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Stile, cultura e divertimento
STILISTI IN CERCA DI LOCATION E PAVONI CON L'ESIGENZA DELLA VISIBILITÀ: ANEDDOTI E CARATTERISTICHE DI EVENTI IRRIPETIBILI.
Stile, cultura e divertimento
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DI ANTONIO MANCINELLI
QUELLA VOLTA CHE a giugno 2017,
Jonathan Anderson, in giro per Firenze a cercare luoghi adatti dove esibire la sua collezione (JW Anderson), arrivato in piazzale Michelangelo — da cui si ammira uno tra i più bei panorami del mondo — esclamò: «Dovrei sfilare in un parcheggio?!» (poi scelse Villa La Pietra, sede del campus della New York University). Quella volta in cui Hedi Slimane, ora designer di Celine ma nel 2002 firma-prodigio di Dior Homme, volle installare dentro la Stazione Leopolda una riproduzione in scala 1:1 della Galerie des Glaces de Versailles per cui si resero necessarie, immerse nell’oscurità, 34 porte in acciaio inox alte sei metri, larghe tre e spesse uno (il tutto per una spesa esorbitante) e il pubblico chiedeva «dove sono i vestiti?» rischiando, accecato dall’assenza di luce, di inciampare negli spigoli. Quella volta che Walter Van Beirendonck, nel 2008, nel giardino del museo di Villa Stibbert, con puntualità belga, aveva vestito e truccato da fauni i modelli con grandi barbe di cera che si sciolsero per il ritardo e il caldo, tutti e due spaventosi. Però, però. Anche quella volta in cui Virgil Abloh, recentemente scomparso, nel 2017 introdusse per la prima volta in Italia la linea Off-White davanti a Palazzo Pitti mentre si svolgeva il Maggio Fiorentino, i cui concerti fecero da involontaria colonna sonora e resero magica, indimenticabile e italianissima quella serata. O quando, a gennaio 2019, Glenn Martens per Y/Project presentò la sfilata nel chiostro di Santa Maria Novella completamente al buio perché non c’erano fondi per l’illuminazione e allora ogni ospite venne dotato di una torcia, illuminando durante il percorso per andare al posto l’immenso Crocifisso di Cimabue, cosicché tutti pensarono a una trovata scenografica geniale. O ancora, l’idea di Romeo Gigli che utilizzò gli abitanti del quartiere di San Nicolò per farne i modelli del suo corteo di stile, nel 1991. Per non parlare dei grandi debutti (Dries Van Noten, Roberto Cavalli, Viktor & Rolf ), gli anniversari (lo show G. A. Story di Giorgio Armani con la regia di Bob Wilson, nel 1996) le ultime apparizioni (il défilé di Versace pochi giorni prima di essere ucciso), l’unica sfilata in Italia (Yohji Yamamoto, Rodarte, Cottweiler).
AD ASCOLTARE Lapo Cianchi, direttore comunicazione ed eventi e Francesca Tacconi, responsabile dei progetti speciali e coordinatrice eventi,
Un rappresentante dei «Pitti Peacocks», i pavoni del Pitti, in posa per i fotografi alla Fortezza da Basso.
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Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli nel backstage della sfilata dell'11 gennaio 2012 per la loro collezione maschile per Valentino. Guillaume Meilland e Paul Andrew, autori del menswear di Salvatore Ferragamo alla fine della sfilata in piazza della Signoria l'11 giugno 2019.
Jeremy Scott nel finale della sfilata Moschino il 18 giugno 2015.
Gianni Versace, Naomi Campbell e Donatella Versace a Firenze per la sfilata nell'Anfiteatro del Giardino di Boboli, aperta da un balletto di Maurice Béjart, il 26 giugno 1997.
Marco de Vincenzo alla sfilata del 12 giugno 2019.
Lucie e Luke Meier in passerella alla fine della sfilata Jil Sander l'8 gennaio 2020.
IMA GES TY GET
c’è da ridere e da commuoversi per la sterminata aneddotica sulle «guest star» invitate a Firenze durante il Pitti con performance ideate ad hoc. «Quando li chiamiamo» dice Tacconi, «si dimostrano in genere molto lusingati e cooperativi, tanto da trovare soluzioni creative perfino se le finanze scarseggiano. Per sceglierli, prima di tutto ascoltiamo suggerimenti delle persone di cui ci fidiamo: a cominciare da Antonio Cristaudo, responsabile marketing del gruppo Pitti Immagine, per brevità Mr. Pitti, un viaggiatore tra le diverse fashion week del mondo, ma che ha trovato sempre nomi nuovi, ad esempio il sudafricano Thebe Magugu, a giugno 2020, ha inaugurato la prima edizione a riaprire tra un lockdown e l’altro. È interessante che siano proprio i nomi più giovani o che vengono da realtà lontane a cercare i luoghi dove vibra di più la storia della città, dove si sente di più la presenza del passato. Può sembrare strano, ma non lo è. Firenze mette in rilievo una specificità identitaria del singolo creatore che vive in un contrasto felice con l’ambiente circostante. A tutti loro viene dedicato tempo e attenzione: è proprio la disponibilità di avere una serata tutta per sé a renderli così felici».
S’INCROCIANO suggestioni estetiche, sonore, visive, artistiche: una tempesta di stimoli che poi si ritrovano nelle vie, nelle piazze, nelle stradine della città che si trasforma in un palcoscenico dove si riversano signori che, uscendo dalla cittadella fieristica, competono per look stravaganti in modi strani, in contrapposizione ad aspiranti dandy che vestono abiti formali in un colore, una sorta di cobalto, un Bleu Royal, che si trova solo qui, e ha determinato la nascita della razza vanitosa di maschi nota come i «Pitti Peacocks» (pavoni di Pitti). Si accalcano come ippopotami all’abbeveratoio, col nodo della cravatta bello consistente, nella piazzetta della Fortezza da Basso, al solo fine di farsi fotografare. E questo da molto, moltissimo tempo, prima che nascessero i fotografi di streetstyle, gli influencer, e le icone più rappresentative di stile, in un crescendo di narcisismo che, chissà, forse è stato anche all’origine del tema di quest’anno: Reflections, illustrato da un video e dalle foto dei Narènte, cioè Lucio Aru e Franco Erre, duo di artisti sardi che vivono in Germania: «L’idea nasce a Kreuzberg, in una libreria che si chiama Motto. Lì ho comprato un libretto dedicato alle opere dell’artista Eric Oglander, che lavora con specchi disposti nel centro di paesaggi a duplicare o nascondere la realtà. Lo specchio come tema del doppio, del riconoscersi, dell’identità propria e dell’altro, segno contraddittorio che è inganno, illusione, alterazione, vanità, narcisismo, voyeurismo, evasione. Ma anche nuovi sguardi, altre prospettive, rifrazioni impreviste» riferisce il direttore generale di Pitti Immagine Uomo, Agostino Poletto. «Certo c’è anche l’esercizio della riflessione, della ripartenza che comporta il mettersi in gioco, il non addormentarsi mai sugli allori» continua. C’è da dire che a Pitti da sempre si sperimentano nuove formule per mostrare la moda senza per forza né cristallizzarla in un ambiente museale, né spettacolarizzarla in vetrina di ciò che gli uomini indosseranno tra un anno: dalla Stazione Leopolda, teatro di esposizioni fondamentali, alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti, dalla semisconosciuta Villa Palmieri all’Istituto di Scienze Militari Aeronautiche, l’intera città diventa un luogo anche dell’immaginario che ridefinisce le relazioni tra circostanza commerciale e contesto culturale, confermando la perspicacia mercantile rispetto alla staticità delle istituzioni. «Cercando di seguire le evoluzioni del vestire maschile vogliamo “stare sul pezzo”: quando, negli anni Novanta, abbiamo capito che sempre più la moda s’ispirava all’arte contemporanea, si è deciso che aggiungere alla fiera dei momenti dove convergessero menti creative non solo dalla moda ci avrebbe legittimato anche presso una nuova generazione di stilisti, che già avevano iniziato a stabilire quel dialogo: persone che facevano da ponte tra varie forme di espressività» assicura Cianchi. «Abbiamo tentato di concentrare le provocazioni e i mutamenti creativi in una città che diventasse un centro propulsivo di energie». A quali è più affezionato? «A quelli con Raf Simons, Jun Takahashi di Undercover, Rick Owens, Martin Margiela. Con molti si sono attivati circuiti di confronto necessario con storie parecchio diverse: la moda è un enorme estuario dai piccoli e preziosi affluenti che portano anche acqua purissima».
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