CIAOPRAGA Volume 8

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volume 8

CIAOPRAGA

arte, cultura e lifestyle


Ciao Praga Magazine

Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle

Volume 8 /// novembre - dicembre 2017

Redazione

Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Vice Direttore Laura Di Nitto Collaboratori

Alessandro Battaglia Paola Caronni Paolo Del Monte Raffaele De Pascalis Laura Di Nitto Giuseppe Gatta Flavio R.G. Mela Marisa Milella Alessia Moretti Andreas Pieralli Eleonora Potenziani Silvia Succi Roberto Vinci

Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com In copertina:

Bergamo e la neve (dettaglio), dipinto di Albina Peron (www.albinart.com)

Crediti fotografici

Immagini per gentile concessione di: Danilo De Rossi p. 3, 91 Uff.Stampa Comune di Bergamo p. 7 Ambasciata d’Italia in Repubblica Ceca p. 18 GaMEC p. 21, 23, 24-25, 27 Marisa Milella p. 34 Università di Bergamo p. 37, 41 Laura Di Nitto p. 40 Gariwo p. 43, 45 Andreas Pieralli p. 49 Roberta Krasnig p. 51 Eleonora Potenziani p. 60 Paolo Del Monte p. 65 Alessia Moretti p. 70 Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese p. 73, 75, 77 Roberto Vinci p. 79 Raffaele De Pascalis p. 87 Giuseppe Gatta p. 90 Alessandro Battaglia p. 93 Flavio R.G. Mela p. 107 Paolo Gallo p. 109, 115 Paola Caronni p. 113 Alessio Conton p. 117 Presidenza del Consiglio dei Ministri p. 123, 127, 128-129 Consolato Onorario d’Italia a Brno p. 131 Istituto Italiano di Cultura a Praga p. 134 Dal Web: p. 11, 13, 14-15, 16-17, 19, 29, 31, 35, 47, 55, 57, 59, 61, 63, 66-67, 69, 71, 81, 84-85, 89, 97, 101, 104-105, 110-111, 118-119, 121

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LETTERA DEL DIRETTORE

Gentili Lettori, lavorare a questo volume è stato particolarmente emozionante: si tratta, infatti, dell’ultimo numero della rivista. Il nostro non è un addio, ma un arrivederci. Il blog di CIAOPRAGA rimarrà attivo e potrete continuare a seguirci attraverso le varie reti sociali ma l’avventura della rivista si ferma qui. Stiamo però lavorando ad un nuovo, eccitante progetto che vi presenteremo nei prossimi mesi. Per ora, desidero solo rivolgere un caloroso ringraziamento a tutti coloro che ci hanno permesso di giungere fin qui. Questo volume saluta un 2017 che, per CIAOPRAGA, è stato ricco di eventi e di successi. Un anno in cui ci siamo divertiti a scoprire i moltissimi legami tra la Repubblica Ceca e le magnifiche città italiane raccontate: Torino, Trieste, Lucca e la Toscana, Palermo, Roma, Parma e dulcis in fundo, nelle prossime pagine, la pittoresca Bergamo. A farci esplorare il capoluogo orobico è un suo illustre cittadino ed una guida davvero d’eccezione: S.E. Aldo Amati, Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca che, nella rubrica Il Bel Paese, ci racconta la sua città natale. Come sempre, non mancano gli incontri con personaggi speciali, in una serie di piacevoli interviste: Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori; il direttore del Gamec Lorenzo Giusti; il Rettore dell’Università di Bergamo, Remo Morzenti Pellegrini; l’attore e regista Giorgio Pasotti; gli italiani a Praga Alessandro Battaglia ed Alessio Conton; il nuovo Console di Brno, Pavel Zezula, e l’italiano nel mondo Paolo Gallo. Ritroviamo, inoltre, le consuete rubriche enogastronomiche: Paolo Del Monte, chef bergamasco in Australia, scrive sulla cucina della sua città, mentre Alessia Moretti ci delizia con la Torta Donizetti e Roberto Vinci ci fa scoprire la Bonarda perfetta. Da poco le mura di Bergamo sono state proclamate patrimonio Unesco ma la tradizione artistica e culturale della città ha radici profonde, che si sono estese fino a raggiungere Praga: da Caravaggio a Donizetti; dal genio della moda, Trussardi, al progetto del Giardino dei Giusti; fino alla corsa di auto storiche che, nella prossima primavera, partirà da Bergamo per giungere fino alla capitale boema. Volgendo lo sguardo verso Brno, Flavio Mela parla di Silvio Pellico che, nella fortezza dello Spielberg, proprio nel cuore del capoluogo moravo, scrisse “Le mie prigioni”. Infine, una breve riflessione sulla visita di Gentiloni a Praga, lo scorso settembre. Buona lettura! Stefania Del Monte


CONTEN UTI Giorgio Gori

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Sindaco di Bergamo

La mia Bergamo

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Un incantesimo tranquillo e pacificatore

Lorenzo Giusti

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Direttore della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo

Michelangelo Merisi (detto il Caravaggio)

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Gli inizi di una vita breve e travagliata

Remo Morzenti Pellegrini

36

Magnifico Rettore dell’Università di Bergamo

I giardini dei Giusti

42

Gariwo e la forza della memoria del bene

Giorgio Pasotti

50

Attore e regista

Trussardi

56

Moda italiana da quattro generazioni

La cucina bergamasca Tra polenta e casoncelli, in un’esplosione di sapori

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La torta Donizetti Una dolce leggenda bergamasca

72

La bonarda perfetta Un nuovo capitolo di qualità dell’Oltrepò Pavese

80

Gaetano Donizetti Compositore e operista

88

Da Bergamo a Praga in auto d’epoca Due città, quattro ruote e tanta magia

92

Alessandro Battaglia Amministratore Delegato di AhRCOS

96

Spielberg 1822-1830 Storie di umanità “al di qua” e “al di là” nelle prigioni di Silvio Pellico

108

Paolo Gallo CHRO al World Economic Forum, Autore e Transformational Coach

116

Alessio Conton Amministratore Delegato per l’Europa Centrale ed Orientale presso SIAD

122

Gentiloni visita Praga Incontro con Sobotka e tappa alla Cappella degli italiani

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Pavel Zezula Console Onorario d’Italia a Brno


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L’INTERVISTA

Giorgio Gori

Sindaco di Bergamo

A cura di Stefania Del Monte

Giorgio Gori è nato il 24 marzo 1960 a Bergamo, dove vive con sua moglie Cristina e i suoi tre figli: Benedetta, Alessandro e Angelica. Ha frequentato il liceo classico “Paolo Sarpi” ed ha partecipato attivamente alla vita politica della scuola con il gruppo “Azione e Libertà”. Si è poi iscritto ad Architettura, al Politecnico di Milano, dove si è laureato con una tesi di urbanistica. Per diversi anni, mentre ancora studiava, ha fatto il giornalista, finché nel 1984 è approdato in tv, prima a Retequattro e poi a Canale 5. Nell’89 gli è stata affidata la responsabilità dei palinsesti delle tre reti Mediaset e nel ’91 la direzione di Canale 5. Dal ’96 al ’98 ha diretto Italia 1, e dal ’98 nuovamente Canale 5. Nella primavera del 2001 ha lasciato Mediaset, dopo 17 anni, per fondare una nuova società di produzione, Magnolia, con Ilaria Dallatana e Francesca Canetta. In pochi anni ne hanno fatto una delle più importanti realtà italiane del settore.

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Oggi, dopo l’acquisto da parte di De Agostini, Magnolia è parte di Zodiak Media Group, il terzo gruppo al mondo per la produzione di contenuti. Nell’autunno 2011, Gori ha nuovamente deciso di voltare pagina. Ha lasciato Magnolia e ha scelto di dedicare tempo ed energie all’attività politica. Nel 2012, a Bergamo, insieme ad alcuni amici, ha costituito la Fondazione “InNova Bergamo”, con l’obiettivo di approfondire i temi che riguardano il presente e il futuro della sua città. Nel 2013, ha partecipato alla campagna che ha portato Matteo Renzi alla segreteria nazionale del Partito Democratico. È azionista e consigliere di amministrazione di Microventures, società che opera nel settore del microcredito in India e in Indonesia, ed è tra i soci fondatori de “Il Post”, il giornale online diretto da Luca Sofri. Ama leggere e andare al cinema, gli piace fotografare e tifa per l’Atalanta. Dal 9 giugno 2014 è Sindaco di Bergamo. Dott. Gori, lei è nato e cresciuto a Bergamo. Cosa ha provato nel diventare Sindaco della sua città? Una grande emozione. Anche una liberazione dopo una campagna elettorale lunga e particolarmente intensa. È un lavoro davvero bellissimo, ma è anche forse il più impegnativo che abbia mai fatto, un lavoro che assorbe tantissime energie e che porta a dedicarsi ai problemi della città e dei cittadini 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Giornalista, produttore televisivo, imprenditore, laureato in Architettura. Che cosa l’ha spinta, pur avendo una vita già intensa e ricca di soddisfazioni, a dedicarsi alla politica? È stata la voglia di mettersi in gioco, mentre il nostro Paese non andava come tutti speravamo andasse. Ho pensato di avere qualcosa da dare, di poter mettere le mie energie al servizio degli altri e che avrei voluto impegnarmi in prima persona e non stare più a guardare. Se dovesse convincere un turista a visitare Bergamo, che cosa gli direbbe? Che Bergamo lo sorprenderà sicuramente. Non solo è una delle città più belle del Nord Italia, quasi un pezzo di Toscana collocato al centro della Lombardia, ma il suo territorio è estremamente ricco di storia, di cultura e di cose da fare. Il lago a poche decine di chilometri, le montagne per andare in bicicletta, a fare trekking o sciare, un’offerta eno-gastronomica genuina e autentica. Non si rimarrà delusi.

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Grazie all’iniziativa “Abbraccio delle Mura”, da lei promossa insieme al Presidente della Provincia, Matteo Rossi, Bergamo è entrata ufficialmente, il 3 luglio 2016, nel Guinness dei Primati. Un record sigillato, nel luglio 2017, con l’inclusione delle mura nel patrimonio Unesco. Quali saranno i prossimi passi della sua amministrazione, per valorizzare ulteriormente il patrimonio artistico e culturale della città a livello internazionale? L’abbraccio delle Mura e l’inclusione di Bergamo tra i patrimoni dell’UNESCO rappresentano un punto di partenza per la nostra città, che sta facendo il grande sforzo di aprirsi al mondo e sfruttare anche le potenzialità che lo scalo di Orio Al Serio (il terzo in Italia per numero di passeggeri all’anno) offre al nostro territorio. Continueremo a lavorare per valorizzare l’identità di Bergamo senza snaturarla, puntando sul patrimonio culturale e storico che la città offre: mostre di respiro internazionale (come quella dedicata a Raffaello, in programma nel gennaio 2018), la valorizzazione del Donizetti Opera (Gaetano Donizetti è nato a Bergamo ed è uno dei cinque compositori più eseguiti al mondo) e della Donizetti Night (un appuntamento unico nel suo genere, in programma il 16 giugno 2018, con centinaia di artisti e musicisti per le strade di Bergamo), sono tasselli fondamentali per rendere la città attrattiva e sempre più internazionale. Un sondaggio del 2016 l’ha proclamata il Sindaco più amato d’Italia. Quali aspetti, a suo avviso, hanno influenzato l’opinione pubblica? I sondaggi lasciano sempre il tempo che trovano e non bisogna fidarsene troppo. Possono far piacere certi riconoscimenti, ma non valgono granché. Qualunque risultato ci consegnino, so di dover continuare a lavorare con il doppio dell’impegno. Bergamo e Praga: due città sempre più vicine. Nella primavera scorsa è stato firmato un Memorandum of Understanding tra l’Università degli Studi di Bergamo e l’Università Carolina, mentre per il 2018 si sta preparando una corsa speciale Bergamo-Praga, con auto storiche. Anche i collegamenti aerei sono stati recentemente intensificati. Si prevedono altre iniziative, per suggellare questa bella amicizia? Penso che quel che si è fatto sia un buon inizio. La nostra Università è stata spesso decisiva nel processo di apertura e internazionalizzazione della città e credo che anche in questo caso le vadano riconosciuti i giusti meriti. Per quel che riguarda i rapporti tra le nostre città, diciamo che abbiamo piantato semi che iniziano a germogliare: cercheremo di farli crescere.

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È mai stato a Praga? Pensa di tornarci un giorno? Sono stato a Praga diversi anni fa ormai. Non ho mai pensato che non ci sarei potuto tornare. Un’ultima domanda. Forse lei può aiutarci a sciogliere il dubbio: Caravaggio era bergamasco o milanese? Non penso di essere la persona più adatta a sciogliere questo dubbio: decine di storici si cimentano anno dopo anno nella ricerca delle radici di Caravaggio e credo che, per diversi anni ancora, non avremo una risposta. Poco importa comunque: un artista come Caravaggio è sempre patrimonio di tutti, al di là del luogo di nascita. Contatti: comune.bergamo.it

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Palazzo della Ragione


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IL BEL PAESE

La mia Bergamo

Un incantesimo tranquillo e pacificatore

A cura di S.E. Aldo Amati, Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca

“Terra ampia, sublime e profonda… la fama tua pur si rischiara”. Così Torquato Tasso su Bergamo, ma innumerevoli sono i “cantori” illustri della città, tra cui Stendhal, Foscolo, D’Annunzio. Ma anche Lotto, Donizetti, Colleoni, Palma il Vecchio, Manzù, sono tutti emanazione di Bergamo e delle sue virtù artistiche, che si assommano a una imprenditorialità diffusa, a uno spirito concreto e testardo, a una grande generosità poco esibita. E mai alcune pulsioni di chiusura, al limite della xenofobia, provenienti dalle valli che la circondano, l’hanno contaminata. Al contrario, è dalla città che sono partiti impulsi all’apertura rispetto al diverso, alla solidarietà, all’aiuto volontaristico. La città dall’alto si erge con le sue mura inconfondibili, offrendo panorami sul vasto orizzonte sottostante che la traghettano verso la pianura e verso la metropoli milanese. Proprio queste mura sono parte della “mia” Bergamo, del mio lessico familiare, della mia educazione, che mi ha portato a frequentarle per quasi dieci anni: quelli del mio liceo e del primo “viaggio” universitario.

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Carlo IV, Scena delle reliquie (dettaglio), Basilica Santa Nicholas Maria Wurmser, MaggioreKarlstejn e Cappella (circa Colleoni 1361-64) 13


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Del resto, quante volte mi è stata rivolta la stessa domanda: “Ma sei di Bergamo Bassa o Bergamo Alta?”, spesso cercando di pronunciare le parole in bergamasco, facendomi sorridere per lo storpiamento di un dialetto così disprezzato per la sua impervia comprensibilità, ma così ricco di influenze straniere e di arguta saggezza secolare. Nei miei anni giovanili ho vissuto equamente le due realtà urbane. La Città Alta è come una vecchia signora dal lignaggio impeccabile, di una bellezza evidente, in qualche misura sfiorita, ma sempre seducente. All’interno delle mura, che hanno anche recentemente trovato nuova dignità entrando nel Patrimonio dell’UNESCO, si ammassano gioielli dell’arte veneta, vicoli ricchi di fascino e di artigianato locale, aperture su panorami mozzafiato. “Piazza Vecchia” e la sua Biblioteca, il liceo classico Paolo Sarpi (e la disciplina dei suoi insegnanti), le colline incastonate di ville della ricca borghesia che circondano quei luoghi: sono queste le tracce dove si è formata una parte importante del mio “sentire” bergamasco.

Piazza Vecchia

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Epoche e stili differenti, allo stesso tempo tanto complementari quanto contrastanti, si fondono nella sintesi straordinaria di Bergamo Alta, che appare a chi si avvicina un incantesimo tranquillo e pacificatore. Ma dietro a tutto ciò si avvertono secoli di storia, il conflitto tra Milano e Venezia, gli interventi architettonici quattrocenteschi e cinquecenteschi dei podestà veneziani che lasciano senza fiato. Bergamo Alta sembra guardare con superiorità in basso alla Città nuova che è a sua volta sinonimo di concretezza, di spirito imprenditoriale, di quella ostinata abnegazione produttiva e industriale che l’ha portata a godere di un’opulenza borghese da sempre invidiabile, messa a dura prova forse soltanto dalla crisi recente. E proprio da questo “humus” pervaso anche di divertimento e di godimento della vita, ho assorbito la capacità di rimettermi in gioco, di apprezzare quanto mi è stato dato, di perseguire ostinatamente il sogno di girare il mondo alla ricerca di interlocutori e stimoli sempre nuovi. Se dovessi trasfigurare la mia Bergamo in un animale,

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non potrei che accostarla ad un’aquila che dalle guglie del Duomo, del Palazzo della Ragione, dalle mura veneziane che rappresentano il suo imprescindibile retroterra, si alza in volo verso l’ignoto, il diverso, con una capacità di cogliere opportunità senza eguali. Dopo quasi trent’anni di “peregrinare” estero e di soggiorni romani, il periodico rientrare a Bergamo mi ha messo di fronte a una città multiculturale profondamente rinnovata dall’innesto di etnie diverse che, malgrado alcuni contrasti, rappresentano il futuro della città. Questa “promiscuità” evidente mi sembra riecheggiare in qualche modo l’essenza dell’essere bergamasco e, cioè, la capacità nel corso dei secoli di essere pronti a ricostruire con tenacia e senza troppo rumore ciò che non esiste più. In questo caso, dobbiamo farlo con grande apertura mentale con un nuovo “materiale umano” capace di integrarsi, con la consueta, imprescindibile ostinazione. Bergamo come un riuscito “melting pot” più forte e vitale? È la sfida da vincere.

S.E. Aldo Amati è Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca dal 2014. Nato a Bergamo nel 1958, ha conseguito una laurea in Lingue e Letterature straniere presso l’Istituto Universitario di Bergamo ed una seconda laurea in Scienze Politiche presso l‘Università di Milano. In carriera diplomatica dal 1987, ha lavorato a Mosca, Londra, Washington e Tokio, oltre ad aver ricoperto diversi incarichi alla Farnesina. www.ambpraga.esteri.it 18


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Fontana Contarini


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ARTE

Lorenzo Giusti

Direttore della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea (GaMEC) di Bergamo

A cura di Stefania Del Monte

Nato

1977, Lorenzo Giusti è storico dell’arte contemporanea ed esperto in gestione museale. Ha studiato nelle Università di Firenze, Paris VIII, New York e Siena, dove ha conseguito il diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca in storia dell’arte. Autore di monografie e saggi sull’arte e la critica del XX e del XXI secolo, è stato direttore artistico del Centro EX3 di Firenze e curatore di numerosi progetti d’arte contemporanea, tra i quali Maria Lai. Ricucire il mondo (2014); Passo a due. Le avanguardie del movimento (2014); La Galassia di Arp (2014); The Camera’s Blind Spot (2013); Suspense. Sculture sospese (2011); Green Platform. Arte, Ecologia, Sostenibilità (2009). Docente a contratto presso l’Università di Sassari nell’ambito del Master in Diritto ed Economia della Cultura e dell’Arte (Decamaster), ha tenuto seminari e conferenze su aree di interesse interdisciplinare (storia e fenomenologia dell’arte contemporanea, museologia, nuove pratiche curatoriali). Curatore del padiglione della Toscana all’Expo di Shanghai, è stato nominato direttore della GAMeC di Bergamo nel luglio 2017, dopo aver ricoperto, a partire dal 2012, il ruolo di Direttore del Museo Man di Nuoro. Il suo incarico durerà fino al 2020, con possibilità di un ulteriore rinnovo triennale. a

Prato

nel

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Tempio di Arcadia, Parco Ducale


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Direttore, ha studiato arte nella sua bellissima terra d’origine, la Toscana, ma anche in contesti internazionali, come Parigi e New York. Qual è la lezione più importante che ritiene di avere appreso, nel suo percorso di studi? Che bisogna avere metodo ma talvolta anche saperlo rompere. Quello che non deve mai mancare è la prospettiva, che conta più degli obiettivi, soprattutto quando si indagano i linguaggi della nostra contemporaneità. È arrivato a Bergamo in seguito ad un’esperienza molto positiva alla direzione del MAN, il museo d’arte della provincia di Nuoro. Dopo essersi lasciato alle spalle il sole ed il mare della Sardegna, come è stato l’impatto con il capoluogo orobico? Entrerò in carica a gennaio del prossimo anno, non posso quindi parlarle dell’impatto con la città perché deve ancora avvenire. Conosco però Bergamo sufficientemente, avendola visitata tante volte, per dire che si tratta di una città sorprendente, al centro di un territorio vivo e stimolante, con un felice connubio tra verde e spazi urbani insolito per l’Italia. Il mare della Sardegna è unico, ma anche le valli bergamasche sono straordinarie, per non parlare dei sentieri delle Orobie. Agli incarichi curatoriali e dirigenziali, presso diverse sedi museali, ha affiancato il ruolo di docente universitario. Cosa porta con sé, delle passate esperienze? Porto con me la convinzione dell’utilità di un dialogo tra le forme espressive del presente e quelle del recente passato, in particolare l’esperienza delle avanguardie del Novecento, a cui i linguaggi di oggi devono molto. C’è una linea orizzontale che unisce i tempi della nostra storia, sulla quale si muove, non senza contraddizioni, la produzione artistica. In quest’ottica non esistono sguardi “retrospettivi”, tutto trova ragione in relazione alle ragioni del nostro tempo. Come intende impostare il suo lavoro alla GAMeC? Quali saranno le sue priorità? Proverò a perseguire gli obiettivi strategici che la GAMeC si è posta sino dalla sua fondazione: valorizzare e incrementare il suo patrimonio, promuovere mostre e attività culturali di alto profilo ed essere un punto di riferimento per l’arte contemporanea. Per farlo occorre muoversi su più fronti. Partiremo da una revisione delle strategie di comunicazione.

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GAMeC, Collezione Permanente Foto: Maria Zanchi


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GAMeC, Collezione Permanente Foto: Maria Zanchi


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C’è qualche progetto, o possibile collaborazione, che le sta particolarmente a cuore? Ci sono tanti progetti, ma è ancora presto per parlarne. Vorrei riuscire ad abbracciare un campo cronologico ampio, allargando il concetto di modernità alle avanguardie storiche. Proveremo a lavorare per cicli, a elaborare progetti che stimolino il desiderio di tornare al museo. Tra le tante collaborazioni che la GAMeC ha attivato sul territorio la più importante è sicuramente quella con l’Accademia Carrara, un museo straordinario. Trovando poi una dialettica con l’Accademia di Belle Arti si potrà riattivare una storica sinergia, auspicata già alla fine del Settecento dal conte Giacomo Carrara. Una delle sue più grandi doti è di saper sperimentare accostando, ad esempio, esperienze artistiche in apparenza anche molto distanti tra loro. In un territorio come quello bergamasco, che vanta un patrimonio artistico e culturale straordinario, ritiene si possa far coesistere questa spiccata identità locale con un’arte più “globale”? C’è un motto ecologista a cui sono molto legato: “pensa globalmente, agisci localmente”. Il pensiero globale diventa effimero se non trova applicazione in un ambiente. Ritengo che ogni contesto abbia le proprie specificità e quindi richieda sensibilità diverse. In un’epoca di grandi rivoluzioni e trasformazioni, prime fra tutte l’avvento del digitale, come si è trasformata l’arte? L’arte di oggi esprime il fluire del tempo, il rigenerarsi continuo della vita, delle idee e delle forme. “Performa” se stessa e testimonia la propria precarietà. Il digitale ha messo l’accento su questa dinamica. Quali sono state le conseguenze di questa rivoluzione, nell’ambito museale? La condivisione in tempo reale di immagini ha minato profondamente il concetto di unicità dell’opera. Oggi, la visione “online” anticipa quasi sempre quella dal vero (anzi, a volte la sostituisce completamente), e un numero sempre maggiore di opere d’arte viene creato per essere fruito attraverso lo schermo. I musei si stanno adattando con fatica a questa nuova dimensione che tende a farci percepire lo spazio del web non come una zona virtuale alternativa alla realtà, ma come qualcosa di concreto, che permea il nostro quotidiano. Non abbiamo ancora deciso se provare a resistere o trasformarci in qualcosa di diverso. Contatti: gamec.it 26


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GAMeC, esterno Foto: Antonio Maniscalco


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PITTURA

Michelangelo Merisi (detto il Caravaggio)

Gli inizi di una vita breve e travagliata

A cura di Marisa Milella

Pochi artisti hanno suscitato tanto interesse e hanno rivoluzionato così profondamente la storia dell’arte come il pittore lombardo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio da quello che, fino a pochi anni fa, era considerato il suo luogo di nascita. La sua vita travagliata, segnata da un delitto, una fuga disperata e un perdono giunto assieme alla morte, ha contribuito a creare il mito di Caravaggio, genio solitario. Oltre la leggenda è la straordinaria novità dell’opera di questo grande protagonista della pittura italiana. La sua capacità di proporre un realismo che non si ferma ad osservare e copiare la natura ma rifiuta le convenzioni e punta sul vero, non cercando la ricerca del ‘bello”.

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Cupola di San Giovanni Evangelista, Parma, Correggio (circa 1520-1524) 29


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Nella sua breve vita, finita tragicamente, il Caravaggio fu autore di un profondo rinnovamento della tecnica pittorica, caratterizzata dal naturalismo dei suoi soggetti e dall’uso personalissimo della luce e dell’ombra. La sua esistenza tormentata è stata oggetto di un interesse mai sopito, così come emerge anche dalla recente mostra inaugurata a Palazzo Reale a Milano. Dentro Caravaggio, è il titolo della mostra, che contribuisce ad indagare meglio la vita del pittore attraverso una nutrita raccolta di documenti. Carte “eloquenti”, per lo più atti del tribunale criminale, deposizioni di testimoni dei tanti processi a cui andò incontro. Molte sono di garzoni di barbieri di cui era cliente: si parla di furti o conti in sospeso. C’è anche un inventario di notaio dei beni sequestrati in casa per via dell’affitto non pagato. E un’altra del «caporale dei birri» che lo denuncia per porto d’armi abusivo. La luce noir non abbandona l’esistenza del Merisi neanche dopo morto; si pensi ad uno dei furti d’arte più famosi di sempre, quello avvenuto il 18 ottobre del 1969 a Palermo, nell’oratorio di San Lorenzo, della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, dipinta nel 1609, opera mai ritrovata, o alla recente sentenza del tribunale di Milano, della quale parleremo più avanti. Grazie al recupero di importanti documenti, gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza di Michelangelo Merisi appaiono oggi sufficientemente chiari, almeno per ciò che riguarda le ricostruzioni parentali, la storia della famiglia, i suoi legami con la nobiltà lombarda e, con un certo margine di attendibilità, gli spostamenti prima della partenza per Roma. Il padre, Fermo Merisi, persona di fiducia di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio, soprintendeva alla manutenzione architettonica e muraria delle sue proprietà. Si sposò due volte. Nel 1563 a Milano, dove risiedeva stabilmente, con Maddalena Vacchi, dalla quale ebbe due figlie. Morta molto presto Maddalena, Fermo si sposò la seconda volta, il 14 gennaio 1571, con Lucia Aratori a Caravaggio, residenza della sposa. Fra i testimoni di nozze è il marchese Francesco I Sforza. I registri di battesimo della parrocchiale di Caravaggio, nel volume comprendente gli anni dal 1569 al 1585, non riportano alcun infante corrispondente al futuro pittore. Eppure sappiamo che in età adulta, quando si trattò di essere nominato cavaliere di Malta, Michelangelo declinò così le sue generalità: «Michael Angelus... oppido vulgo de Caravaggio in Longobardis natus». Visto che gli archivi di Caravaggio non davano alcun riscontro, gli studiosi hanno verificato quelli milanesi, setacciando le carte riguardanti la parrocchia di Santa Maria alla Passarella, dove si sapeva che la famiglia Merisi dimorava già dal 1572 e dove nel 1577 ancora risiedeva.

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Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi


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Ma il registro delle nascite dal giugno 1567 al 20 ottobre del 1571 della Parrocchia, ironia della sorte, è andato perso, lasciando vani gli sforzi degli studiosi. Nel 2007 si deve a Vittorio Pirami, ex manager in pensione con la passione per la storia dell’arte, la paleografia e la diplomatica, il ritrovamento, nell’Archivio Diocesano di Milano, del certificato di battesimo contenuto nel libro parrocchiale della chiesa milanese di Santo Stefano in Brolo, che registra gli atti dal 1565 al 1587. Sotto l’anno 1571, al mese di settembre, così si legge: «Adi 30 fu bat(tezzato) Michel angelo f(ilio) de D(omino) Fermo Merixio et d(omina) Lutia de Oratoribus/ compare Fran(cesco) Sessa». Il pittore era nato a Milano il giorno prima, il 29 settembre, festa di San Michele Arcangelo. Si andava così a confermare l’ipotesi di Maurizio Calvesi, che aveva ricostruito la nascita di Michelangelo Merisi il 29 settembre, motivo della scelta del nome, a Milano. Fermo e Lucia ebbero altri tre figli: due maschi, uno morto ancora bambino, e una femmina. La grande peste di Milano del 1576 provocò la divisione della famiglia. Forse i tre bambini vennero mandati a Caravaggio, raggiunti subito dopo dal resto della famiglia. Ma il 20 ottobre 1577, quando la peste era stata ormai debellata a Milano, morivano, a distanza di poche ore, il nonno del pittore, Bernardino, e il padre. In un documento conservato nell’Archivio di Stato di Milano (atti del notaio Placido Bosisio), si apprende che il 6 aprile 1584 viene siglato un contratto di quattro anni con il pittore Simone Peterzano. Durante questo periodo il tredicenne Michelangelo doveva vivere ininterrottamente con il Peterzano, a Milano, che dal suo canto si impegnava a fare di lui un pittore capace di lavorare in proprio. Simone Peterzano nacque nel 1540, o forse prima poiché nel 1575 a Milano si impegnava per contratto ad avviare Francesco Alciati alla pittura. La provenienza bergamasca è ricordata in alcuni atti ed è probabile che l’origine veneta dichiarata in un altro documento si riferisca alla sua provenienza dal territorio bergamasco che apparteneva alle repubblica di Venezia. Lui stesso si dichiara allievo di Tiziano; è probabile, quindi, che si sia formato a Venezia e poi trasferito a Milano, dove era già attivo, nel 1572, in San Maurizio al Monastero Maggiore. Peterzano si presenta come uno dei protagonisti della pittura di età borromea e come iniziatore di un filone veneteggiante che, sul suo esempio, ebbe seguito a Bergamo. Il silenzio dei documenti tra il 1585 e il 1589 ha suggerito l’ipotesi di un suo viaggio a Roma, forse accompagnato

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dal giovane garzone Michelangelo. Non si sa se alla fine dell’apprendistato il Merisi sia rimasto a Milano o tornato a Caravaggio, dove è comunque documentato il 25 settembre del 1589, in occasione di un atto di vendita della parte di eredità paterna a lui spettante. L’11 maggio 1592, i tre fratelli Merisi si dividono l’eredità del padre e della madre. Sembra chiaro che la subitanea vendita dell’eredità da parte di Michelangelo dovette essere legata a circostanze gravi, cui il pittore era chiamato a far fronte e che portò probabilmente alla partenza dalla Lombardia, per iniziare un nuovo capitolo esistenziale a Roma. L’incidenza dell’insegnamento del Peterzano è stata individuata da Roberto Longhi nella serie delle prime opera romane, quali il fruttaiolo o il Bacco degli Uffizi, ravvisandosi negli affreschi della Certosa di Garegnano il più vasto e stimolante repertorio di immagini cui l’allievo poté accedere. Messo a contratto nel 1578 e collaudato nel 1582, il ciclo di affreschi e tele di Simone Peterzano nel presbiterio è la prima tappa del rinnovamento figurativo controriformato della Certosa. Il pittore, che aveva già ricevuto importanti commissioni religiose a Milano, vi esibisce un linguaggio composito, in cui le radici veneziane si intrecciano ecletticamente con elementi di naturalismo e luminismo lombardo, fra Brescia, Bergamo e Cremona, e di manierismo tosco-romano. Il programma iconografico è imperniato sulla Redenzione. La Natività coi pastori e l’Adorazione dei Magi sono i soggetti dei dipinti murali del presbiterio, mentre superiormente, sulla cupola, sono raffigurati Angeli con i simboli della Passione, gli Evangelisti, i Profeti e le Sibille. Ed è proprio nella Sibilla Persica che si è voluta trovare una citazione letterale nel Bacchino malato di Michelangelo Merisi della Galleria Borghese, a Roma. La perfetta coincidenza fra le due figure, ha fatto sospettare che il discepolo possa aver utilizzato il disegno preparatorio, oggi ancora esistente nel “Fondo Peterzano” del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano. Proprio il “Fondo Peterzano” è stato, in questi ultimi anni, al centro di una vicenda giudiziaria che ha visto da un lato due studiosi, Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli (che nel luglio 2012 avevano dato annuncio di aver ritrovato quasi cento disegni di mano di Caravaggio nel succitato Fondo) e, dall’altro, il Comune di Milano. Acquisito nel 1924 dalle Civiche Raccolte milanesi, insieme a migliaia di altre carte provenienti dalla chiesa milanese di Santa Maria presso San Celso, il cosiddetto “Fondo Peterzano” era stato indagato a più riprese nel tempo da studiosi di rango,

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che mai vi avevano individuato la mano del giovane Merisi. Ulteriori smentite sulla tesi attribuzionistica dei due storici dell’arte bresciani, da parte della comunità scientifica internazionale, sono state rese note in occasione della mostra «Simone Peterzano e i disegni del Castello Sforzesco» (dicembre 2012 - marzo 2013), realizzata nel Castello stesso. I due studiosi che, pare, non abbiano mai visto dal vivo i disegni attribuiti a Caravaggio esordiente, fra l’altro da loro pubblicati in un eBook senza chiedere l’autorizzazione al Comune, sono stati condannati nella sentenza del 9 maggio scorso, nella quale il Tribunale di Milano ha posto fine alla vicenda giudiziaria disponendo un indennizzo di 50mila euro “per i gravi danni derivanti dalla lesione della reputazione e dell’immagine del Comune di Milano e della professionalità dei suoi dipendenti”. Anche dopo morto, quindi, il mito sposa perfettamente la biografia tormentata del pittore, con un sentire contemporaneo che sembra provare nostalgia per il mondo secentesco “luci e ombre”, di cui Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sembra essere l’emblema. Siti: caravaggiomilano.it

Marisa Milella: Dal 1979 al 2016 Storico dell’Arte Direttore Coordinatore del Ministero per i Beni e le attività Culturali ed il Turismo, ha ricoperto diversi incarichi fra i quali Direttore del Castello di Copertino (LE), responsabile del settore Mostre ed eventi. Docente in master post universitari di management dei beni culturali, ha curato mostre a livello nazionale ed internazionale. Dal 2016 vive a Praga. marisa.milella@gmail.com

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Il Bacco


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CULTURA

Remo Morzenti Pellegrini

Magnifico Rettore dell’Università di Bergamo

A cura di Laura Di Nitto

Professore ordinario di diritto amministrativo presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo, Remo Morzenti Pellegrini È Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo dal 1 ottobre 2015 e il suo mandato scadrà il 30 settembre 2021. In precedenza aveva ricoperto il ruolo di Professore associato di Diritto Amministrativo e prima ancora di Ricercatore universitario di Istituzioni di Diritto. Il Rettore ha siglato, lo scorso 6 aprile, un importante Memorandum of Understanding tra l’Università di Bergamo e l’Università Carolina.

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Sig. Rettore, cosa rappresenta per Lei e per l’Università di Bergamo la partnership con l’università di Praga? La considera un punto di arrivo o un punto di partenza? Aver rinsaldato il dialogo costruttivo con l’Università Carolina è innanzitutto motivo di grande prestigio. La collaborazione con l’Università di Praga è una realtà che dura da più di vent’anni; ha avuto origine nell’ambito delle discipline matematico-statistiche e ora, oltre a trovare un forte consolidamento in quell’area, sperimenta un’apertura verso nuove materie di studio e ricerca, in particolare quelle umanistiche. L’incontro tra l’Università di Praga, che è uno degli Atenei europei più antichi, e quella di Bergamo, che è invece considerata un’Università giovane, significa già di per sé uno scambio tra storie diverse e, conseguentemente, modalità diverse di affrontare la formazione di alto livello, modalità che però sanno trovare da entrambe le parti una stimolante convergenza tra tradizione e innovazione e, soprattutto, una comunanza di obiettivi scientifici e valori educativi che garantiscono un’intesa feconda e sempre più promettente. È senz’altro un punto di partenza. Non considero mai alcun tipo di progresso, sviluppo o accordo raggiunto come traguardi statici, ma come stimoli per una continua ricerca a far meglio, a modificare in positivo l’offerta formativa e le risorse culturali della nostra Università. Cosa ha portato le due università ad avvicinarsi e a stabilire l’accordo di mobilità? Si tratta in realtà di un consolidamento dei rapporti già in essere favorito da due motivi principali. Il primo riguarda i vantaggi in termini di infrastrutture e trasporti: Bergamo e Praga, entrambe dotate di aeroporti posizionati molto vicino al centro urbano, sono infatti collegate da tre voli giornalieri, favorendo così il flusso di studiosi in entrata o in uscita dalle città. L’altra ragione è legata all’apporto entusiasta di un’importante figura diplomatica, il Dott. Aldo Amati, che non a caso ha iniziato il suo percorso formativo proprio presso la nostra Università, laureandosi in Lingue e letterature straniere: il Dott. Amati, attualmente ambasciatore a Praga, ha infatti incoraggiato e sostenuto l’intensificazione degli scambi tra l’Università Carolina e l’Università di Bergamo, contribuendo a rafforzarne il legame tra le due Istituzioni. Ci può spiegare in cosa consiste la mobilità di studenti e professori? Abbiamo definito e sono tuttora in corso di definizione degli accordi Erasmus Plus per permettere sia agli studenti sia ai docenti di muoversi tra le due Università, così che si possano realizzare scambi effettivi sia nell’ambito della

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formazione – i nostri studenti possono seguire corsi di studio a Praga e viceversa – sia nell’ambito della ricerca – i nostri docenti possono spendere periodi in visita presso l’Ateneo partner per alimentare le collaborazioni di ricerca e viceversa. Cosa si aspetta che gli studenti dell’Università di Bergamo ricevano da questa collaborazione? Ovviamente, la possibilità di conoscere Praga a 360 gradi: a partire dall’offerta universitaria della capitale della Repubblica Ceca (ricordo che Bergamo ha rapporti anche con la VSFS - University of Finance and Administration Prague) per arrivare a conoscere la cultura, le tradizioni e soprattutto le persone, i giovani, che abitano Praga e che rappresentano, insieme a tutti i loro coetanei in Italia e nel mondo, la vera possibilità di un futuro di condivisione e dinamismo. Ad oggi, ha incontrato più similitudini o differenze nella gestione universitaria dei due Paesi e nella gestione della didattica? Per quel che riguarda i vincoli normativi imposti dal Ministero, devo ammettere che i nostri sono purtroppo maggiori, mentre nella Università Carolina tutto è un po’ più “leggero”, ma gli obiettivi strategici in ambito didattico e di ricerca sono molto simili. Ho inoltre avuto modo di constatare una medesima attenzione verso la cosiddetta “terza missione” universitaria, con un’apertura alla sfera economico-produttiva interna ma anche alle imprese del territorio bergamasco, specialmente nell’ambito della manifattura e della meccatronica. L’Università di Bergamo è stata inserita nel ranking del Times Higher Education, tra le migliori università al mondo al di sotto dei 50 anni di storia, e questa notizia è proprio dei giorni in cui era in visita a Praga per la firma dell’accordo. Secondo lei, quali sono le qualità dell’ateneo? Cosa fa dell’Università di Bergamo una delle migliori al mondo? Le positività del nostro Ateneo secondo la classifica del Times Higher Education risiedono nella qualità della didattica e della ricerca e nell’attrattività internazionale. Di fatto, queste classifiche, pur avendo gli inevitabili limiti propri a ogni graduatoria, ci danno conferma di quanto siano stati lungimiranti i nostri investimenti in infrastrutture e la nostra costante azione sinergica con il territorio. Spero che continueremo a migliorarci e che un numero sempre più crescente di studenti stranieri consolidi le nostre relazioni internazionali, trasformando Bergamo in una sempre più viva e dinamica città universitaria. Quali sviluppi futuri vede nel rapporto con Praga e quali opportunità sul lungo termine, in particolare per gli studenti?

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Prima di tutto un progressivo potenziamento dei progetti di ricerca già in atto associato a un’apertura sempre più fattiva all’internazionalizzazione: in effetti, il dialogo con la Università Carolina non può che svilupparsi in questa direzione e sono certo che a breve potremo verificare le ricadute positive nella realtà di entrambe le Istituzioni. E poi, la possibilità di intessere nuove collaborazioni in aree disciplinari diverse da quelle fino ad ora esplorate, come ad esempio gli studi sul turismo: il nostro corso in lingua inglese Tourism and hospitality management del Dipartimento di Lingue, letterature e culture straniere sarà infatti coinvolto in questo processo di scambio e può senz’altro diventare un ottimo strumento di cooperazione. State lavorando anche ai rapporti con le imprese ceche? Al momento non posso dire che ci sia un progetto concreto al riguardo, ma abbiamo già preso contatti con le imprese bergamasche che hanno filiali nella Repubblica Ceca per esplorare la possibilità di creare percorsi di studio di ricerca applicata. È un primo passo cruciale per stabilire nel prossimo futuro relazioni fruttuose con il panorama industriale ceco. Qual è il prossimo obiettivo che l’Università di Bergamo si pone nel quadro accademico italiano e in quello internazionale? L’obiettivo è quello di continuare a incrementare la rete di relazioni scientifiche e produttive con il territorio e, parallelamente, di intensificare i rapporti internazionali con i partner stranieri, così da estendere e rafforzare quella che io chiamo la “dorsale della cultura” dell’Università di Bergamo, e cioè una concreta struttura di collaborazioni che possa permettere ai nostri studenti di formarsi in maniera adeguata all’attuale contesto socio-economico e di scegliere tra più percorsi di vita possibili, oltre che ovviamente tra più opportunità professionali. Contatti: unibg.it

Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. www.linkedin.com/in/lauradinitto 40


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Il Rettore Remo Morzenti Pellegrini e l’Ambasciatore Aldo Amati 41


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STORIA E MEMORIA

I giardini dei giusti

Gariwo e la forza della memoria del bene

A cura di Andreas Pieralli

La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che una cosa ha senso in ogni caso. - Vaclav Havel -

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Nel marzo 2016 fu inaugurato, nel parco del Galgario a Bergamo, il Giardino dei Giusti: una iniziativa promossa dall’Amministrazione comunale in collaborazione con Gariwo-la Foresta dei Giusti, l’UNESCO, l’Associazione Italia-Israele, Amnesty International e l’Università degli Studi di Bergamo. Durante l’inaugurazione fu piantato un pioppo cipressino in onore dell’archeologo siriano Khaled al-Asaad. Ma cos’è esattamente il Giardino dei Giusti? La filosofia Alla base di tutto c’è un pensiero, semplice quanto potente: il Bene è contagioso. Questa l’idea di base del progetto che prende le mosse dalla convinzione secondo cui conservare e diffondere la memoria degli esempi coraggiosi di coloro che, di fronte a situazioni di estrema ingiustizia, hanno scelto il Bene, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa vita, porta con sé un elevato potenziale educativo e funziona da efficace argine contro il ripetersi degli orrori di cui, fin troppe volte, è stato teatro il secolo scorso. Per avvicinare in poche parole i lettori al concetto basterà ricordare, ad esempio, il film Schindler’s List di Steven Spielberg, ovvero la storia del ricco industriale tedesco Oskar Schindler, tra l’altro nato e cresciuto a Svitavy (oggi in Moravia), che salvò un migliaio di ebrei da morte certa, impiegandoli come forza lavoro nella sua fabbrica di Cracovia. Ma quella di Schindler è soltanto una tra le decine di storie trattate nel progetto e forse, detto tra noi, neanche quella più interessante. Chi sono i Giusti? Il termine Giusto è tratto dal passo della Bibbia dove si dice “chi salva una vita salva il mondo intero” ed è stato applicato per la prima volta in Israele, in riferimento a coloro che hanno salvato gli ebrei durante la persecuzione nazista. Il concetto di Giusto è stato ripreso anche per ricordare i tentativi di fermare lo sterminio del popolo armeno in Turchia nel 1915 e, per estensione, a tutti coloro che nel mondo hanno cercato o cercano di impedire il crimine di genocidio, di difendere i diritti dell’uomo nelle situazioni estreme, o che si battono per salvaguardare la memoria contro i ricorrenti tentativi di negare la realtà delle persecuzioni. I Giardini dei Giusti Lo strumento “materiale” più tangibile per preservare questa memoria sono i Giardini dei Giusti, vale a dire i luoghi dedicati alla memoria di coloro che si sono opposti alla violazione dei diritti umani nella storia più recente. L’ispirazione

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arriva dal Giardino di Yad Vashem, nel Memoriale della Shoah a Gerusalemme, che ha dato poi origine ad altri giardini in ogni parte del mondo, come a Yerevan, accanto al Museo del Genocidio degli Armeni, a Milano, sul Monte Stella, a Sarajevo, in Polonia, negli Stati Uniti, in Israele, a Bergamo e speriamo, un giorno, anche a Praga. In questi giardini la memoria getta radici profonde, trovando supporto negli alberi quale simbolo della vita e invito a difenderla contro i messaggeri di morte. Il Giardino, allora, diventa una piccola oasi di pace, all’interno del concitato spazio urbano, dove riflettere sull’esempio dei Giusti e sul fatto che, anche in condizioni estreme, è possibile rispondere all’appello della nostra coscienza scegliendo di non rimanere indifferenti. Per questo i Giardini dei Giusti sono la memoria educativa delle nuove generazioni, protagoniste della storia di domani, alle quali, oltre che un monito, offrono un’alternativa percorribile e un messaggio di speranza oggi tanto prezioso. La Giornata Europea dei Giusti L’associazione Gariwo, il cui acronimo è GArden of the RIghteous WOrldwide, nasce a Milano nel 2001, ma la sua dimensione oggi è soprattutto europea. Il 10 maggio 2012, infatti, il Parlamento europeo ha risposto all’appello internazionale sostenuto da più di 3600 cittadini, intellettuali, artisti e politici, approvando con 388 firme la proposta di Gariwo di istituire la Giornata europea dedicata ai Giusti, per tutti i genocidi, da celebrarsi ogni anno il 6 marzo, in ricordo di Moshe Bejsky, presidente della Commissione dei Giusti, nonché uno degli ebrei salvati da Schindler. Con questo importantissimo riconoscimento il concetto di Giusto, originariamente limitato al ricordo dei non ebrei che sono andati in soccorso degli ebrei, diventa patrimonio di tutta l’umanità. Il termine “Giusto” non è più allora circoscritto alla Shoah, ma diventa un punto di riferimento per ricordare quanti, in tutti i genocidi e totalitarismi, si sono prodigati per difendere la dignità umana. Il significato di questa decisione richiama uno degli elementi fondanti della cultura europea: il valore dell’individuo e della responsabilità personale.

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Charta 77 e il potere dei senza potere Tra i tanti Giusti commemorati in Italia va menzionato Jan Patočka, il grande filosofo di Charta 77, ricordato nel Giardino dei Giusti di Brescia. Durante gli anni della dittatura comunista a Praga, in uno storico appello alla nazione, Patočka scrisse che era una festa per i cittadini ritrovare il gusto di difendere la verità di fronte ad un potere ottuso e pagò poi con la vita la sua attività di resistente morale, soccombendo a un attacco cardiaco dopo un pesante interrogatorio da parte della polizia. Tanti soccorritori degli ebrei hanno agito con lo stesso spirito. Il loro motto era simile a quello di Patočka: “Le stesse cose per cui vale la pena di vivere, sono quelle per cui vale la pena di soffrire.” Si tratta di quel “potere dei senza potere” che fu alla base della filosofia di Václav Havel e della sua resistenza morale contro l’oppressione del regime comunista. L’importanza dei Giusti oggi Sarebbe un errore pensare, però, che i Giusti riguardino solo i periodi più oscuri della storia europea. Il loro valore, infatti, è anzitutto politico, e quindi eterno, a maggior ragione nell’odierna crisi morale dell’Europa quando, di fronte ai problemi economici e sociali, molti hanno la tentazione di chiudersi nei nazionalismi e smarriscono il senso di definirsi europei. Ricordare i “Giusti” che hanno lottato contro le leggi razziali, avviato il processo della caduta del muro di Berlino, si sono impegnati per la prevenzione dei genocidi o hanno difeso la verità e la memoria nei sistemi totalitari, significa tramandare degli esempi morali che sono il pilastro della nostra identità. Il gusto della democrazia e del pluralismo, il gusto dell’altro come parte di noi, il piacere di difendere il vero, il riconoscimento del perdono come valore nelle relazioni umane, non sono enunciazioni astratte che animano il dibattito dei filosofi, ma sono stati modi di essere di quanti hanno creduto nella costruzione europea. Come disse Socrate, l’etica non si trasmette con le parole, ma con gli esempi concreti. Ecco allora il senso della memoria del bene, incarnata dalle storie dei Giusti. Riportarle alla luce e farne oggetto di narrazione significa farle rivivere nel tempo presente e trasmettere così ai giovani l’idea di una staffetta morale, di cui loro possono diventare protagonisti. In momenti di crisi vale di più la forza dell’esempio morale che la filippica moralistica dell’inquisitore di turno, che bacchetta la folla e propone la “ghigliottina” per i corrotti.

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Nota personale La mia avventura con Gariwo ebbe inizio nel 2012 quando, grazie a una collaborazione con una galleria d’arte praghese impegnata in progetti italiani, ebbi la fortuna e l’onore di conoscere Gabriele Nissim, che in quel periodo stava girando l’Europa per raccogliere il sostegno necessario all’approvazione della Giornata Europea dei Giusti. Erano passati solo pochi mesi dalla scomparsa dell’ex presidente Vaclav Havel e la prima conferenza che organizzammo presso la Casa Municipale di Praga suscitò grande interesse. Da quel momento, ogni anno in occasione del 6 marzo, oppure vicino a quella data, ho sempre organizzato incontri con personalità di spicco della vita sociale e politica (per ricordarne alcuni Tomáš Sedláček, Daniel Kroupa, Miroslava Němcová, Antonio Ferrari, Karel Schwarzenberg, il cardinale Dominik Duka o Jan Macháček). Purtroppo, trattandosi di una passione più che di un lavoro, quest’anno sono stato costretto a rallentare le attività per i numerosi impegni professionali. Il progetto di aprire un Giardino dei Giusti a Praga rimane comunque valido e, anzi, invito chiunque abbia voglia di contribuire a contattarmi. Volutamente, non ho sviluppato qui le storie dei Giusti, nella speranza di aver così stimolato nel lettore la curiosità di scoprire questi personaggi degni di tutta la nostra stima. Per farlo, rimando alle nostre pagine in lingua italiana, it.gariwo.net, inglese, en.gariwo.net oppure ceca, cz.gariwo.net dove, oltre alle storie, si possono trovare numerosi articoli di attualità, approfondimenti, studi, interviste e materiali multi-mediatici sul tema. Fonti: it.gariwo.net

Andreas Pieralli: nato nel 1977 da madre morava e padre toscano, dal 2005 vive a Praga dove lavora come traduttore, scrittore e pubblicista freelance. Si interessa di società, politica, economia e diritti umani. Commenta l’attualità italiana per la TV ceca e altre testate giornalistiche. Segue, tra gli altri, il progetto per un Giardino dei Giusti a Praga. www.andreaspieralli.eu 49


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CINEMA

Giorgio Pasotti

Attore e regista

A cura di Stefania Del Monte

Giorgio Pasotti nasce a Bergamo il 22 giugno 1973 e già a sei anni, sotto la guida del padre Mario, profondo conoscitore delle arti marziali cino-giapponesi, inizia la pratica del karate, poi del kobudo e infine del wushu. Nel 1986 è la più giovane cintura nera d’Italia di wushu. Partecipa, in seguito, alle dimostrazioni finali del Campionato del Mondo di Las Vegas, ai Campionati d’Europa di Chieti ed al Grand Councours Européen de Wushu di Parigi, nel 1990. Nel 1992, terminati gli studi superiori, decide di partire per la Cina. Rimarrà per due lunghi anni ad approfondire la conoscenza del wushu nel suo luogo d’origine, frequentando corsi e allenamenti con i ragazzi della squadra campione cinese presso l’Università di Educazione Fisica di Pechino.

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Foto: Roberta Krasnig


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Nel 1993

vince il Torneo Internazionale di

Pechino negli stili dimostrativi e si aggiudica una medaglia di bronzo al Campionato Internazionale di Shaolin. A conclusione di un’annata d’oro, viene promosso a pieni voti nella Elite Class, la serie A del wushu cinese, l’olimpo dell’agonismo internazionale. Il 1993, però, si rivelerà un anno cruciale non solo per i risultati agonistici. Nell’ottobre di quell’anno, infatti, la Milestone Production LTD, casa di produzione cinematografica di Hong Kong, lo sceglie per interpretare il ruolo di un giovane americano divenuto monaco di un tempio Shaolin. Pasotti dimostra capacità non comuni e l’episodio non viene archiviato come una “meteora”, bensì come il promettente inizio della sua carriera di attore. Dopo una lunga permanenza a Pechino, rientra in Italia, dove si allena per prendere parte a campionati nazionali e internazionali di wushu e continua a studiare recitazione.

Nel 1994 entra nella Squadra Nazionale della federazione ufficiale Coni e, con la maglia azzurra, partecipa in Germania al Campionato Europeo di Monaco, conquistando l’oro. L’anno dopo si trasferisce a Los Angeles, per studiare recitazione. Nonostante l’intensa attività cinematografica nell’agosto 1995, sempre con la maglia della Nazionale, partecipa ai Campionati del mondo di Baltimora, dove riesce a mettersi in luce cogliendo due preziosi piazzamenti, sesto e settimo, e si conferma come uno dei migliori interpreti occidentali della disciplina cinese. Ai Campionati Europei di Roma del 1996 mantiene il titolo continentale. Conclusa la parentesi americana, intesse relazioni con il mondo delle produzioni cinematografiche italiane. Il debutto avviene con I Piccoli Maestri di Daniele Lucchetti, tratto dal capolavoro di Luigi Meneghello. Un film intenso ed emozionante, presentato in concorso al Festival del Cinema di Venezia del 1997. Sempre nel 1997 è protagonista di Ecco Fatto, l’originale e brillante opera prima di Gabriele Muccino, nella quale Pasotti veste i panni di Matteo, il gelosissimo fidanzato di Margherita (Barbara Bobulova). Gli impegni cinematografici non frenano quelli agonistici: oltre a riconfermarsi campione italiano, riesce ad essere presente in Nazionale anche al Campionato del Mondo ’97 di Roma, ottenendo un quinto posto che, in quel contesto, vale come un oro. Nel 1998 gira un’altra commedia per il cinema, Voglio stare sotto il letto, firmata da Bruno Colella e con Michelle Hunziker. È l’anno del necessario (per incompatibilità con la carriera di attore) addio al wushu agonistico, che Giorgio suggella con le ultime due medaglie d’oro conquistate ad Atene, al terzo Campionato d’Europa che può annoverare alla sua breve ma intensa carriera sportiva. Abbandonate armi e kimoni, si immerge completamente nel mondo dello spettacolo. A partire da quel momento, la sua carriera cinematografica esplode. Tra le sue esperienze più prestigiose si ricordano: Come te nessuno mai e L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, Le Rose del Deserto di Mario Monicelli ed il premio oscar La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino.

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Pur essendo nato e cresciuto a Bergamo, è forse più corretto definirti un cittadino del mondo. Grazie alla tua passione per le arti marziali, infatti, hai sempre viaggiato moltissimo. Dove ti senti più a casa? Mi sento a casa proprio quando torno a Bergamo. Appena varco la porta d’accesso a città alta di Sant’Agostino sento di essere arrivato nel luogo che sento più mio: un senso di appartenenza molto profondo. Una laurea in discipline sportive, conseguita a Pechino, ed un diploma ottenuto nel 2004 presso la New York Film Academy. A livello personale, cos’hai appreso dai tuoi lunghi soggiorni in due realtà così differenti? Ho appreso che, nonostante l’enorme diversità in termini storici e culturali tra l’America e la Cina, ciò che unisce questi due Paesi che stanno agli antipodi è un senso di rispetto e attenzione per chi ha idee e cerca di realizzarle. Condizioni sociali che tendono ad aiutare le persone ambiziose e determinate. La tua carriera, dopo una serie di successi sportivi a livello mondiale, sembrava proiettata in quella direzione. Come sei approdato, invece, al mondo del cinema? Per caso. Un giorno come un altro venne una produttrice di Hong Kong in università a Pechino, mi chiese se volessi fare un piccolo ruolo in un film prodotto da lei. Accettai per curiosità: non mi sono più fermato. Sia nel campo sportivo che in quello artistico hai ottenuto molti premi e riconoscimenti. Quale ti ha dato maggiore soddisfazione? Jeanne Moreau che mi consegna il premio come migliore attore, paragonandomi a Trintignant. Pensavo fosse una battuta di circostanza. Glielo richiesi dopo: mi disse che non scherzava affatto… Quale manca, ancora, alla tua collezione ideale? Mah, in realtà nessun premio cinematografico potrà mai raggiungere l’emozione di stare sul podio più alto in una vittoria sportiva, almeno per me. Nel cinema, hai lavorato con registi di calibro mondiale: tra questi Monicelli, Muccino e Sorrentino. Puoi dirci qualcosa di ognuno di loro? Sono registi molto diversi tra loro, impossibili da paragonare. Da spettatore, attendo tutti i progetti di Sorrentino come un bambino aspetta i regali, la notte di Natale.

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A Praga hai interpretato Charles Dickens, nella serie televisiva “David Copperfield”. Che ricordo hai della città? Ci sei stato anche in altre occasioni? No, non ci sono mai più stato. Ho, però, un ricordo meraviglioso legato a quella città. Romantica, colta, avvolta da mistero e bellezza. Me ne sono innamorato e spero vivamente di ritornarci al più presto. Progetti per il futuro? Diversi. Film e serie TV che devono uscire a breve, uno spettacolo teatrale a cui tengo molto ma anche, e forse soprattutto, il mio prossimo film da regista, dopo Io, Arlecchino, girato proprio a Bergamo. Contatti: giorgiopasotti.it

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MODA

Trussardi Moda italiana da quattro generazioni

A cura di Eleonora Potenziani

Famosa per le sue mura oggi patrimonio dell’umanità, soprannominata “città dei mille” grazie ai moltissimi volontari che parteciparono alla spedizione guidata da Giuseppe Garibaldi, Bergamo si distingue anche per i tanti personaggi famosi nati nella bella città. Tra questi, una delle menti più creative e geniali della moda italiana: Nicola Trussardi.

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È il nonno di Nicola, Dante Trussardi, ad aprire nel 1911 la prima casa di moda con un laboratorio per la produzione di guanti in pelle venduti su tutto il territorio nazionale, durante la seconda guerra mondiale, al nostro esercito italiano. Un’arte sopraffina, unica nel suo genere. Alla sua morte, Dante lascia a Nicola, il suo adorato nipote, una splendida eredità, che il ragazzo trasformerà in una delle griffe più importanti al mondo. Nicola Trussardi nasce a Bergamo nel 1942 ed ha quattro figli – Beatrice, Tomaso, Gaia e Francesco – dalla moglie Maria Luisa, che gli rimane accanto durante tutta la vita e lo supporta nella sua carriera. Il 13 Aprile 1999, Nicola muore perdendo il controllo della sua Mercedes, sulla tangenziale est di Milano, seguito, dopo quattro anni, anche dal figlio Francesco, vittima dello stesso crudele destino. Nulla, però, sembra fermare questa grande azienda che, con duro lavoro e sacrificio, riesce ad ottenere fatturati da capogiro. Collezioni prêt-à-porter, profumi, jeans di alta moda, consacrano il marchio Trussardi: portafogli, cinture, scarpe, borse, contraddistinte da un nuovo simbolo, il levriero, un cane elegante e snello che verrà usato dalla famiglia Trussardi anche in alcune sfilate, sostituendo così modelle e modelli super pagati. Il colosso Trussardi conta oggi oltre 130 punti vendita, distribuiti in tutto il mondo: Hong Kong, Bangkok, Seul ma anche negli Stati Uniti d’America dove, solo a New York con la prima boutique, raggiunge i 600 milioni di dollari. Collezioni di occhiali da sole e da vista, negozi monomarca con due formati: Trussardi e T.Store. Biciclette, articoli sportivi, articoli per la casa, bar, ristoranti, di cui uno, famoso, all’interno di Palazzo Marino, di fronte al Teatro della Scala di Milano. Oggi l’amministratore delegato è Tomaso, che dirige l’azienda di famiglia con l’aiuto di Beatrice e Gaia e, insieme alla sua bellissima moglie, Michelle Hunziker, presta spesso la propria immagine per campagne pubblicitarie in grande stile. Malgrado le sfide non manchino, la nuova generazione di Trussardi sembra portare avanti, con merito e dignità, l’eredità di Nicola – un grande benefattore, oltre che un artista geniale, al quale si deve – tra l’altro – la fondazione di un’istituzione no profit per la promozione della cultura e dell’arte (Fondazione Nicola Trussardi), la costruzione del Pala Trussardi (oggi PalaSharp) e l’ideazione ed il sostegno della Città della Moda a Milano, un progetto ancora molto attivo, dove stilisti e maison hanno le proprie boutique. Insomma, una persona che ha fatto tantissimo per il Made in Italy, oltre che per la sua azienda. I suoi cari lo ricordano girare in macchina con una ventiquattrore piena di campioncini da mostrare ai

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clienti, oltre che per la dedizione assoluta al lavoro. Ai lamenti dei propri figli, che qualche volta avrebbero voluto vederlo un po’ di più, Nicola rispondeva: “non parlatene con me, parlatene con i figli dei nostri operai”. Contatti: trussardi.com trussardiallascala.com fondazionenicolatrussardi.com

Eleonora Potenziani: esperta di moda, specializzata nel design e nella creazione di articoli di bigiotteria artigianale, ha contribuito alla realizzazione di collezioni prêt-à-porter ed alta moda per griffe quali Rocco Barocco e Renato Balestra. Dal 1994, collabora occasionalmente con riviste di lifestyle. blond22@hotmail.it

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CUCINA

La cucina bergamasca

Tra polenta e casoncelli, in un’esplosione di sapori

A cura di Paolo Del Monte

La cucina bergamasca è prettamente nordica, con una base di carne e burro. Il pesce che arricchisce le tavole dei bergamaschi, in origine, era prevalentemente di acqua dolce, o baccalà (merluzzo sotto sale, facile da conservare e da trasportare), che veniva comprato nei mercati marittimi, Venezia e Genova, ed importato dentro le mura.

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Si trattava di una cucina povera, basata su pochi ingredienti: tra questi il mais, dal quale si produce la polenta gialla, uno dei piatti fondamentali di questa pittoresca città. La farina di mais viene mescolata ad acqua bollente, sale e burro, e cotta per circa 40 minuti/un’ora. Originariamente la cottura avveniva nel paiolo, un tegame di rame attaccato ad una catena e messo sopra il fuoco. La polenta deve essere girata in continuazione, per evitare che si attacchi sul fondo. Una volta cotta viene versata su un tagliere di legno messo in mezzo al tavolo, la si lascia rapprendere e poi, ogni commensale, la mette nel proprio piatto. Si tratta di una fonte ricca di carboidrati che, combinata con stufati (uno dei tanti, nel passato, era quello di asino), diventa un piatto unico. Un’altra ricetta tipica, fino a qualche tempo fa, era la polenta e osei: uccellini in umido serviti sopra la polenta. Oggi, però, il piatto sta scomparendo a causa del divieto di caccia, acquisto e commercializzazione dei piccoli volatili necessari alla preparazione di questa gustosa pietanza. In alternativa, si è affermata sempre più la versione dolce della polenta e osei, che consiste in sformatini dolci di polenta con uccellini di cioccolato o marzapane, messi sopra come decorazione. Mescolando la farina di mais con grano saraceno e formaggio (bitto e casera), si ottiene la polenta taragna: originaria della provincia di Sondrio, la variante bergamasca prevede l’utilizzo di formaggi locali, come il Branzi e Formai dei Mut. Questa polenta ricca è tipica delle valli bergamasche, come la Val Brembana o la Val Seriana. I protagonisti indiscussi della tavola bergamasca, però, sono i casoncelli, appetitosi ravioli di pasta fresca a forma di mezzaluna, ripieni di carne di manzo, impasto di salsiccia, pere abate, amaretti ed uva sultanina, poi saltati con burro, pancetta, salvia e tanto grana padano grattugiato. Il sapore che li differenzia dagli altri ravioli è il gusto, allo stesso tempo dolce e salato: il dolce delle pere, dell’uva sultanina e degli amaretti, infatti, si sposa perfettamente al salato della carne e della pancetta cotta nel burro sferzato, in una magnifica esplosione di sapori. I casoncelli sono, senza dubbio, il piatto tradizionale bergamasco più conosciuto e apprezzato, oltre alla polenta. Si tratta di un piatto estremamente povero e di facile preparazione, nato per utilizzare gli avanzi delle carni suine e bovine. Secondo la leggenda, infatti, la ricetta fu creata da un uomo avaro che, in occasione delle sante feste, decise di fare economia realizzando un

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piatto unico che contenesse, allo stesso tempo, un primo, un secondo di carne ed un dolce. Poi, con il passare del tempo, il prodotto venne affinato sempre più e, a partire dall’Ottocento, i casoncelli ottennero gli onori della tavola, sia per la qualità della sfoglia che per quella del ripieno. I casoncelli compaiono quasi sempre tra le proposte dei ristoranti della provincia, talvolta con la denominazione dialettale “casonsei”: un appuntamento gastronomico da non lasciarsi sfuggire, ogni qualvolta ci si trovi a visitare il suggestivo territorio bergamasco!

Paolo Del Monte è Head Chef e fotografo freelance. Nato a Bergamo nel 1983, gode di una lunga esperienza internazionale, acquisita lavorando presso ristoranti di grande prestigio in Italia, a Londra, a Sydney, ed ora a Perth, nell’Australia Occidentale. Negli ultimi anni, dopo il suo trasferimento in Australia, si sta dedicando sempre più all’altra sua grande passione, la fotografia, facendosi apprezzare soprattutto per la ritrattistica e la paesaggistica. delmontepaolo83@gmail.com

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I CASONCELLI BERGAMASCHI Ingredienti per 4 persone

Per l’impasto: 800 gr farina 200 gr semola 3 uova acqua Impastare il tutto a e aggiungere acqua fino a che l’impasto risulta morbido ed elastico. Metterlo in frigo a riposare. Per il ripieno: 200 g di carne bovina tagliata a cubi, come per lo spezzatino 300 g di impasto di salsiccia 20 g di amaretti 20 g di uva sultanina, ammorbidita nel vino bianco per 15 minuti 1 pera abate 150 g di formaggio grana 250 g di pane secco grattugiato 2 uova noce moscata, sale, pepe e prezzemolo q.b. 2 spicchi d’aglio olio per friggere Per il condimento: 50 g di burro 200 g di pancetta 30 g di salvia Formaggio grana a piacere

Preparazione Cuocere l’aglio in abbondante olio. Quando inizia a dorare aggiungere le carni, lasciare cuocere ad alta temperatura affinché la carne colori velocemente, cercando di sbriciolare l’impasto di salsiccia con un cucchiaio di legno. Abbassare la fiamma e lasciar cuocere per 20 minuti, girando la carne in continuazione ed aggiungendo del brodo se necessario. Quando la carne è quasi cotta, aggiungere la parte dolce del casoncello, cioè la pera, gli amaretti e l’uva sultanina. Tagliare la pera a cubetti, strizzare l’uva sultanina e sbriciolare gli amaretti. Aggiungere tutti gli ingredienti nella pentola della carne e cuocere per altri 10 minuti. Lasciar raffreddare il ripieno. Appena raffreddato, con un mixer frullare il tutto: il risultato sarà un composto abbastanza granuloso. Aggiungere i rimanenti ingredienti, iniziando dalle uova, poi il formaggio grana, la noce moscata, sale, pepe e prezzemolo, continuando a frullare e, alla fine, aggiungere il pane grattugiato poco a poco, fino ad ottenere un impasto molto malleabile, come il pongo. Stendere la pasta molto sottile, spennellarla con uovo e acqua e con un cucchiaino posizionare il ripieno, circa 30 grammi a raviolo. Un trucco per essere veloci sta nel mettere il ripieno a circa 3 cm dal bordo di ogni raviolo, distanziando uno dall’altro di circa 5 cm. Con un bicchiere ora si può tagliare la pasta e ricavarne delle mezze lune: il casoncello, appunto. In una padella ampia mettere del burro abbondante (50 g) e farlo sciogliere ad alta temperatura. Prima che si sia sciolto tutto aggiungere la pancetta a cubetti e la salvia, anch’essa abbondante (30 g). Cuocere i casoncelli in acqua salata per 2/3 minuti e poi scolarli e saltarli nel burro. Servire con abbondante formaggio grana.

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CUCINA

La torta Donizetti

Una dolce leggenda bergamasca

A cura di Alessia Moretti

Non è inusuale che la nascita di un dolce o di una pietanza sia a volte, collegata ad un particolare evento storico, alla fine di un amore o ad un errore culinario e anche in questo caso, parlando della Torta Donizetti, non vi è eccezione. Il dolce in questione, infatti, elencato tra le tradizioni gastronomiche bergamasche più conosciute, lega il suo nome al famoso compositore italiano originario di Bergamo, Domenico Gaetano Maria Donizetti, uno degli operisti più noti dell’Ottocento che annoverava tra le sue oltre settanta opere, la Maria Stuarda, l’Anna Bolena e la Lucrezia Borgia. Sulle sue origini, la leggenda narra che un giorno, il famoso compositore Gioacchino Rossini, mentre pranzava con Donizetti, nel tentativo di alleviare l’animo del suo amico afflitto da profonde pene amorose, chiese al cuoco di preparare una torta, un dolce diverso, morbido e profumato che potesse attenuare tali sofferenze…e, soprattutto, che fosse fatto velocemente; lo chef, a corto d’idee e ansioso per la richiesta insolita, decise di improvvisare e revisionò la classica torta margherita, arricchendola con pezzetti di frutta candita – ananas e albicocca – così da trasformare un impasto semplice in qualcosa di veramente insolito.

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Lasciando da parte la leggenda, chi realmente diede origine alla famosa Torta Donizetti – o, come si dice in dialetto bergamasco la Turta del Dunizet – rendendo omaggio al noto operista, fu il Pasticcere Angelo Balzer della celebre Pasticceria Balzer, proprio in occasione del centenario della morte del musicista. Di fatto, agli inizi del secolo scorso, più precisamente intorno al 1930, di fronte al famoso Teatro Donizetti, sotto i portici del Sentierone, si aprirono i locali della Pasticceria Balzer che, in brevissimo tempo, divenne il fulcro della vita bergamasca e non solo; personaggi di fama mondiale e attori noti, quali Maria Callas e Marcello Mastroianni, iniziarono a frequentare quei caffè donando all’ambiente un lustro che ricordava la “dolce vita romana”: ed è proprio in questo contesto che Angelo Balzer decise di progettare un dolce che commemorasse i cento anni dalla morte di Donizetti: una torta margherita, soffice e profumata, con pezzetti di frutta candita miscelati nell’impasto e aromatizzata al maraschino. Il dolce ebbe un successo tale che, ancora oggi, si conservano i brevetti originali della preparazione e tuttora viene prodotto – con la stessa tecnica dolciaria dell’epoca – insieme ad altre tipicità bergamasche, quali “Polenta e Osei”. Forse sono proprio queste sue particolarità – l’impasto originale e la medesima tecnica usata – che lo rendono speciale: in un mondo di dolcetti da banco falsamente perfetti, dove gli ingredienti usati sono per lo più surrogati e dove difficilmente ci si “sporca” le mani con farine e simili, questa torta rimane unica nel suo genere: non a caso, la definizione “Turta del Donizet (de la Bergamasca)” è riservata ad un prodotto che deve attenersi – nella preparazione e negli ingredienti – ai requisiti stabiliti dal disciplinare del marchio “Bergamo città dei mille sapori”.

Alessia Moretti è una Pastry Chef di quarta generazione. Dopo una parentesi, a Roma, nel settore immobiliare, si è trasferita a Praga quattro anni fa, tornando alla sua vecchia passione e fondando Favole di Dolci. www.favoledidolci.eu

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Ricetta: La Torta Donizetti Facile da preparare, anche se esistono diverse opinioni circa il preciso dosaggio delle materie prime – abbiamo vagliato le varie ricette in rete, nonché quella riportata da uno dei più famosi pasticceri italiani, Igino Massari, per dare la possibilità a chiunque di impastare una Donizetti casalinga senza dover necessariamente arrivare fino a Bergamo. Ecco gli ingredienti e il procedimento per una tortiera a ciambella da 24/26 cm di diametro: 260 g di burro a temperatura ambiente 150 g di zucchero 8 tuorli medi 4 albumi medi 80 g di farina 00 100 g di fecola di patate 80 g di albicocche candite (io disidratate) 120 g di ananas candita 1 cucchiaino di estratto naturale di vaniglia 2 cucchiai di Maraschino zucchero a velo per rifinire Lavorare il burro morbido con 135 g di zucchero e unire successivamente un tuorlo alla volta, fino a rendere il composto omogeneo. Incorporare la farina e la fecola setacciati, miscelando il tutto per evitare di formare grumi; montare gli albumi con i restanti 15 g di zucchero, a neve ben fermi. Unire gli albumi montati a neve al composto di uova, il maraschino, la frutta candita tagliata a pezzetti e i semi della bacca di vaniglia. Amalgamare bene il tutto e trasferire il composto in uno stampo da 24 / 26 cm leggermente imburrato ed infarinato ed infornate a forno già caldo a 180° C per circa 40/45 minuti. Lasciar intiepidire su una gratella e successivamente cospargere con lo zucchero a velo! 71


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VINI

La bonarda perfetta

Un nuovo capitolo di qualità dell’Oltrepò Pavese

A cura di Roberto Vinci immagini: Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese

L’Oltrepò Pavese è una regione profondamente ricca di cultura e tradizioni che affondano le proprie radici in una storia lontana. Territorio abitato fin dalla preistoria, più tardi dai Galli e dai Liguri prima di essere conquistato dai Romani, è attraversato da quattro valli nelle quali scorrono altrettanti affluenti del Po: lo Staffora, i torrenti Coppa e Scuropasso e il Versa. È, insieme al Piemonte, alla zona di Bordeaux e all’Oregon, una delle regioni vinicole attraversate dal 45° parallelo Nord (il celebre “parallelo del vino”). Lo stesso geografo e storico greco Strabone scrisse, a proposito di queste terre: “vino buono, popolo ospitale e botti di legno molto grandi”.

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Nel corso dei secoli, la vite mantenne il suo ruolo primario diventando un importante volano per la crescita dell’economia delle comunità della regione. È sufficiente ricordare che, nel 1884, l’Oltrepò Pavese vantava ben 225 vitigni autoctoni. Il progresso commerciale dell’Oltrepò vinicolo ricevette ulteriore impulso dopo il rinnovamento conseguente all’attacco della fillossera e dell’oidio di fine Ottocento, per poi crescere ancor più nel Novecento con la nascita del Consorzio, nel 1961, e l’ottenimento della DOC, nel 1970. Si pensi solo alla predilezione di alcuni famosi personaggi come Gianni Brera, Gino Veronelli e Mario Soldati per vini di assoluta tipicità dell’Oltrepò Pavese, quali il Barbacarlo, il Buttafuoco ed il Sangue di Giuda. Parlare del vino dell’Oltrepò Pavese ci costringe, però, a dover anche affrontare una storia spesso segnata pesantemente da scelte errate e gravi errori, che hanno offeso e profondamente sfregiato un territorio invece naturalmente vocato a produrre vini di qualità. Il cammino percorso, infatti, da gran parte dei vignaioli di queste parti (fortunatamente non da tutti), già diverse decine di anni fa, quando in altri territori italiani si era compreso come ci si dovesse orientare verso una viticultura fatta di saggezza, attenzione e qualità, fu invece orientato, malauguratamente, alla produzione di quantità a costi bassi. Così, un territorio che non aveva nulla da invidiare a ben più blasonati paesaggi, come quello del Chianti o delle Langhe, famoso nel mondo anche per la produzione di grande bollicine Metodo Classico da Pinot Nero, finì per essere asservito ad un mercato, di Milano e

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zone limitrofe, che chiedeva quantità a poco prezzo, riempiendo damigiane di un vino che, così vituperato, non aveva più nulla da raccontare di quel territorio dal quale proveniva. La sintesi dell’Oltrepò Pavese era, perciò, basso costo e qualità deprimente. Una brutta storia! Se a ciò aggiungiamo diversi scandali, casi di contraffazione ed il fallimento dei consorzi di tutela, si comprende facilmente come i vini provenienti da queste contrade, fino a tempi recentissimi, non fossero considerati meritevoli di alcuna considerazione, eccezion fatta solo per pochissimi produttori. È fin troppo chiaro che quando si danneggia un territorio in modo così grave e per un così lungo periodo di tempo, meritandosi una fama pessima a larghissimo spettro, rappresenta poi un’impresa a dir poco titanica cercare di riconquistare terreno, tentando di “ripulire” un’immagine che negli anni è stata letteralmente devastata. Ecco perché, ciò che vi sto per raccontare, acquista ancor più valore e merita un’attenzione particolare. Tutto inizia con la creazione del Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese, divenuto operativo nel 2012, nato col fine di unire le forze di viticoltori illuminati, rappresentativi di aziende medio-piccole, in grado di gestire l’intera filiera, dal vigneto all’imbottigliamento. In sintesi, una rete di imprese agricole impegnate nella produzione di vini di alta qualità e nella valorizzazione di un territorio che operi in sinergia con tutti gli attori del comparto vinicolo e turistico dell’Oltrepò Pavese. L’obiettivo è chiaro: tentare di cancellare l’idea dell’Oltrepò Pavese come patria del vino sfuso ed a basso prezzo, restituendo così al territorio la dignità che merita e dando vita, nello stesso tempo, ad un movimento di collaborazione e fattiva interazione fra le aziende che le incoraggi ad abbandonare inutili individualismi, nella ricerca di una crescita comune, frutto della condivisione di idee e conoscenze. Il mercato globalizzato pretende scelte strategiche, nette, precise, che mirino, in special modo in Italia, alla qualità senza compromessi, che esaltino il legame vino–territorio, che riconducano sempre al vino come fonte e frutto esso stesso di cultura, passione, tradizione. Ed è proprio questo il cammino che sta percorrendo il Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese, puntando alla qualità, salvaguardando l’ambiente, valorizzando l’indotto, favorendo la crescita non solo economica ma, anche e soprattutto in valore, di un intero territorio da troppi anni relegato ai margini. In particolare, l’attenzione del Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese si è da subito focalizzata su due dei numerosi vitigni coltivati in Oltrepò Pavese:

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• la Croatina, l’uva autoctona per eccellenza dalla quale nasce la Bonarda, il vino più noto e diffuso del territorio; • il Pinot Nero, dal quale si ottengono vini di grande qualità come il Metodo Classico e il Pinot Nero vinificato in rosso. Nel 2015 viene lanciato il Progetto Bonarda dei Produttori: arriva sul mercato la Bonarda “perfetta”, prodotta da 16 aziende agricole a filiera completa. Il disciplinare utilizzato per la produzione della Bonarda dei Produttori, più restrittivo rispetto a quello della DOC, mira a recuperare l’inconfondibile tipicità di questo vino per dare nuovamente lustro ad una delle icone dell’enologia lombarda. Le regole da rispettare per la produzione di questa nuova Bonarda, che sia immagine reale di un territorio di qualità, sono chiare ed inflessibili. La Bonarda “perfetta” nasce solo da zone collinari particolarmente vocate per la coltivazione della Croatina e, la resa per ettaro, non può essere superiore ai 110 quintali. Il grado alcolico non può essere inferiore ai 12% vol. mentre i solfiti devono rispettare la soglia dei 120 mg/l. Le aziende che aderiscono al progetto, come detto, gestiscono direttamente l’intera filiera, dalla vigna all’imbottigliamento. Tutte le operazioni quindi sono compiute nella zona di produzione. Il vitigno utilizzato è esclusivamente la Croatina a differenza di quanto stabilisce, invece, il disciplinare della Bonarda dell’Oltrepò Pavese DOC, che consente l’utilizzo della Croatina per l’85% e di altri vitigni per il restante 15%. La Bonarda “perfetta” è naturalmente frizzante, cioè la sua ricca spuma dal vivo color porpora è ottenuta esclusivamente dalla rifermentazione in bottiglia senza aggiunta di anidride carbonica. L’elevato standard richiesto dal regolamento di produzione è certificato da un ente esterno, che effettua controlli su campioni di vasca. La Bonarda “perfetta” viene imbottigliata nella Marasca, una bottiglia dal design unico, immediatamente riconoscibile, ideata appositamente per questo nuovo progetto di qualità e sulla quale spicca, in bella evidenza, il marchio del Distretto del Vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese. Il nome “Marasca” riporta, appunto, ad una varietà di ciliegia i cui profumi sono tipici proprio della Bonarda. La Bonarda è un vino molto moderno che si presta ad una infinità di abbinamenti. Di colore rosso rubino con riflessi porpora, violacei, ha un profilo olfattivo che riconduce alla ciliegia, all’amarena, ai frutti di bosco,

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alla violetta, talvolta a note speziate, di pepe. Un vino con un tannino presente ma mai aggressivo, con un corretto grado alcolico e con quella anidride carbonica che, per la sua capacità sgrassante, lo rende compagno ideale di piatti classici della tradizione lombarda a base di carne di maiale, di salumi ed insaccati, di carni grigliate, di preparazioni di pesce di una certa complessità e persistenza, di piatti della cucina etnica. Passa, quindi, anche per le mani ed il cuore dei produttori della Bonarda “perfetta”, il futuro di un territorio quale è l’Oltrepò Pavese ed il rilancio della qualità di un patrimonio ampelografico ed enologico di assoluta unicità, che ha tutte le potenzialità per sorprenderci. Augurandomi che presto altri vignaioli entrino a far parte dell’eccellenza enologica dell’Oltrepò Pavese, facendo compagnia al mitico Lino Maga ed al suo Barbacarlo, invito tutti ad aprire ed assaggiare non una bottiglia di Bonarda “perfetta” ma, ognuno con i suoi tempi, tutte le Bonarde “perfette”, perché ognuna di esse, pur parte di un progetto comune, è figlia di mani diverse, di un vignaiolo diverso, di un terreno diverso, di viti diverse. Tutte, uniche nella loro diversità, queste Bonarde condividono, però, la stessa profonda anima: quella che dimora nell’Oltrepò Pavese e nelle sue genti.

Roberto Vinci è sommelier professionista, fotografo e comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. www.robertovinci.org 79


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MUSICA

Gaetano Donizetti

Compositore e operista

A cura di Raffaele De Pascalis

“La mia nascita fu più segreta però, poiché naqui (sic) sotto terra in Borgo Canale. Scendevasi per una scala di cantina ov’ombra di luce non mai penetrò. E siccome gufo presi il mio volo…”. Questa è la frase che si legge oggi sulla lapide di marmo posta all’ingresso della casa natale di Gaetano Donizetti. Sono le parole con cui uno dei cinque più importanti compositori di tutti i tempi descrive, in una lettera a Simon Mayr, l’abitazione della sua famiglia d’origine. La casa in cui Gaetano Donizetti nacque il 29 novembre 1797 è a Bergamo, in Borgo Canale, dove a quei tempi gli edifici erano alquanto fatiscenti e poveri. La famiglia del compositore abitava nel seminterrato dell’edificio che oggi è visitabile anche a piano terra, a cui si accedeva attraverso una stretta scala. L’ambiente era molto spartano, composto da due stanze che fungevano da cucina e camera da letto, oltre che dai locali adibiti a pozzo e ghiacciaia. Luogo di valore storico e culturale, nel 1926 dichiarato Monumento Nazionale. La parte più antica (gli ambienti abitati dai Donizetti) è databile al XIV – XV secolo ed ha mantenuto l’aspetto originario: sfondo ideale per immaginare usi e comportamenti quotidiani del passato.

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Un destino che appare segnato, quello di Donizetti: nella sua vita intrecciò le note creando composizioni immortali proprio come i suoi genitori tessevano le stoffe. I genitori del Maestro erano infatti sarti e appartenevano a quella fascia di popolazione umile che si guadagnava da vivere lavorando per i signori dei ricchi palazzi di Città Alta. Donizetti riscattò le sue umili origini diventando famoso in tutto il mondo e portando lustro alla sua città. Certamente non è il modo più consono quello di iniziare un articolo “biografico” su un personaggio famoso parlando di numeri, ma sicuramente questo dato ci “avvicina” a quella che è la fama che ancora oggi segue ogni opera di questo insigne compositore. Domenico Gaetano Maria Donizetti è stato un compositore italiano, tra i più celebri operisti dell’Ottocento. La sua vasta produzione musicale, oltre a 73 melodrammi, comprende 28 cantate, 18 quartetti, 3 quintetti, 13 sinfonie, 115 composizioni sacre, e molte liriche da camera e oratori. Si stima che oltre un milione e mezzo di spettatori assistano ogni anno alle rappresentazioni delle sue opere; quelle oggi più sovente rappresentate nei teatri di tutto il mondo sono “L’elisir d’amore”, la “Lucia di Lammermoor“ e il “Don Pasquale”, e, con frequenza sono allestite anche “La fille du régiment”, “La Favorite”, la “Maria Stuarda”, “l’Anna Bolena”, la “Lucrezia Borgia” e il “Roberto Devereux”. Già dai contemporanei Gaetano Donizetti è riconosciuto fra i massimi operisti della sua epoca. Nei primi anni Quaranta, all’apogeo della carriera, dopo la prematura morte di Vincenzo Bellini e quello che viene definito il “silenzio operistico” di Gioacchino Rossini, si può affermare che in Europa non vi fosse nessun compositore di melodrammi a poter competere con Donizetti. Dopo la sua morte, però, le vicende politiche, il mutamento del gusto, e, in concomitanza, l’ascesa del nuovo “astro” Giuseppe Verdi, portano a un inevitabile offuscamento della sua opera e della sua figura. “Non era mai sazio di nutrirsi di quelle classiche composizioni per giungere a scoprire il magistero di poter comporre a quel modo. Come infatti dissemi una volta con mia sorpresa: nella prima sera porterò un Quartetto composto alla Haydn, ed era fatto; ed un’altra: alla Beethoven, alla Krommer…”, scrive nei suoi cenni biografici Marco Bonesi, violinista e compagno di studi di Donizetti a Bergamo. Entrambi studiarono alle Lezioni Caritatevoli, una scuola di musica nata nel 1806 dallo spirito illuminista del grande compositore bavarese Simon Mayr e sovvenzionata dal prestigioso ente della Misericordia Maggiore. Mayr, che ne fu maestro e mentore, rappresentò per tutta l’Italia del primo ottocento un punto di riferimento nel campo operistico e strumentale; inoltre fu tra i primi

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a studiare e promuovere l’esecuzione delle composizioni di Haydn, Mozart e Beethoven. Altre due figure furono fondamentali nella formazione musicale di Gaetano: Padre Stanislao Mattei, ritenuto uno dei musicisti più autorevoli dell’epoca, fu importante maestro di fuga e contrappunto a Bologna tra il 1815 e il 1817; e Antonio Capuzzi, allievo di Tartini, già compositore di quartetti per archi che trasmise a Gaetano l’esperienza compositiva ed esecutiva. La fama di Donizetti, però, non si ferma solo alla creazione di “opere” oggi famose, ma a questa si aggiungono altre composizioni di rilievo come quelle dei 18 “quartetti per archi” composte in periodi ben distinti quasi a segnare il cammino della sua vita di compositore. Il primo va dal 1817 al 1818: Donizetti, tornato da Bologna dopo aver terminato gli studi, compone una raccolta di sei quartetti (gli unici numerati). Questo primo periodo s’interruppe con la partenza del compositore per Venezia, dove per il teatro di San Luca mise in scena “l’Enrico di Borgogna”. Nel 1819, ritornato in patria dopo l’esordio veneziano, riprende a cimentarsi con la stesura di due quartetti, entrambi caratterizzati eccezionalmente dalla presenza di dediche autografe. Il VII è dedicato ad Alessandro Bertoli, signore bergamasco che ospitava riunioni quartettistiche nel salotto di casa sua e di cui Donizetti scrisse in una lettera: “Non scorderò mai che per mezzo suo imparai a conoscere tutti i quartetti di Haydn, Beethoven, Mozart, Reicha, Mayseder…”. L’VIII è invece dedicato al già citato compagno di studi Bonesi. L’attività quartettistica s’interrompe per un nuovo viaggio a Venezia nel dicembre del 1819, dove compone “Pietro il Grande, Zar delle Russie”. Nel 1821 tornato a Bergamo compone i quartetti dal IX al XVI. Successivamente mette da parte i quartetti e comincia a lavorare per una nuova opera, “Zoraida di Granata”, destinata ai teatri di Roma. Gli ultimi quartetti vengono composti a Napoli, durante due distinti periodi di forzata chiusura dei teatri napoletani. Il XVII nel 1825 e il XVIII nel 1836, particolarmente ispirato visto che più tardi il tema del primo movimento fu utilizzato per la stesura della sinfonia di “Linda di Chamonix”. Gli autografi dei quartetti di Donizetti sono conservati presso il Museo Donizettiano di Bergamo, la Bibliothèque Nationale di Parigi e la Biblioteca del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Nonostante la sfortuna continuasse a perseguitare il musicista, prima con la morte della moglie e di una figlia, e ancora più tardi con la perdita della seconda figlia, egli superò il dolore e la solitudine aumentando il ritmo del lavoro. Così, in pochi anni scrisse “Don Pasquale” e “Don Sebastiano del Portogallo”, “Linda di Chamonix”, “Maria di Rohanna” e il “Conte di Chalais”.

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Il teatro Donizetti di Bergamo

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La sua creatività e il suo intenso lavoro vennero ricompensati quando a Vienna, nel 1842, ricevette l’ambita nomina di Maestro di Cappella di Corte; ma la sua salute, già gravemente compromessa dalla sifilide, peggiorò sempre di più ed alla fine, nel 1846, fu internato, com’era abituale in quel tempo, nel manicomio di Ivry-sur-Seine. Nel 1847, trasportato a Bergamo, fu accolto dai baroni Basoni Scotti che lo assistettero fino alla morte, sopravvenuta l’8 Aprile 1848. Anche quest’ultimo momento della biografia del maestro merita una breve “parentesi” visto che è velato da una sottile trama di mistero. In seguito al decesso venne effettuata l’autopsia l’11 aprile che appurò la causa della morte nella sifilide meningovascolare. Donizetti venne sepolto nel cimitero di Valtesse nella Bergamo bassa, e tumulato nella cripta della nobile famiglia Pezzoli. La prima commemorazione ufficiale ha luogo a Bergamo nel settembre 1875, più di un quarto di secolo dopo la sua morte; e l’occasione è data dalla traslazione delle sue spoglie, insieme a quelle di Simon Mayr, dall’anonimo cimitero di periferia dove era stato sepolto, alla Basilica di S. Maria Maggiore, dove già nel 1855 lo scultore torinese Vincenzo Vela aveva eretto, su commissione del fratello maggiore del compositore, Giuseppe, a lui sopravvissuto, un monumento funebre in suo onore. A lato, il monumento a Simon Mayr, spentosi nel 1845 all’età di 82 anni: opera dello scultore bergamasco Innocente Fraccaroli, commissionato nel 1852 dalla città di Bergamo quale doveroso tributo all’insigne musicista. Ma durante l’esumazione della salma, nell’effettuare una ulteriore autopsia prima della traslazione nella tomba a lui dedicata, non venne rinvenuto il cranio del musicista. Venne prontamente iniziata la ricerca tra gli otto medici che avevano effettuato il primo esame. Le indagini portarono al ritrovamento della calotta cranica a Nembro, un piccolo comune della provincia di Bergamo, presso un nipote erede del dottor Gerolamo Carchen, presente all’autopsia del 1848, che aveva presumibilmente sottratto il cranio del musicista, complice la disattenzione dei suoi colleghi. Il reperto venne collocato prima nella Biblioteca Angelo Mai e successivamente nel Museo Donizettiano, e solo il 26 luglio 1951 la calotta cranica venne posta nella tomba, così da ricomporre l’intera salma del musicista. La commemorazione del 1875 fu densa di manifestazioni concertistiche, con musiche di due compositori: Amilcare Ponchielli (maestro di cappella nella basilica di Bergamo dal 1861 al 1886), che scrisse per l’occasione la cantata “Omaggio a Donizetti”, su libretto di Antonio Ghislanzoni, eseguita al Teatro Riccardi la sera del 13 settembre 1875. E se già esisteva una pubblicazione ad opera di Filippo Cicconetti che, nel 1864, aveva fatto stampare un volumetto interamente dedicato alla vita e all’opera di Donizetti, corredato da un catalogo delle composizioni e da una serie di lettere in facsimile; nel 1875 viene data alle stampe la prima di

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una lunga serie di monografie dedicate al compositore bergamasco: il volume “Donizetti e Mayr”, di Federico Alborghetti e Michelangelo Galli. La memoria del maestro è oggi custodita dalla Fondazione a lui dedicata e nel museo che si trova nella casa natale restaurata nel 2009 con un intervento che l’ha resa del tutto accessibile e aperta gratuitamente al pubblico. Da qualche tempo, inoltre, è possibile rivivere una “giornata in casa Donizetti” grazie al progetto “Impronte sonore”: un percorso multimediale che rievoca tramite i suoni la vita di una famiglia tipo del XVIII secolo nell’area bergamasca. Ma le rappresentazioni delle sue opere non “dimenticano” la Repubblica Ceca, ed infatti il prossimo 3 novembre sarà possibile vivere uno degli eventi più importanti della stagione operistica a Praga, vedendo, ma soprattutto, ascoltando “Le convenienze ed inconvenienze teatrali“ un’opera di Donizetti su libretto di Domenico Gilardoni, conosciuta anche come “Viva la mamma”; da un adattamento musicale in due tempi di Antonio Simeone Sografi, drammaturgo e librettista italiano nato a Padova (1759 – 1818), opera rappresentata prima in forma incompleta nel Teatro Nuovo di Napoli nel 1827, e poi, in forma rinnovata, al Teatro alla Canobbiana (poi Teatro Lirico) a Milano il 20 aprile 1831. Fonti: donizetti.org visitbergamo.net pragueoperatickets.com

Raffaele De Pascalis, originario del Salento, è architetto e fotografo e tratta principalmente temi ambientali e bio-architettura. Trasferitosi a Praga di recente, qui si dedica ad un’altra sua grande passione: l’enogastronomia. raffaeledepascalis@gmail.com 87


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CURIOSITÀ

Da Bergamo a Praga in auto d’epoca

Due città, quattro ruote e tanta magia

A cura di Giuseppe Gatta

Un evento che coinvolge tutti i sensi, che emoziona, che percorre tanti chilometri e unisce due città magiche. Parliamo del tour automobilistico in auto storiche che partirà da Bergamo e raggiungerà Praga e che si svolgerà dal 5 al 9 giugno 2018. Il tour si snoderà in un percorso di 1.450 Km, con prologo da Como e partenza da Bergamo. Il primo giorno si partirà da Como per Bergamo (5 giugno), ci saranno le dovute verifiche sulle auto, il rilascio della documentazione dai commissari e poi, al via la partenza! Nella mattinata del 6 giugno, nella splendida città dei mille – che ricordiamo, ha ottenuto qualche mese fa il riconoscimento da parte dell’Unesco per le sue mura venete – si partirà per raggiungere Trento, in circa sette ore. La tappa successiva, invece, collegherà la città di Alcide De Gasperi a Salisburgo (7 giugno), la penultima da Salisburgo a Brno (8 giugno) per arrivare, infine, a Praga il 9 giugno.

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Tutto il percorso coinvolgerà invece pienamente i partecipanti e li trasporterà nella vita del vero spirito mitteleuropeo, con degustazioni a tema di prodotti tipici e tappe in prestigiosi hotel. “L’evento – commenta il presidente dell’ACI di Bergamo, dott. Valerio Bottoni – è diretto a valorizzare il patrimonio storico-automobilistico, con la partecipazione di auto d’epoca costruite entro il 1981, che hanno avuto grande impatto a livello mondiale e internazionale”. E così sul red carpet vedremo spider, barchette, cabriolet e berline che, lucidate e lustrate a festa, affronteranno prove di abilità per dirigersi da Bergamo fino a Praga. Queste ricorderanno gli anno d’oro della dolce vita e del progresso ottenuto dalle case automobilistiche nel XIX secolo. Un evento che valorizza, oltre al patrimonio storico-automobilistico menzionato da Bottoni, anche un patrimonio naturalistico fatto di montagne e paesaggi da cartolina, laghi, fiumi e borghi storici che osservano severi, dall’alto, l’intero percorso. Le città di Como, Bergamo e Trento, oltre che naturalmente Praga, saranno le regine della manifestazione: la loro bellezza e maestosità faranno da cornice a un tour che, per la prima volta, collegherà su strada la città dei mille e la pittoresca capitale boema. Non resta, quindi, che attendere qualche mese, sognando nel frattempo di godersi lo spettacolo e il viaggio in auto d’epoca per raggiungere la città d’oro; del resto, come disse Borges, “Praga è piena di sogni persi in altrettanti sogni”. Programma dettagliato consultabile sul sito ACI di Bergamo: bergamo.aci.it

Giuseppe Gatta: Giornalista freelance e consulente legale, specializzato nella tutela dei consumatori, ha una grande passione per i viaggi e per l’arte, in particolare per la pittura, alla quale si dedica durante il suo tempo libero. gattag86@libero.it 90


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ITALIANI A PRAGA

Alessandro Battaglia Amministratore Delegato di AhRCOS

Alessandro Battaglia, 42 anni, è Amministratore Delegato di AhRCOS, una impresa specializzata in restauri architettonici e strutturali di immobili di pregio, che opera sia in Repubblica Ceca che in Italia. <<Sono un artigiano 2.0 e quindi una persona che ha passione nel costruire “le cose” e, soprattutto, nel riparare “le cose”, o meglio, “le case”. Questa capacità è mescolata con una vena imprenditoriale, ma sono e rimango un uomo del fare. Non mi occupo del settore immobiliare ma esclusivamente di ristrutturare, riparare, trasformare e ridare nuova vita agli edifici. La mia società, nata nel 1994, cura il restauro di edifici civili, produttivi, monumentali e industriali, a partire dalla fase progettuale: collaborando con diversi architetti, ne curiamo i dettagli, gli interni, gli esterni e tutte le strutture e le superfici. Produciamo, per i clienti, un approfondito studio dei costi e delle possibili diverse soluzioni innovative per il consolidamento ed il restauro. La nostra specializzazione è, comunque, quella di essere una vera impresa artigiana e quindi di essere, da generazioni, costruttori e restauratori nel senso stretto della parola. Conosco il mestiere e metto tutta la passione e la capacità nel farlo.

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Come mai mi sono trasferito a Praga? Adoro questa città e adoro questa nazione. Sto benissimo insieme agli amici cechi proprio come insieme agli amici italiani ed ho una famiglia mista. Il mio trasferimento qui, in realtà, più che un vero trasferimento è un felice “pendolarismo allungato”, in quanto mediamente sono a Praga il lunedì, il martedì ed il mercoledì mattina, mentre sono a Bologna il mercoledì pomeriggio, il giovedì e il venerdì. Chiaramente, il week end varia a seconda di dove si trovi in quel momento la mia (girandolona) famiglia. Ultimamente, comunque, la mia vita si svolge più a Praga che a Bologna. Sono venuto a Praga per la prima volta nel 2002 ma è dal 2010 che la vivo quotidianamente. Quando arrivai a Praga, nel 2002, rimasi estasiato da tanta bellezza architettonica e dalla semplicità del vivere in questa città. Anche oggi il modo di vivere a Praga è semplice, dinamico e la città è ancora più strutturata e organizzata. Adoro le possibilità che Praga concede ai suoi abitanti: concerti, eventi, spettacoli, musica di ogni livello e tipo, cucina, mostre, musei e un mondo da scoprire giorno per giorno. Praga è una città molto vivibile, accogliente, sicura ed organizzata: insomma, molto a misura d’uomo. Questa città mi ha cambiato la vita in maniera esplosiva. Mia moglie è praghese; i miei figli hanno la cittadinanza ceca (oltre a quella italiana) e frequentano le scuole sia a Praga che a Bologna: anche loro, infatti, si sono dovuti adeguare alla mia vita, a cavallo fra Repubblica Ceca e Italia. Praga è la mia seconda casa e la mia seconda vita, in senso assoluto. Grazie all’esperienza praghese, posso dire di poter vivere il doppio di quanto avrei vissuto se la mia vita sociale e professionale si fosse limitata alla sola esperienza italiana. Sotto alcuni aspetti, Praga è molto simile a Bologna: sono entrambe città allegre e conviviali, hanno ottime università ed offrono una vita sociale interessante, ottimi ospedali, servizi precisi e vivacità sociale. Al mio arrivo non ho incontrato nessun tipo di difficoltà; anzi, mi sono inserito subito, sia in ambito personale che lavorativo. Sono una persona allegra e costruttiva e mi ambiento molto facilmente. Lo scoglio più arduo è stata, comunque, la lingua. Certamente i lunghi inverni praghesi non aiutano ma, nelle sere più fredde, qualche birra in compagnia fa dimenticare il meteo. Di soddisfazioni, da quando sono arrivato, ne ho avute molte, ma la più grande è, senza dubbio, quella di aver realizzato i lavori di restauro e riparazione della Vlašská kaple Nanebevzetí Panny Marie, ovvero della Cappella Italiana

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dell’Assunzione della Vergine Maria, anche detta “Cappella degli Italiani”, in pienissimo centro storico. Durante questo intervento ho avuto modo di conoscere una persona speciale, ovvero l’Ambasciatore d’Italia a Praga Aldo Amati, che da quel momento è divenuto un amico vero. La Vlašská kaple Nanebevzetí Panny Marie” è l’immobile n. 88 del territorio di Praga Staré Město ed è un monumento nazionale, iscritto nel registro centrale. La Cappella riveste un ruolo importante e simbolico nella storia dell’arte ed è la testimonianza dei legami degli artisti locali barocchi ai loro maestri italiani. Testimonia, inoltre, l’espansione e la trasformazione dell’arte italiana al Nord delle Alpi. Un’ulteriore, enorme soddisfazione, sarebbe poter vedere tornare a nuova vita la “Congregazione degli Italiani” e spero che fra i tanti valevoli italiani presenti, presto qualcuno possa occuparsene. Sicuramente le possibilità ci sono, e le attività potrebbero essere coadiuvate dal prezioso e preparato lavoro dell’istituto italiano di cultura e della Camic. Un luogo per me molto speciale, a Praga, è Týnský Chrám, la Chiesa della madre di Dio davanti al Týn. È, architettonicamente, la chiesa più interessante della città ed è sita in Staroměstké Námestí. In questa chiesa mi sono sposato, mio figlio ha fatto la prima comunione e mia figlia il battesimo. Tutte le nostre cerimonie, grazie all’amico Don Vladimir Malék, sono state recitate di doppia lingua. Fabio, il mio primo figlio, ha fatto la prima comunione sia a Praga che in Italia, e lo stesso è stato per mia figlia. Qualsiasi cosa riguardi la nostra famiglia è sempre “doppia“, e legata alle due nazioni: doppia scuola, doppia casa, due compagnie di amici (che siamo riusciti a fondere), due parrocchie, due comuni, e così via… Dell’Italia non ho nostalgia, in quanto come detto sono un pendolare e passo il mio tempo fra i due Paesi; quindi prendo (e riesco a dare) il massimo da entrambi i posti, senza più notare differenze, singolarità e relative qualità. Il poterle vivere entrambe è un meraviglioso privilegio. Ad un italiano che desidera trasferirsi, consiglierei di stare sereno in quanto troverà amicizia e accoglienza, avvisandolo comunque che la difficoltà più grande che sarà tenuto ad affrontare è il clima (della lingua, meglio non dire nulla...). In ogni caso, essendo la città molto facile da vivere, non credo che vi siano scogli particolari da superare. Cosa farò in futuro? Penso che continuerò, nella mia bellissima vita, con la valigia sempre in mano…>>.

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FILOSOFIA

Spielberg 1822-1830

Storie di umanità “al di qua” e “al di là” nelle prigioni di Silvio Pellico

A cura di Flavio R.G. Mela

All’Istituto Italiano di Cultura di Praga si conserva un elemento decorativo in metallo, proprio di una chiave di volta, recante una suggestiva dedica ispirata a un italiano che, grazie al suo esempio di vita, ha lasciato un profondo segno nella memoria nazionale, quando ancora questa era in divenire, accesa dai furori dei moti risorgimentali. Quest’uomo fu Silvio Pellico, anima mite – come cita la dedica – e soave poeta gentile votato alla risurrezione della Patria che in questo duro carcere decennale con l’aureola della bontà e del martirio affrettava il Risorgimento italiano Saluzzo sua città natia 4-11-1924. Nella decorazione si scrive di un carcere e in verità Pellico di carceri ne “visitò”, suo malgrado, ben quattro. Tuttavia, quello che si ricorda nella frase fu uno dei più tremendi e temuti tra la fine del Settecento e l’Ottocento: lo Spielberg, situato presso la città di Brünn, oggi Brno, antica capitale della Moravia, da cui proviene la stessa “targa”.

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Pellico, ne Le mie prigioni, descrisse la casa di pena, “altre volte reggia de’ signori di Moravia”, come “il più severo ergastolo della monarchia austriaca”. All’arrivo dello scrittore piemontese, lo Spielberg contava circa trecento condannati, per lo più ladri e assassini, costretti a un regime di carcere duro. La spietatezza delle condizioni della fortezza di Brno fu leggendaria: i prigionieri erano “obbligati al lavoro, portare la catena a’ piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile”. Quando la condizione costringeva i reclusi al carcere “durissimo”, si veniva “incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno a’fianchi, e la catena infitta nel muro”. Molti italiani, accusati di essere affiliati alla Carboneria e quindi vicini a idee rivoluzionarie antiaustriache, ebbero la brutta sorte di infoltire i ranghi delle celle dello Spielberg, subendo un atroce destino, fatto di stenti e lontano dall’Italia. Pellico, iniziato al movimento carbonaro dal musicista e scrittore forlivese Piero Maroncelli, fu arrestato il 13 ottobre 1820. Dopo molti e duri interrogatori, durante i quali negò la sua appartenenza al gruppo sovversivo, posto alle strette dagli inquirenti e indicato come carbonaro da due coimputati, il giovane piemontese dovette arrendersi. Fu prima rinchiuso nel carcere di Santa Margherita a Milano per poi essere tradotto nella famosa prigione dei Piombi di Venezia e, infine, l’11 gennaio 1822, nel carcere dell’isola di Murano. Da quel momento, Pellico affrontava, insieme allo stesso Maroncelli, anch’egli dietro le sbarre, l’ultimo capoverso di una premessa di detenzione durata ben due anni. Fu certo di morire, destinato al patibolo, ma, come si legge nei suoi scritti, si sentì sempre pronto ad affrontare una pena capitale. Infatti, l’integrità morale, galvanizzata da un profondo sentimento religioso, frutto di un percorso personale nelle celle italiane, lo corazzò contro ogni sorpresa il futuro gli potesse riservare. Il 21 febbraio 1822, in smaniosa attesa nella propria cella, Pellico fu prelevato dal custode di Murano per essere traslato di fronte alla Commissione che gli palesò la sua pena: “condannato a morte”. Una fine attesa e accettata dal condannato, ma subito autorevolmente commutata da un decreto imperiale: “quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg”. La condanna fu letta e “sia fatta la volontà di Dio”, rispose Pellico, che, in cuor suo, pur elogiandosi per la paventata pazienza cristiana, ebbe un sussulto di rabbia tale che la sua profonda fede, per qualche tempo, ne fu minata. Travolto da sgomento e lontano dalla propria famiglia, Pellico, all’epoca dei fatti trentaduenne, pianse tutta la notte, dormendo poco o nulla. “Essere costretto da sventura ad abbandonare la patria è sempre doloroso,

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ma abbandonarla incatenato, condotto in climi orrendi, destinato a languire per anni fra sgherri, è cosa sì straziante che non v’ha termini per accennarla!”, così scrisse nelle sue memorie, svelando un animo decaduto nello sconforto e nell’imbarazzo di non vedersi libero nel futuro, deturpato com’era, anche nel fisico, da malanni. Tutto può fare presagire il peggio e la storia sembra prendere il largo verso le note di un requiem alla libertà. In effetti così è, ma il libro Le mie prigioni rivela un percorso parallelo. Non è solamente un resoconto, ma altresì un puro e vibrante manifesto di umanità. Pagina dopo pagina l’autore ricorda volti, ormai masticati dal tempo, che lui stesso ha ritratto con parole poetiche e sentite. In ogni prigione Pellico, di fatto, ha vissuto storie, la sua e di altri. La sua sopravvivenza è stata foraggiata da cause e concause legate a doppio filo con l’amorevolezza di gran parte delle persone che ha incontrato nelle sue tragiche vicende. Fin dal suo viaggio verso lo Spielberg, il piemontese racconta di come, ad esempio, nonostante la loro condizione di carcerati, sia lui che Maroncelli ricevettero una mirabile compassione in tutte le cittadine che l’itinerario imponeva di visitare. “Talvolta entrando in qualche paese, le nostre carrozze erano obbligate di fermarsi, avanti di decidere dove s’andasse ad alloggiare. Allora la popolazione si serrava intorno a noi, ed udivamo parole di compianto che veramente prorompevano dal cuore. La bontà di quella gente mi commoveva”. Una commozione destinata ad asciugarsi di fronte all’esasperazione. Il 10 aprile 1822 il convoglio, guidato da un commissario imperiale, arrivò a Brünn, cinta, come oggi, da una corona di spine chiamata Spielberg: “Salendo per l’erta di quel monticello, volgevamo gli occhi indietro per dire addio al mondo, incerti se il baratro che vivi c’ingojava si sarebbe più schiuso per noi. Io era pacato esteriormente, ma dentro di me ruggiva. Indarno volea ricorrere alla filosofia per acquetarmi; la filosofia non avea ragioni sufficienti per me”. Il soprintendente del carcere prese in consegna Pellico e Maroncelli, che, dopo essere stati iscritti “fra i nomi de’ ladroni”, furono chiusi, ognuno per sé, in due “tenebrose stanze” nei sotterranei della fortezza. Da quel momento l’unica loro veste fu un completo di “ruvido panno”, “grossa lana” e “stoppa piena di pungenti stecchi”. “Compivano questa divisa i ferri a’ piedi, cioè una catena da una gamba all’altra”. Ciò nonostante, anche nel luogo più lugubre e patetico, è possibile trovare calore e conforto, serenità e ancora coraggio per sopravvivere. Difficile a crederci, fors’anche per lo stesso Pellico, fu l’anziano capocarceriere dello Spielberg, di nome Schiller, a ispirare, primo tra tutti, questi sentimenti,

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mal celandoli dietro un ruolo scomodo, comunemente associato a caratteri ruvidi e aridi. Il vecchio fu il primo attendente dello Spielberg a parlare con Pellico. “Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a’ Turchi sotto il general Laudon a’ tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell’Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone”. Schiller, settantaquattro anni, si definiva un “uomo cattivo” per giuramento, “obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d’abusi”. A ciò si univa un forte senso di pietà, acquisito dopo molti anni nel trovarsi faccia a faccia con le sventure altrui. Il temuto Schiller, rispetto agli altri protagonisti, si divincola infatti tra le righe del racconto delle prigioni, delineandosi come un’identità sopra le parti, un traghettatore tra gli abitanti dell’al di qua e dell’al di là delle sbarre. Pellico, emotivamente afflitto dalla nuova condizione, incarnò, in un primo momento, uno spirito di disprezzo verso il carceriere, rinsavendo il suo giudizio solo poco dopo, quando valutò l’età del vecchio soldato e la sua sensibilità nel trattarlo con rispetto, nonostante la durezza di spirito che il piemontese non ebbe cura di nascondergli. Non mancò molto, infatti, che tra i due si instaurò un senso di riverenza e, in fondo, come lo stesso Schiller gli confidò: “Caporale qual sono m’è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!”. Pellico aveva giudicato male: “Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza, e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi, per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento”. Il capocarceriere prese a cuore il giovane prigioniero, colpito dai suoi modi gentili nonostante la condizione tremenda. Nei primi mesi, la febbre attanagliò l’esistenza del piemontese e solo le pressioni di Schiller poterono garantirgli una cella migliore nel piano superiore e delle cure adeguate per superarla con successo. Pellico si riprese, malgrado la sua permanenza, in quelle celle buie, umide e malsane, fu costellata da innumerevoli episodi di malattia. Niente in confronto a ciò che stava fuori, dove la vita scorreva nella sua normalità: “Nella stanza che mi diedero, penetrava alquanto di luce; ed arrampicandomi alle sbarre dell’angusto finestruolo, io vedeva la sottoposta valle, un pezzo della città di Brünn, un sobborgo con molti orticelli, il cimitero, il laghetto della Certosa, ed i selvosi colli che ci divideano da’ famosi campi d’Austerlitz”.

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Al capo 71, Pellico descrisse ancora la bellezza del mondo dei liberi, quasi come una Eden smarrito, lontano: “Quanto erano orribili i nostri covili, altrettanto era bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna, quel lontano moversi di creature nella valle, quelle voci delle villanelle, quelle risa, que’ canti ci esilaravano, ci faceano più caramente sentire la presenza di Colui ch’è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto di bisogno”. Era un al di là invitante, sensuale e che non fu totalmente precluso ai carcerati. “Fu stabilito che ciascuno di noi avesse, due volte la settimana, un’ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì, un giorno no; e più tardi ogni giorno, tranne le feste”. In queste brevi ore d’aria, Pellico, come gli altri, fu accompagnato da guardie, che prima di tutto, al di fuori della divisa, erano essenzialmente uomini: “Stavano in piedi, o sedeano vicino a me le guardie, e ciarlavamo. Una d’esse, per nome Kral, era un boemo, che, sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se l’era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con forte discernimento su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea cognizione di Klopfstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller e di molti altri buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un’infinità di brani a memoria, e li dicea con intelligenza e con sentimento. L’altra guardia era un polacco, per nome Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia mi era assai cara”. Fu proprio in quelle occasioni che lo scrittore piemontese poté incontrare persone che con il carcere erano connesse solo indirettamente, o per visite ufficiali o per rifornimento di provvigioni o, semplicemente, perché legate affettivamente a membri del personale interno. Tra queste la moglie del soprintendente dello Spielberg. Uno spaccato commovente e drammatico che Pellico descrive con delicatissima prosa, quasi a non dissacrare il già precario ritratto della donna: “La moglie del soprintendente era ammalata da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapè all’aria aperta. È indicibile quanto si commovesse esprimendomi la compassione che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e quantunque timido, s’attaccava di quando in quando con intensa interrogante fiducia allo sguardo di chi le parlava”. La donna morì poco tempo dopo. Distogliendo lo sguardo da quella finestrella all’interno della cella di Pellico, al di qua delle sbarre, il paesaggio ripiegava su se stesso fino a ribaltarsi verso la sconfinatezza dell’animo umano. La carica emotiva di tutti, secondini e carcerati, quel senso di rispetto e di compassione da un

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lato e quella sofferenza accettata dall’altro, rendeva l’ambiente torbido di sentimenti. Un fil rouge, a volte, tesseva ricamati legami tra le angosce che custodivano quei corridoi: le cantilene degli italiani. Quanti lì dentro? Tanti, troppi: a volte delinquenti comuni, altre volte additati come sovvertitori dell’Impero Austriaco. Saranno i martiri patrioti del Risorgimento Italiano. Tra quei nomi si legge Antonio Fortunato Oroboni. Poco meno che trentenne e d’origine veneta, accusato di affiliazione alla Carboneria, riuscì, con grande rischio, a comunicare con Pellico, sfruttando la vicinanza tra le loro celle. A dispetto dei duri richiami delle guardie, poiché ai prigionieri era proibito chiacchierare tra loro, i due italiani insistettero tenacemente nel cercarsi, confrontarsi e confortarsi. Trafitti da solitudine, non potevano e non volevano assecondare quel silenzio obbligato. Di quel rapporto Pellico scrisse: “Ci legammo di tenera amicizia. Mi narrò la sua vita, gli narrai la mia; le angosce e consolazioni dell’uno divenivano angosce e consolazioni dell’altro. Oh di quanto conforto ci eravamo a vicenda! Quante volte, dopo una notte insonne, ciascuno di noi andando il mattino alla finestra, e salutando l’amico, ed udendone le care parole, sentiva in core addolcirsi la mestizia e raddoppiarsi il coraggio! Uno era persuaso d’essere utile all’altro, e questa certezza destava una dolce gara d’amabilità ne’ pensieri, e quel contento che ha l’uomo, anche nella miseria, quando può giovare al suo simile”. Oroboni spirò nella sua cella il 13 giugno 1823, colpito da tisi, perdonando “di cuore” i suoi nemici. Nel gennaio 1823 Silvio Pellico ebbe un critico malessere fisico. Il suo preoccupante stato di salute allarmò tutto il personale dello Spielberg e anche il governatore della città di Brünn. La situazione si fece così grave che il piemontese chiese l’estrema unzione, non curante delle parole di conforto del capocarceriere Schiller: “L’occhio mio è esercitato a veder malati: scommetterei ch’ella non muore”. Fu in quell’occasione che Pellico poté finalmente incontrare nuovamente il suo pregiatissimo amico Piero Maroncelli, affidatogli come infermiere e anche come compagno di cella. La gioia fu incontenibile, rivitalizzando l’animo di entrambi. “Oh qual momento fu quello! – Tu vivi? Esclamavamo a vicenda – Oh amico! oh fratello! Che giorno felice c’è ancor toccato di vedere! Dio ne sia benedetto!”. E ancora scrisse nelle prigioni: “L’indole di Maroncelli e la mia armonizzavano perfettamente. Il coraggio dell’uno sosteneva il coraggio dell’altro. S’un di noi era preso da mestizia o da fremiti d’ira contro i rigori della nostra condizione, l’altro l’esilarava con qualche scherzo o con opportuni raziocini. Un dolce sorriso temperava quasi sempre i nostri affanni. […] Io non noto quante volte le mie malattie sgombrarono e ricomparvero. L’assistenza

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che in esse faceami Maroncelli era quella del più tenero fratello. […] Un grande amore per la giustizia, una grande tolleranza, una gran fiducia nella virtù umana e negli ajuti della Provvidenza, un sentimento vivissimo del bello in tutte le arti, una fantasia ricca di poesia, tutte le più amabili doti di mente e di cuore si univano per rendermelo caro”. Persino, poi, in quella bolgia di dolore era possibile parlare di amore, un “innocente amore”. Un sentimento che aveva nutrito una “buona caporalina ungherese, venditrice di frutta” nei confronti proprio di Maroncelli, con il quale, scambiandosi qualche battuta da sotto la cella, erano entrati in amicizia. Lei “era anima sì onesta, sì dignitosa, sì semplice nelle sue viste, che ignorava affatto d’avere innamorato la pietosa creatura. […] Non era bella, ma dotata di tale espressione di gentilezza, che i contorni alquanto irregolari del suo volto sembravano abbellirsi ad ogni sorriso, ad ogni moto de’ muscoli”. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, Pellico e Maroncelli vissero una quotidianità spensierata, pacificati com’erano negli animi. Una serenità destinata, tuttavia, ad avere una battuta d’arresto, soprattutto per il giovane musicista romagnolo, a cui fu diagnosticato un tumore al ginocchio che gli causò l’amputazione della gamba. Malgrado questo accadimento, facendo leva sulla propria fede e sul valore dell’amicizia, i due amici sopravvissero a lunghi giorni di tedio, affrontando insieme e con tenacia la dura vita dello Spielberg. In un esuberante appunto, Pellico scrisse testualmente: “Ah l’amicizia e la religione sono due beni inestimabili! Abbelliscono anche le ore de’ prigionieri, a cui più non risplende verisimiglianza di grazia! Dio è veramente cogli sventurati, cogli sventurati che amano!”. Con questa forza riuscirono a portarsi avanti per dieci lunghi anni, fino a quando non gli fu comunicata la grazia da parte dell’Imperatore. Il primo agosto del 1830 Silvio Pellico, Piero Maroncelli e un terzo italiano di nome Andrea Tonelli, dopo aver tanto sofferto, tornavano in libertà: “Ci abbracciammo. Non potevamo più pranzare. Favellammo sino a sera, compiangendo gli amici che restavano”. Uscito dallo Spielberg, quel temibile ricettacolo di “morte lenta”, Pellico respirò di nuovo a pieni polmoni aria di vita: “Era un bellissimo lume di luna. Le strade, le case, la gente che incontravamo, tutto mi pareva sì gradevole e sì strano, dopo tanti anni che non avea più veduto simile spettacolo!”. Dopo un viaggio di giorni, tornò nuovamente in Italia, in direzione di Torino. Si concludeva così l’avventura da captivo di Silvio Pellico, uomo colto e dalla raffinata saggezza, fomentata da un credo di amore vissuto sulla pelle della sua stessa vita. Un patriota certo, ma di quale natura? La sua rivoluzione

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fu senza ombra di dubbio caratterizzata da una formidabile tenacia, quasi stoica, nell’affrontare la durezza di un regime, quello austriaco, che opprimeva l’identità di una cultura, quella italiana, prossima al decollo verso la sua indipendenza. La lezione di Pellico, tuttavia, trasmigra al di là dei fatti storici, varcando la soglia dell’immortalità e offrendo a ogni uomo una riflessione profonda sulla libertà, quella scevra da emozioni quali l’odio e l’acredine e che non si rassegna all’aforisma homo homini lupus. Gli scritti del poeta piemontese, come un vangelo laico, definiscono i tratti di una volontà desiderosa di difendere, senza remore, l’umanità stessa, intesa come vestale di valori universali che nessuno Spielberg può asfissiare con le sue mura. Si direbbe che Pellico abbia viaggiato attraverso l’umanità, scoprendola e glorificandola con i suoi pregi e difetti, ma senza mai condannarla. Anzi, ne fa quasi un ponte ideale per conoscere l’amor che move il sole e l’altre stelle senza la necessità di compiere viaggi ultraterreni. A chiusura de Le mie prigioni, infatti, dedica una benedizione alla Provvidenza, di cui gli stessi uomini, “si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sé”. Siti: spilberk.cz/it

Originario della Sicilia, Flavio R.G. Mela è specializzato in progettazione e management nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale. Ha lavorato come esperto di settore in diversi progetti, anche con ruolo di coordinamento, per il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e per il Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana. Residente a Praga, attualmente svolge l’attività professionale di bibliotecario presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga e collabora con la Fondazione “Eleutheria”. flaviorgmela@gmail.com 107


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ITALIANI NEL MONDO

Paolo Gallo

CHRO al World Economic Forum, Autore e Transformational Coach

A cura di Paola Caronni

Paolo Gallo è responsabile delle Risorse Umane al World Economic Forum a Ginevra ed autore de “La Bussola del successo”, edito da Rizzoli. Nella sua carriera – presso la Banca Mondiale, Citigroup, la Banca Europea della Ricostruzione e lo Sviluppo e all’International Finance Corporation di Washington – ha lavorato in 70 nazioni diverse e collaborato con ogni genere di organizzazioni. Speaker in eventi internazionali sulla leadership e lo sviluppo personale, è transformational coach per persone che vogliono cambiare la propria vita, non solo professionale. Scrive su Harvard Business Review Italia, su Forbes e sull’agenda del blog del WEF e collabora con l’Università Bocconi e la Ashridge Business School in Gran Bretagna.

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Dott. Gallo, la sua vasta esperienza lavorativa spazia – per citarne alcune – dalle banche d’investimenti alle risorse umane, alla Banca Mondiale e infine al World Economic Forum, dove attualmente si occupa di implementare ‘strategie per il capitale umano’. Cosa hanno significato, per lei, questi diversi passaggi di carriera? Ho sempre avuto il desiderio di imparare e di confrontarmi con realtà diverse, giocando sempre “fuori casa”. Lavoro all’estero da 25 anni: Stati Uniti, Inghilterra e Svizzera. Questo desiderio non mi è mai mancato, neanche dopo quasi trent’anni di carriera. Mi affascina sia risolvere problemi contestuali e relazionali che concettualizzare, e poi implementare, soluzioni sistemiche, come ad esempio disegnare programmi di formazione manageriale, per far acquisire competenze e comportamenti specifici. La missione del World Economic Forum è di coinvolgere i vari leader mondiali affinché si raggiungano scopi comuni, volti a promuovere progetti che abbiano un impatto positivo sulla società. Come identifica il suo ruolo nell’organizzazione, tenendo conto di questa missione?

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Dico sempre che, sia alla Banca Mondiale che al World Economic Forum, assumo “missionari, non mercenari”; persone che sono guidate da un profondo senso di “mission purpose”, motivate non solo da fattori economici. In altre parole, le competenze sono necessarie ma non sufficienti: conta anche il cuore, quello in cui si crede. Lei ha lavorato in più di 70 paesi. Qual è quello che più l’ha colpita, dal punto di vista dell’etica del lavoro, e cosa ha tratto da questa esperienza di continuo contatto con realtà culturali diverse? Credo di essere fortunato ad aver lavorato in tantissimi paesi: ho imparato molto da ogni esperienza. Sicuramente, ci sono paesi che amo in maniera particolare come il Brasile, l’Etiopia, il Marocco, la Cambogia, il Giappone ma il punto è un altro. Nei paesi più poveri – ed ho lavorato in molti di questi, come ad esempio nello Zimbabwe – la gente non vuole carità, ma opportunità e rispetto. Certo, tra un paese e l’altro si notano facilmente grandi differenze – si pensi al cibo, alla musica, alle tradizioni, alla religione – ma abbiamo tutti gli stessi valori: amore per la famiglia, senso del rispetto, dignità, voglia di crescere.

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Cosa ha significato essere italiano nei vari, importanti contesti internazionali in cui ha lavorato? Ha incontrato discriminazioni o pregiudizi? O forse la sua nazionalità l’ha aiutata? Se mi avessero dato un euro per ogni battuta ricevuta sull’essere italiano (“guarda, il mafioso!”), adesso guiderei una Ferrari. Certo, ci sono stati molti momenti che, soprattutto all’inizio della mia carriera, mi hanno fatto soffrire, ma essere italiano mi ha permesso di avere la creatività ed il senso dell’umorismo che ci contraddistinguono e che, credetemi, aiutano molto! Emerge, dai suoi discorsi, un’immensa fiducia nei giovani. Che consigli può dare ai ragazzi italiani che escono dall’università dopo avere investito in anni di studio e non trovano un impiego nella propria patria? È sufficiente credere nei propri sogni? Sognare sì, ma con realismo. Se fossi il Ministro dell’Istruzione, renderei obbligatoria una esperienza all’estero. Non per “scappare”, ma per imparare. Nel mio libro La Bussola del Successo, cerco aiutare le persone a scoprire la loro passione e a trovare la loro strada. Insegno all’Università e nutro un enorme rispetto per i giovani e per gli sforzi che fanno ogni giorno, in un clima sempre più difficile. Quando mi laureai, ricevetti nove offerte di lavoro; adesso, forse, non ne riceverei neanche una. Lei individua nel fallimento il meccanismo indispensabile alla crescita professionale e personale. Ma come reagire con positività quando i fallimenti non fanno che generare delusione e mancanza di fiducia in noi stessi? Il fallimento non è l’opposto del successo ma, piuttosto, il processo per arrivarci. Quando si fallisce, non ci si deve sentire delusi ma porsi delle domande: cosa ho imparato? Quali opportunità vedo? Cosa posso fare, la prossima volta, di diverso? Ci parli de “La Bussola del Successo”, il suo ultimo libro. Innanzitutto, mai mi sarei aspettato che arrivasse alle quinta edizione, per essere poi tradotto in molte lingue. Ho ricevuto oltre duemila messaggi da persone che hanno letto il libro ed ho capito che sono riuscito ad aiutare molta gente, anche semplicemente a porsi le domande giuste. Il libro non fornisce risposte prefabbricate, né tantomeno sostiene che “se fai così diventi ricco”: quello lo lascio fare ai ciarlatani. La Bussola del Successo si basa su alcune domande: Come faccio a scoprire la mia passione? Che differenza c’è tra passione e talento? Come faccio a “capire” una

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organizzazione? Come faccio a conquistare fiducia? Di chi mi posso fidare? In questo viaggio, il lettore arriverà alle domande finali: Cosa vuol dire avere una carriera di successo? Cosa vuol dire rimanere liberi? Quale è il consiglio che può dare a chi fosse intenzionato a seguire una carriera nelle risorse umane o nel ‘coaching’? Sono due carriere diverse, che partono dal desiderio di aiutare le persone e le organizzazioni a funzionare meglio. Posso solo dire questo: se scegliete una carriera nelle Risorse Umane, preparatevi a momenti meravigliosi e ad altri spaventosamente difficili. Se avete fiducia in voi stessi e negli altri però, ne vale davvero la pena.

Paola Caronni: insegnante, interprete, traduttrice, poetessa e scrittrice, è originaria di Milano e si è trasferita a Hong Kong nel 1995. Qui si è distinta per l’intensa attività filantropica svolta nell’ambito dell’Associazione Donne Italiane, di cui è stata Presidente dal 2008 al 2011: ruolo per il quale le è stata conferita, il 16 gennaio 2013, l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia. paolacaronni.wordpress.com

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LIBRO

La bussola del successo

Le regole per essere vincenti restando liberi

Perché persone che all’inizio della propria storia lavorativa hanno “il mondo in mano” spesso finiscono per non raggiungere gli obiettivi o, raggiungendoli, si scoprono insoddisfatte di quanto hanno ottenuto? Come mai solo alcuni hanno successo, molti si limitano a sopravvivere e tanti, troppi falliscono? Per Paolo Gallo, responsabile delle Risorse Umane del World Economic Forum, la ragione è che adattarsi alle regole non scritte delle organizzazioni non significa adeguarsi a qualunque costo. L’importante è capire quali sono i propri valori e qual è la cultura aziendale che li soddisfa, perché “solamente scegliendo e costruendo una carriera allineata ai nostri scopi e alle nostre motivazioni profonde, saremo in grado di fare un buon lavoro e di conseguenza avremo successo e gratificazioni”. Scegliere l’organizzazione in cui lavorare può sembrare un lusso di altri tempi, è vero, ma molti studi e ricerche, nonché l’osservazione di centinaia di carriere, confermano che solo quando una persona riesce a trovare un lavoro e un’organizzazione in linea con i propri valori e attese finirà per utilizzare pienamente il proprio talento e potenziale, evitando così di trovarsi in una posizione precaria e vulnerabile. Alla luce della lunga esperienza dell’autore – che ha lavorato in tutto il mondo in ogni genere di organizzazione –, il libro ridefinisce totalmente i criteri di ciò che è una carriera di successo e offre a chi sta entrando nel mondo del lavoro, ma anche a chi sente il bisogno di cambiare rotta, consigli e strumenti per creare un proprio percorso non convenzionale, in linea con le aspettative e i valori di ciascuno.

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INCONTRI PRAGHESI

Alessio Conton

Amministratore Delegato per l’Europa Centrale ed Orientale presso SIAD

A cura di Stefania Del Monte

Alessio Conton è Amministratore Delegato per l’Europa Centrale ed Orientale presso SIAD, uno dei principali gruppi chimici italiani che opera nella produzione e vendita dell’intera gamma di gas industriali, alimentari, speciali e medicinali, oltre che nei settori sinergici dell’ingegneria, della salute, dei servizi e dei beni industriali. Fondata a Bergamo nel 1927, SIAD ha consolidato il proprio know how divenendo uno dei leader nelle proprie aree di competenza. Conton è entrato a far parte del gruppo SIAD nel 2010 come Amministratore per la Repubblica Ceca, dove risiede tuttora. La sua carriera è iniziata all’Estero nella consulenza internazionale che lo ha portato ad operare in diversi Paesi europei, dalla Russia alla Slovenia. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza ed un master, Conton si è specializzato in diritto tributario internazionale in Germania. I suoi hobby comprendono la linguistica e la filologia slava.

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Dott. Conton, prima di giungere a Praga ha viaggiato molto, sia per studio che per lavoro. Come è approdato in Repubblica Ceca? Praga non poteva che conquistarmi sin dal primo viaggio nel 1990, a cui si alternarono negli anni successivi visite e letture che corroboravano una passione profonda per la città e la cultura ceca. Dall’iniziazione del classico di Ripellino ai sinuosi testi di Hrabal. L’occasione arrivò diversi anni più tardi quando mi veniva offerto uno stage presso la sede praghese di una società di consulenza. Che impressione ha avuto, di Praga, al suo arrivo? Nel corso del tempo, come si è evoluta la sua impressione iniziale? Gli inizi confondevano ricordi e sensazioni delle visite precedenti, una commistione di romanzesco e strascichi del regime passato che vedevo ancora disseminati in un Paese che credevo non essersi ancora appropriato di una nuova dimensione. Mi sbagliavo, abbagliato da quello che è un meraviglioso ed affascinante aspetto del popolo ceco. Un essere sopra le righe, sfuggente, sornione, di un’ironia sottile. Sarebbe banale parlare della qualità delle vetrine di oggi, di come abbondino specialità di ogni angolo del mondo, locali di design, lo scimmiottare hipsterico… Piuttosto preferirei lanciare un appello per la tutela di una Praga che va perdendosi ed uso la metafora della costellazione di hospůdky che stanno scomparendo, minacciate anche da un goffo pseudosalutismo dilagante.

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Dal 2010 lavora per SIAD, una consolidata industria bergamasca che, ormai da molti anni, si è affermata anche in territorio ceco. A cosa è dovuto questo successo? Il successo è dovuto chiaramente a più fattori. Siad è certamente unica nella dedizione e nella passione profuse al lavoro che facciamo, nel credere fermamente nei valori dell’onestà e della centralità della persona. Visitando le nostre sedi estere una delle gioie più grandi è quando i nostri collaboratori si dicono orgogliosi di esser parte del gruppo Siad. (E comunque i gas siamo proprio bravi a farli!) (e sorride, NdR). Anche grazie alla vostra sponsorizzazione, nel 2017 è stata riaperta la “Cappella dell’Assunzione della Vergine Maria”, a Praga. Che cosa vi ha spinto a sostenere un progetto così ambizioso? Durante i lavori di restauro veniva trovato un documento, murato, nascosto nel passato da dei nostri connazionali. Racconta di italiani in terra boema, di una patria amata, lontana, ma al contempo presente di fatto in un gioiello artistico come appunto la Cappella. Questo apparente ossimoro di anelito di patria e superamento del concetto di confine credo sia un poco la risposta a quanto mi chiede. Testimonia scambi, arricchimento, osmosi, crescita. Siad ha creduto fermamente nella necessità di salvare una tale testimonianza.

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Leggendo la sua biografia, si scopre che parla molte lingue. Un fatto che denota una spiccata personalità internazionale. Dove si sente più a casa? Credo ci si possa sentire a casa lì dove si hanno i propri affetti, passati, presenti…presunti. Le piace collezionare cartoline storiche di Litoměřice: un hobby sicuramente non comune. Com’è nata questa passione? Scoprii Litoměřice diversi anni fa, sbagliando l’uscita dell’autostrada mentre ero diretto a Terezin. La città mi ha incantato e ho iniziato a raccogliere un paio di cartoline, testimonianze di un passato illustre… da un paio di pezzi, mi sono fatto prendere. Ha un sogno nel cassetto? Un progetto ancora da realizzare? Tantissimi progetti in campo lavorativo. In campo personale di sogni e progetti comincio, con l’età, ad aver una sorta di timore riverenziale. Contatti: siad.com

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Chiesa di San Vaclav a Litoměřice


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RELAZIONI BILATERALI

Gentiloni visita Praga

Incontro con Sobotka e tappa alla Cappella degli italiani

Lo scorso 7 settembre, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni è giunto in visita a Praga. Il programma ha incluso una tappa alla Cappella degli italiani, appena restaurata, in compagnia del collega Sobotka e alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca Aldo Amati e del Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura Giovanni Sciola. L’edificio di forma ovale manierista con cupola, fa parte della struttura storica del Klementinum, nel cuore della capitale ceca. Fu costruito tra il 1590 ed il 1597 per le esigenze della comunità italiana a Praga, che già all’epoca era piuttosto numerosa, e per molto tempo la sua funzione non fu esclusivamente ecclesiastica ma anche laica, ospitando spesso rappresentazioni teatrali che, per ragioni climatiche, non era possibile tenere all’aperto. Di fatto inagibile da oltre vent’anni a causa della precaria condizione strutturale, la Cappella di proprietà della Repubblica Italiana è stata restaurata grazie al decisivo intervento dell’ambasciatore Aldo Amati. Oltre al Ministero degli Esteri italiano, hanno partecipato al progetto il ministero della Cultura ceco, il Comune di Praga e la Chiesa greco-ortodossa della Repubblica Ceca. Decisivi anche i contributi degli sponsor privati Siad e Ahrcos costruzioni.

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Foto T. Barchielli Presidenza del Consiglio dei Ministri


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Prima della visita alla cappella, Gentiloni era stato ospite del primo ministro ceco Bohuslav Sobotka, nel quartiere di Malastrana, trovando un’accoglienza molto calorosa da parte del collega ceco, genuinamente impegnato ad evitare una pericolosa censura Est-Ovest nell’Unione Europea. Da mesi a disagio per la deriva anti-comunitaria di Polonia e Ungheria, la Repubblica Ceca fatica sempre di più a trovare un minimo comune denominatore con i due partner del gruppo di Visegrad (V4): postura, questa, che ha registrato anche Berlino. Si esprime invece compiacimento per la rinascita del “triangolo di Austerlitz” (Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria), nato su iniziativa dello stesso Sobotka, nel 2014, e ritenuto capace di garantire una dialettica fertile. Il primo ministro ceco non ha mai avuto dubbi sulla priorità di mantenere la Repubblica Ceca ben ancorata nell’Unione Europea. Comprende perfettamente tutte le possibili implicazioni, per il proprio Paese, derivanti da possibili accelerazioni nel processo di integrazione dell’UE, dopo il test elettorale tedesco. Non a caso, nei mesi scorsi, la Repubblica Ceca ha avanzato la richiesta di poter essere ammessa come “osservatore” all’Eurogruppo. Su questo terreno, Praga cerca importanti interlocutori e sponde nella Francia e nell’Italia. L’economia ceca, pur florida con una crescita annuale prevista per quest’anno intorno al 4%, si trova in un “cul de sac”: è competitiva anche grazie a basse retribuzioni, ma queste rappresentano un freno ai consumi interni, alla stessa crescita, e spingono la manodopera più qualificata verso mercati esteri. Il governo socialdemocratico, analogamente al nostro, vede nel rafforzamento della dimensione sociale un momento essenziale per avvicinare le istituzioni europee ai cittadini ed è pronto a discutere di politiche fiscali espansive, soprattutto sul lato degli investimenti. Altro punto qualificante che accomuna l’Italia alla Repubblica Ceca è lo sviluppo in tempi ragionevolmente brevi della Difesa Europea: l’esigenza politica di sicurezza ha ripreso vigore a seguito delle prese di posizione “ondivaghe” del Presidente americano sulla Nato e della nuova assertività russa. Identiche, infine, la posizione ceca e quella italiana sui Balcani Occidentali e sull’esigenza di integrarli pienamente nell’Unione Europea. In tema migratorio, le recenti misure adottate dal governo italiano – che hanno determinato un calo dei flussi di migranti sulle nostre coste – sono state salutate a Praga con ammirazione e rispetto. Lo scetticismo sulla nostra

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capacità di difesa dei confini meridionali dell’EU, ha lasciato il posto a piena disponibilità e aiuti finanziari crescenti. Il contributo all’operazione “Sophia” è passato dai 40mila euro del 2016 agli 800mila di quest’anno. Pronta è stata l’adesione del governo ceco alla proposta italiana di un’iniziativa comune con l’UNHRC in Costa d’Avorio, così come è stata prospettata la messa a disposizione di beni rilevanti per la Guardia Costiera libica. Anche sul terreno delle risorse da impegnare per possibili campi di raccolta di migranti sulla sponda africana, si può trovare un attento interlocutore in Praga. È inutile nascondere che la Repubblica Ceca rimane contraria al sistema delle quote obbligatorie, nonostante l’economia ceca soffra di una grave mancanza di manodopera, alla quale si intende semmai porre rimedio accogliendo ucraini, moldavi, bielorussi e cittadini di Paesi balcanici. La mancanza di solidarietà nei confronti degli immigrati di religione islamica ha cause vicine e lontane. Recentemente si è assistito a una campagna politica ideologica molto vicina ad assimilare l’islamismo al terrorismo fondamentalista. A ciò si aggiungono ragioni più profonde. I cechi non hanno dimenticato le lezioni del passato: il “tradimento” dell’Europa occidentale a Monaco, nel 1938, e l’episodio più vicino temporalmente del 1968, quando nelle capitali europee non si è potuto andare oltre una ferma condanna politica dell’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia. Ma c’è di più. Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro, nel 1989, la leadership politica di centro-destra ha fatto passare il messaggio alla popolazione che era giunto il momento che ciascuno prendesse in mano il proprio destino, mentre lo stato sociale comunista si sgretolava inesorabilmente. Il prezzo da pagare, anche psicologico, è stato alto. Dopo anni duri per larghi strati sociali, si vedevano finalmente tangibili risultati di nuova prosperità, bruscamente interrotta dalla crisi economica del 2009 e protrattasi a lungo. I cechi, soprattutto quelli di età medio-alta e meno abbienti, soffrono dunque di un riflesso condizionato che li porta a pensare che un innesto di popolazione islamica non solo rappresenterebbe un pericolo per la propria sicurezza, ma metterebbe a rischio il benessere che si sono conquistati faticosamente. A tutto ciò, si aggiunge un conservatorismo di fondo, la paura del “diverso” e del “nuovo” rappresentati mirabilmente da autori come Kafka, Hrabal e Capek. La visita a Praga da parte del Ministro Gentiloni, ha avuto luogo a poco meno di due mesi dalle elezioni generali, quando la campagna elettorale

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era già “surriscaldata” da aspre polemiche politiche. Della stagione politica conclusasi il 21 ottobre, i cechi hanno apprezzato la sostanziale stabilità politica e, soprattutto, la crescita economica che ha portato con sé un importante innalzamento dei salari e del benessere, soprattutto nelle grandi città. Il rinnovo delle cariche politico-istituzionali ceche proseguirà con le elezioni presidenziali in due turni a partire da metà gennaio. L’attuale Presidente – il social democratico Milos Zeman – ha confermato la sua candidatura, nonostante le precarie condizioni di salute e il calo di popolarità degli ultimi mesi. Tra gli sfidanti, il più accreditato sembra essere Jiri Drahos, ex Presidente dell’Accademia delle Scienze. Non si possono escludere colpi di scena fino alla vigilia delle elezioni, così come non è escluso che un accordo sulla più alta carica dello Stato ceco possa concretizzarsi fra i partiti vincitori nel corso della formazione del prossimo governo. Il premier Sobotka, vorrebbe quindi poter contare su una piattaforma che consenta alla Repubblica Ceca di rimanere in qualche modo aggrappata al nocciolo duro dei Paesi europei. Vede, dunque, nell’Italia un partner il cui peso specifico è cresciuto in seguito alla Brexit, oltre che un alleato che possa aiutare la Repubblica Ceca a non rimanere ai margini del dibattito europeo. L’auspicio del premier ceco, espresso anche durante il suo incontro con Gentiloni, è di “congelare” il contenzioso sulle quote migratorie nel rapporto bilaterale e sviluppare una collaborazione a tutto campo. In tutto ciò non sono estranee considerazioni economiche. Sotto questo profilo, infatti, l’Italia e la Repubblica Ceca non sono mai state così vicine: in tre anni l’Italia è divenuta il quinto Paese fornitore di beni (dopo Germania, Slovacchia, Polonia e Cina) e l’interscambio bilaterale è cresciuto del 23%. L´Italia è anche nella top ten dei maggiori investitori esteri in Repubblica Ceca. Nel Paese sono presenti grandi realtà e, soprattutto, molte medie imprese italiane ed in Cechia si guarda a sinergie sempre più strette per lo sviluppo della robotica e dell’economia 4.0. Rimane, tuttavia, l’incognita delle elezioni politiche italiane, previste per la primavera 2018, dalle quali emergeranno i prossimi interlocutori del governo ceco.

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Foto T. Barchielli Presidenza del Consiglio dei Ministri


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Foto T. Barchielli Presidenza del Consiglio dei Ministri


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ATTUALITÀ

Pavel Zezula

Console Onorario d’Italia a Brno

A cura di Stefania Del Monte

Pavel Zezula, presidente di Nová Mosilana, azienda tessile del gruppo Marzotto, è il nuovo Console Onorario d’Italia a Brno. Laureato in Tecnologia meccanica e management industriale al Politecnico di Brno, membro della Camera di commercio locale e con una lunga esperienza nei rapporti con l’Italia, dove ha vissuto per diversi anni, Zezula avrà il compito di coadiuvare l’Ambasciata italiana nell’assistenza ai connazionali e di favorire la proiezione esterna del “Sistema Italia” nelle regioni meridionali ed orientali della Repubblica Ceca. La nomina da parte dell’Ambasciata d’Italia a Praga è avvenuta all’inizio del 2017 segnando, con l’apertura del nuovo ufficio consolare, una nuova fase della presenza italiana in Moravia, con numerosi eventi di grande visibilità che riguarderanno il design, la musica, il cinema e la gastronomia, oltre che una serie di collaborazioni tra imprese italiane ed industria locale.

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Sig. Console, si aspettava di ricevere questo incarico? A dire il vero, la nomina è stata per me una grandissima sorpresa. Essere a disposizione dello stato italiano è un privilegio davvero inaspettato. Comunque, oltre ad essere molto onorato per questa fiducia, mi rende molto felice poter partecipare in prima persona allo sviluppo dei rapporti fra l’Italia e la Moravia. Che cosa l’ha spinta ad accettare la nomina? Sono stato incoraggiato dall’opportunità di lavorare in squadra e di poter sfruttare la mia esperienza, maturata negli anni sul territorio. Quali servizi offre il Consolato d’Italia a Brno? Essendo un Consolato Onorario, non offriamo una gamma di servizi completa. Il nostro obiettivo è soprattutto consigliare gli italiani residenti e/o i loro familiari ed amici. Laddove possibile, cerchiamo di evitar loro qualche viaggio a Praga, in Ambasciata, cosa che in passato era inevitabile. La nostra “specialità” sono i suggerimenti locali, le spiegazioni e le raccomandazioni agli italiani, senza dimenticare, ovviamente, una promozione dell´Italia verso il pubblico moravo. Il legame tra l’Italia e la Moravia è sempre stato intenso. Nel corso dei secoli numerosi architetti, pittori e scultori italiani sono stati chiamati a realizzare importanti progetti e le loro opere sono oggi una testimonianza di questa lunga amicizia. Come intende mantenere, ed eventualmente rafforzare, gli scambi culturali tra l’Italia e la Moravia? Negli ultimi anni la presenza italiana in territorio moravo non è stata molto forte. Per rafforzare questa presenza ci sono già diverse idee ma, prima di tutto, per ottenere un successo a lungo termine, serve lavorare sulla nostra comunità italo-ceca. Desidero curare in dettaglio una serie di valide iniziative, e svilupparne in continuazione di nuove. Lavora in sinergia con l’Istituto Italiano di Cultura a Praga, oltre che con l’Ambasciata? Sì. Questa è la grande squadra di cui parlavo in precedenza: l’Ambasciata Italiana a Praga, l’Istituto Italiano di Cultura a Praga, la Camera di Commercio Italo-Ceca (Camic), l’Associazione Amici dell’Italia in Repubblica Ceca (in ceco, abbreviato SPI) ed ora, naturalmente, il Consolato Onorario d’Italia a Brno. Non potevo chiedere di meglio e sono davvero soddisfatto delle reali dimostrazioni di massima disponibilità ricevute finora da parte di tutti.

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Con quali altre istituzioni collabora? Oltre a quelle sopra citate, voglio menzionare la Città di Brno e l’ente regionale della Bassa Moravia, che ci hanno sostenuto fin dall’inizio. Quali sono, invece, le sue priorità per favorire lo sviluppo dei rapporti economici tra l’Italia e la regione? Possiamo ancora approfondire la collaborazione tra Camic e RHK (Regionální hospodářská komora (450 membri). Sono convinto che una maggiore esperienza della Camic in Moravia possa farla crescere ancora di più nell’ambito dell’intero Paese. La Repubblica Ceca, che soffre a causa della scarsità di manodopera globale, può essere il mercato ideale per l’automazione e l’applicazione di servizi con grande valore aggiunto. Dopo l’arrivo di molti italiani giunti al seguito delle truppe napoleoniche, agli inizi dell’Ottocento, e l’insediamento dei profughi italiani evacuati in Moravia durante la prima guerra mondiale, assistiamo oggi ad una nuova, massiccia ondata di giovani italiani, in arrivo a Brno e dintorni per motivi di studio, o per lavorare nelle aziende multinazionali. Come risponde, il suo ufficio, alle esigenze di questa comunità costantemente in crescita? Gli italiani che decidono di trasferirsi in Moravia sono ben accetti. Portano una mentalità leggermente diversa, ma senza creare contrasti. È un’influenza decisamente positiva in questo “mondo ceco“, a volte un po’ troppo chiuso. Il mio compito è, laddove possibile, dare un supporto pratico ed aiutarli ad inserirsi nella comunità locale, sia quella italiana che quella ceca. Sono convinto che gli italiani e la cultura italiana, possano essere d’esempio alla Cechia in moltissimi campi, nella speranza che da questi scambi scaturiscano sempre più elementi positivi, in un’ottica di reciproca crescita e miglioramento.

Contatti: Consolato Onorario d’Italia a Brno Zelny Trh 331/13 602 00, Brno tel: +420 548 136 340 e-mail: info@consolatobrno.cz

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NOVEMBRE - DICEMBRE 2017 1 novembre – ore 18:30

IRON DUST: REFLECTIONS di Danilo De Rossi

Performance multimediale Il primo novembre, alle ore 18.30, presso la Chiesa di Sant’Anna di Praga, o Pražská křižovatka, (Zlatá 211/1, Staré Město), la Fondazione Eleutheria presenterà in prima assoluta la performance Iron dust: Reflections del fotografo italiano Danilo De Rossi. Esclusiva operazione di visual art, l’installazione multimediale di De Rossi, distribuita su un “trittico” video, propone un viaggio di carattere misterico all’interno della fabbrica dismessa delle acciaierie Poldi di Kladno, in cui aspetti sonori, visivi e narrativi si fondono nella creazione di uno spazio “immersivo”. Il progetto Reflections è patrocinato da: Ambasciata d’Italia a Praga, Istituto Italiano di Cultura di Praga, Municipio di Praga 1, Camera di Commercio e dell’Industria italo-ceca, Art & Design Institute. Sponsor ufficiali: Architectural Consulting e UniCredit Bank. Autore – Danilo De Rossi Produzione – Fondazione Eleutheria FrancescoAugusto Razetto, Presidente Ottaviano Maria Razetto, Vice Presidente Francesca Tonelli Curatore Fondazione Eleutheria – Genny Di Bert Progetto grafico – Nicolò Iannone Collaborazione all’organizzazione – Flavio R.G. Mela

Ingresso gratuito Info: www.eleutheria.cz Chiesa di Sant’Anna (Pražská křižovatka), Zlatá 211/1, Staré Město, Praga 1)

Fino al 13 novembre

I PIRANDELLO, LA FAMIGLIA E L’EPOCA PER IMMAGINI

Mostra fotografica La serie di immagini è accompagnata da un volume a cura di Sarah Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania, e da Enzo Zappulla, Presidente dell’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano. Orario: lunedì - giovedì, ore 10.00-13.00 / 15.00-17.00; venerdì, ore 10.00-13.00 Ingresso libero Loggiato dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga (Šporkova 14, Praga 1)


1 novembre – ore 19

FESTIVAL BRIKCIUS

Concerto di apertura della VI edizione del Festival Brikcius “L’Arte dell’arco” 50 variazioni del compositore barocco Giuseppe Tartini nell’esecuzione del violoncellista František Brikcius L’Istituto Italiano di Cultura di Praga è lieto di invitare al concerto del violoncellista František Brikcius che suonerà “L’Arte dell’arco” - 50 variazioni del compositore Giuseppe Tartini sul tema della gavotta di A. Corelli, nella trascrizione del violoncellista francese Paul Bazelaire per violoncello solo. Il concerto, in programma mercoledì 1° novembre 2017, alle ore 19.00, nella Cappella barocca, è dedicato al 325° anniversario della nascita di Giuseppe Tartini. Con l’occasione, in collaborazione con lo Slovenija center Praha e con l’Organizzazione Slovena di Turismo e sotto gli auspici dell’Ambasciata della Repubblica Slovena a Praga, si terrà una presentazione della Slovenia e di Pirano, città natale di Giuseppe Tartini. Il Festival Brikcius, un ciclo di concerti di musica da camera giunto alla VI edizione, anche quest’ anno si svolge sotto il patrocinio del Sindaco di Praga 1, Oldřich Lomecký, nell’ambito dell’International Daniel Pearl World Music Days. Ingresso libero Cappella Barocca dell’Istituto (Vlašská 34, Praga 1)

12 novembre – ore 19:30

QUISISONA – Band Italiana

Concerto L’Istituto Italiano di Cultura è lieto di annunciare il concerto della band QUISISONA, in programma il 12 novembre 2017 alle ore 19.30 presso il teatro Semafor di Praga. La Quisisona Band è costituita da sette musicisti: Massimo Baldino – sax, Antonio Baldino – tromba, Gianfranco Bozzaotre – piano, Corrado Orilia – batteria, Tommaso Bardini – chitarra, Lorenza Marmo – voce e Francesco Boccia – voce, quest’ultimo già noto al grande pubblico per il brano “Turu Turu“, finalista al Festival di Sanremo 2001, e autore, tra l’altro, del brano “Grande amore“ con il quale i tre giovani tenori de Il Volo hanno vinto il Festival di Sanremo 2015. Quisisona da anni fa parte dell’orchestra del festival di San Remo e interpreta con originalità musiche della tradizione napoletana, italiana e internazionale. Tornano le atmosfere degli anni Sessanta con “Vecchio twist“, il nuovo singolo della formazione realizzato in collaborazione con il celebre Edoardo Vianello, in cui la band ha unito al ritornello storico “Guarda come dondolo“ un nuovo testo, contaminandolo con arrangiamenti pop-rock. A Praga la band sarà accompagnata da Andrea Andrei, cantante italiano residente in Repubblica Ceca, e dal cantante di musical Nicolas. Ingresso a pagamento Divadlo Semafor, Dejvická 27, Praga 6 Acquisto dei biglietti: la cassa - negozio Klokočí (lun – ven 13.00 – 19.00, sab – dom 2 ore prima del concerto) on-line: www.vstupenky.semafor.cz www.semafor.cz www.gardes.cz

dal 22 al 30 novembre

SETTIMANA FUTURISTA

Concerto di Luciano Chessa Il 28 novembre a partire dalle ore 20, l’Istituto ospiterà presso la Cappella Barocca il concerto per piano ed intonarumori di Luciano Chessa, accompagnato da poemi acustici futuristi. Si potrà inoltre assistere ad una performance della praghese Opening Performance Orchestra and guests: Petr Ferenc, David Danel and Miroslav Pudlák. Al termine tutti i musicisti si riuniranno nella Soirée futurista per tre intonarumori, due narratori, violino e piano. Ingresso libero Cappella Barocca dell’Istituto (Vlašská 34, Praga 1) Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it


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