persone provocando in esse, come conseguenza, l’itterizia (che in passato si curava facendo ingoiare al malato dei pidocchi vivi). In realtà, se l’animale è


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infastidito può emettere, al pari delle rane, un getto di urina dalla cloaca. Altra sua difesa è quella di riempire d’aria delle sacche linfatiche sottocutanee ed apparire così più grande agli occhi del predatore.

Gufo comune foto di Roberto Parmiggiani

Ovatura di rospo

te, liberano un liquido lattiginoso contenente molte tossine (perlopiù alcaloidi) con effetti diversi sull’organismo umano compresi danni cardiologici e ipertensione. E’ credenza diffusa nel nostro appennino che il rospo si cibi di terra e che sia molto ghiotto e avido di essa; si crede addirittura che ne possa mangiare così tanta fino a scoppiare. Da questa credenza è nato il detto locale usato in dispregio degli avidi: “ Sei come un rospo!”. Almeno fino al XIII secolo, a Reggio Emilia è attestato l’utilizzo di piccoli rospi per torturare i prigionieri e indurli a parlare: in questo caso i rospetti venivano fatti ingoiare vivi ai malcapitati. Fino ad un recente passato era ancora attivo, invece, l’utilizzo dei rospi a fini terapeutici: ad esempio, la loro cenere era ritenuta utile per combattere la peste e l’infiammazione delle mammelle. Una volta privata della pelle, la carne del Rospo è commestibile. Molto longevo, lo si rinviene spesso anche lontano dall’acqua: infatti la pelle, molto verrucosa e in parte cheratinizzata, lo protegge efficacemente dalla disidratazione. Solo in primavera i rospi, percorrendo distanze anche di diversi chilometri, si recano in acqua per accoppiarsi e deporre le uova, di colore nero, che vengono deposte in file regolari all’interno di un cordone gelatinoso lungo alcuni metri. I girini, che na-

scono dopo circa 2 settimane, sono già dotati di una tossina cutanea (bufonina) che li difende dalla maggior parte dei predatori. Una delle specie di rapaci attualmente maggiormente in espansione sul nostro territorio, è il Gufo comune (Asio otus Linnaeus, 1758), molto adattabile e in grado di vivere anche

in ambienti antropizzati. Non costruisce un proprio nido, ma occupa quello di altri uccelli, in particolare corvidi, spesso se costruiti su alberi di conifere. Una possibile spiegazione della sua fase di espansione può forse ricercarsi proprio nel recente aumento di alcune specie di corvidi. A differenza di questi ultimi, però, svolge un importante ruolo ecologico, al pari dell’affine Allocco, essen-


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do un gran predatore di piccoli roditori, dai topi selvatici alle arvicole. Comunque, a dimostrazione dell’eclettismo e della plasticità comportamentale della specie, sono stati riportati casi di individui di Gufo che si sono specializzati nell’alimentarsi di particolari ed inconsuete fonti alimentari, come ad esempio quello di un gufo che aveva imparato a pescare pesci rossi in una fontana ornamentale cittadina. Meno vocifero dell’Allocco, il Gufo può emettere alla fine dell’inverno e in primavera il classico e cupo “uh - uh”, usato per proclamare il possesso del territorio. Gli esemplari giovani, invece, per richiedere il cibo ai genitori, quando già sanno volare e sono fuori dal nido emettono dei penetranti ed acuti fischi, che possono risultare fastidiosi se i gufi sono presenti nei pressi dei centri abitati. In autunno ed in inverno, i gufi possono riunirsi in gruppi formati anche da una ventina di individui (raramente di più) che riposano durante il giorno su alberi o arbusti (“dormitori”). Al suolo si raccolgono allora numerose “borre”, o boli alimentari, contenenti i resti indigeriti delle prede: penne, peli, ossa, parti chitinose di insetti. Per studiare le comunità di micromammiferi, cioè toporagni e roditori, molto elusivi e difficili da contattare, si possono analizzare proprio le borre dei rapaci notturni: dall’osservazione dei resti in esse contenuti, si giunge spesso alla determinazione delle specie presenti in quel territorio.

Calanchi Le impenetrabili macchie di ginestra odorosa sono un habitat ideale

dove poter rinvenire ed osservare il Biacco (Hierophis viridiflavus Lacépède, 1789). Questo elegante rettile, agilissimo sulla terra come in acqua, è in grado di arrampicarsi con grande destrezza sugli alberi e sulle ripide e scoscese pareti dei calanchi. La livrea del dorso, molto variabile, può essere nero-inchiostro , con ri-

Biacco adulto foto di Roberto Parmiggiani

Gli esemplari di questa specie con livrea scura o completamente nera sono denominati col termine dialettale di “magnan”. I magnan erano coloro che riparavano, il più delle volte a domicilio, le pentole e altri oggetti di rame e, poichè, per il loro mestiere che richiedeva l’uso del fuoco, avevano viso e mani sempre sporchi di fuliggine, per similitudine anche questo rettile ha assunto tale denominazione.

flessi spesso violacei, oppure gialla (o bianco sporco) con macchie verdastre (o nere) a guisa di scacchiera che nella seconda metà del corpo mutano in 4-6 strisce longitudinali; il ventre è di solito di color grigio ardesia. I maschi, che in questa specie sono più grandi delle femmine, possono superare i 2 metri di lunghezza. I maschi, in primavera, effettuano dei caratteristici combattimenti rituali per il possesso della femmina. Le uova sono deposte in giugno, in genere in crepe del terreno, e in agosto compaiono i piccoli Biacchi che hanno una colorazione completamente diversa dagli adulti. E’ un

Nel giugno del 1978 a Montegibbio (MO) è stato catturato un esemplare lungo 245 cm

Biacco giovane foto di Roberto Parmiggiani


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Altro curioso nome dialettale dato dal volgo a questo serpente e che è stato raccolto in alcuni abitati del nostro appennino è “inguìlla ‘d téra”. Nei periodi di carestia (ma non solo), infatti, questo serpente veniva appositamente cacciato per essere consumato come cibo; la sua carne era considerata molto buona e saporita.

Averla piccola foto di Roberto Parmiggiani

Questo comportamento è invece stato invece, da uno degli autori, Gigante, osservato più volte per un piccolo anfibio comune in Appennino: il Geotritone

serpente molto mordace che, specie nel periodo degli accoppiamenti, non esita a rincorrere e mordere ripetutamente eventuali intrusi, uomo compreso, emettendo al contempo acuti sibili. Il suo morso è innocuo; tuttavia, a causa dei denti ricurvi, causa lacerazioni superficiali con senso di bruciore intenso e prolungato sanguinamento. I termini dialettali di “frustòun” o “batachiùn” con cui si suole indicare questo serpente derivano dal fatto che a volte, quando messo alle strette, è in grado di contrarre i muscoli della parte posteriore del corpo, frustando con potentissimi e fulminei colpi di coda chiunque gli si avvicini. Questi impressionanti e dolorosi attacchi si sono osservati non solo a carico di animali (perlopiù bestiame al pascolo) ma anche di persone. A differenza degli altri serpenti che durante la fuga sono molto silenziosi, il Biacco muove di continuo e abbastanza violentemente la coda a destra e sinistra provocando al contempo molto rumore: tale comportamento pare essere un’efficace strategia per distrarre e disorientare l’eventuale predatore. Come altri serpenti è oggetto di varie credenze popolari come quella secondo cui, in zone acclive e per sfuggire più rapidamente, sia in grado di formare con il proprio corpo una sorta di ruota e di rotolare via fulmineamente. Questo bizzarro comportamento è riportato in alcuni modi di dire dialettali locali che riferiscono che quando si è inseguiti da uno di questi rettili e si è su un pendio non bisogna fuggire in discesa, come verrebbe istintivo fare, ma occorre correre seguendo le curve di livello (...andèr ad travèrs). Il Biacco si ciba di tutto ciò che riesce a catturare ed è parti-

colarmente ghiotto e abile nel catturare altri serpenti, Vipere comprese, che ingoia praticamente ancora vivi. Altro abitante tipico delle macchie di cespugli, specie se spinosi, è l’Averla piccola (Lanius collurio Linnaeus, 1758), piccolo uccello dalle abitudini spiccatamente predatorie in grado di catturare anche piccoli serpenti, uccelletti come le capinere, grossi insetti (soprattutto coleotteri). La specie presenta un marcato dimorfismo sessuale nella colorazione del piumaggio: il maschio appare più vistoso, con testa grigio chiaro, “mascherina” nera, gola bianca, dorso e

ali castane, parti inferiori sfumate di rosa, coda bianca e nera, mentre la femmina ha colori meno contrastanti, essendo bruna sulle parti superiori e grigiastra con sottili barrature scure su quelle inferiori. Il becco è forte e leggermente adunco, come quello dei rapaci. Curiosa è l’abitudine di infilzare le piccole prede sulle spine dei cespugli, comportamento che, come tutte le specie di averla, mette in atto per agevolarsi nello smembramento delle stesse e per costituire delle dispense alimentari. E’ piuttosto aggressiva anche nei confronti dei potenziali predatori, in particolare quando questi si


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avvicinano al nido, riuscendo spesso a scacciarli. L’Averla piccola può frequentare anche le siepi che bordano i coltivi e i prati permanenti, ambiente dove fino a pochi decenni orsono era uno degli uccelli più comuni. Attualmente, pare soffrire soprattutto delle potature e fresature indiscriminate delle siepi e dei cespugli, dove ama fare il nido, oltre che dell’uso di pesticidi in agricoltura. E’ una specie altamente migratrice, che sverna nelle savane dell’Africa orientale e meridionale. Giunge relativamente tardi sul nostro territorio (in maggio) e riparte abbastanza presto (in agosto).

ad ali chiuse sugli steli delle essenze vegetali ed in particolare della cannuccia di palude: infatti solo sui fusti di questa pianta la particolare colorazione delle ali anteriori risulta straordinariamente efficace nel mimetizzare l’animale. I bruchi sono di colore bianco e nero e il loro corpo è ricoperto da ciuffi di peli gialli; una volta maturi, si ritirano sottoterra per svernare.

Luscengola foto di Roberto Parmiggiani

Prati aridi Specie molto appariscente ma che si rinviene di rado è la Falena Rhyparia purpurata (Linnaeus, 1758). Questa stupenda farfalla notturna, della famiglia degli Arctidae, compie una sola generazione all’anno e i bruchi si cibano di diverse essenze vegetali fra le quali Taraxacum, Trifolium, Plantago, Galium, Achillea, Artemisia, Hieracium, Scrophularia.

Gli adulti, di medie dimensioni, si rinvengono a partire dalla fine di giugno nei pratelli aridi. Di giorno amano nascondersi stando posati

In queste stesse praterie soleggiate, soprattutto se con molti sassi e rocce affioranti, è possibile fare l’incontro con la Luscengola (Chalcides chalcides L., 1758), una curiosa lucertola con il corpo serpentiforme e gli arti molto ridotti portanti ciascuno tre minuscole dita. Lunga al massimo 50 cm, presenta una colorazione bruno-grigiastra con, a volte, riflessi metallici e con striature longitudinali più scure che decorrono dalla nuca fino alla porzione prossimale della coda. Come le comuni lucertole è in grado di rigenerare la coda quando questa viene amputata. Talvolta si serve delle sue brevissime zampe per procedere lentamente sul terreno ma generalmente le ripiega lungo i fianchi e si muove effettuando il tipico movimento dei serpenti denomina-

Falena


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Le osservazione numericamente più abbondanti si registrano nei mesi di aprile, maggio e giugno; ciò indica forse che molti esemplari tendono a passare sottoterra il restante periodo estivo in una sorta di estivazione

Biancone foto di Fabio Simonazzi

to reptazione. In caso di pericolo, inoltre, può anche infossarsi nel terreno. Estremamente agile e rapida nei movimenti, in natura non è una facile preda. Può però accadere che venga catturata occasionalmente da serpenti e da rapaci come poiane e gheppi; ma anche in questo caso può ancora riuscire a sfuggire al suo predatore grazie al fatto che le piccole squame che ricoprono il suo corpo si possono distaccare come avviene nei pesci. Già ad aprile avvengono gli accoppiamenti e le femmine partoriscono nel mese di luglio da 3 a 18 piccoli già autosufficienti. Decisamente poco amante del freddo, è possibile rinvenirla solo nelle giornate molto calde e prive di vento. Si ciba di invertebrati ed è particolarmente ghiotta di limacce e larve di formiche. Poiché difficilmente osservabile (è più facile sentirne il fruscio tra l’erba che vederla!), la luscengola è tra i pochi animali che non possiedono un nome proprio dialettale reggiano. I rettili, in particolare i serpenti, che frequentano le aree aperte erbose o con scarsa vegetazione, possono finire vittima di un possente rapace diurno, il Biancone (Circaetus gallicus Gmelin, 1788). Specializzato nella cattura degli Ofidi, presenta un piumaggio molto chiaro inferiormente, bianco con macchiettatura scura, mentre di sopra appare

di colore bruno. La testa è grossa e tondeggiante, con grandi occhi gialli. Le zampe sono grigio-bluastre. Più grande di una Poiana, ma più piccolo di un’Aquila reale, è detto anche Aquila dei serpenti. E’ specie legata ai climi caldi e piuttosto secchi, dove abbondano le sue prede preferite. Nel Reggiano è in fase di espansione, ma ancora non diffuso e lo si può osservare sui rilievi collinari e di media montagna dove le aree boscate si alternano alle zone aperte. Per la ricerca della preda, può stazionare immobile a mezz’aria, nella posizione detta “spirito santo”, atteggiamento questo tipico anche del ben più comune e diffuso Gheppio. Dopo aver individuato la preda, attua una picchiata non veloce, interrotta più volte da fasi di stallo, per tenere meglio sotto controllo i movimenti del serpente. Non è immune al veleno della Vipera e per tale motivo gli aspidi figurano raramente tra le sue catture. Dopo averli sopraffatti, è in grado di trasportare i serpenti nel gozzo, lasciando sporgere dal becco solo la coda; questi potranno poi essere consumati in un luogo più appartato.

Aree ruderali I vecchi edifici abbandonati diventano sovente rifugi ottimali per il Rinolofo minore (Rhinolophus hipposideros minimus Heuglin, 1861), tra i più piccoli Chirotteri europei: la sua lunghezza complessiva arriva appena a 6 cm, l’apertura alare è di circa 22 cm e il suo peso è compreso fra i 5 e i 9 grammi. Il mantello si presenta soffice e denso, di colore bruno con la parte ventrale più chiara. L’elemento più caratteristico di questa


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specie (e di quelle congeneri) è la foggia del naso: le narici sono circondate da una “foglia” di natura cartilaginea e priva di pelo a forma di ferro di cavallo. Queste caratteristiche escrescenze cutanee rivestono un ruolo cruciale nell’emissione degli ultrasuoni, suoni ad altissima frequenza di cui i pipistrelli si servono per orientarsi nel buio e per localizzare le loro prede, rappresentate da insetti di vario tipo. Gli ultrasuoni, infatti, una volta raggiunto un ostacolo, rimbalzano e tornano indietro, venendo così captati dalle grandi orecchie di questi prodigiosi mammiferi volanti. Dalla natura dell’eco prodotta dai propri ultrasuoni, un pipistrello è in grado di sapere il tipo di ostacolo, o di preda, che si trova davanti, “vedendo”, così, nel buio più completo. Nella bella stagione, di giorno dormono appesi alle travi dei soffitti a testa in giù con la membrana alare che li avvolge completamente, testa compresa, mentre dopo il tramonto escono in volo per cacciare insetti; le prede preferite sono falene e mosche e occasionalmente possono scendere al suolo, “camminando” sul terreno , per catturare coleotteri, ragni e scarafaggi. Durante il pisolino diurno basta un piccolissimo rumore per destarlo dal suo riposo e allora inizia a muovere il capo in tutte le direzioni e appena

ci si avvicina si invola verso un rifugio d’emergenza; se molestati possono andare soggetti ad emorragie nasali spesso letali. Gli accoppiamenti avvengono d’autunno e le femmine partoriscono in giugno-luglio un solo piccolo cieco e privo di pelo che per qualche tempo resterà saldamente aggrappato alla pelliccia della madre. Poiché i piccoli sono molto sensibili al freddo, le femmine per partorire e allevare la prole si aggregano in colonie riproduttive, anche di molte decine di esemplari, in luoghi molto caldi e protetti da correnti d’aria come i sottotetti, dove i raggi del sole, battendo sulle tegole, surriscaldano lo spazio sottostante. Nella stagione primaverile-estiva i maschi tendono invece a condurre vita isolata. Gli accoppiamenti avvengono in autunno. Non appena le temperature annunciano l’arrivo della stagione fredda i rinolofi minori si rifugiano nei luoghi dove trascorreranno l’inverno in uno stato di profondo letargo. Questi minuti animali presentano una elevata superficie corporea in rapporto alla loro piccola massa e ciò fa sì che perdano rapidamente molta acqua attraverso la traspirazione cutanea. Per questa ragione, oltre ad avere adottato abitudini notturne che li sottraggono all’esposizione dei raggi del sole, per il letargo sono costretti a rifugiarsi in luoghi molto umidi in grado di impedire o rallentare la disidratazione, come grotte, miniere e cantine umide . Nella fase di ibernazione gli esemplari restano ad una certa distanza l’uno dall’altro, diversamente da come spesso si verifica nei congeneri. Può superare i 20 anni di vita. I nomi dialettali con cui i reggiani designavano in genere i pipistrelli sono: “paipastrel”(Carpineti), “parpastrel”(Poviglio), “palpastrel”

Rinolofo minore foto di Roberto Parmiggiani

In queste colonie sono state osservate anche altre specie di chirotteri come il Rinolofo euriale (Rhinolophus euryale Blasius 1853).

Può capitare che una colonia di questi chirotteri frequenti d’estate il solaio e l’inverno la cantina del medesimo edificio. Per spostarsi sul terreno i pipistrelli usano sia gli arti anteriori che quelli posteriori; l’arto anteriore poggia unicamente sul pollice, unico dito libero dalla membrana alare.


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(Reggio Emilia, Guastalla, Castelnovo né Monti), “ulodgu”, “lódge” (Villa Minozzo, Ligonchio).

Coltivi Orbettino foto di Roberto Parmiggiani

I prati e i pascoli, specie se situati in valli fresche e umide, sono habitat frequentati dall’Orbettino (Anguis fragilis, Linnaeus 1758), una stra-

na lucertola lunga al massimo 50 cm (di cui il 60% spetta alla coda), priva completamente di zampe, che si sposta sul terreno con movimenti sinuosi e che per questo spesso viene erroneamente considerata alla stregua dei serpenti. La sua colorazione tende al bruno-grigiastro o al ramato e nelle femmine, come nei giovani, sono sempre presenti fasce longitudinali più scure. Il corpo, a sezione cilindrica, è rivestito da piccole squame lisce dotate di formazioni ossee interne che renLo strato osseo che riveste il corpo dell’Orbettino (adattamento, assieme alla perdita degli arti, alle spiccate abitudini fossorie) spesso persiste a lungo dopo la morte dell’animale che in questo modo mantiene quasi inalterate le proprie fattezze per molto tempo.

dono questo piccolo rettile piuttosto rigido nei movimenti e duro al tatto.

Perlopiù crepuscolare, l’Orbettino si ciba di invertebrati, sopratutto molluschi, che trova in abbondanza negli ambienti adatti. In primavera, in concomitanza con la stagione riproduttiva, i maschi combattono ferocemente fra loro mordendosi reciprocamente. I piccoli nascono L’orbettino è specie ovovivipara e perciò la membrana ovulare semitrasparente che avvolge inizialmente i piccoli viene lacerata già all’interno del corpo della madre o subito dopo il “parto”. L’ovoviviparità è una caratteristica comune a molti rettili che vivono in climi freddi e umidi come il Marasso e la Lucertola vivipara

già autonomi a partire dalla fine di agosto e misurano circa 8 cm. Molto longevo, sono noti esemplari allevati in cattività che hanno superato i 50 anni. Gli adulti sono territoriali e in genere solitari. Un tempo molto comune, oggi lo si rinviene sempre più di rado e ciò è imputabile anche all’aumento considerevole dei suoi predatori ed in particolare dei Cinghiali che fanno vere e proprie stragi fra i piccoli vertebrati. Le tane letargiche sono generalmente situate sotto grossi massi, sotto cataste di legna o all’interno di vecchie ceppaie. Tra i nomi dialettali raccolti nel Reggiano e utilizzati per designare tale specie vi è quello di “giasöl” (=ghiacciolo) che fa riferimento al fatto che se viene maneggiato bruscamente la sua coda si può rompere in più parti , similIn passato si riteneva che, “spezzandosi”, da ogni sua parte del corpo nascessero altri rettili

mente ad un candelotto di ghiaccio. Tra le varie credenze popolari vi è quella, non vera, che ritiene l’Orbettino molto velenoso e per di più completamente cieco ; a tal proposito vi sono dei detti dialettali come: “se gavessà la vista de sò surella (cioè


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la vipera) faré cascher l’óm da sella”, “se l’urbét agh’ vdéssa e la vépra agh’ sentéssa puvrèt l’óm che s’embàtissa”. Se si osserva attentamente la superficie dei campi coltivati, specie a fine inverno, quando la coltre nevosa si è ormai sciolta e l’erba è ancora bassa, è possibile osservare un intreccio di gallerie scavate appena sotto la superficie e larghe pochi centimetri; questi complessi e intricati sistemi di piccoli sentieri e cunicoli sono creati dalle Arvicole, dei piccoli ma molto prolifici roditori che sovente arrecano, quando presenti in gran numero, gravi danni all’agricoltura, soprattutto alle colture di cereali e agli alberi da frutto. Stretti parenti dei lemming, le Arvicole si distinguono dai “veri” topi per avere la coda molto più corta e ricoperta di pelo, le orecchie più piccole e arrotondate, il muso tozzo e arrotondato, gli occhi piccoli e le zampe molto brevi. A causa degli arti corti, le Arvicole si muovono correndo rapidamente in linea retta mentre i topi di solito si spostano compiendo saltelli

Si alimentano prevalentemente di erba e radici ma integrano volentieri la loro dieta con bulbi, rizomi, gemme, fiori, frutti, semi, funghi e, specie nel periodo invernale, con cortecce tenere. Sono dotate di una pelliccia corta, liscia e molto fitta, di colore variabile, a seconda della specie, dal bruno-grigiastro al brunorossiccio. Le femmine di Arvicola possono partorire 3-6 volte l’anno cucciolate di 2-6 piccoli, che saranno sessualmente maturi già a pochi mesi dalla nascita. Le loro popolazioni possono così raggiungere densità molto elevate nel giro di breve tempo e sono generalmente soggette a notevoli e rapide fluttuazioni numeriche in rapporto alle condizioni

climatiche e alla disponibilità alimentare. Sono attive, di solito, sia di giorno che di notte e d’inverno non cadono in letargo, ma, nonostante ciò, sono difficilmente osservabili, in quanto conducono una vita molto appartata e sono sempre all’erta; sanno infatti di costituire la più importante risorsa alimentare per moltissimi predatori, Lupo compreso. Le Arvicole sono solite delimitare i loro percorsi emettendo di continuo urina; ciò, oltre a marcare il territorio, consente loro, in caso di necessità, di ritrovare rapidamente la strada di casa. Allo stato attuale delle ricerche nella nostra provincia vivono almeno 6 specie di arvicole, alcune delle quali, come l’Arvicola di Savi (Microtus savii De Sélys Longchamps, 1836) e l’Arvicola di Fatio (Microtus multiplex Fatio, 1905)), sono più legate ad ambienti boschivi ed hanno abitudini più sotterranee, mentre altre, come l’Arvicola delle nevi (Chionomys nivalis Martins, 1842) e l’Arvicola campestre (Microtus arvalis Pallas, 1779), sono legate ad ambienti aperti come prati e pascoli.

Sembra che la presunta cecità (non la mancanza d’occhi!) di questo animale derivi da una leggenda secondo la quale l’Orbettino, venendo calpestato dalla Madonna, le si rivoltò contro mordendole il piede; per avere osato tanto, gli venne inflitto come castigo la perdita della vista.

Arvicola di Savi


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Gheppio foto di Roberto Parmiggiani

Tra gli uccelli rapaci, il più comune predatore di arvicole è il Gheppio (Falco tinnunculus Linnaeus, 1758), piccolo falco dalla colorazione casta-

na sulle parti superiori e biancastra maculata su quelle inferiori. Il maschio adulto, inoltre, si differenzia dalla femmina adulta e dagli individui giovani per avere testa e coda di colore grigio chiaro. Da esperimenti eseguiti in condizioni di cattività, si è scoperto che i maschi in realtà presentano un piumaggio di tonalità più brillanti di quanto appaia a noi esseri umani, che non possediamo la capacità di vedere nell’ultravioletto. Tutti gli uccelli, infatti, posseggono occhi dotati dell’abilità di percepire la luce riflessa dagli oggetti nella banda dell’ultravioletto, appunto, a cui noi siamo ciechi. Questo, rende alcune specie in grado di percepire le colorazioni particolari di alcuni frutti o bacche, oppure, come nel caso del Gheppio, di percepire le particolari tonalità dei piumaggi dei loro stessi conspecifici. Più un Gheppio maschio presenta un piumaggio “bello”, più facilmente verrà scelto da una femmina e potrà così “mettere su famiglia” e passare i propri geni alla prole. La vistosità del piumaggio è sempre un indice del buono stato

di salute fisica e quindi della capacità di essere un buon predatore (cosa che tornerà sicuramente utile anche alla femmina nell’allevamento dei piccoli). La femmina del Gheppio, insomma, sa per istinto (è il lungo processo evolutivo per selezione naturale che l’ha resa in grado di fare ciò) quali caratteristiche considerare nella scelta del partner. La visione nell’ultravioletto rende il Gheppio in grado di percepire anche le tracce di urina lasciate nei prati e nei coltivi dalle Arvicole, le sue prede preferite. L’urina di questi roditori, che noi percepiamo come trasparente, riflette infatti la luce nell’ultravioletto. Un Gheppio può così capire quali sono le zone più ricche di prede e dove vale la pena spendere più tempo ad aspettare che i roditori escano dai loro rifugi. Ringraziamo Roberto Parmiggiani per la disponibilità nella concessione delle fotografie e per l’aiuto nelle ricerche sul campo. Ringraziamo inoltre Fabio Simonazzi per la foto del Biancone e la Società Reggiana di Scienze Naturali “C. Iacchetti”.


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Glossario Anuro: ordine di anfibi con corpo tozzo, zampe posteriori più sviluppate di quelle anteriori e privi di coda nello stadio adulto. Autotomia: capacità posseduta da alcuni animali di automutilarsi parti del proprio corpo (es. zampe, coda); l’amputazione avviene generalmente in seguito ad una violenta contrazione muscolare in corrispondenza di un punto di minor resistenza come ad esempio le articolazioni. Bentoniche: hanno abitudini bentoniche quegli organismi acquatici che si sono adattati a vivere sul fondale. Biochimismo: l’insieme delle complesse reazioni chimiche che avvengono all’interno degli organismi viventi e che sono alla base dei processi vitali. Chirotteri: ordine di mammiferi volanti, comunemente noti col nome di pipistrelli. Ciuffi auricolari: sono così detti i ciuffetti di penne posseduti sulla testa da alcune specie di rapaci notturni, come i gufi. Lungi dall’essere delle vere orecchie (i meati uditivi sono infatti situati ai lati della testa

e sono nascosti da penne e piume), hanno una funzione nella comunicazione sociale (vengono sollevati quando l’animale è in allarme) e forse nel mimetismo (per rompere la sagoma troppo arrotondata della testa negli ambienti boschivi ricchi di elementi verticali, i tronchi degli alberi). Colorazione criptica: che rassomiglia all’ambiente circostante, in modo tale che l’animale che la possiede si mimetizza alla vista. Endemita: entità specifica propria ed esclusiva di una determinata regione geografica. Più frequentemente viene usato come sinonimo il termine “endemismo”. Esoscheletro: struttura esterna rigida conformata a corazza che protegge l’animale e al tempo stesso sostiene gli organi molli interni; è tipico degli artropodi. Estivazione: adattamento che permette a molti animali e piante di sottrarsi a condizioni ambientali sfavorevoli e che consiste nel rallentare le attività metaboliche entrando, durante la stagione calda, in uno stato letargico. Faggiole: i frutti del faggio anche denominati faggine, eduli e dotati di un caratteristico involucro capsulare


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Una nuova area protetta: Paesaggio naturale e seminaturale Protetto della Collina Reggiana - Terre di Matilde di Alessandra Curotti Geologo, ha orientato la propria formazione verso tematiche connesse alla tutela e valorizzazione degli aspetti ambientali, con particolare riferimento alle Aree Protette maturando la propria esperienza lavorativa presso diversi Enti: il Parco Regionale del Gigante, la U.O. Aree Protette e Paesaggio della Provincia di Reggio Emilia, la Comunità Montana dell’Appennino Reggiano, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano – Guida Ambientale Escursionistica

Ora la valle del Torrente Tassobbio, così ricca di valori naturalistici, geologici, storici e culturali, fa parte del Paesaggio naturale e seminaturale Protetto della Collina Reggiana Terre di Matilde. Dopo un percorso complesso, avviato nel 2007, è infatti arrivata a compimento l’istituzione di questa nuova tipologia di area protetta (Delibera di Consiglio Provinciale n.111 del 23 giugno 2011). La L.R. 6/05 definisce i Paesaggi protetti come “aree con presenza di valori paesaggistici diffusi, d’estensione anche rilevante e caratterizzate dall’equilibrata interazione di elementi naturali e attività umane tradizionali in cui la presenza di habitat in buono stato di conservazione e di specie risulti comunque predominante o di preminente interesse ai fini della tutela della natura e della biodiversità”.

Il Paesaggio Protetto rientra tra le categorie IUCN (International Union for Nature Conservation); diffuso all’estero, ma non ancora sperimentato in Italia, può essere attuato in quelle aree nelle quali è ancora possibile leggere una secolare integrazione tra attività umane e sistema naturale. Il Paesaggio Protetto della Collina Reggiana - Terre di Matilde istituito e gestito dalla Provincia di Reggio Emilia è di area vasta: comprende buona parte della zona collinare, con una superficie di oltre 20.000 ha. Hanno aderito a questa nuova area protetta, la maggior parte della quale ricade nel territorio della Comunità Montana dell’Appennino Reggiano, i comuni di Albinea, Baiso, Canossa, Casina, Castelnovo ne’ Monti, San Polo d’Enza, Scandiano, Vetto, Vezzano sul Crostolo e Viano.


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La fascia collinare considerata è compresa tra i 200 e i 700 m.sl.m. ; l’assetto morfologico è determinato dalle dinamiche fluviali dei Torrenti Tresinaro, Crostolo e Tassobbio: di quest’ultimo, con i suoi tratti apparentemente controcorrente, causati da successivi fenomeni di cattura fluviale, si tratta ampiamente in questa pubblicazione. La geodiversità di quest’area è ben rappresentata: dalle ofioliti, con i didattici basalti a pillow, di Rossena e Campotrera, al vulcanetto di fango delle Salse di Regnano; dalla rupe arenacea di Canossa, bell’esempio di erosione residuale, ai suggestivi ed inquietanti calanchi; dalle morfologie carsiche dei gessi messiniani ai “muri del diavolo”, gli strati arenacei verticali di M. Duro. Tutta l’area è caratterizzata da un’ampia diversità e repentina variabilità di ambienti: dalle coperture boschive a querceto misto, alle coltivazioni a foraggio per il Parmigiano Reggiano; dai castagneti alle boscaglie di pino silvestre, oltre ad una rete di castelli, pievi, borghi, oratori, mulini, torri, antiche strade, che nel loro insieme costituiscono le tracce più evidenti dell’importante retroterra storico-culturale della collina reggiana, cuore del sistema delle terre di Matilde di Canossa.

Elevati valori di naturalità caratterizzano il paesaggio protetto della collina reggiana, che include la Riserva Naturale Regionale “Rupe di Campotrera” e ben 6 SIC (Sito di Interesse Comunitario) di Rete Natura 2000, la rete ecologica europea, con importanti presenze di habitat e specie di flora e fauna.Tutta l’area è percorsa da una fitta rete di percorsi escursionistici CAI, con ampi tratti dei sentieri provinciali dei Ducati, Spallanzani e Matilde, fondamentali per una fruizione maggiormente consapevole e per forme di “turismo dolce”. Il Paesaggio Protetto della Collina Reggiana - Terre di Matilde è appena nato, ma può rappresentare un nuovo modello organizzativo, una regia, per una credibile valorizzazione del territorio di particolare pregio e quindi ad alta vulnerabilità; può essere uno strumento per indirizzare lo sviluppo e la riqualificazione di realtà economiche (agro-alimentare, turismo e servizi connessi, attività culturali ed ambientali , settore forestale…) e di interventi (il recupero del patrimonio edilizio, la mitigazione di quello incongruo….) in modo sostenibile, preservando i valori ambientali e storico-culturali presenti.


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Il libro si ferma al giungere dei Canossa, prima di Matilde. Sugli eventi nel territorio della Val Tassobbio durante la vita di Matilde di Canossa, ed anche degli anni seguenti, esiste già numerosa ed interessante saggistica. Chi desidera conoscere la storia di quel periodo non ha che da scegliere. Questo libro abbraccia una dimensione del tempo quasi indefinibile su ciò che si pensa sia accaduto nella Valle del Tassobbio e nelle sue vicinanze. Non esiste altra pubblicazione nel merito ed ha richiesto particolare impegno e molto lavoro. E’ stato possibile portarlo a compimento grazie alla volontà della Pro Loco di Cortogno ma soprattutto alla determinazione di Davide e Piero che per due anni hanno fermamente creduto nella possibilità di aggiungere un tassello importante per far conoscere il territorio, la vita e la storia della Val Tassobbio. La fortuna, però, è stata quella di avere un amico come James Tirabassi “il timoniere” attento a che la “rotta” dello studio, della ricerca e della testimonianza non venisse deviata dal vento della fantasia. Infine il sostegno di Stefano Landi: una importante sensibilità che ha le sue origini materne in questo territorio e fra questa gente.

Foto: Ansgar Hoffmann, 2005


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Foto: Danilo Costoli


La Val Tassobbio è una piccola “enciclopedia” geologica, storica e naturalistica che tutti noi possiamo sfogliare, apprezzare, nella speranza che l’intera valle, ma soprattutto l’intero corso d’acqua, che lungo i suoi 21 Km attraversa 5 Comuni, possa essere maggiormente tutelato, valorizzato e attrezzato con una rete sentieristica ben organizzata

Ecco cosa troverai all’interno Introduzione geologica della Val tassobbio di Silvia Chicchi Origini morfologiche e catture fluviali nella valle del Tassobbio di Sergio Guidetti Preistoria e Protostoria nella valle del Tassobbi di James Tirabassi Topografia storica del bacino del Tassobbio fra l’età romana ed alto medioevo di Nicola Cassone La valle del Tassobbio - l’ambiente vegetale di Villiam Morelli La valle del Tassobbio - La fauna di Luca Bagni e Massimo Gigante La valle del Tassobbio è area protetta di Alessandra Curotti

La Valle del Tassobbio La vita nei secoli prima dei Canossa

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La Valle del Tassobbio La vita nei secoli prima dei Canossa con saggi di: Nicola Cassone, Silvia Chicchi, James Tirabassi, Sergio Guidetti, Villiam Morelli, Massimo Gigante e Luca Bagni


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