Ciaopraga Volume 5

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volume 5

CIAOPRAGA

arte, cultura e lifestyle


Ciao Praga Magazine

Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle

Volume 5 /// maggio - giugno 2017

Redazione

Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Vice Direttore Laura Di Nitto Coordinamento Redazione Sabrina Perrucci Collaboratori

Silvia Bajardi Paola Caronni Alessio Castiglione Marco Ciabatti Laura Di Nitto Aurora Fradella Letizia Leone Alessia Moretti Lorenzo Pelliconi Silvia Succi Elisabetta Tiberio Samantha Venuta Roberto Vinci

Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com Crediti fotografici

Immagini per gentile concessione di: Danilo De Rossi p. 3, 7 Alessio Castiglione p. 21 Samantha Venuta p. 31 Leoluca Orlando p. 37 Laura Di Nitto p. 45 Sergio Tazzer p. 47, 49, 53, 55 Lorenzo Pelliconi p. 54 Silvana Grasso p. 57, 59 Salvatore Cusimano p. 65, 67 Aurora Fradella p. 75, 76-77, 79 Roberto Alajmo p. 81 Pavel Kopp p. 90, 92-93 Antonio Saporito p. 94, 96-97 Roberto Vinci p. 105 Alessia Moretti p. 110 Fondazione Eleutheria p. 117, 119, 121 Silvia Bajardi p. 130 Syndrome Magazine p. 131 Chiara Condi p. 133 Led-by-Her p. 135 Paola Caronni p. 137 Benedetto Norcia p. 139, 141, 143 Marco Ciabatti p. 151 IIC p. 152 Francesco Caponera p. 155 Dal Web Cover, p. 9, 10-11, 13, 15, 17, 19, 22-23, 25, 28-29, 32-33, 34-35, 38-39, 41, 42-43, 63, 71, 82-83, 87, 89, 98-99, 101, 102-103, 107, 108-109, 110-111, 113, 115, 123, 124-125, 126-127, 145, 147, 148-149

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LETTERA DEL DIRETTORE

Gentili Lettori, questo nuovo volume, di cui vado particolarmente orgogliosa, è stato realizzato grazie alla preziosa collaborazione di un graditissimo ospite: Andrea Marchione, Console Onorario della Repubblica Ceca in Sicilia. Una trama sottile e misteriosa unisce Praga a Palermo e all’affascinante terra siciliana. Un legame che ha origini antiche quasi quanto i miracoli di Santa Rosalia - “a santuzza” – che dalla Sicilia ha esteso il suo abbraccio protettivo fino alla capitale ceca. Il nostro viaggio parte da una Palermo inedita, raccontata da chi la conosce e la vive, o l’ha vissuta davvero, per poi proseguire con interviste a personaggi che hanno fatto la storia recente della città, proiettandola in una dimensione europea e mondiale, come il Sindaco Leoluca Orlando, il Direttore del Teatro Biondo, Roberto Alajmo, ed il Direttore di RAI Sicilia, Salvatore Cusimano. Grazie ai consigli dei nostri esperti non manchiamo, inoltre, di assaporare virtualmente la raffinata enogastronomia siciliana. Ad arricchire questo splendido numero, incontri con personaggi d’eccezione del panorama praghese e siciliano, come gli scrittori Sergio Tazzer e Silvana Grasso, i fotografi Pavel Kopp ed Antonio Saporito, la ballerina palermitana a Praga Aurora Fradella, l’artista monrealese Benedetto Norcia, il filantropo e collezionista d’arte Francesco Augusto Razetto. E come di consueto, uno sguardo agli italiani nel mondo con le storie di Chiara Condi, fondatrice di Led-by-Her, e di Syndrome, rivista italiana di satira femminile. Infine, il coinvolgente Marco Ciabatti ci accompagna nuovamente fuori Praga, alla scoperta della deliziosa Český Krumlov. Prima di salutarvi, ho l’immenso piacere di annunciarvi la pubblicazione del libro “All’Ombra dell’Orologio. Storie di italiani a Praga”, che raccoglie una selezione di interviste ed articoli realizzati dalla nostra redazione nell’arco di oltre un anno. Un progetto che avremo l’onore di presentare il prossimo 25 maggio all’Istituto Italiano di Cultura di Praga, in contemporanea con una raccolta fondi organizzata in favore dell’attività di ricerca diretta da Luca Vannucci, medico oncologo e punta di diamante della comunità italiana in Cechia. Per i dettagli, potete consultare la sezione Eventi. Speriamo di incontrarvi in quella occasione. Nel frattempo, buona lettura! Stefania Del Monte


CONTEN UTI Andrea Marchione

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Console Onorario della Repubblica Ceca in Sicilia

Una passeggiata a Palermo

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Confusi tra tanta bellezza

Palermo inside out

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La bellezza della città nelle parole di chi la vive per nascita, per scelta o per caso

Leoluca Orlando

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Sindaco di Palermo

Sergio Tazzer

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Tra la Cechia e l’Italia, passando per la Sicilia

Silvana Grasso

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La figlia dell’Etna

Salvatore Cusimano

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Direttore di RAI Sicilia

Aurora Fradella

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Ballerina professionista di danza contemporanea

Roberto Alajmo Direttore del Teatro Biondo

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Da Praga a Palermo, con Pavel Kopp e Antonio Saporito

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Il nuovo progetto fotografico raccontato in una doppia intervista

Mozia ed il suo vino

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La rinascita di un’antica isola e dei suoi preziosi vigneti

Un tuppo per l’eternità

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In Sicilia, la pasticceria è memoria storica

Santa Rosalia

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Da Palermo a Praga, per proteggere contro la peste

Francesco Augusto Razetto

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Presidente della Fondazione Eleutheria

Syndrome Magazine: perché le donne fanno ridere

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La piattaforma globale di comedy al femminile

Chiara Condi

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Fondatrice di Led by Her

Benedetto Norcia

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Pittore su mosaico, scultore e incisore

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Da Praga a Český Krumlov e ritorno Alla scoperta della Boemia del Sud

ALL’OMBRA DELL’OROLOGIO - Storie di italiani a Praga

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ALL’OMBRA DELL’OROLOGIO Storie di italiani a Praga a cura di Stefania Del Monte

Event Management e Comunicazione

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Ciaopraga presenta “All’Ombra dell’Orologio” Il 25 maggio incontro all’Istituto Italiano di Cultura di Praga


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L’INTERVISTA

Andrea Marchione

Console Onorario della Repubblica Ceca in Sicilia

A cura di Stefania Del Monte

Da quanto tempo ricopre il ruolo di console onorario della Repubblica Ceca in Sicilia? La richiesta di rappresentare la Nazione ceca mi è pervenuta da una persona che considero un fratello, il grande musicista praghese Pavel Smetáček, leader del Traditional Jazz Studio di Praga, allora secondo d’Ambasciata ceca a Roma che aveva a capo S. E. l’Ambasciatrice Hana Ševčíková, altra persona di altissima sensibilità e nobiltà d’animo per me indimenticabile, mentre l’exequatur mi è stato concesso dal governo italiano nel luglio del 2001, dunque, quasi 16 anni fa. Ma ho iniziato ben prima ad occuparmi di lavori di tramite tra il governo ceco e quello italiano. Ricordo, ad esempio, di aver organizzato, nell’anno 2000, la visita del CSM italiano a Praga, per incontri istituzionali con la Camera dei Deputati ceca e vari Ministeri.

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Una pubblicazione ufficiale del Ministero degli Esteri definisce il ruolo di Console Onorario “encomiabile in quanto si basa sul volontariato, e quindi su un personale sacrificio di forze, di tempo e anche di denaro, forse non sempre compreso e pienamente valutato nella sua complessità”. Concorda con tale definizione? Certamente. Aggiungo che, mentre le Ambasciate sono delle vere e proprie repliche decentrate dei rispettivi governi nazionali (al proprio interno c’è l’Ambasciatore, l’ufficio Cultura, l’ufficio Sicurezza, l’ufficio dei rapporti con la stampa, l’ufficio commerciale, il Consolato di carriera per l’assistenza ai cittadini e così via), i Consolati Onorari sono tutto questo insieme. il Console Onorario, infatti, deve occuparsi – organizzando eventi – di rapporti culturali, commerciali, con i media, assistenza ai cittadini, rapporti con le istituzioni locali e quante più altre cose possibili. Insomma, far bene il Console Onorario prende molto tempo e, a volte, è abbastanza oneroso in termini di impegno fisico e anche finanziario visto che, per definizione, non si è remunerati da nessuno. Solo un immenso amore, stima e rispetto per il Paese che si rappresenta, come nel mio caso, fa svolgere questo ruolo con dedizione ed entusiasmo. La sua missione è principalmente diplomatica ed ha lo scopo di promuovere la Repubblica Ceca in Sicilia. In che modo avviene questa promozione? In genere due persone si sposano solo dopo che si conoscono bene e si stimano. Un matrimonio “dall’alto” tra sconosciuti non lo credo possibile: non avrebbe futuro. Allora ho sempre cercato di favorire l’incontro tra queste due culture apparentemente così distanti, ho sempre desiderato che i siciliani conoscessero di più, e profondamente, i cechi e viceversa. Ecco perché considero che gli eventi di cultura ceca in Sicilia siano essenziali ed infatti ho notato che spesso, a seguito di tali eventi, sono nati rapporti “altri“ come, ad esempio, quelli commerciali tra gente dei due Paesi che si era conosciuta in quelle occasioni. Oggi i siciliani, dopo questi sedici anni di lavoro, conoscono molto meglio i cechi e il loro territorio e, tutto questo, è ora anche favorito da alcuni voli diretti da Trapani e Catania verso Praga. Anche il turismo verso la Sicilia ne ha tratto giovamento: a Trapani-Marsala, nella splendida Laguna dello Stagnone, sono molti i cechi che praticano il kitesurf in quella zona ideale per tale sport e, alcuni di loro, svolgono lì l’attività di istruttori ed albergatori. Inoltre, nel luglio 2013 – grazie all’azione diplomatica del Consolato – è stato siglato un accordo tra il Comune di Palermo e la Camera di commercio italo ceca, volto a rafforzare i rapporti commerciali tra la Repubblica ceca ed il capoluogo siciliano. Il Consolato, quindi, svolge anche un ruolo importante nello sviluppo commerciale, oltre che negli affari culturali, e stabilisce contatti con la stampa locale. Come riesce a conciliare tutti questi impegni? Ripeto, la passione, l’apprezzamento e la stima che sento da sempre per il popolo ed il territorio cechi, sono l’unica vera molla che mi fa conciliare tutto, altrimenti non ce la farei. Devo anche aggiungere, però, che nell’esercizio delle mie funzioni ho avuto

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la fortuna di trovare un grande supporto da parte dell’amministrazione comunale, a partire dal Sindaco Leoluca Orlando, che a mio avviso ha saputo proiettare Palermo verso un’internazionalità che la città aveva già avuto nella sua storia più antica e che finalmente, grazie alla sua azione, viene nuovamente realizzata e riconosciuta. Fin dal principio ho trovato, in questa amministrazione, un grande entusiasmo nell’accogliere le mie proposte e nel riconoscere la qualità dei progetti promossi dal Consolato. È bello vedere una così grande fiducia riposta nel proprio lavoro. Tra i traguardi raggiunti finora, quale la rende più orgoglioso? Metterei al vertice di un’ideale classifica l’accoglienza in Sicilia, nel 2002, dell’allora Presidente della Repubblica Ceca Václav Havel (a cui Palermo sta per dedicare un giardino nel centro città, grazie alla lungimiranza del sindaco Leoluca Orlando). Parlai molto con lui, nei due giorni siciliani. Purtroppo lo staff aveva deciso di fargli visitare solo una zona molto turistica e cercai di spiegargli che avevamo perduto un’occasione per visitare altri territori isolani un po’ “speciali“; capaci, cioè, di trasmettere emozioni storico-culturali ad alto impatto emotivo. Mi capì perfettamente, se ne rammaricò e mi disse, ma con aria poco convinta, che avrebbe fatto di tutto per fare una visita più approfondita. Il fatto impeditivo era che già stava molto male in salute, e lui lo sapeva bene. Ebbi con lui colloqui molto intensi e per me formativi, esaltanti, e questo è uno dei ricordi più belli della mia intera vita. Oltre questo, richiamo tutto il lavoro di avvicinamento tra i due territori, cercando di superare taluni pregiudizi presenti in ciascuna delle parti. A Praga, ad esempio, grazie a deleteri e irrealistici telefilm d’importazione italiana sulla mafia incentrati su Palermo, si crede che la mia città sia invivibile e pericolosa. Molti genitori cechi che hanno figli che stanno per venire a Palermo per studi o per turismo, telefonano al nostro Consolato disperati e preoccupatissimi, chiedendomi se il figlio sopravvivrà alla visita! Dopo averli fatti rassicurare dalla mia assistente consolare, che è ceca e vive a Palermo da quasi 20 anni, i figli arrivano in città e se ne innamorano, perché Palermo è una miniera di giacimenti culturali, è una delle grandi capitali italiane della gastronomia ed è capace di trasmettere una carica emotiva ed emozionale che non si dimentica per tutta la vita. E infatti, spesso tornano! Mi ferisce molto vedere che, qui in Repubblica Ceca, il nome di Palermo venga spesso utilizzato come sinonimo di malaffare, di malgoverno, di mafia e mi spiace – soprattutto – che venga utilizzato in questo senso anche da personaggi di rilievo della vita sociale e politica. Basta una visita a Palermo per capire che non è così e magari, innamorarsene, come spessissimo accade. Non per nulla Palermo – che per il 2017 è la Capitale italiana dei giovani – per il 2018 è stata designata Capitale italiana della cultura. Desidero sottolineare, inoltre, che la città ha una politica dell’accoglienza, o meglio, della “coabitazione“ che è un esempio per il mondo intero; ciò significa che gli immigrati da noi stanno molto bene con le loro famiglie e non “invadono“ un bel nulla, non hanno alcun motivo per disturbare o creare disordini e cose del genere e, di conseguenza, non c’è alcuna “caccia all’immigrato“, come alcuni credono. Dunque, dico ai cechi di venire a Palermo tranquillamente, certo che vivranno un’esperienza indimenticabile!

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Praga e Palermo: cosa accomuna queste due città? Praga e Palermo sono accomunate da una storia drammatica, di sofferenza. Per questo entrambe le città sono ricche di mistero, di elementi esoterici che in qualche modo hanno plasmato l’animo degli abitanti, risultando in uno strano intreccio tra le rispettive culture e la morte. Non è un caso, infatti, che Praga sia considerata uno dei centri di massima espressione dell’esoterismo, o che a Palermo esista un luogo come le catacombe dei Cappuccini, nato non – come spesso si tende a credere – per ragioni di penitenza o riflessione ma come una sfida alla morte, un tentativo di superarla. E non è un caso nemmeno che un regista come Vim Wenders abbia girato Palermo Shooting, pellicola in cui la morte, dal volto di Dennis Hopper, assume un ruolo da protagonista ma che, in realtà, consiste in una vera e propria riflessione sulla vita. Questo lato misterioso sia di Praga che di Palermo mi ha sempre affascinato, e non è escluso che il Consolato non realizzi, in futuro, un progetto di reciproca conoscenza proprio su questa tematica. E cosa, invece, le rende distanti? La butto lì, terra terra: la gastronomia! Ma, a parte la battuta, quello ceco è un popolo di regole, di alta osservanza delle disposizioni che regolano la vita sociale e questo ci distanzia un tantino nel sistema complessivo di convivenza e nella stessa mentalità. Ma anche nel Sud Italia stiamo lavorando moltissimo in questo senso e sono molto ottimista circa la rinascita socio-culturale di alcuni nostri territori. Però non dimentichiamo, come ho avuto modo di notare in questi anni di lavoro, che il sud ha bisogno di nord e il nord ha bisogno di sud!!!! L’incontro tra le due parti in causa non può che fare del bene ad entrambi, ma a patto che ci sia l’apertura mentale e la disponibilità a confrontare le proprie idee e le proprie convinzioni con quelle degli altri. Dove si sente più a casa? Beh, può sembrare una stranezza ma mi sento a casa sia nella mia città natale che a Praga, e vivo benissimo facendo la spola continua tra le due città. Pur non essendo un vero e proprio trasferimento totale, sottolineo che è stato un passaggio naturale, poiché, come dicevo, la Repubblica Ceca è un paese che frequento da quasi 40 anni. Ho sempre adorato la sua storia, la sua cultura e la sua civiltà, che rende Praga ed altre città tra le più vivibili di tutta Europa. Vorrei chiudere consigliando, a tutti gli interessati, la lettura di un ormai raro libro che considero illuminante sul popolo ceco e la sua storia: si tratta di “La Nazione Ceca“, edito da Longanesi per la collana “Studio“, diretta da Enzo Bettiza. Lo scrisse Giani (con una enne) Stuparich, uno studioso che contribuì, su incarico del Ministero italiano, nel 1921, ad aprire a Praga l’Istituto Italiano di Cultura. È un libro in cui si esalta la nobiltà indiscutibile e l’alto livello morale di questo popolo. Quanto sono fortunato ed onorato di rappresentarlo nella mia terra di Sicilia!

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IL BEL PAESE

Una passeggiata a Palermo Confusi tra tanta bellezza

A cura di Alessio Castiglione (ed. Elisabetta Tiberio)

I palermitani hanno perso la Cattedrale, come la mia amica ha perso una collanina e da tre anni l’aveva accanto al letto. La stessa mia amica guarda la Cattedrale ricordando il Buckingham Palace, che pare una casuzza (casa di piccole dimensioni) rispetto a quello che abbiamo davanti. Costruita in duecento anni, davanti alla Chiesa Madre mi dice che facevano a gara le bagasce (donne lussuriose) e intorno folla e delirio. Uno dei tanti momenti goliardici e dimenticati della città , proprio alle spalle di una Rosalia, la nostra santa, che guardava verso il mare.

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La statua di Santa Rosalia inizialmente girata verso l’orizzonte, oltre i porti navali della città, è stata spostata verso la strada e c’è chi dice che da quando si è voltata porta male. Chissà quella di New York cosa dice, perché te la ritrovi pure là in “Santa Rosalia Church”, a Brooklyn. È ovunque, ma più precisamente dentro i cuori di chi ancora ci crede. Il padre della Santuzza (Santa Rosalia è così affettuosamente chiamata dai palermitani), Sinibaldo dei Sinibaldi, Vassallo del Re Normanno Ruggero II, dicono che non sia mai esistito e con un nome così possiamo anche crederci. E la figlia? Ci piace tanto. L’abbiamo disegnata in ogni dove, pure sulla pelle. Che fanatici questi palermitani. Ma guai se scendono al centro storico oltre via Maqueda (via principale della città, di denominazione araba): dopo essersi lamentati tutti per la pedonalizzazione, ora sono buttati là senza neanche poter camminare per la confusione e perché non si sa dove andare. Rimangono fermi, corrono lenti. Guardano i turisti e li prendono per scecchi (asini, intesi come persone di poco intelletto). Guardano, guardano. Che cercano? Che cosa comprano? Fotografano, consultano e sbagliano sempre strada. Perché il migliore panellaro (venditore di panelle e crocché, tipico piatto della cucina popolare siciliana) non è per quella via, ma è nascosto in fondo alla stradina. Lì è troppo caro, e il polpo non è fresco. Tutto bello, patrimonio dell’Unesco, ma il mercato del Capo (uno dei tre mercati storici di Palermo) non è più lo stesso. I turisti questo non lo sanno. Ci sono le memorie rimaste sul calore della strada nera recentemente asfaltata del Cassaro (quartiere centrale del centro storico palermitano, così deno-

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minato dai cittadini), di quelle puttane nudissime che dopo uno sparo correvano per vincere, furie verso Porta Nuova (una delle quattro importanti porte che circoscrivono il centro storico di Palermo), “la corsa delle Bagasce”, indecente e urlante, ultime corritrici di uno spazio oggi troppo affollato. Non c’è più spazio per i peccati e i miracoli all’aria aperta, tra poco si elegge il nuovo sindaco e dobbiamo capire come perdere meno. Perché perdersi a Palermo è facile, dopo anni di buio la città inizia a risplendere lentamente. Camminiamo con l’intento di trovare un caffè in uno dei mercati più antichi di questa città. Prendendo viuzze (piccole vie) strette che ci portano nelle case degli altri sempre aperte e con i fornelli accesi, passiamo dall’antico chiosco ancora aperto, dove ti vendono limonate e arance come tanti anni fa, ma con il Wi-Fi gratis. Dopo la chiesa della Madonna della Mercede, sempre agghindata e disinibita come le più belle ragazze del quartiere, subito entri nel mercato “u Capu” dove la frutta spremuta te la ritrovi tonda tonda nei banconi, rossa, gialla, verde, accesa dai campi dove si coltiva ancora la terra. Il caffè ricordiamo di prendercelo arrivati a Porta Carini, che segna l’inizio o la fine dei banchi da frutta e le friggitorie. Lì a sinistra c’è una torrefazione: fanno caffè per famiglie, single e coppie, espresso o in cialda. Lo paghi poco, come il resto, e ovviamente è buono. Scendendo verso il mare arriviamo al terzo teatro più grande d’Europa ricordandoci di San Benedetto il Moro, nero e protettore anche lui di Palermo, africano e patrono. Neanche sacerdote, persino analfabeta. Non lo conosce nessuno e anche oggi eviterò di parlarne altrimenti lo conosceranno tutti e i palermitani si arrabbiano. Non è vero: ti sorridono e dopo essersi stupiti della tua insolita conoscenza sulle leggende del luogo ti arricchiscono di aneddoti precisi e ti portano lì, da quel panellaro che non avevi trovato, e il polpo buono che non hai mangiato adesso te lo offre Giacomino. Per fare il Teatro Massimo sono stati buttati giù due conventi e il monastero di San Giuliano del quale si ricorda il detto: “Avilli quantu a cupula i San Giuliano” (“Averli quanto la cupola del monastero di San Giuliano”. Che cosa? Meglio non specificare) ma ad oggi è dimenticato come le sue fondamenta. Il fantasma della suora permalosa, appartenente a uno dei due conventi, si racconta si aggiri ancora con fare da conservatore per il teatro. Queste e altre

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leggende sono custodite dai leoni imponenti che, come guardie, dall’alto del teatro osservano tutto, ma che essendo buoni non reagiscono mai. Tanto che a uno gli hanno staccato la coda, come il ramoscello d’argento a Santa Rosalia due anni fa durante u fistìnu (la festa di Santa Rosalia celebrata nel mese di luglio a Palermo) e le teste delle statue del Giardino Inglese e i nasi delle stagioni dei Quattro Canti, ecc.: solita cleptomania palermitana. Dentro un luogo non identificato del Teatro Massimo c’è un buco senza fine. Si butta un sassolino senza sentirne il rumore. Va ricordato perché trovo sia suggestivo e particolare come il resto della città. “Semu cunfusi in menzu u bene”. (“Siamo confusi in mezzo al bene.” Bene inteso come bellezza). Di certo i palermitani non soffrono della sindrome di Stendhal: forse sono troppo abituati a dare per scontata tanta bellezza. La frase “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita”, scritta anonima posta all’entrata del mastodontico Teatro Massimo, centrata in alto sotto la coppa, non la legge quasi nessuno. Eppure, sarebbe il caso. Da Piazza Verdi torniamo ora ai Quattro Canti. È quasi aprile, fa buio tardi. La città prende il colore dei lampioni arancioni, percorri un rettangolo breve che è ricco ancora, emoziona e apre l’appetito. È tutto vero ciò che ho scritto e, se volete, di presenza ve lo ridico. A Palermo non si spara.

Alessio Castiglione è nato a Palermo nel 1994. Studente all’Università di Palermo in Educazione di Comunità, lavora al Centro Tau della città come peer educator. Vincitore del “TuttoMondo Contest 2014”, si aggiudica il primo premio con il racconto breve “Uda: lettera spedita senza ricevuta di consegna”, opera selezionata da Nicolò Ammaniti e Gabriele Salvatores. Finalista al Premio letterario Bukowski 2015. Vanità soldi fango è la sua opera di esordio. www.alessiocastiglione.it 21


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IL BEL PAESE

Palermo inside out

La bellezza della città nelle parole di chi la vive per nascita, per scelta o per caso

A cura di Samantha Venuta

In un mondo rimpicciolito, dove le distanze sono ore di volo e la diversità un paio di lenti che colorano il mondo, conoscere e viaggiare sono un binomio imprescindibile, sia nel lavoro che nella vita privata. Ma cosa succederebbe se, nel nostro girovagare, a guidarci e istruirci non fosse la solita guida turistica qualificata ma un cittadino comune, legato al posto da esperienze, ricordi, giudizi estetici e morali più che da nozioni di storia e di arte? Quale immagine del luogo ci restituirebbero i suoi ‘occhiali’ da insider? Abbiamo provato a scoprirlo attraverso un piccolo esperimento, nel quale abbiamo chiesto a un gruppo eterogeneo di persone, di età compresa tra i 25 e i 55 anni, di farci da guida attraverso i luoghi che definiscono “imprescindibili” per una visita reale alla loro città: Palermo.

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“Nessuno dovrebbe andare via da Palermo senza aver visto la Zisa (dall’arabo Al-Aziza, ‘la splendida’)”, sottolinea Francesco Orilia, impiegato Telecom nato, cresciuto e ancora residente nel capoluogo siciliano. “Un piccolo gioiello di architettura araba incastonato in uno splendido giardino con vasche e giochi d’acqua, testimonianza del concetto di “bello” orientale che la nostra città ha conservato nel tempo, nonostante gli alti e bassi della gestione dei beni culturali a livello politico. Quando cammini attraverso il parco, nei periodi di fioritura della zagara, ti immergi in un profumo così inebriante da rievocare e riportare chiunque a una dimensione parallela, che oserei definire la ‘vera essenza della Sicilia’, se non della stessa Palermo. Guardando la Zisa ti rendi conto della vera compenetrazione di civiltà che gli arabi hanno portato nella nostra isola, a partire dallo stile architettonico fino alle colture e al cibo. È una parte di noi che molti vorrebbero tenere distante, ma che in realtà ci è vicina più di quanto crediamo”. E aggiunge: “E chissà che un giorno non riesca a contarli davvero, i diavoli che tengono imprigionato il tesoro della Zisa sull’affresco della Sala della Fontana! Le leggende non sono vere, ma ci si spera sempre perché partono comunque da un pizzico d’esistenza”. E così come Francesco, sono in molti ad indicare monumenti o luoghi storici come tappe fondamentali per un itinerario in città, come Vittoria Orilia, studentessa del capoluogo e da quasi tre anni fuori sede a Bologna: “Gli anni del liceo, e quindi dell’adolescenza, sono legati alla Cattedrale, il monumento accanto al quale sorge il mio ex liceo, il Vittorio Emanuele: patrimonio dell’umanità UNESCO, custode architettonica di salme illustri, composita e maestosa nella sua struttura ricca di storia e di una bellezza unica ed imbarazzante. Su di lei hanno fatto scorrere fiumi di parole, tutte doverose, ma per me resta e resterà il simbolo di quegli anni che me l’hanno resa un po’ ‘casa’, oltre il suo valore oggettivo e imprescindibile”. “Il Politeama è la struttura che non rinuncerei mai a presentare a chi venisse a Palermo per la prima volta”, ci dice, ancora a proposito di monumenti, Gabriele, geologo libero professionista di origini palermitane che, pur operando in territorio nazionale ed estero da più di dieci anni, ha mantenuto con la sua città natale un legame continuo e profondo. “La visione multipla e variegata che questo teatro ha insito nel nome e nel suo uso storico è una caratteristica che ho fatto mia, nella vita come nel lavoro. La sua struttura circolare, i suoi colori forti e accesi come i nostri paesaggi e l’ingresso ad arco di trionfo, sormontato dalla quadriga bronzea del Rutelli e dai cavalli del Civiletti, credo siano una sintesi architettonica moderna nel senso positivo del termine. Via Ruggero Setti-

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mo non sarebbe la stessa senza ‘u circu chi cavaddi’, come alcuni palermitani lo definiscono e come molti dei miei amici stranieri hanno imparato a vederlo. Ci sono luoghi che ci fanno sorridere non appena li intravediamo, e la piazza e il suo teatro non possono che essere tra i miei”. Le catacombe dei Cappuccini sono invece il luogo più “sconvolgente” per Tiziana Bongiorno, operatrice enogastronomica marsalese che, con la città, ha un rapporto di connivenza occasionale per via del suo lavoro: “Le ho visitate durante gli anni in cui avevo preso casa con altre studentesse ed è il posto che, più di ogni altro, mi è rimasto impresso. Le salme vestite e imbalsamate, quell’odore … E la piccola Rosalia Lombardo … Sembrava davvero che dormisse dentro la teca, non che fosse morta da quasi cent’anni. Visitando quel luogo sembra quasi che, solo guardando la morte, la vita acquisisca senso reale. Da recarcisi assolutamente”. La stessa sensazione ha provato Giuseppe Pampalone, storico-antropologo di Castellammare del Golfo, che però suggerisce al nostro tour virtuale un’altra tappa: “Non credo che si possa ignorare Palazzo Abatellis e il suo Trionfo della Morte, in un qualsiasi giro della città. Di tutto ciò che di artistico mi è capitato di vedere a Palermo, quel dipinto in quel contesto è l’unico che abbia suscitato in me un inspiegabile senso di solenne e di sacrilego fusi insieme. La miniatura nell’enormità dell’affresco, il dettaglio nell’armonia della complessità della scena… È come se rivedessi i palermitani e le loro contraddizioni sacre e profane: antitesi che trovano un equilibrio di convivenza e creano un unicum antropologico, a mio avviso meraviglioso”. Ma abbandonando il monumentale e tuffandoci nel sociale, per Francesca si candidano senza dubbio al titolo di ‘imprescindibili’ i mercati della città: Ballarò (dal principe indiano Balhara, poiché nel X secolo si commerciavano molte spezie che venivano dall’India); Vucciria (dal francese boucherie, “macelleria”, perché in epoca angioina era sede di un macello); Capo (abitato dagli Schiavoni, pirati commercianti di schiavi); Borgo Vecchio (aperto fino a tarda ora). “Nulla di più palermitano, da assaporare in una full immersion sensoriale a 360 gradi. E dire che io di arte, per mestiere, ne mastico parecchia! – Francesca è una palermitana divenuta guida turistica in Veneto – Ma non c’è altro posto che consiglierei a chi voglia veramente ‘vedere’ Palermo: i mercati sono l’anima vera e il cuore pulsante della popolazione. Snodati tra i vicoli del centro, c’è tutto quello che per me è Sicilia, e che ritrovo ad ogni mio ritorno dopo ogni mia partenza – esclusi parenti ed amici, ovviamente. Gli odori for-

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ti della carne e del pesce, esposti sulle ‘balate’ e su letti di ghiaccio tritato; i banchi delle spezie, il cibo di strada, il vociare cantilenante, il contrattare quasi d’obbligo per giocarsi pochi spicci, quei percorsi che si stringono e si allargano quasi a perdersi e ritrovarsi… nessuna descrizione, fisica o astratta, rende come l’esperienza, perché del mercato si deve fare esperienza. Ci si deve immergere in quelle immagini, e poi non ci sarà nulla che reggerà il confronto”. Tra le voci che invece dei luoghi farebbero ‘visitare’ le tradizioni c’è Monica Campo, collaboratrice a tutto tondo al Museo Internazionale delle Marionette “Antonio Pasqualino”: “Il teatro dell’Opera dei Pupi salva la Sicilia dall’oblio della modernità, divenendo un ponte tra culture diverse, tradizioni e sperimentazioni.” – dichiara – “La collaborazione col Museo Pasqualino, che opera proprio verso un approccio multiculturale e interdisciplinare, è nata per gioco durante il periodo degli studi accademici, e poi pian piano è divenuta una passione-professione. Indicare quindi il teatro come luogo imprescindibile per una visita che non sia solo monumenti e passerella, credo sia scontato da parte mia: la tradizione è il luogo più importante da preservare e far conoscere a chi ha voglia e curiosità, per guardare al presente e al passato con occhi sempre nuovi. E l’epopea carolingia di Orlando e Rinaldo ne fanno parte appieno, parlandoci di un’Europa in cui storie e leggende abbattevano confini, insieme a tutta l’arte dei grandi maestri pupari – dal 2001 capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità –, unica e irripetibile in ognuna delle loro affascinanti rappresentazioni”. E per tradizione non s’intende solo l’arte e la cultura, ma anche la buona tavola. “Una tappa alla Focacceria San Francesco è d’obbligo ad ogni mio ritorno”, ci confessa Mariella Floramo, medico igienista a Modena: “I locali della Focacceria sono diventati un franchising da anni in Italia, ma per me l’originale è solo in via Paternostro, a Palermo. Riesco ancora a mangiare anche due panini con la milza, conditi di tutto punto! Folla e delirio permettendo. È sempre pieno zeppo di turisti, ma ne vale la pena”. E per finire, riportiamo la curiosa indicazione di Fabio Martorana, insegnante di italiano per stranieri in una scuola privata di Palermo: “Ho ritrovato un pezzo di ‘sicilianità da asporto’ il giorno in cui decisi, convinto dalla mia migliore amica, di acquistare un berretto alla “Coppola Storta”. - ci racconta – “Era il giorno prima di una delle mie partenze. Viaggio spesso per piacere e per dovere: sono siciliano ma non di Palermo, e qui ci sono capitato per caso, prima per studio, poi per affetti e per lavoro. Sono stato sempre in procinto di abbando-

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narla, vuoi per un motivo vuoi per un altro, ma questa città tenacemente mi ha riacciuffato ad ogni mia fuga. Sembrerà fuori luogo che indichi una bottega artigianale come luogo imprescindibile per un giro alternativo della città, ma non lo è. Intanto per l’ubicazione, in via Bara dell’Olivella, una nota traversa di fronte al teatro Massimo, ricca di cultura e storia ad ogni passo (non ultimo il teatro sopra citato, ndr), e poi perché l’artigianato di un prodotto tradizionale vale, di per sé, come e quanto un monumento. È a tutti gli effetti un pezzo di storia sociale che, col tempo, si trasforma ma non muore; rinasce, cambia. Ed è bellissimo che si protegga e si valorizzi”. Gli chiediamo allora cosa ha scelto come simbolo di ‘sicilianità da asporto’ quel giorno e se, come lui ha affermato, ha conservato la sua validità nel tempo. “Velluto amaranto con ricami! – risponde – Ho decisamente esagerato quel pomeriggio… La coppola è rimasta intatta, ed è ancora tra le pieghe del mio guardaroba, ma ammetto candidamente che no, oggi non rifarei la stessa scelta in termini estetici. Di sicuro, però, non cambierei luogo. Non cambierei Palermo”.

Samantha Venuta è nata a Catania nel 1980. A Gela ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza fino alla maturità, trasferendosi poi per dieci anni a Palermo, dove si è laureata in Lettere Classiche ed ha collaborato con l’ambiente universitario per alcuni anni. Abbandonata la Sicilia nel 2011, attualmente vive e lavora in provincia di Roma, insegnando materie letterarie nei licei. venuta.sam@gmail.com

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LA RICETTA

La caponata di melanzane

A cura di Letizia Leone

Ingredienti per 4 persone 3 melanzane grandi (devono essere quelle lunghe nere) Salsa di pomodoro (non troppa, il risultato finale deve essere scuro ma non rosso) 1 cipolla gialla 3 coste di sedano 200 grammi di olive bianche siciliane una buona manciata di capperi depurati del sale di conserva (mai usare quelli sotto aceto!!!) aceto q. b. olio evo q. b. olio d’oliva q. b. sale q. b. zucchero q. b. Una manciata di mandorle a pezzetti tostate (facoltativo) Foglie di basilico fresco per decorare Preparazione Tagliare le melanzane a quadrati non piccoli e friggerli nell’olio di oliva. A parte, preparare una salsa di pomodoro (zuccherare se necessario). In un tegame abbastanza largo fare imbiondire nell’olio evo la cipolla, il sedano tagliato a rondelle (mai lessarlo prima: alla masticazione deve essere croccante), i capperi e le olive snocciolate grossolanamente a mano. Aggiungere le melanzane e la salsa di pomodoro con due cucchiai di aceto e due di zucchero. Quando l’aceto sarà sfumato, il piatto è pronto. Mettere tutto in una zuppiera di ceramica e spargere sopra le mandorle tostate e il basilico. 34


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ATTUALITÀ

Leoluca Orlando

Sindaco di Palermo

A cura di Laura Di Nitto

Al suo quarto mandato non consecutivo, come Sindaco di Palermo (198590 // 1993-2000 //2012 – presente). Sono stati anni di grandi cambiamenti dal punto di vista sociale e politico ma anche culturale e di relazione. Lei come l’ha vista trasformarsi, la città, da vicino? Il primo cambiamento avvenuto a Palermo è certamente il cambiamento sul piano di quella che è stata per decenni la faccia più nota della città. Credo che sia sintetizzabile con uno slogan, che non è soltanto uno slogan: da capitale della mafia a capitale dei giovani e della cultura. È inutile girare attorno all’argomento ed anzi credo sia utile e giusto dirlo subito. Palermo è stata governata dalla mafia, intendo dire che è stata governata non solo da uomini vicini o condizionati dalla mafia, ma anche da persone interne ed organiche all’organizzazione mafiosa. Oggi a Palermo la mafia esiste ancora ed è presente, ma certamente non è più al governo della città. Questo ha ovviamente un impatto su tanti, per non dire tutti, gli aspetti della vita della nostra comunità.

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Se Palermo fa registrare un aumento del numero di locali pubblici, se Palermo è tornata ad essere attraente tanto per i turisti quanto per gli investitori, se Palermo ha una vita culturale e sociale degna di tante grandi città europee... non lo si deve solo al fatto che la mafia non governa più, ma certamente anche al fatto che la mafia non governa più. Credo che sul piano culturale questo abbia determinato un grande e profondo cambiamento: la riscoperta dell’orgoglio di essere palermitani; un orgoglio non superbo ma aperto, conscio delle proprie potenzialità così come dei propri limiti. E questo è divenuto il motore vero del cambiamento. Palermo è splendida e multiculturale; sembra essere connaturata alla città una straordinaria capacità di accogliere, integrare, crescere insieme nello scambio ed in una sorta di “altro passo”, non comune a molte capitali europee. Che valore ha per lei, come primo cittadino, l’accoglienza? Che tipo di arricchimento porta alla città? Oggi nel panorama internazionale, lo testimoniano le continue richieste di interviste che arrivano dalle principali testate di tutto il mondo, Palermo è percepita come la capitale dell’accoglienza e dell’interculturalità. Non solo sul piano storico e artistico, con il riconoscimento del sincretismo culturale rappresentato dal Percorso Arabo-Normanno divenuto patrimonio dell’Umanità con l’Unesco, ma anche e soprattutto sul piano materiale e sul piano politico. Ci tengo a sottolineare il piano politico perché quanto avvenuto con il lancio della “Carta di Palermo” nell’aprile del 2015 è stato incredibile. Con questo documento abbiamo proposto, insieme con giuristi, esperti di diritto internazionale, operatori umani-

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tari ed esponenti di istituzioni e società civile, una cosa semplice e rivoluzionaria: l’abolizione del permesso di soggiorno ed il riconoscimento della mobilità umana quale diritto umano inalienabile. Alla base di questa proposta, che vediamo come unica vera soluzione per le politiche migratorie in un mondo nel quale ormai tutto ha diritto di libera circolazione, ad eccezione degli esseri umani, c’è essenzialmente una considerazione culturale e politica. L’accoglienza e la integrazione fra le culture, intesa come intreccio e non come assimilazione, la contaminazione fra popoli, ideali e visioni del mondo diverse sono un grande motore sociale, un motore di sviluppo che diviene economia, rapporti internazionali, crescita e coesione della comunità. Da qui a fare di Palermo una città che punta sull’accoglienza, il passo è ovviamente non solo breve ma anche obbligato. Ormai viviamo in un mondo dai labili confini e dalle comunicazioni estremamente facili. Noi siamo qui, italiani in Repubblica Ceca, così come tanti stranieri vivono nel nostro Paese. C’è qualcosa che sente come “strettamente palermitano” e che crede salti subito all’occhio dei visitatori e degli stranieri che si trasferiscono a Palermo? Credo che siano due le cose che colpiscono chiunque arriva a Palermo. La prima - me la confermava qualche giorno fa un giovane regista belga che proprio per questo ha deciso di fare di Palermo il set dei suoi prossimi film - è il fatto che la nostra città offre una sensazione di “casa”. Proprio perché accogliente, Palermo fa in modo che tutti si sentano a casa propria e a proprio agio. Quando mi chiedono quanti migranti Palermo ha accolto in questi anni, io dico sempre che non ne ha accolto nessuno perché una volta giunti a Palermo, tutti coloro che vi

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giungono diventano palermitani, senza per questo perdere la propria cultura, la propria appartenenza, la propria lingua. L’altra cosa che colpisce di Palermo e che la rende unica, diretta conseguenza della prima, è il suo essere un mosaico. Un mosaico di lingue, di culture, di colori, di religioni, di passioni. E come un mosaico, ogni tessera è importante per il risultato finale; come in un mosaico, ogni tessera perde di valore se guardata fuori dal contesto. La Sicilia in generale e Palermo, nello specifico, sono estremamente vivaci dal punto di vista culturale, e terreno fertile per talenti del cinema, del teatro, dell’arte, della letteratura, della musica. Quali sono le politiche culturali che ha messo in atto nel suo ruolo di Sindaco in questi anni e che, in maniera più o meno diretta, hanno supportato l’arte e gli artisti palermitani? Nel 2012, appena tornato a Palazzo della Aquile, una delle prime cose che ho fatto da Sindaco è stata visitare i Cantieri culturali della Zisa, una grande area di archeologia industriale che negli anni ‘90 avevamo cominciato a ricostruire per farne un polo culturale per la città in chiave internazionale. Bene... nel 2012 per entrare ai Cantieri culturali è stato necessario rimuovere oltre 70 tonnellate di rifiuti. E fra i rifiuti abbiamo trovato anche i pezzi della “Torre del Tempo” che Emilio Tadini aveva regalato alla città; così come abbiamo trovato pezzi di vecchi carri di Santa Rosalia, il tradizionale carro che accompagna i festeggiamenti della Santa patrona della città. Ecco, nel 2012 Palermo era una città che si era fermata e che si era persa. Uno smarrimento testimoniato dai Cantieri culturali, dalla Torre del tempo abbandonata e dal Carro di Santa Rosalia distrutto. Nel 2016, quegli stessi Cantieri hanno ospitato oltre 200 mila visitatori in 250 eventi culturali piccoli, medi e grandi, hanno ospitato grandi artisti internazionali e laboratori per bambini. Sono il luogo dove ogni giorno le istituzioni culturali della città formano i propri studenti ed artisti. Fra qualche giorno ospiteremo una mostra di Ai Weiwei, organizzata con Amnesty International sul tema delle migrazioni. Ma come dei Cantieri culturali potrei parlare del Teatro Massimo, cinque anni fa avviato verso il declino, con bilanci in perdita e un numero di abbonati ridotto al lumicino ed oggi riconosciuto a livello nazionale ed internazionale come una eccellenza di management culturale, con centinaia di migliaia di visitatori, decine di migliaia di spettatori, produzioni e co-produzioni di altissimo livello che viaggiano in tutto il mondo, portando, davvero e senza retoriche, la faccia migliore di Palermo e dell’Italia in tutti i continenti. E potrei continuare ricordando il Teatro Biondo, lo stabile della città, aiutato a superare una gravissima crisi ed oggi rilanciato; potrei citare gli spazi culturali riaperti e la fondamentale collaborazione con l’associazionismo privato che ha trovato nel Comune né un concorrente né uno sponsor, ma sem-

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plicemente un partner in un progetto condiviso di rilancio. Anche qui, l’aver rimesso in moto i rapporti internazionali, aver creduto nella cultura come motore di sviluppo economico e aver ridato fiducia e orgoglio al mondo della cultura cittadina, è stata la chiave per raggiungere risultati importanti, simboleggiati dal riconoscimento come Capitale Italiana della Cultura 2018. Cosa si aspetta da Palermo Capitale della Cultura? Crede sarà un’occasione/volano per rilanciare in grande sulla forza creativa locale? Credo che sarà un’occasione per aprirci ancora di più al mondo e per far conoscere al mondo la nostra cultura, le nostre culture. La scelta di Palermo da parte del Ministero dei Beni culturali è stata una scelta coraggiosa e di avanguardia. Perché più che di Capitale della Cultura Italiana, nel caso di Palermo è bene parlare di “capitale delle culture”. In questo senso, la dimensione internazionale (anche grazie alla felice sovrapposizione temporale con Manifesta 12, una fra le biennali di arte contemporanea più importanti d’Europa) sarà la chiave di volta del prossimo anno. Non una celebrazione della cultura italiana ma una celebrazione delle culture italiane, della capacità del nostro Paese di essere crocevia di culture diverse e luogo di incontro e contaminazione. Ovviamente questo varrà anche per gli artisti e per le istituzioni culturali locali, per i giovani palermitani. Ho già detto che il contributo statale per la Capitale della Cultura (un milione di euro) sarà interamente destinato a finanziare la mobilità internazionale di giovani artisti palermitani verso altre destinazioni e la mobilità di artisti internazionali verso Palermo. Può sembrare un paradosso, la mobilità e lo scambio, in un cerchio che si chiude magistralmente, tornano sempre, in ogni settore della nostra vita di comunità. Sono questi due elementi che oggi fanno Palermo una città viva e vivace, anche sul piano culturale. Quali sono state le difficoltà più grandi che ha incontrato nel suo percorso di Primo Cittadino? La prima grande sfida da affrontare è stata quella della ricostruzione della fiducia verso l’Istituzione “Comune di Palermo” ed allo stesso tempo farla percepire come presente nella comunità a garanzia di diritti e doveri di tutti. Una amministrazione assente o comunque percepita come tale è il miglior alleato dello scoramento da un lato e dell’arroganza dall’altro. Lo scoramento di quanti credono nelle istituzioni e nel loro ruolo di servizio per la comunità; l’arroganza di quanti si credono al di sopra delle istituzioni, del diritto e della legalità. In questi anni, anche a costo di essere accusato di essere iperpresenzialista, ho fatto sì che i cittadini sapessero di avere un sindaco. Avere un sindaco vuol dire, paradossalmente, sapere con chi prendersela se qualcosa non funziona; diventa uno

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stimolo a non voltarsi dall’altra parte ma piuttosto a rivendicare i propri diritti. Quando sono tornato alla guida del Comune, nel 2012, due aziende comunali impegnate nei delicatissimi settori della pulizia, della raccolta dei rifiuti e del decoro della città (e che insieme avevano oltre 3.500 dipendenti), erano in fallimento. Potete immaginare cosa questo significhi in termini di tensione sociale, oltre ovviamente in termini di servizi alla città. Quelle due aziende erano lo specchio di una città. Anche se nel 2012 sono stato eletto con oltre il 70% dei consensi, la prima difficoltà di questi anni è stata quella di far sì che tutti a Palermo comprendessero l’unione di emergenza e progetto, di ideali, visione e azione concreta. La città del 2012 era una città quasi in bancarotta dal punto di vista finanziario e certamente in gravissima crisi sul piano sociale e culturale. Le tantissime emergenze che abbiamo dovuto affrontare avrebbero potuto distogliere dal lavoro di costruzione di un progetto. Mi piace prendere ancora una volta ad esempio la cultura: per arrivare ad essere Capitale italiana abbiamo dovuto cominciare col togliere i rifiuti dai Cantieri culturali. E questo è avvenuto in tanti, forse in tutti i settori della vita amministrativa. La vera sfida, che credo abbiamo vinto, è stata quella di portare i palermitani a sentirsi di nuovo parte viva e attiva di una comunità, superando la chiusura e l’idea che i problemi si risolvono in solitudine. Nella primavera scorsa la aspettavamo a Praga, ma purtroppo impegni improrogabili l’hanno trattenuta in Italia. Possiamo contare su una sua visita a breve? Certamente mi farà piacere tornare a Praga, che ho visitato in passato ma purtroppo sempre molto di corsa. Spero che possa essere un’occasione per costruire anche magari un gemellaggio fra le nostre città, come già fatto con la capitale lituana Vilnius, e per costruire qualche progetto insieme con la comunità italiana e siciliana.

Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. https://www.linkedin.com/in/lauradinitto 45


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LETTERATURA

Sergio Tazzer

Tra la Cechia e l’Italia, passando per la Sicilia

A cura di Lorenzo Pelliconi

Sergio Tazzer, trevigiano di nascita e mitteleuropeo nella genealogia. Giornalista, è stato direttore della sede RAI per il Veneto, capo della redazione trentina e della redazione centrale della TGR a Roma. Dal 1995 al 2011 ha realizzato e condotto il settimanale radiofonico mitteleuropeo “Est Ovest” in onda su Radio 1 RAI. Saggista, oltre 10 saggi pubblicati, tra cui “Praga Tragica. Milada Horáková. 27 giugno 1950” (Editrice Goriziana, 2008), “Banditi o Eroi? Milan Rastislav Štefánik e la Legione Ceco-Slovacca” (Kellerman Editore, 2013) e l’ultima opera “Frammenti di Grande Guerra” (Kellermann Editore, 2017). Sergio Tazzer ci prende per mano e ci accompagna alla scoperta di cesure e tornanti della storia più e meno recente di Italia e

Cechia,

rivelandocene alcuni punti di contatto e di

reciproca influenza, accostandola a curiosi particolari sulla discendenza della sua famiglia, le miniere di

Kutná Hora. 46


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C’è un forte legame fra lei e la Sicilia, dove ha presentato più volte i suoi libri ad eccezione dell’ultimo. Cosa la congiunge a questa meravigliosa regione? Purtroppo non ho presentato il mio recente Frammenti di Grande Guerra (Kellermann editore) a Palermo, dove invece presentai altri miei libri, sia in Palazzo dei Normanni che nell’Auditorium della RAI. Tuttavia, amando io la Sicilia, balzerei sul primo aereo se mi invitassero a fare quattro chiacchiere sul mio ultimo libro. Ho visitato tantissimi luoghi, avendo una certa età, ma alla Sicilia resto legato: da Palermo, a Siracusa, a Catania, al Belice, a Selinunte, a Mazara e Marsala e poi: 60° reggimento fanteria Calabria, il mio CAR (centro addestramento reclute) alla caserma Giannettino. Solo chi ha fatto il militare di leva può capirmi. Non è detto che qualche riga non la scriva sulla “mia” Sicilia, io che siciliano non sono. Il suo ultimo libro, “Frammenti di Grande Guerra”, indaga il primo conflitto mondiale. Allo stesso tempo, lei presiede il CEDOS, Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra. Qual è il valore storiografico e educativo, negli anni del centenario, di opere e istituzioni che lavorano in questa direzione? Il mio libro, ultimo, è uno sguardo su alcuni tempi legati al primo conflitto mondiale. Si tratta di miei studi, conferenze, interventi, nel centenario di un conflitto mondiale, ma soprattutto europeo, nel quale l’Italia mise in grigioverde i suoi giovani che si esprimevano nei diversi dialetti e di cui quasi la metà era analfabeta. Si trovarono a combattere “tedeschi”, che invece appartenevano al mosaico contraddittorio della duplice monarchia danubiana: austro-tedeschi, boemi, moravi, slesiani, polacchi, slovacchi, ruteni, ungheresi, rumeni, serbi, bosniaci, croati, slovacchi, italiani, di religione cattolica, protestante, ortodossa, musulmana, ebraica. E quindi, ragionare di fronte a questo brulicare di uomini è impressionante. Non ci rendiamo conto di quale complessa realtà, affrontata allora con grossolanità, ci fosse. E infatti la prima guerra mondiale fu l’incubatrice della seconda. Il valore umano ed educativo sta tutto qui. Mi sono trovato a presiedere una istituzione importante, il CEDOS, centro di documentazione storica sulla Grande Guerra, che ha sede a San Polo di Piave, fondato – sulla base di un importante suo lascito iconografico sul primo conflitto mondiale – dal compianto Eugenio Bucciol. Eugenio, un carissimo amico, è stato veramente un ponte culturale fra l’Italia e l’Europa, soprattutto quella centro-orientale. Che poi “orientale” è un attributo improprio, quando pensiamo che Praga è più a occidente di Bari. Ma la geografia non è il forte della scuola italiana.

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Il suo legame con la Repubblica Ceca è di sangue, prima ancora che di studio... Fra me ed i Paesi Cechi il rapporto è stretto: cechi (ed italiani) sono i miei adorati nipotini. Di Kuttenberg-Kutná Hora fu il capostipite dei Tazzer, Sebastian, XVII secolo, in Italia, più precisamente nell’Agordino, Repubblica Veneta che sapeva “coltivare il mare” ma non le miniere, e che quindi si affidò ai canópi, i minatori (dal tedesco Bergknappen), e nel caso provenivano da un territorio multiculturale: tedesco, ceco, sorabo. Pensiamo: a Kuttenberg-Kutná Hora giunsero italiani a sistemare finanza e moneta dei re boemi. E da lì, con il patrimonio specialistico che avevano, scesero i canópi, grazie alla libertà di movimento (pari a quella dei maestri comacini, dei muratori) in Nord Italia. Faccio presente che Kutná Hora è patrimonio dell’UNESCO, come il sito minerario della Valle Imperina, nell’Agordino (Belluno). Quindi: Sebastian, che diede inizio alla mia stirpe in Italia, citato nei registri parrocchiali agordini. E poi Sebastian, in mio nipotino praghese (e italiano). E poi, in Repubblica Ceca mi trovo bene, fra gente per bene, legata (ma sovente ne è inconsapevole) all’Italia. Un rapporto che le è valso la Medaglia del Ministero degli affari esteri della Repubblica Ceca in memoria di Jan Masaryk, per l’instancabile e devoto lavoro per lo sviluppo dei rapporti ceco-italiani. La cooperazione internazionale si fa anche sui libri... Già, proprio per aver sottolineato nei miei studi, nei miei interventi pubblici, nei miei scritti, non ultimo Banditi o eroi. Milan Rastislav Štefánik e la Legione Ceco-Slovacca (Kellermann editore), ho avuto il piacere di ricevere la medaglia Jan Masaryk. Ma non solo per Banditi o eroi, ma per un altro libro al quale sono particolarmente affezionato: Praga tragica. Milada Horáková. 27 giugno 1950 (Libreria Editrice Goriziana), che presentai a Praga, ma sarebbe più appropriato dire che fu presentato dall’allora ambasciatore d’Italia, Fabio Pigliapoco. Aggiungo che, se il libro mi ha dato soddisfazioni fra gli studiosi a livello internazionale, in Italia fu un clamoroso insuccesso editoriale. Non è detto che riprenda in mano le vicende cecoslovacche dopo il febbraio radioso di Klement Gottwald del 1948. Entriamo nelle profondità di questo tornante storico dimenticato, che mise assieme Italia e Cecoslovacchia, prima ancora che quest’ultima prendesse la luce. Protagonisti: i legionari cechi e slovacchi. Proprio ai legionari cechi e slovacchi è dedicato un mio particolare interesse, concretizzato in pubblicazioni e conferenze, ma anche – tramite il CEDOS – con

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mostre fotografiche. Proprio il CEDOS organizzò due anni fa un colloquio internazionale a Conegliano, di alto livello qualitativo. Perché Conegliano? Perché, dopo la battaglia del Solstizio del giugno 1915, vi furono giustiziati numerosi legionari, catturati in battaglia. La città ha loro intitolato una via, quella dei Martiri Cecoslovacchi. Ma, poi, memoriali dedicati a quei giovani che combattevano per una patria che ancora non avevano si trovano in numerose località venete: Collalto, Oderzo e Piavon nel Trevigiano, San Stino di Livenza e San Donà di Piave nel Veneziano, senza dimenticare Arco, in Trentino. E poi Meolo, dove fu sepolto dopo essere caduto in battaglia il padre dei legionari italiani, Jan Čapek, poi riesumato e trasferito a Praga nei primi anni venti. Ricordo che il Bollettino di guerra n.1268 diramato alle ore 12 del 4 novembre 1918, più noto come Bollettino della Vittoria, firmato Diaz, cita fra le forze che parteciparono alla battaglia finale «cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco-slovacca ed un reggimento americano». Ora, se pensiamo che praticamente in tutta Italia il Bollettino della Vittoria fa bella mostra di sé quale lapide patria, il fatto che vengano ricordati in perpetuo i cecoslovacchi che combatterono in grigioverde è una circostanza di eccezionale rilievo storico e politico. Dopotutto, anche l’Italia ha giocato un ruolo fondamentale a campo invertito. Le parole pronunciate da Beneš in visita al campo di concentramento della Certosa di Padula, nel Salernitano, sono anch’esse un marchio indelebile. Il Belpaese fu la culla della rinascita militare cecoslovacca, e non solo: Beneš – al quale l’Italia non era particolarmente simpatica, come poi si vide nel suo successivo comportamento governativo filo-francese – disse di aver visto «come nasce la libertà di un popolo e come si crea uno Stato». Chi invece fu legato all’Italia (ed a una italiana, la marchesina Giuliana Benzoni) fu il grande Milan Rastislav Štefánik, uno dei tre fautori della Cecoslovacchia (Masaryk pensa, Beneš dice, Štefánik fa): ma morì, precipitando a bordo di un aereo italiano mentre atterrava vicino a Bratislava. Lui vivo, la politica cecoslovacca non avrebbe preso l’indirizzo che conosciamo, da apparire satellite della Francia. Tornando a Beneš, lo troviamo in una fotografia, in posa assieme a Čapek ed ai capi dei Comitati dei volontari cecoslovacchi. Tutti appartenenti al Sokol, la colossale – è proprio il caso di usare questo aggettivo – organizzazione sportivo-culturale fondata nel 1862 da Miroslav Tyrš e da Jindřich Fügner con l’obiettivo della rinascita nazionale ceca. Ricordo che i suoi slety, le adunate ginniche di massa, erano ostacolate in tutti i modi dalla polizia austro-ungarica. Il Sokol ad un certo punto impartì ai suoi aderenti l’istruzione premilitare, tanto da soprannominarsi Esercito nazionale ceco. E ricordo pure che gli aderenti al Sokol portavano anche la camicia rossa garibaldina. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Vienna bandì il Sokol

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ed i suoi dirigenti, chiamati come tutti alle armi, venivano classificati politisch verdächtig, politicamente sospetti. Alla luce dei fatti, Vienna aveva ragione, ma ormai la coscienza nazionale ceca non poteva più essere cancellata. Facciamo qualche passo verso la storia più recente. La passione politica, la dignità umana, il rifiuto di qualsiasi dittatura sono valori che ha trattato nel libro “Praga tragica. Milada Horáková, 27 Giugno 1950”. Un personaggio riabilitato dalla storiografia ceca dopo la rivoluzione di velluto, la cui figura, però, è ancora oggetto di revisionismo... I giovani all’inizio del Novecento erano imbevuti degli ideali e dello spirito nazionale ed irredentista. Non si sottrasse al richiamo della patria da edificare la giovane Milada Horáková, figlia di una famiglia della piccola borghesia praghese. Aderente al Partito socialista nazionale, fu in prima fila nella lotta per i diritti delle donne. Dopo l’invasione tedesca divenne esponente di spicco della resistenza nazionale. A causa di una delazione, venne arrestata dalla Gestapo e fino alla conclusione della guerra fu reclusa in diversi campi di concentramento. Dopo la liberazione rientrò in patria, riprendendo il suo ruolo nella politica attiva e contemporaneamente operando con efficacia nella Commissione per l’assistenza ai rifugiati. Presidente del Consiglio nazionale delle donne cecoslovacche, dopo il colpo di stato comunista del febbraio 1948, si dimise per protesta dal parlamento e continuò l’opposizione al nuovo regime. Gottwald ne ordinò l’arresto. Contro di lei, fu messo in piedi il primo processo-spettacolo, con la regia di agenti giunti da Mosca, al termine del quale fu condannata a morte ed impiccata nel carcere di Pankrác all’alba del 27 giugno 1950. Per lei chiesero la grazia ai capi comunisti da Albert Einstein a Winston Churchill, da Eleanor Roosevelt a Jean-Paul Sartre, da Simone de Baeuvoir ad Albert Camus. Tutto inutile, su di lei il regime comunista fece calare una cappa di silenzio, che fu squarciato dalla Rivoluzione di velluto. Con il ritorno della democrazia fu finalmente recapitata alla figlia Jana la lettera che Horáková le scrisse la notte prima dell’impiccagione. Stupisce che la sua memoria, in Repubblica Ceca, sia tenuta così sotto traccia. Ignobili poi sono gli attacchi da parte di arnesi nostalgici del vecchio regime. Incomprensibile al pari è il silenzio della intera classe politica attuale, salvo rare eccezioni. Al contempo, cresce l’intolleranza per il forestiero in fasce non solamente giovanili, e non mi meraviglierei che si gonfiasse l’onda di chi vuole santificare Radola Gajda, il leader del Národní Obec Fašistická. Da conoscitore di Mitteleuropa, Balcani e Europa dell’Est. Cosa ostacola la piena integrazione di questi paesi, mi riferisco in particolare al gruppo di Visegrád e alla vicenda migranti, nell’Unione Europea. Si tratta di un parti-

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colare “momentum” economico-politico o ci sono ragioni culturali? La xenofobia, parente prossima del razzismo, è uno degli strumenti su cui fa leva il populismo di certi partiti e di taluni uomini politici, in Repubblica Ceca, come in Polonia, Slovacchia e Ungheria. Aprire anche di poco il vaso di Pandora dei più bassi sentimenti anti-qualcosa della popolazione non so dove potrà portare. Certo, le ondate della migrazione vanno tenute sotto controllo, ma non nelle maniere brutali che la cronaca ci offre. Sono brutali anche certe dichiarazioni di leader politici e religiosi. Mi meraviglia più di tutti, se posso essere sincero, l’atteggiamento del cardinale Dominik Duka, assai distante dall’atteggiamento di misericordia e di ascolto testimoniati dal suo precedessore, il cardinale Miloslav Vlk, morto da poco e del quale serbo un bellissimo ricordo personale. Per chiudere, quando la rivedremo in Repubblica Ceca? Sono spesso in Repubblica Ceca, anche per motivi famigliari. Mi piacerebbe, entro la fine dell’anno, in collaborazione con Československá Obec Legionářská, riunire un po’ di italiani che risiedono a Praga, come quelli che ho conosciuto quando – su iniziativa della dott. Manuela Orsetti – si è visitata la sede della Gestapo in Petschkův Palác, per ragionare sulla Legione cecoslovacca “italiana”. E poi, per finire, sto raccogliendo materiali non tanto per una riedizione del mio libro su Milada Horáková, quanto per dare un’occhiata alla resistenza al regime comunista attuata da altri, come il vescovo greco-cattolico Pavel Peter Gojdič, passando per Jan Patočka, Václav Havel e altri meno noti.

Lorenzo Pelliconi, laureato al MIREES (Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe) presso l’Università di Bologna, ha lavorato nel campo della cooperazione e della progettazione europea per LDA Subotica (Serbia) e per Unione Italiana, organizzazione che rappresenta la minoranza autoctona italiana in Croazia e Slovenia. Da poco atterrato a Praga, si interessa di storia, urbanismo e sport. lorenzo.pelliconi22@gmail.com 54


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LETTERATURA

Silvana Grasso

La figlia dell’Etna

A cura di Samantha Venuta

Una delle voci più originali delle letteratura contemporanea, Silvana Grasso, torna ai suoi lettori con la storia di una Sicilia anni ’50 che brucia al chiaro di Luna. La «figlia dell’Etna», come ama definirsi, ha consegnato il 20 gennaio scorso al panorama editoriale italiano il suo nuovo romanzo ”Solo se c’è la Luna”, edito dalla Marsilio, a tutt’oggi giunto alla terza ristampa e ufficialmente in corsa per il premio Campiello e il premio Viareggio 2017. Un successo di pubblico immediato, che ha esaurito le prime stampe nel giro di due settimane e ha fatto divampare il fuoco notturno delle sue parole a tutto lo stivale e oltre: già in programma, infatti, le traduzioni per l’uscita in dieci paesi stranieri e – si vocifera sottobanco – avanzata anche una proposta di lavorazione per una trasposizione cinematografica. La storia di due donne “quasi sorelle”, Luna e Gioiella, unite dalla rarissima patologia alla pelle della prima, che non può vivere alla luce del sole ma «solo se c’è la luna», e dal destino della seconda, abbandonata da una madre che la concede al ricco padre di lei in cambio di un biglietto per l’America, ha incantato i lettori italiani come una di quelle antiche malie greche che proprio sotto la luna stregavano vite, amori e dolori.

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È sotto lo sguardo di questa Madonna silenziosa che Luna verrà alla luce, figlia di un arricchito bracciante che ha fatto fortuna di ritorno dall’America e di una mamma-bambina ossessionata dalla sua passione per l’intaglio; ed è sempre sotto la debolezza dei suoi raggi che la fabula notturna ci restituirà la verità che le apparenze del giorno nascondono e attutiscono sotto bagliori accecanti: le debolezze dei personaggi, il loro essere approssimativo, le soffocate passioni inconfessabili, le solitudini interiori, la ricerca spasmodica di un senso delle cose attraverso la brama e il possesso, la lotta tra l’essere e il voler essere. Grazie a un linguaggio materico e a una prosa fluida e cangiante la storia scorre da subito dentro il lettore, scava, irrora l’animo, lo permea, e alla fine se ne impossessa divampando con la forza dell’acqua di fonte. La stessa in cui si specchia Luna, nella scena più erotica del romanzo, prima che la sua carne nuda vi trovi refrigerio sotto gli occhi eccitati di Gioiella. In ogni pagina c’è lei, Silvana, il suo sentire, la sua scrittura, il suo stile autoptico che va oltre il racconto, oltre la storia che concede a chi la divora nella speranza di trovare le tracce del suo io disseminate e nascoste nelle vite della carta. Siamo riusciti ad incontrare la scrittrice in un momento di pausa dal frenetico tour promozionale, che conta già più di centocinquanta incontri ed eventi culturali su tutto il territorio nazionale ed europeo. È stata letterariamente assente da circa sei anni, ma il suo nuovo lavoro è ormai alla ennesima ristampa, con un successo di pubblico che lei dichiara inatteso e un’adesione agli eventi organizzati sentita e partecipata. Cosa pensa abbia scatenato l’interesse per questo romanzo? I lettori sono stufi di leggere stupidaggini comprate e spacciate per capolavori di Letteratura. Leggere è impegnativo, faticoso, deve valerne la pena. I miei precedenti romanzi sono stati evidentemente semi buoni se, lentamente ma incessantemente, hanno dato frutti di consenso, entusiasmo, passione. Oggi raccolgo il seminato di una vita ed è magnifico verificare che nulla sfugge a lettori seri. La mia assenza, che non è stata una strategia ma una magnifica avventura nel Teatro italiano ed europeo, con ottimi risultati, si è rivelata fondamentale, forse. I lettori hanno avuto tempo e modo di sentirsi “orfani” della mia scrittura. Poi, la storia che racconto in Solo se c’è la Luna è davvero bellissima, unica, poetica, arcaica, e questa è la ragione certa del suo successo. I lettori hanno fame di Bellezza, nella storia e nella scrittura.

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Cosa lega Silvana Grasso ai suoi nuovi e vecchi lettori? Un colpo di fulmine della carne, come per Luna verso uno dei personaggi minori della storia, o un lento innamoramento dell’animo, come quello di Gioiella per la sua ‘quasi sorella’, qui esploso in un’accorata dichiarazione? Ci lega l’amore per il Bello, per il Bello vero non la contraffazione, non il surrogato spacciato per materia prima. I miei lettori sanno che il mio territorio emotivo è in fermento perenne, sanno che leggermi è correre un’avventura fatale, anche molesta. Ma la vita è molesta, l’arte non può essere torpida, frigida, insensibile. L’Arte è dentro la Vita, non fuori. Un romanzo non è per la vetrina di un Museo o lo scaffale di una libreria. Un romanzo è sangue, viscere, desiderio, rabbia, insolenza, perdono. Questo è terreno comune di tutti gli esseri umani, vivano a Praga, in Sicilia, in Cina o in Africa. L’emozione non ha confine religioso né politico né di razza. È di tutti. Nel mio romanzo si vivono 224 pagine di emozioni intensissime: questo non è sfuggito a chi, lettore esigente e intelligente, ha anima e cuore. I lettori si ritrovano nelle sofferenze di Luna, Gioiella e degli altri, tanti, personaggi del romanzo. Ormai, negli incontri di presentazioni, li chiamano addirittura per nome, come parenti stretti cui si vuole bene e della cui assenza si soffre. Resto sconvolta, turbata, commossa. La “nudità” emotiva di questi personaggi è assolutamente poetica e vincente. La notte è una dimensione non proprio sconosciuta per lei, dichiarata scrittrice insonne. Cosa rappresenta nella sua vita il notturno e, per traslato, nella scrittura di Solo se c’è la Luna? Il Sole e la Luna sono una metafora dell’essere umano, della sua personalità che spesso, al “sole”, subisce mascheramenti dettati dal comune senso del pudore o dell’ipocrisia. Mentre c’è una sua intima e vera personalità che vive “in ombra”, quasi alla luce lunare. È il suo spazio segreto di sogno, grido, ribellione, suggestione, poesia, fantasticheria. Nessuno sfugge alle ferree leggi “del giorno, del Sole” che ci impongono controllo, maschere, dittature sociali, ma la “Luna” dentro ogni essere umano è il suo spazio di verità e resurrezione. Oltre alle protagoniste, Luna e Gioiella, nella narrazione compare un universo antropologico–sociale, specchio di una Sicilia che lei descrive con toni tra il grottesco e il satirico. Quanto attinge dal vero per ricostruire questo sottobosco umano, radice forte e imprescindibile di molte delle sue storie? Reale e surreale si mescolano, convivono, si azzannano, dialogano. Un romanzo non è una fotografia né un diario e non va spiegato, non tutto può spiegarsi. Il lettore nell’avventura della lettura lo riscrive come vuole, secondo la sua personalità, sensibilità, emotività, passionalità. L’incontro di vita con creature che, poi,

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ritrovo nella mia pagina non significa quasi nulla. La pagina trasforma, ricrea, risana, dà temperamento a quello che nella vita è spesso sciatto, incolore, insapore. In un’intervista alla Repubblica del maggio 2009 ha dichiarato “io considero casa madre solo e sempre, ovunque con chiunque, la Sicilia. Con la Sicilia sono stata fedelissima sempre, oltre ogni ‘adescamento’ di carriera”. La sua isola è quindi, per lei, l’unico amore a cui è ancora rimasta fedele. Ma qual è la Sicilia di Silvana Grasso? Quella che l’ha generata e cresciuta, quella di cui si è innamorata o quella che, oggi, la ricambia con trasporto? La Sicilia è la mia tossina, il mio Canto, il mio inferno, il mio furor, la mia dannazione, la mia placenta, il mio boia. Potrei all’infinito dire cos’è la Sicilia per me … ma rinuncio a emozioni che possono essere scambiate per retorica. Il ‘Vulcano Etna padre’ detta le sue leggi di fuoco, fiamma, distruzione, benedizione, redenzione. E tutti ci sottomettiamo al ‘Grande Padre’ che, coi suoi pennacchi di fuoco, risveglia appanna infiamma l’azzurrità del Cielo da millenni. La Sicilia del turista è cosa ben diversa che la Sicilia di chi ha la ventura o la sventura di nascerci. Io ci sono nata nella terra del gigante Polifemo, della ninfa Galatea che non volle amarlo, nell’isola d’Archimede e Colapesce, tra Scienza e Mito, tra fichidindia e ulivi, tra il vento frastornante della tramontana, e il vento amante dello scirocco. Non è difficile nascere in Sicilia, mentre difficilissimo è restare siciliano. Io sono rimasta siciliana, mentre più semplice, più di moda sarebbe stato rinunciarvi, abdicare all’isola, i suoi enigmi, le sue contraddizioni, i suoi umori, i suoi killer. Convivo, combatto, duello ogni giorno con la mia sicilianità, estrema Bellezza che si scontra con estrema Bruttezza. Il legame èros – thanatos, il disìo inappagato e il profondo richiamo del nòstos sono temi onnipresenti nella sua scrittura. Perché? Sono fratelli siamesi. Il disìo, il desiderio, è l’attesa poetica che tale in eterno deve restare, perché non imputridisca nel raggiungimento dell’aspirazione. Infatti il passaggio dal desiderio alla sua realizzazione è morte, thanatos, è lebbra che consuma, uccide, infetta. L’èros deve sempre restare desiderio, suggestivamente vissuto, mai consumato, mai esplorato se non nell’avventura della mente. Lei afferma – parafrasando una sua recente intervista – che il suo scrivere sia ruvido, dia sfogo alla sua parresia e che, di converso, la sua lettura “molesti” l’animo e lo scuota perché quella vera non potrebbe fare

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altrimenti. Crede sia questa la chiave che l’accomuna e la fa apprezzare da lingue e culture diverse nel mondo, e che rende le sue storie universali, senza frontiere? Senza dubbio. Il lettore che restasse indifferente, non turbato, non molestato, sta perdendo tempo in quella lettura. Può metterla via, non gli serve. È un’avventura emotiva intensissima la lettura di un romanzo, la vita dei personaggi che non possono e non devono lasciare indifferenti, come non può lasciare indifferente in Natura uno tsunami, un terremoto, un tramonto di fuoco. Questo intendo quando parlo di «molestia». Lasciarsi «molestare» è rinascita, progetto, abbandono della letargia emotiva che uccide da vivi. La sua prosa è un unicum linguistico - narrativo, in cui molti hanno ritrovato le sfaccettature della migliore tradizione letteraria isolana, classica e contemporanea (da Verga a Pirandello, passando per Bufalino e Camilleri). Dal canto suo, lei ha dichiarato: “Scrivere è la mia tossina, è il bisturi con cui incido carne e cuore senza anestesia, fino all’ultima goccia che segna la parola fine. È il sangue, il mio inchiostro”. Cosa le rende necessario questa catarsi? La lingua è il comunicatore per eccellenza. La lingua è la mia emozione che contagia, si espande, contamina. La lingua è suono, è sinfonia, è sussurro, è grido. La lingua dà corpo e senso alla storia. Posso dire che il vero romanzo dovrebbe sempre essere la Lingua, la potenza emozionalmente espressiva della Lingua, considerata invece da scribacchini – che si dichiarano scrittori! – solo un accidente trascurabile, se non un parassita! Quante Silvane esistono nella sua vita e nella sua scrittura, e quale di esse è la più vera? Contengo tante Silvane quante sono le storie che scrivo: in ognuna semino una Silvana – inconsciamente, non premeditatamente – poi sono i miei lettori a scovarle … tento invano di essere lieve coi miei personaggi ma fallisco. Inevitabilmente sono onnipresente, invadente, invasiva. Sono siamese a tutti loro, poi però si liberano di me, crescono, si emancipano, diventano forti assoluti dittatori, e tagliano il «cordone» con la parassita Silvana Grasso. Concludiamo con un quesito sul futuro: quale altro progetto letterario che non ha ancora realizzato vorrebbe vedesse la luce dalle sue mani? Non rispondo a quest’ultima domanda … A ben vedere, mi pare inutile.

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CULTURA

Salvatore Cusimano

Direttore di RAI Sicilia

A cura di Stefania Del Monte

Giornalista professionista dal 1987. Vincitore della borsa di studio promossa dall’azienda radiotelevisiva pubblica per la formazione di nuove leve di giornalisti nel 1980, ha svolto la sua attività al Giornale di Sicilia, da metà del 1983 all’inizio del 1986, per tornare alla Rai nell’aprile del 1986 presso la redazione di Catania. L’anno successivo è stato trasferito a Palermo. È stato inviato speciale. Corrispondente delle principali testate della Rai e del Tg1 in particolare per più di dieci anni. Si è occupato prevalentemente di cronaca nera e giudiziaria seguendo i più gravi fatti di cronaca che hanno segnato la storia della Sicilia, dal maxiprocesso alla stagione delle stragi del ‘92, fino al processo Andreotti.

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Sua la diretta per il Tg1 con le prime immagini trasmesse dalla Rai sulla strage di Capaci. È stato anche responsabile del settimanale internazionale Mediterraneo, co-prodotto da Rai, France 3 e Tv svizzera italiana. Nel 2000 è stato nominato caporedattore della TGR Sicilia, responsabile del telegiornale regionale. Nel 2003 ha assunto la guida, come caporedattore centrale, della redazione Raimed Mediterraneo. Nel 2006 è stato nominato direttore della sede siciliana della Rai. Nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi e prestigiosi riconoscimenti. Nel 1986 ha vinto il premio nazionale per l’inchiesta Mafia in corsia, messa in onda da TG2 Dossier. Negli anni successivi riceve vari riconoscimenti da enti e associazioni, fra i quali in particolare quelli della Fondazione “Gaetano Costa” , intitolata al procuratore della Repubblica di Palermo ucciso dalla mafia il 6 agosto del 1980. Nel 1997 ha vinto il premio internazionale indetto dall’Associazione europea delle televisioni mediterranee per un documentario realizzato

Turchia, Le sofferenze di Istanbul, e sugli intrecci fra criminalità organizzata, politica e terrorismo. Nel 1998 riceve il Premio nazionale dalla Regione Calabria per il complesso dell’attività giornalistica svolta e in particolare per la denuncia del fenomeno mafioso e delle sue collusioni politiche e istituzionali. Tra i tanti riconoscimenti anche uno della Presidenza della Repubblica per una serie di reportage realizzati nella Valle del Belice in occasione dell’anniversario del tragico terremoto del 1968. Insieme a Gian Mauro Costa ha pubblicato nel 2010 per la ERI il volume “L’isola in onda”, storia della Rai in Sicilia, raccontata attraverso le testimonianze di molti dei suoi protagonisti. Sotto la sua direzione Rai Sicilia ha completato la digitalizzazione di tutti i materiali della ex struttura dei programmi oggi disponibili sul sito www.siciliainonda.rai.it. Inoltre ha inaugurato l’Auditorium, uno spazio aperto agli eventi culturali che ogni fine settimana, da ottobre a giugno, ospita presentazioni di libri e concerti. Fra gli altri progetti realizzati durante la direzione di sede, un ciclo di web doc , documentari per la rete, sui seguenti argomenti: “La Sicilia come set” (sul ruolo indissolubile dell’isola con il cinema, dai grandi classici fino alle recenti fiction), “Le bombe su Palermo” (dedicato al 70º anniversario dello sbarco degli alleati nell’isola), “Il Presidente” (in cui viene ricostruita con interviste inedite e immagini di repertorio la vita di Piersanti Mattarella, presidente della regione ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980), “L’Autonomia difficile” (sull’attualità dello Statuto autonomistico). I web doc sono stati editati con un software innovativo che consente di approfondire il racconto lineare con innesti di approfondimenti, in un processo di aggiornamento senza fine. Nel 2015 ha realizzato il documentario “Nella terra degli infedeli”, sulla figura e l’opera dei giudici Falcone e Borsellino e sul metodo di indagine che si è rivelato centrale per la lotta alla mafia. Il documentario, della durata di 50’, è stato trasmesso in prima serata sulla

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Rai Scuola il 23 maggio e l’indomani da Raitre. Da quattro anni coordina e conduce su Radio Uno, in diffusione regionale, la trasmissione di attualità “Mediterradio”, coprodotta con Rai Sardegna, con la radio pubblica della Corsica e con la radio di Malta. È responsabile anche della trasmissione “Musica Med”, realizzata presso la sede di Palermo con la collaborazione delle radio di Spagna, Corsica, Algeria, Tunisia, Marocco e della trasmissione “Isola Bella”, dedicata ai temi dell’agricoltura, del turismo e dei beni culturali. Sotto la sua direzione, la sede siciliana della Rai è stata fra le prime a completare il passaggio al digitale delle infrastrutture produttive. Per molti anni ha insegnato all’università, con corsi su Teoria e tecnica del linguaggio radiotelevisivo e Storia del giornalismo. Intensa la sua attività di promozione della legalità, attraverso la partecipazione a convegni e a incontri nelle scuole. È stato per due anni tutor nei corsi di formazione e aggiornamento per i magistrati della Scuola superiore della magistratura di Scandicci, per quanto attiene i temi del contrasto alla criminalità organizzata. da

Quest’anno celebra i trent’anni di attività da giornalista professionista, tutti trascorsi in Sicilia e seguendo sempre in prima linea gli eventi che hanno segnato la storia dell’isola. Come sono cambiate, Palermo e la Sicilia, in questo periodo? Per la verità faccio il mestiere di giornalista da molto più tempo, già dal 1981 quando ho vinto una borsa di studio alla Rai e ho cominciato il mio tirocinio presso varie redazioni italiane dell’azienda radiotelevisiva più importante del nostro paese. Sono stato molto fortunato. Ho avuto ottimi maestri e ho lavorato in una regione che proprio a partire da quel periodo è stata sempre al centro dell’attenzione dei mezzi di comunicazione per i gravissimi fatti accaduti che hanno sconvolto l’intero paese. Fino a qualche anno fa non c’era giorno che i telegiornali e i giornali radio nazionali non ospitassero servizi dalla Sicilia e molti erano miei soprattutto al Tg1. Ho sempre fatto il cronista. Per sostituire un collega al Giornale di Sicilia, dove ho fatto un’interessante esperienza per un paio d’anni, ho cominciato a occuparmi di “nera e giudiziaria”, quindi scrivevo di delitti e processi e appena sono approdato alla Rai è stato naturale proseguire lungo quel solco. Così, fino al 2004 almeno, ho seguito i principali processi, dal primo storico alla mafia, fino alla stagione delle stragi del 1992, e poi mi sono occupato delle grandi inchieste su mafia e politica, come quello all’ex presidente del consiglio e più volte ministro Giulio Andreotti. È stato un lavoro duro, impegnativo, a tratti rischioso, in cui ho anche vissuto forme d’isolamento, e anche doloroso. Vedere tanti morti, come sanno i cronisti di guerra (e quella contro la mafia è stata una vera e propria guerra con mi-

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gliaia di morti) non ti lascia indifferente. Molte di queste persone, colleghi, poliziotti e magistrati erano, se non miei amici, persone con le quali avevo un rapporto molto stretto e ai quali ero affezionato. Poco tempo fa ho realizzato un documentario “Nella terra degli infedeli” dedicato all’impegno dei magistrati antimafia. Quelle immagini e quei ricordi hanno fatto riemergere tante emozioni e anche tante domande ancora oggi senza risposta sui responsabili degli eccidi che hanno azzerato le nostre classi dirigenti. Continuo a credere che dietro tanti omicidi soprattutto di personaggi eccellenti, magistrati e politici non ci siano solo i mafiosi ma complicità a livello altissimo. Palermo e la Sicilia tuttavia sono molto cambiate. Oggi la capitale dell’isola è vivibile, i clan criminali sono stati decimati da inchieste e arresti. Quelli che sono sfuggiti alla cattura restano nelle retroguardie in attesa di poter tornare a controllare appalti e a concludere affari. C’è una consapevolezza senza precedenti della gravità del fenomeno. Molte associazioni hanno alzato la denuncia e anche gli imprenditori e i commercianti hanno capito che è più conveniente stare dalla parte dello Stato che subire il ricatto delle cosche. Quello che è indispensabile è continuare a vigilare e non abbassare la guardia. Nel suo libro “L’Isola in Onda”, scritto nel 2010 in collaborazione con Gian Mauro Costa, racconta la storia della RAI siciliana fin dall’inaugurazione della sede EIAR di Palermo, nel 1931. Com’è nata l’idea? Quando sono stato nominato direttore ho ritenuto fondamentale salvaguardare la storia dell’azienda in Sicilia. Ho fatto digitalizzare centinaia di documenti in vecchi formati audiovisivi ormai inaccessibili per renderli disponibili per chi vuole conoscere la nostra terra. In quei programmi si trovano testimonianze della cultura, dell’arte, della musica, dell’attualità, della storia, del teatro della Sicilia. Basti pensare che proprio nella Struttura che coordinava le trasmissioni lavoravano i più grandi autori, artisti, musicisti, scrittori e attori siciliani noti anche a livello nazionale e faceva il regista anche un giovane di talento che poi sarebbe diventato premio Oscar, Giuseppe Tornatore. Un patrimonio di questo valore non poteva andare disperso. Secondo passo conseguente è stato quello di raccogliere le testimonianze dei “vecchi” della Rai che avevano scritto la storia dell’azienda nell’isola. Così è nato il libro Sicilia in onda, pubblicato da Rai Eri. Le loro voci hanno permesso di comprendere come sono cambiate la radio e la televisione, ma anche di rendere contagioso l’entusiasmo che questi pionieri della tv ponevano nel loro lavoro.

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In che misura la radio e la televisione, in Sicilia, hanno influenzato la trasformazione sociale dell’isola? Radio e tv sono stati i principali mezzi di informazione dell’isola. Il famoso “gazzettino”, un giornale radio della durata di 30 minuti ogni mattina alle 7,30 (ora alle 7,20) per più di mezzo secolo ha raccontato ai siciliani la politica, la cronaca, il turismo, ma anche i mali terribili che in questa terra convivono con la sua bellezza. Un tempo si diceva “l’ha detto la radio o l’ha detto la tv”. L’attendibilità della Rai era ed è sempre altissima. Il ruolo dell’azienda pubblica radiotelevisiva è stato centrale nel far crescere la coscienza antimafia, e la consapevolezza dei propri diritti contro corruzione e mala politica. Nel 2007 ha inaugurato l’Auditorium, uno spazio aperto agli eventi culturali che ogni fine settimana, da ottobre a giugno, ospita presentazioni di libri e concerti. Quanto ha contribuito, questa iniziativa, nel promuovere la cultura siciliana su scala nazionale ed internazionale? L’Auditorium era una sala di registrazione abbastanza capiente ma pressoché inutilizzata. In un’altra stanza avevamo un pianoforte. Abbiamo messo insieme le due cose e abbiamo aperto la sede Rai al pubblico. Un’iniziativa rivoluzionaria che ha suscitato inizialmente anche qualche polemica. C’era chi riteneva la sacralità del luogo violata dalla presenza del pubblico. Io ho sempre pensato invece che il nostro editore è chi paga il canone, il pubblico appunto. Dal primo concerto a oggi (ogni settimana da metà settembre a metà giugno ospitiamo appuntamenti con i libri, il cinema, la musica e i temi sociali e civili) abbiamo avuto più di seicento appuntamenti. Un contributo ritengo non indifferente alla crescita culturale dell’isola. Posso ricordare alcuni incontri con grandi magistrati che vivono sotto scorta e seguono le inchieste più delicate dell’isola, oppure le giornate dedicate ai temi della violenza sulle donne, alla “tratta” delle ragazze africane, nigeriane soprattutto. Molti di questi eventi sono stati trasmessi in diretta streaming con migliaia e migliaia di contatti. Oggi il nostro spazio continua a essere ambitissimo. Sono orgoglioso del lavoro fatto, inventando tutto da zero. Abbiamo tecnici eccellenti che si sperimentano con entusiasmo e che sono diventati un punto di riferimento anche per produzioni nazionali. Abbiamo anche ospitato un paio di volte la poesia del vostro paese. Pomeriggi davvero emozionanti. Palermo è la capitale italiana dei giovani per il 2017 e sarà la capitale italiana della cultura per il 2018. Condivide questi riconoscimenti?

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Condivido la scelta di Palermo. È un riconoscimento allo straordinario lavoro fatto in questi anni non solo dagli amministratori ma anche da magistrati, dell’ordine, associazionismo per cambiare il volto della città. Fino a tutti gli anni ’80 la mafia governava anche il consiglio comunale. Mezzo secolo di governo criminale delle istituzioni. Oggi Palermo è una città piena di eventi culturali, con una movida paragonabile a quella di molte altre città europee che non hanno vissuto i nostri drammi, con monumenti di valore inestimabile e un centro storico fra i più vivibili al mondo. Da anni il Sindaco Orlando si sta battendo anche per una Palermo più europea ed internazionale. A suo avviso, la città è pronta per ricoprire questo ruolo? Palermo è la città dell’accoglienza. Qui le culture convivono senza scontri. Il razzismo non sappiamo cosa sia. In una Europa dove si erigono muri e vige il sospetto, Palermo mostra la forza del dialogo e si presenta come la capitale morale di una zona di frontiera che sa discutere e accettare le differenze. Non è un caso che la sua storia e le sue bellezze siano il frutto dell’incontro fra la riva sud e quella nord del mondo. Come coordinatore e conduttore di Radio Uno collabora regolarmente con diversi paesi del Mediterraneo. In un periodo in cui il Mare Nostrum è di nuovo al centro del mondo come possono, la Sicilia e l’Italia, fare la differenza? La Sicilia è uno dei laboratori più avanzati del dialogo. Come lo erano la Gran Bretagna prima della brexit e gli Stati Uniti prima di Trump. Qui africani, arabi, mediorientali, pakistani, srilankesi, palestinesi, maghrebini hanno trovato una casa, un lavoro, hanno imparato a mangiare panelle e arancine e ci hanno insegnato a gustare cous cous e cibi una volta considerati esotici. Le loro danze si mischiano con quelle tradizionali in costume siciliano e persino i riti religiosi si ibridano e si rispettano. Era dunque naturale che una trasmissione televisiva come “Mediterraneo”, e radiofonica come “Mediterradio”, nascessero in questa terra. La seconda, ospite di Radio Uno, ha avuto come partner Malta e ora ha la Tunisia. Le cronache del nostro collega di Radio Tunis oggi sono quanto di più interessante e libero si possa immaginare e arricchiscono le nostre conoscenze e costituiscono un prezioso scrigno di informazioni per gli imprenditori che intendono investire nel nord dell’Africa, a poche miglia di mare dalla Sicilia, o per i politici che intendono valorizzare questo ruolo di cerniera fra l’Europa e il sud del mondo. Per tanti anni i colleghi di “Mediterraneo” e di Raimed (il canale

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in italiano e in arabo, purtroppo adesso chiuso) sono stati gli unici a poter raccontare dalla riva sud i grandi cambiamenti e le ambizioni, la vera vita, i sogni e le speranze di popoli ai quali molti mezzi di comunicazione occidentale riservano attenzione soltanto in presenza di conflitti. Tra i progetti da lei realizzati vi è anche quello della “Sicilia come set”, incentrato sul ruolo indissolubile dell’isola nel cinema, a partire dai grandi classici e fino alle recenti fiction. Perché il mondo del cinema è così attratto dalla Sicilia? La Sicilia è un set naturale. Le sue forti passioni, i suoi contrasti di luce, le sue bellezze naturalistiche, l’armonia dei suoi centri storici, i suoi riti spesso tragici non possono che costituire altrettanti soggetti per il cinema e le fiction. Poi c’è il cartesianesimo dei siciliani, la loro voglia di razionalità e di riflessione, che anima molta della letteratura siciliana, a cominciare da quella sciasciana. I libri di questi autori hanno dato tanto all’Italia e al mondo, hanno anche offerto suggestioni fortissime, liberando l’isola da ogni forma di provincialismo. E i mali atavici, a cominciare dalla mafia, hanno impegnato registi di valore e spesso rimangono anche da sfondo alle serie come quelle del commissario Montalbano, del grande Andrea Camilleri, oggi uno dei personaggi più noti al mondo e una straordinaria intuizione anche di Rai Uno che da anni porta le storie del commissario in prima serata sempre con ascolti record.

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ITALIANI A PRAGA

Aurora Fradella

Ballerina professionista di danza contemporanea

<<Attualmente lavoro come solista per la compagnia praghese “Prague Chamber Ballet” (Prazsky Komorni Balet). Mi sono trasferita da Palermo, la mia splendida città, in quanto ho avuto la splendida occasione di vivere della mia passione proprio qui a Praga. Avevo da tempo intenzione di trasferirmi in qualche altra città europea lasciando l’Italia per intraprendere la mia carriera ed il caso, a quanto pare, ha deciso di mandarmi a vivere qui e di farmi unire a questa importante compagnia ceca.

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Non conoscevo Praga fino al momento in cui non arrivai per partecipare all’audizione della compagnia dove ora lavoro. Per fortuna la migliore amica di mia sorella vive qui per studi universitari, così ho avuto fin da subito un appoggio ed aiuto per muovermi in città e conoscerla un po’. La prima impressione è stata assolutamente positiva. Un’atmosfera calma e piacevole, tanta arte e vita: ho subito capito che sarei stata bene qui ed ora non posso che confermare questa impressione. Oltre ad avermi concesso di danzare in una compagnia di qualità come la Prague Chamber Ballet, il grande vantaggio di trovarmi in una città come Praga è che si ha la possibilità di spostarsi con grande facilità in tutta Europa (ma anche oltre). Questo ha cambiato molto la mia vita perché viaggiando spesso, soprattutto per ragioni lavorative, il trovarsi praticamente al centro dell’Europa è per me di estrema comodità. Ad esempio gli spostamenti dall’Italia, soprattutto se si parte dalla Sicilia, sono molto più difficili, lunghi e costosi. Al mio arrivo, sicuramente la difficoltà più grande è stata la lingua. Purtroppo non tutti parlano inglese quindi è stato spesso molto difficile riuscire a comunicare, cosa fondamentale anche per ambientarsi. Pian piano sto cercando di imparare il ceco perché noto che è davvero necessario; avere almeno una base può essere di grande aiuto. Come accennavo prima, però, per me è una grandissima soddisfazione poter affermare di lavorare in una città così bella ed importante; una città che non solo mi sta offrendo un’ottima esperienza lavorativa, ma che mi sta anche facendo ampliare i miei orizzonti nell’ambito della danza. Ci sono moltissimi posti di Praga che mi piacciono, come ad esempio i grandi parchi e giardini, Vyšehrad, il ponte Carlo, piazza della Città Vecchia con il bellissimo orologio astronomico ed i suoi edifici color pastello. Mi piacciono molto i vari caffè e locali, e gli interessanti musei. Sicuramente, però, il luogo che finora mi ha regalato più emozioni è stato il Teatro Nazionale, dove ho avuto l’occasione di vedere bellissimi spettacoli. A dire la verità non ho molta nostalgia dell’Italia. Sicuramente mi manca la mia famiglia, ma non l’Italia in sé. Sono una persona che ama moltissimo viaggiare e scoprire nuovi luoghi e culture e, anche se lontana da “casa”, spesso mi trovo perfettamente a mio agio in posti mai visitati prima.

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Amo la mia terra, questo è certo, e penso che l’Italia non avrebbe da invidiare niente a nessun altro Paese. Spesso, purtroppo, da noi non c’è un’adeguata organizzazione e l’offerta si restringe, soprattutto in campo artistico. Preferisco quindi godermi l’Italia nei periodi di vacanza. A chi pensa di trasferirsi qui, consiglio vivamente di imparare il ceco! O quanto meno di partire con una piccola base. Sicuramente rende tutto molto più facile. Progetti per il futuro? Ancora non so di preciso. Qui a Praga mi sto trovando bene quindi non escludo la possibilità di restare ancora per un po’, magari per un’altra stagione con la compagnia PKB. Non escludo la possibilità di trasferirmi in un altro Paese, a seconda delle opportunità e dei progetti che si presenteranno. Vedremo!>>. Per informazioni: http://prazskykomornibalet.cz/en/

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TEATRO

Roberto Alajmo Direttore del Teatro Biondo

A cura di Laura Di Nitto

Roberto Alajmo è Direttore dell’Ente Teatro Biondo Stabile di Palermo dal 2013. Scrittore e giornalista professionista, dal 1988 è assunto al TG3 Sicilia della RAI e collabora con diverse testate nazionali. Il suo primo romanzo pubblicato è stato, nel 1986, Una serata con Wagner. Le sue opere sono tradotte in inglese, francese, olandese, tedesco e spagnolo. Con il romanzo Cuore di madre, è secondo classificato al premio Strega e vincitore del Premio Campiello, del Premio Verga e del Premio Palmi. È stato docente di Storia del Giornalismo alla facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo e consigliere d’amministrazione del teatro Stabile di Palermo. Il suo romanzo È stato il figlio è stato trasposto, nel 2012, nell’omonimo film di Daniele Ciprì, interpretato da Toni Servillo.

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È mai partito per un viaggio con l’intento di scriverne un libro o una storia? Molte volte, per lavoro, magari non è un libro ma un articolo o un servizio – ho lavorato a lungo per Mediterraneo, un settimanale che si faceva alla RAI fino a qualche anno fa – e ho girato tutti i paesi del Maghreb. Poi ho girato intorno alla Sicilia quando ho scritto L’arte di annacarsi, che è un libro di viaggio vero e proprio, anche se molto personale. E’ un libro di storie e di geografia. Quanto c’è di personale nelle storie che racconta e quanto è importante socializzare per poi tirare fuori i personaggi di cui scrive? È un discorso molto delicato: a me piace mescolarmi alla popolazione, però poi arriva un momento in cui – parlavo appunto di Mediterraneo – quando entra in scena l’occhio della telecamera, ma anche quando si sa che c’è un giornalista in una stanza, la realtà non è più la realtà. Per cui l’ideale è fare come faceva Ryszard Kapuściński cioè viaggiare, magari non nascondersi proprio, ma rimanere talmente tanto da mescolarsi alla popolazione e diventare un elemento del paesaggio; fino a quando il paesaggio non cambia, perché ci sei tu che lo guardi. Quindi, l’ideale, sarebbe poter restare in un posto talmente tanto tempo da non “inquinare le prove”. È così che mi piacerebbe viaggiare. Se potesse dare un consiglio a se stesso ventenne, cosa si direbbe? A parte non sposarsi (ride)… È una domanda interessante: cosa mi consiglierei? Mi consiglierei di non aspettarmi la felicità; se riguardo indietro e penso a tutte le aspettative che uno ha a vent’anni. Se parlassi con il mio alter ego ventenne e gli raccontassi tutte le cose che ho fatto, credo che mi direbbe che ho avuto una vita piena e felice. Allora io direi che piena sì, lo è senz’altro stata, ma la felicità non attiene alle cose che riesci a realizzare. Quindi gli direi di non aspettarsi troppa felicità. Come la immagina la felicità, dopo tutte le esperienze che ha avuto. Quali sono stati i momenti felici? A parte la tripletta dell’Inter nel 2010, alcuni momenti felici sono dedicati ai libri, effettivamente, ed ad alcuni dei premi che ho ricevuto; a mio figlio, indubbiamente. Però la felicità – come qualcuno ha detto – è un treno che tu incroci e, quando te ne accorgi, si è già allontanato ad una velocità straordinaria. Quindi la mia definizione è “essere felici e saperlo”: riuscire a mettere a fuoco il momento in cui si è felici. Tuttavia, un buon elemento della felicità è la stupidità: mi pare che molte persone stupide siano felici. Basta anche una stupidità parziale, senza essere ebeti

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assoluti. Quando io ho citato la tripletta dell’Inter all’inizio, intendo dire proprio quello: io, per esempio, ho una stupidità parziale legata al gioco del calcio e lì, in alcune occasioni sono felice, e riesco anche a godermela un po’! Lei è quotidianamente attivo, mi pare, anche sul suo blog. Che differenza c’è tra lo scrivere un romanzo e postare impressioni sui fatti del quotidiano? Io uso il blog in certi casi come quaderno d’appunti e poi, per intervenire sulla politica culturale, per esempio, il blog è uno strumento più agile che ti consente di intervenire in tempi più stretti sicuramente, anche se non immediati. Infatti, l’ho voluto chiamare “Penultima Ora” perché comunque mi riservo un tempo di riflessione sulle cose che succedono. Adesso intervengo meno sulla politica cittadina specialmente perché, rappresentando il Teatro Stabile, non mi sembra giusto. Non voglio che le mie opinioni siano sentite o confuse con quelle del teatro: mi sembra corretto tenere un profilo più istituzionale. Parlando di teatro, quali sono le sue impressioni sulla realtà dei teatri occupati in Italia? A Palermo, per esempio, c’è la bella esperienza del Teatro Mediterraneo Occupato. Come vede queste libere iniziative di persone che si impossessano di spazi inutilizzati per ridonarli alla cultura in modo indipendente? Con il Teatro Mediterraneo ho un rapporto molto cordiale. C’è stato anche uno scambio e loro hanno fatto da noi una conferenza stampa, gli abbiamo fornito dei materiali per dargli una mano, e anche per dare un segnale di apertura tra il molto grande e il molto piccolo, tra il molto istituzionale e il per niente istituzionale. La cosa non è stata del tutto indolore, però, perché qualcuno ha obiettato che un’esperienza dell’illegalità non dovrebbe essere alimentata. In realtà, astrattamente è vero, però il mio tentativo è di portare il teatro stabile per strada, nella città. E quando c’è un fermento di questo tipo, io cerco di essere il più attento possibile. Certo, bisogna dire che l’esperienza dei teatri occupati ha un senso fin quando non si configura come esperienza stabile: ci sono dei tempi in cui tu puoi non pagare le bollette perché non ne hai la possibilità, però non puoi MAI pagare le bollette, MAI pagare la SIAE, MAI pagare le collaborazioni. Non sarebbe giusto, non tanto nei confronti del Teatro Stabile che ha un pubblico completamente diverso, ma nei confronti di altre realtà più strutturate. Un’occupazione, tuttavia, può servire a richiamare l’attenzione su un bene pubblico che non viene sfruttato. Come, per esempio, è stata l’esperienza del Teatro Valle a Roma…

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Certo, quell’esperienza è durata molto e io mi sarei aspettato che, dopo lo sgombero, cominciassero i lavori di restauro. E invece no. Paradossalmente, a quel punto, per tenerlo chiuso, sarebbe stato meglio lasciare dentro quelli che occupavano. Anche se vale tutto quello che ho detto prima: queste sono situazioni estremamente contraddittorie, in cui il bianco e il nero non sono gli unici due colori sulla tavolozza. A proposito della cultura in strada, a Palermo c’è la bellissima esperienza condotta da Alessio Castiglione, un giovane scrittore palermitano: il New Book Club, che coinvolge giovani e giovanissimi in laboratori di scrittura “in strada”. Un’esperienza profondamente etica, che porta la cultura anche a chi non ha opportunità di avervi accesso facilmente. Lei trova ci sia qualcosa di non etico in come la cultura è gestita a livello istituzionale ed editoriale? Indubbiamente ci sarà qualcosa di non etico, però, sotto la voce cultura, io ci metto dentro dalla pasta con le sarde a Umberto Eco, quindi sarebbe veramente strano se non ci fosse qualcosa di non etico all’interno della cultura. La mancanza di cultura è poi il paradosso: quando uno dice che non ha tempo di leggere libri, non ha tempo di andare a teatro, anche quella è a suo modo una cultura. Quindi, come all’interno della categoria esseri umani, ci sono casi eticamente riprovevoli, anche all’interno della cultura ci sono delle distorsioni indubbiamente, da cui bisogna cercare di tenersi alla larga e declinare la parola nella maniera più virtuosa possibile. Cosa pensa dei social media, del fatto che ognuno abbia la possibilità di raccontarsi – che ne abbia la capacità o meno? È difficile, anche qui, dare una risposta categorica, perché il fatto che ciascuno abbia modo di esprimere la propria opinione è giusto; il problema è che in questo modo, ogni voce, da Umberto Eco all’ultimo cretino del mondo, vale alla stessa maniera; pesata su Facebook, più o meno vale lo stesso. E questa è senz’altro una distorsione. Come è cambiata la sua attività di scrittore da quando ricopre il ruolo di direttore del Teatro Biondo, sia dal punto di vista pratico (della gestione dei tempi) che interiore? Sono riuscito a scrivere almeno due libri negli ultimi tre anni, ma devo dire che sono riuscito a farlo soltanto strappandomi al Teatro e prendendomi delle lunghe pause; una volta addirittura dimettendomi, per riuscire a scrivere. Perché non è soltanto una questione di tempi, è una questione di concentrazione: se

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hai un miliardo di pensieri, non riesci a concentrarti su un libro, che è un’attività totalmente assorbente. Richiede concentrazione un articolo, figuriamoci un romanzo. Adesso, per esempio, che siamo nel pieno della stagione, è difficile scrivere. I tempi riuscirei anche a trovarli, perché mi sveglio presto e quindi potrei “fregare il mondo” all’alba; però quando scrivo un libro, io faccio solo quello e ho bisogno di fare il vuoto. Come è cambiata Palermo in questi ultimi vent’anni? Quali opportunità intravede in Palermo capitale della cultura? Sicuramente la città è cambiata in meglio, però bisogna ricordarsi che Palermo non è una città facilitata come può essere Firenze o Venezia. Palermo è sempre e sarà sempre una città difficile – anche venisse come sindaco Gesù, non è che riuscirebbe a risanare il maledettismo di Palermo. È una città che, seppure si capisce che si muove in una direzione di miglioramento, si “annaca” – per tornare al concetto di movimento senza spostamento. Quindi senz’altro è una città migliorata, con ancora enormi margini di miglioramento. Palermo capitale delle cultura è un’opportunità e, in sé, una cosa positiva: è un’idea e le idee sono migliori o peggiori a seconda delle gambe su cui camminano. Quanto c’è di Europa a Palermo? L’Europa è una delle componenti della città. Non voglio usare formule ritrite, “il ponte fra oriente e occidente, fra nord e sud”, “un crogiuolo di culture”, però è vero che Palermo è mentalmente centrale. Non dico geograficamente, perché oggi sei più al centro se sei a Berlino, con un aeroporto che ti collega al mondo. Io per esempio da qui, per andare a Cagliari, devo sempre prendere due aeroplani, se non voglio andarci a nuoto. Diciamo che sei geograficamente al centro del Mediterraneo, se ti muovi in barca; in tutti gli altri casi, non lo sei. Mentre dal punto di vista delle culture, il discorso cambia completamente, perché non solo Palermo è al centro di una certa idea di Europa ma anche di tutto il bacino del Mediterraneo.

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FOTOGRAFIA

Da Praga a Palermo, con Pavel Kopp e Antonio Saporito

Il nuovo progetto fotografico raccontato in una doppia intervista

A cura di Stefania Del Monte

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PAVEL KOPP

Da quanto tempo si occupa di fotografia? Ho cominciato a fotografare durante i miei studi presso la Facoltà di Elettronica del Politecnico di Praga, dove scelsi di specializzarmi in Film e TV, corso in cui si tenevano anche lezioni di tecnica della fotografia. Le fotografie, a quell’epoca, erano sviluppate in camera oscura, con un processo chimico. Ho cominciato con scatti privati, di famiglia, o paesaggi. Ho poi proseguito l’attività nel periodo del mio primo, lungo soggiorno in Italia, all’inizio degli anni Settanta dove, in qualità di rappresentante di una ditta ceca, potevo girare tutto il Bel Paese. In quel periodo riuscii anche ad acquistare la mia prima macchina fotografica professionale: una Leica M5. Da allora, sono trascorsi 45 anni. E di arte? Ebbi la fortuna di incontrare, all’inizio della mia carriera, la dottoressa Anna Farova, una storica della fotografia, che mi presentò a Josef Sudek, uno dei più importanti fotografi cechi di sempre. Da questi due personaggi ho ricevuto molti consigli per migliorare la mia tecnica fotografica, senza mai far mancare, nei miei scatti, l’elemento emotivo. Sudek diceva, infatti, che una buona fotografia deve avere qualcosa “dietro l’angolo” e che bisogna lasciarla “maturare” nello scaffale: se piace, anche dopo un anno o due, sarà buona. Così, fin dall’inizio, ho sempre cercato di realizzare questo tipo di fotografie artistiche. Ci parli del suo percorso professionale

Premetto che non sono un fotografo professionista, cioè non vivo di fotografia. Quello del fotografo è un lavoro difficilissimo che, se fatto esclusivamente per guadagnare, non sempre riesce a mantenere una “purezza” artistica. Per questo ho preferito rimanere ad un livello “amatoriale”: così ho la possibilità di essere più libero e fare solo le cose che davvero mi piacciono. Il mio stile preferito è la “street photography”, per cui ho trovato un ambiente ideale nelle strade italiane. A Milano ho conosciuto alcuni fotografi importanti, come Gianni Beregno Gardin, Paolo Monti e, soprattutto, Cesare Colombo, con cui siamo stati amici per oltre quarant’anni. Cesare mi ha anche aiutato, nel 1976, a pubblicare le prime foto sulla rivista “Fotografia Italiana”, accompagnate da suoi commenti. Al mio rientro in patria, portai a casa oltre 10mila negativi in bianco e nero e fui sorpreso di scoprire che le mie foto piacevano. Così ebbi l’opportunità di pubblicarle in diverse riviste ceche e di organizzare delle mostre. Successivamente, pubblicai altri tre libri di fotografia, tra i quali “Istanti in Italia”, con bellissimi testi del nostro famoso scrittore Miroslav Horníček. Questo libro mi ha poi aiutato durante il mio secondo lungo soggiorno in Italia, negli anni 1990-94, perché piaceva all’ambasciatore di allora, Jiří Holub, il quale poi mi offrì di andare a lavorare con lui all’Ambasciata Ceca a Roma. Per me fu davvero un miracolo, che mi permise di continuare a fotografare l’Italia e conoscerla ancora meglio. In questi ultimi anni ho organizzato molte

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mostre, sia in Repubblica Ceca che in Italia, sempre con grande soddisfazione. Gli scatti più richiesti sono quelli risalenti agli anni Settanta. Cosa vuol dire occuparsi di arte e fotografia, in una città come Praga? Naturalmente scatto molte fotografie anche qui in Cechia, e soprattutto a Praga, che per me rimane sempre – per citare Ripellino – magica. Ho realizzato un ciclo su Ponte Carlo, che è una fonte infinita di ispirazione. Ad esempio, anni fa uscì un libro di poesie accompagnato da mie fotografie, dal titolo “Il Ponte degli Alchimisti”, seguito dalla mostra omonima. Inoltre, osservando le fotografie scattate in Cechia ho riscontrato molte situazioni simili, anzi, identiche, a quelle italiane e così è nato il mio nuovo progetto, “Parallele”, che tra l’altro verrà presentato proprio in questi giorni a Palazzo Castiglioni a Milano, e a settembre a Trieste. Lei è molto legato all’Italia ed in particolare, in questo ultimo periodo, a Palermo. Com’è scaturito questo interesse? Sono legato all’Italia innanzitutto per il fatto che alcuni miei antenati erano degli italiani emigrati in Boemia. Poi, naturalmente, dopo otto anni vissuti in Italia, ho tanti cari amici e luoghi italiani che mi sono rimasti nel cuore. L’interesse per Palermo è nato da un’iniziativa del Console Onorario della Repubblica Ceca in Sicilia, il mio amico Andrea Marchione, durante la presentazione della mia mostra “Due sguardi all’Italia di

due Boemi, a distanza di cento anni”, un progetto che metteva a confronto gli scatti del fotografo ceco Krátký, realizzati in Italia alla fine dell’Ottocento, con mie fotografie, scattate un secolo più tardi. Era lo scorso ottobre e all’inaugurazione partecipò anche il Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Mi chiese perché non ci fossero anche foto di Palermo e così gli promisi che avrei fotografato la sua bellissima città e organizzato, in seguito, una mostra. Ci descriva un’immagine-simbolo per ciascuna delle due città: Praga e Palermo Per me, che non scatto fotografie turistiche ma documento la vita della gente sulla strada, le immagini-simbolo nascono, a Praga, anzitutto a Ponte Carlo e a Palermo nei mercati. In cantiere c’è anche un progetto in collaborazione con il fotografo palermitano Antonio Saporito. Cosa ci può dire in merito? Il Console Marchione mi ha presentato, a Palermo, questo bravissimo fotografo locale, Antonio Saporito, il quale ha espresso il desiderio di fotografare Praga, possibilmente sotto la neve: da qui è nata l’idea di realizzare a Palermo una doppia esposizione – Kopp-Saporito – mostrando come questi due fotografi vedono i reciproci Paesi. Saporito è stato a Praga nel gennaio scorso e la mostra sarà inaugurata il prossimo 27 settembre, presso l’Archivio Comunale di Palermo.

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ANTONIO SAPORITO

Da quanto tempo si occupa di fotografia? In un modo o nell’altro mi occupo di fotografia dal 1993, anno in cui divenni direttore editoriale di una casa editrice locale.

fondamentale ruolo di forma espressiva del pensiero, con dignità di linguaggio, alla fotografia; a conservarla e a preservarla pur modificandola con l’evoluzione dei sistemi tecnologici.

E di arte? Dal 1989, anno in cui fondai la “Eidos Comunicazioni Visive”, Edizioni d’Arte. La casa editrice è ancora oggi esistente ed ha in attivo oltre 500 pubblicazioni.

Qual è, invece, il suo ruolo nell’ambito della Fondazione “Salvare Palermo”? Non ho nessun ruolo all’interno della fondazione. Tuttavia, i rapporti sono ottimi e in passato abbiamo anche co-edito alcune opere inerenti la fotografia e la memoria.

Tra i vari incarichi ricoperti vi è quello di Presidente della Scuola Stabile di Fotografia di Palermo, che è parte integrante dell’Associazione Culturale Eidos, da lei fondata. Ci parli di queste attività. La fotografia di massa, attraverso l’uso abitudinario dei telefoni e di altre apparecchiature portatili tende a diffondere la convinzione che si fotografi in modo passivo rispetto a ciò che è visibile. Il concetto di fotografia come forma di scrittura del pensiero, con potenza narrativa, evocativa, con valore identitario, documentaristico e anche propositivo di una idea personale delle diverse identità basate sulla accettazione di altri punti di vista tende a soccombere al quotidiano, massivo uso analfabeta dello strumento che omologa persone così come fossero prodotti da vendere al supermarket. L’ attività della scuola è tesa a restituire il

Cosa vuol dire occuparsi di arte e fotografia, in una città come Palermo? Penso cha a Palermo, ma probabilmente in molti altri luoghi, occuparsi di fotografia voglia dire amare la vita attimo per attimo orientando lo sguardo secondo la emotività personale e che questa vada anche oltre il “bello” o il “brutto”, i “pregi” o i “difetti” o la semplice documentazione di eventi; significa probabilmente osservare con attenzione, cercare di comprendere, analizzare il tessuto urbano per poi raccontarne una propria idea agli altri e a se stessi per continuare a pensare… a vivere. Lei, però, è anche molto legato a Praga. Com’è scaturito questo interesse? Praga è una città bella, romantica, piena di figure che alla immaginazione di un bambino sono affabulatorie… ricordo la

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mia prima volta nella grande sala reale del castello e ancora ascolto nelle orecchie lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli dei valorosi guerrieri che immaginai entrare in anticamera prima di accedere appiedati al cospetto del re con le urgenti notizie dai fronti di battaglia… immagini di fantasia ieri… forse reali e forse no: fotografie. Ci descriva un’immagine-simbolo per ciascuna delle due città. Appunto, il castello che domina Praga è sicuramente evocatore di bellezza, storia e cultura del territorio. Ma anche la collina di Petřin, o Ponte Carlo sferzato dalla neve, sono icone del mio amore per Praga, sul riflesso di una Moldava placida e possente. Palermo, invece, credo che trovi principalmente nei colori della gente e dei mercati di derivazione araba un irresistibile quanto strano connubio con le austerità architettoniche sveve e normanne del capoluogo siciliano. Un mix irripetibile. In cantiere c’è anche un progetto in collaborazione con il fotografo ceco Pavel Kopp. Cosa ci può dire in merito? Il progetto fotografico K+P ha origine dall’incontro a Palermo con Pavel Kopp, in occasione della mostra di Pavel sui suoi scatti nel viaggio lungo l’Italia, e dalla voglia di raccontare l’uno la propria visione del territorio dell’altro, con la gente nel

semplice divenire del quotidiano. Uno sguardo immediato e reciproco sulle sensazioni che le persone, i colori, le architetture suscitano nei due autori, al fine di conoscere i reciproci punti di vista, in una mediazione culturale che è incontro e, quindi, conoscenza. Ritengo che questa Europa “difficile” abbia bisogno di conoscenza dell’Altro per completare e affermare una propria identità globale e unitaria. Conoscenza del centro verso le periferie e viceversa, come tra le diverse periferie geografiche ma che, a loro volta, sono centri culturali anche molto diversi ma antichi e importanti. Insomma la fotografia, lo scambio visivo, la comunicazione, possono essere un medium culturale non di secondo piano nel processo evolutivo di una Europa che torni a crescere, senza rinunciare al passato ma fondando nel presente nuove generazioni di europei consapevoli di questa grande unione. La mia Praga è una città tra la magia sospesa di Angelo Maria Ripellino, intrisa di romantiche quanto nebbiose atmosfere, e la durezza dello sguardo di Koudelka, nei giorni più bui; esoterismo, magia, crepuscoli e gente nei giorni più freddi di un inverno innevato, riscaldato dalla accoglienza dei luoghi e delle persone che a Praga amano e vivono, a volte, anche con qualche difficoltà e rigore.

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FOOD & WINE

Mozia ed il suo vino

La rinascita di un’antica isola e dei suoi preziosi vigneti

A cura di Roberto Vinci

Ricordo molto bene quella calda giornata di luglio di molti anni fa quando, salpando dalla terra ferma a bordo di una modesta barchetta, fummo accompagnati nella visita ad un’isola della quale già da giorni i miei genitori mi stavano parlando. Si trattava di Mozia e l’incontro con essa non deluse le mie aspettative. Ancora vivide, infatti, sono le immagini dei suoi mosaici, quasi dispersi e soli in un’atmosfera brulla e desertica. Fu meraviglioso, per me bambino, vederli venire fuori magicamente dal terreno, dalla sabbia, fra gli sterpi ed i sassi. Tanta bellezza inaspettata.

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Altrettanto stupefacente fu accorgersi che, ad una profondità di circa mezzo metro, al di sotto dei flutti solcati dalla barchetta che ci aveva condotti in quel luogo incantato, si celava un’antica strada lastricata, che conduceva fino alla terra ferma. Si trattava di una vetusta strada fenicia, fatta di lastre calcaree definite, nel dialetto locale, “sulappe”. Quella strada fu costruita dagli antichi abitanti dell’isola nel VI sec. a.C., per collegarla alla costa. Di una lunghezza di circa 1700 metri, con una carreggiata in origine larga sette metri, essa consentiva il transito di due carri provenienti da opposte direzioni. A tale riguardo esiste la ricevuta di un pagamento effettuato, nel 1936, per la risistemazione degli argini per il passaggio di carri nel periodo della vendemmia. L’insediamento di Mozia nacque come emporio fenicio nell’VIII sec. a.C. Sul significato e l’origine del nome Mozia le ipotesi sono diverse e numerose. La prima riporta alla derivazione dal fenicio MTW, che significa “luogo dove si tesse”; un’altra collega il toponimo MOT, cioè melma, all’accadico “metu”, vale a dire “acque stagnanti”. L’ipotesi più recente è, però, quella che ci riporta al significato di “attracco”, che ben si presta alla situazione dell’isola nello Stagnone di Marsala, dove i fondali bassi e la natura della laguna permettevano un facile attracco, utilizzando semplicemente un palo di legno infisso nel fondo. L’arrivo in Sicilia, nell’VIII secolo, di popolazioni greche e la successiva influenza di Cartagine, anch’essa fondata dai fenici, mutarono profondamente la storia di Mozia. Furono edificate mura lungo tutto il perimetro insulare. Questa opera difensiva era lunga 2,5 chilometri e dotata di quattro porte, in direzione dei punti cardinali. Gli accessi erano fortificati con due torri avanzate. In poco tempo l’isola divenne una base commerciale cartaginese di primario interesse nel Mediterraneo, prima di essere conquistata e distrutta da Diodoro I di Siracusa, che segnò fatalmente la sua fine. Mozia non fu più ricostruita, conservando perciò, in maniera quasi integra per i secoli futuri, le vestigia di un insediamento fenicio-punico di rara importanza, bellezza ed unicità. Agli inizi del Novecento l’intera isola fu acquistata da Joseph Whitaker, appassionato di archeologia, ornitologia, storia, sport e vino, erede di una famiglia inglese che si era trasferita in Sicilia, arricchendosi con la produzione del Marsala. Whitaker, cominciò ad acquistare lotti di terra dai proprietari dell’isola, fino

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ad acquisirne l’intera proprietà nel 1902. Nel 1906 iniziò i primi scavi, su quarantacinque ettari di terreno agrario, svelando una grande quantità di reperti archeologici di inestimabile valore. Dal 1971 l’isola è di proprietà della Fondazione “Giuseppe Whitaker”, costituita e voluta da Delia, figlia di Joseph, deceduta nello stesso anno. Whitaker conservò la coltivazione della vite, introducendo al contempo redditizie produzioni come quelle di ulivi e agavi. Come documentato negli stessi archivi Whitaker, per la coltivazione delle vigne si ricorreva all’opera di mezzadri, i quali trasportavano la loro parte di raccolto sulla terraferma, utilizzando carri che percorrevano proprio quella antica strada fenicia così cara nei miei ricordi. La parte di raccolto che spettava al proprietario veniva caricata su barche ancorate lungo la costa sud-occidentale dell’isola, nei pressi della attuale zona archeologica della “casa dei mosaici”. Sembra che i primi vigneti risalgano al primo ventennio dell‘Ottocento, quando gli inglesi scoprirono le potenzialità enoiche di tutto il territorio circostante Marsala per la produzione di un vino che sostituisse il Porto. Non è escluso che, in precedenza, esistessero vigneti sull’isola di Mozia, ma la loro presenza non è storicamente dimostrata. In Sicilia, tali testimonianze archeologiche sembrano riguardare soltanto la Sicilia orientale, colonizzata dai Greci, come non è stato dimostrato che le numerose anfore rinvenute sulla stessa isola, di produzione locale o provenienti da altre località fenicie, fossero effettivamente utilizzate per contenere vino. Negli anni Settanta del secolo scorso, alcuni vigneti andarono persi a causa di un periodo di siccità, che ridusse la superficie vitata a soli tre ettari, rispetto ai quarantacinque originari. Nel 1999 si decise, finalmente, di utilizzare la produzione di uve Grillo, proveniente dal vigneto superstite sito nella zona di Cappiddazzu, realizzando una vendemmia tardiva, in collaborazione con l’Istituto Vite e Vino della Regione Sicilia e la consulenza dell’enologo Giacomo Tachis. La vinificazione ebbe luogo sulla terraferma. A ciò si aggiunse il progetto di impiantare nuovi vigneti, fino a raggiungere una superficie di dieci ettari. Nel 2007, dall’incontro tra la Fondazione Whitaker e la famiglia Tasca d’Almerita, nacque un progetto di tutela dello storico vigneto dell’isola. I vigneti di Grillo sono allevati ad alberello con sistema di potatura corta e lunga, alla “marsalese”. Le uve vengono vendemmiate all’alba, trasportate via mare su barche a fondo piatto e successivamente trasferite nella Tenuta di Regaleali, dove sono vinificate in acciaio per preservarne in modo assoluto le caratteristiche organolettiche proprie del terroir di origine.

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Le origini del vitigno Grillo sono recenti. Esso è, infatti, il frutto dell’incrocio tra catarratto e zibibbo, messo a punto dal barone Antonio Mendola (1827-1908) di Favara. Mendola scrisse che tale vitigno si adattava perfettamente alla vinificazione, riuscendo a donare al Marsala note aromatiche di grande intensità. Il vitigno Grillo, originariamente inserito nelle DOC della Sicilia centro occidentale, si è poi diffuso in tutta la regione. Esso è caratterizzato da buona produttività e dà vita ad un vino dagli intensi profumi di ginestra, lime, cedro, agrumi, pepe bianco e note minerali, di buona sapidità e persistenza gusto-olfattiva. Chiaramente, tali caratteristiche gusto-olfattive variano col variare del terroir di provenienza. Non si può celare come, un’attenta politica di tutela di tale vitigno e di protezione dell’azione dei produttori, che ne difendono l’integrità e le caratteristiche di assoluto valore, rappresentino le uniche strade per fare in modo che il Grillo sia una delle espressioni di maggiore qualità nel panorama vitivinicolo siciliano, e non rappresenti solo una moda del momento. Il percorso corretto è, come ormai mi ostino a ripetere all’infinito, tutelare la qualità ed i vignaioli che la eleggono a proprio ed unico obiettivo, senza rincorrere la produzione ed i numeri a tutti i costi, svilendo un vitigno ed il vino che da esso nasce. Non tutte le zone sono naturalmente vocate a produrre vini di qualità. Assecondare frettolosamente il mercato significherebbe mettere a rischio lo stesso vitigno Grillo, piegandolo a dinamiche che non hanno nulla a che fare con la qualità, annullando la vera anima del vino che da esso ha origine e le peculiarità di interi territori. Il Grillo rappresenta una grande occasione per la Sicilia: un’occasione di unicità, qualità, identità. Ai siciliani il compito di non farsi sfuggire questa grande opportunità, per se stessi e per la loro bellissima terra.

Roberto Vinci è sommelier professionista e fotografo. Comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. http://www.robertovinci.viewbook.com 105


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DOLCI

Un tuppo per l’eternità In Sicilia, la pasticceria è memoria storica

A cura di Alessia Moretti

Assumendo per valido il presupposto che chiunque abbia avuto modo di visitare la Sicilia – fosse anche per un breve periodo – non può non aver “interagito“ con le sue tradizioni culinarie più profonde ed intime, dolci compresi, quello che ne deriva è una dualità di odio-amore nei confronti di questi sapori, che difficilmente troviamo in altre regioni italiane. In buona sostanza, questa tradizione culinaria o la si ama alla follia e se ne gustano (e degustano) tutte le varietà di sapori/odori che la caratterizzano, oppure si detestano, cordialmente, per la loro eccessiva sfacciataggine. Personalmente, essendo stata un’assidua frequentatrice della città di Siracusa, per amore dell’arte, del suo teatro greco nonché della meravigliosa Ortigia, rientro pienamente in quella categoria di “innamorati folli” che non si limita solo all’assaggio ma cerca di coinvolgere anche gli altri sensi.

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Per amore di verità e della corretta informazione, dobbiamo riconoscere che questa bontà culinaria – dolce e salata - non è solo merito del nostro operato ma nasce, inizialmente, dall’incontro di due civiltà: quella greca e quella italiana. Fonti storiche, infatti, ci raccontano che quando, intorno al 730 AC, i Greci approdarono sulle coste siciliane, non trovarono una civiltà barbara ma una popolazione all’avanguardia, che già si intratteneva in una cucina locale avanzata, anche grazie alle numerose materie prime che questa terra ha prodotto da sempre: uva, olive, farro. In questo contesto, anche l’influenza araba diede i suoi frutti. Gli Arabi, sbarcati a Marsala intorno all’830 DC, introdussero la canna da zucchero, la cannella e lo zafferano. Non solo, essendo stati abilissimi pasticceri, sembra che la Cassata, il Sorbetto e il Cannolo, tra i più noti dei dolci siciliani, siano state loro creazioni, sebbene nel tempo abbiano subito diverse modifiche rispetto alla loro versione originale. La “Scursunera” (granita di gelsomino e cannella che ha mantenuto il suo nome storico ma non uno degli ingredienti originali, la radice di “scorsonera” per l’appunto), la granita di mandorle, di more, di gelso, di pistacchi non sono semplicemente del ghiaccio tritato aromatizzato con sciroppo industriale ma un qualcosa di molto più complesso: la granita siciliana, molto più simile al sorbetto, è un rituale che richiede un tempo di preparazione lungo, fragranze naturali e, soprattutto, DEVE essere accompagnata dalla brioche con il tuppo. Questo dolce – non dolcissimo – soffice, paffutello, giallo oro, con una pellicina sottile, aromatizzato con vaniglia ed agrumi, caratterizzato da questa piccola sfera sovrapposta che prende il nome di tuppo (dal termine francese “tupè”,

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l’acconciatura tipica delle donne siciliane di un tempo) riempie le giornate dei siciliani in ogni occasione possibile, fedelmente accompagnato alla granita o al sorbetto, sia che ne faccia le veci del “contenitore” sia che venga “pucciato” dentro. Ma se è vero che l’influenza araba è stata decisiva per dar origine a quelli che sono i “capisaldi” della pasticceria siciliana, è altrettanto vero che un apporto determinante è stato dato dal ceto religioso siciliano, ovvero da quella società segreta delle suore di clausura che per decenni, nel silenzio dei numerosi conventi palermitani, ha operato, lavorato ed impastato, detenendo segreti culinari di moltissimi pasticceri, modificando antiche ricette e dando così origine a numerosi dolci, che ancora oggi caratterizzano le abituali e molteplici feste religiose e patronali. Si racconta che i dolci, preparati nei vari monasteri secondo la specialità di competenza, venivano inizialmente fatti per ringraziare personalità importanti dei loro favori: medici, professionisti o alti prelati; solo successivamente iniziarono ad essere ordinati e venduti al pubblico; non direttamente, essendo monache di clausura, ma attraverso l’apposita ruota incastrata nel muro. In tal modo le suore riuscivano a coprire le necessità economiche della confraternita. La stessa Cassata – dal termine “quas’at” (bacinella) – che inizialmente, in modalità “araba”, era composta da un impasto di ricotta e miele, avvolto in pasta frolla e poi cotto in forno, cambia la sua struttura quando, nel periodo normanno, nel convento della Martorana a Palermo, nasce la “pasta di mandorle“ o “pasta martorana”, con cui vengono preparati anche i meravigliosi “fruttini martorani”; ma sarà solo successivamente, con l’introduzione del Pan di Spa-

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gna e con la copertura della pasta di mandorle, che avremo la versione a noi oggi nota. Anche il famoso “Biancomangiare“ – una dolce crema bianca fatta con latte di mandorle, riso e cannella e di cui non si conoscono le esatte origini - veniva preparato nel monastero di Santa Caterina ed era usualmente dato ai bambini o agli ammalati. Non solo, nello stesso monastero venivano cucinati anche dei dolci dedicati alla Santa: particolari biscotti fatti con farina di mandorle, zucchero, albume e aroma di cannella. Svariate sono le notizie che troviamo in rete sulle produzioni dolciarie dei conventi siciliani, tutte con le loro verità, tutte legate a ricorrenze sacre, alle celebrazioni locali e ai molteplici santi patroni. A tal proposito, suggerirei la lettura del libro “Mandorle Amare”, dove l’autrice Mary Tylor Simeti riferisce la storia di Maria Grammatico, della famosa Pasticceria Grammatico ad Erice: un racconto sulla Sicilia del dopo guerra, dove una giovanissima Maria viene costretta da vicissitudini familiari ad entrare nel convento delle suore di clausura dell’Istituto di San Carlo di Erice (chiuso agli inizi degli anni ’70). Uno spaccato della vita all’interno di questi monasteri, scandita dalla preghiera e dalle interminabili preparazioni dolciarie. Raccontare la Sicilia dal punto di vista della tradizione pasticcera significa, dunque, percorrere trasversalmente epoche storiche, avvenimenti folcloristici, memorie di una terra meravigliosa, che esprime il suo immenso potenziale non solo nell’arte culinaria ma anche nella letteratura, nel teatro, nella musica e nell’arte stessa: un potenziale percepibile ovunque, in ogni suo angolo recondito.

Alessia Moretti è una Pastry Chef di quarta generazione. Dopo una parentesi, a Roma, nel settore immobiliare, si è trasferita a Praga quattro anni fa, tornando alla sua vecchia passione e fondando Favole di Dolci. http://www.favoledidolci.eu

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CURIOSITÀ

Santa Rosalia

Da Palermo a Praga, per proteggere contro la peste

A cura di Stefania Del Monte

Il nome di Santa Rosalia, patrona della città di Palermo, è conosciuto ovunque nel mondo. Solo poche persone, però, sanno del suo legame particolare con Praga. Rosalia de’ Sinibaldi nacque a Palermo intorno al 1130. Narra la leggenda che, nel 1128, mentre il signore normanno di Sicilia, Ruggero II d’Altavilla, osservava il tramonto dal Palazzo Reale con sua moglie, la contessa Elvira, una figura apparve, dicendogli: «Ruggero, io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo, tuo congiunto, una rosa senza spine». Per questo motivo, quando nacque, la bambina venne chiamata Rosalia (da rosa e lilium, ovvero rosa e giglio).

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Da giovane, Rosalia visse in ricchezza presso la corte di Ruggero II ma anche presso la villa paterna, situata probabilmente nell’attuale quartiere dell’Olivella. Educata a corte, per la sua bellezza e gentilezza divenne anche damigella d’onore della regina Sibilla (seconda moglie di Ruggero). Un giorno il conte (o, secondo altri, principe) Baldovino, salvò il re Ruggero da un animale selvaggio, che lo stava attaccando; il re volle allora ricambiarlo con un dono e Baldovino chiese in sposa Rosalia. Il giorno antecedente le nozze, mentre si specchiava, Rosalia vide riflessa nello specchio l’effige di Gesù Cristo. Il giorno seguente, la ragazza si presentò a corte con le bionde trecce tagliate, declinando l’offerta e preferendo abbracciare la fede, cui si era già dedicata da fanciulla. A quindici anni abbandonò quindi il Palazzo Reale, il ruolo di damigella e la casa paterna e si rifugiò prima in un monastero e poi in una grotta, che divenne in seguito luogo di pellegrinaggio. Il culto della Santa è attestato ufficialmente a partire dal 1196, con il Codice di Costanza d’Altavilla, depositato presso la Biblioteca Regionale di Palermo, ed un’antica tavola lignea del XIII secolo. Secondo la tradizione, nel 1624 la Santa salvò Palermo dalla peste e, per tale ragione, a partire da quell’anno, venne proclamata patrona della città. Ed è proprio questo ruolo di protettrice dalla peste che lega “à Santuzza” alla città di Praga. Passeggiando lungo la via Karlova si può infatti incontrare, ancora oggi, la Casa al Pozzo d’Oro: un palazzo un tempo appartenuto alla famiglia Wersser, la cui bellissima facciata dalle ricche decorazioni in stucco risale all’inizio del 18° secolo. A seguito della grande peste che colpì la città nel 1714, i coniugi Wersser decisero infatti di far inserire nelle decorazioni, in segno di ringraziamento per essersi salvati, le statue dei santi protettori contro la peste incluso, nella parte superiore della facciata, un bassorilievo con l’effigie di Santa Rosalia, circondata da rose. Tuttavia, questo non è l’unico luogo di Praga dedicato alla santa palermitana. Nel magnifico Santuario di Loreto si trova, infatti, un’edicola sacra dedicata proprio a Santa Rosalia “patrona contra pestem”. Il culto della santa è, ancora oggi, particolarmente vivo a Palermo, dove ogni anno, il 14 e il 15 luglio, si ripete il tradizionale “Festino” che culmina nello spettacolo pirotecnico del 14 notte e nella processione in suo onore, nella giornata del 15. Il 4 settembre, invece, ha luogo la tradizionale acchianata (salita, in siciliano) a Monte Pellegrino, che conduce i devoti al Santuario in circa un’ora di scalata a piedi.

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ARTE

Francesco Augusto Razetto Presidente della Fondazione Eleutheria

A cura di Stefania Del Monte

Francesco Augusto Razetto è un architetto ed immobiliarista italiano che vive e lavora a Praga da oltre venticinque anni. Appassionato collezionista di opere d’arte, ha devoluto alla Fondazione Eleutheria una sua raccolta privata di opere risalenti al Realismo socialista in Cecoslovacchia (650 quadri e 200 sculture, più una serie di fotografie, manifesti e medaglie raccolti in quasi vent’anni), con l’obiettivo di realizzare una esposizione permanente oltre che di valorizzare e studiare questo movimento artistico, ancora poco conosciuto.

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Dr. Razetto, vive e lavora a Praga da oltre 25 anni. Come mai questa scelta? Quando mi fanno questa domanda rispondo sempre allo stesso modo, in maniera ironica: era l’unico modo per mettere mille chilometri di distanza tra me e mia madre, assicurandomi che ci fossero anche le Alpi, a dividerci! Chiaramente è una battuta: l’obiettivo primario era di vivere in un Paese che, dopo il Comunismo, si apriva ad un’esperienza capitalista e volevo avere il privilegio di poter vivere quel periodo pienamente, fin dall’inizio. All’epoca avevo 25 anni: ero quindi spinto da un’energia ed una curiosità tipiche di quell’età. Nel 2008 ha creato la Fondazione Eleutheria. Qual è il suo scopo? Ho sempre collezionato arte. Appartengo ad una famiglia di collezionisti. Gran parte della mia collezione si basava su opere cecoslovacche risalenti al periodo comunista. Quando ebbi l’opportunità di visitare il Museo del Partito Comunista cecoslovacco, mi accorsi che la mia collezione era più grande della loro: a quel punto, fu quasi naturale la scelta di garantire che questa collezione venisse fatta conoscere al grande pubblico. Io e mio fratello costituimmo la Fondazione Eleutheria, che nel corso degli anni non si è occupata soltanto di diffondere la conoscenza di queste opere ma di molte altre, interessanti, attività culturali. Con chi collaborate, principalmente? Oltre a mantenere, nel tempo, collaborazioni costanti con le principali istituzioni ceche, quali la Galleria Nazionale (sia la sezione di Arte Antica che quella di Arte Moderna e Contemporanea) ed il Museo di Scienza e della Tecnica, abbiamo lavorato anche con diverse istituzioni italiane ed europee quali il Maxxi di Roma, Villa Manin ad Udine, il Parlamento Europeo, Palazzo Te e Casa Mantegna a Mantova. Considerato che la Fondazione esiste da pochissimi anni, direi che possiamo ritenerci soddisfatti di quanto fatto finora. Quali sono le attività più importanti realizzate in questi anni? Inizialmente ci siamo dedicati in maniera esclusiva a far conoscere le nostre collezioni, attraverso la realizzazione di tre cataloghi: uno sul Realismo socialista, esposto presso Manes; un altro sullo stesso tema, per accompagnare una mostra a Villa Manin ed uno, infine, dedicato ai manifesti vietnamiti, realizzato in collaborazione con la Galleria Nazionale di Praga: un catalogo curato, tra l’altro, da Vittorio Sgarbi. Col passare del tempo, però, abbiamo cercato di ampliare gli interessi della Fondazione e di aprirci al mondo culturale nella sua totalità. Eleutheria vuol dire libertà ed il nostro scopo è proprio quello di

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promuovere la libertà artistica in tutte le sue forme. Tra le varie iniziative realizzate, abbiamo ad esempio cercato aiutare 18 giovani artisti cechi (sotto i quarant’anni), con un’esposizione che ha avuto luogo prima all’Istituto Italiano di Cultura e poi, a distanza di due anni, al Maxxi di Roma. Lo scorso anno, invece, sempre attraverso il progetto “Et Cetera” ci siamo occupati di fotografia selezionando, ancora una volta, 18 fotografi di età inferiore ai quarant’anni, che hanno esposto alla Galleria 1 presso la via Stepanska, a Praga 1. L’obiettivo è offrire la possibilità, ai giovani cechi, di farsi conoscere ad un pubblico ampio. A suo parere, come si colloca la comunità italiana a Praga, anche rispetto ad altre comunità estere? Non amo molto fare confronti ma credo che l’importanza della comunità italiana a Praga sia piuttosto evidente, grazie ad una presenza costante che si protrae da secoli. Anche dopo la caduta del regime comunista si è registrata una presenza significativa di imprenditori, manager ed una serie di figure chiave che hanno contribuito a sviluppare questo Paese: basti pensare all’apertura di molti ristoranti italiani di qualità, oppure ad una serie di realtà industriali significative, con investimenti anche piuttosto importanti. In senso pratico, l’aumento costante di soci e di adesioni alla Camera di Commercio Italo-Ceca ci fa capire bene l’importanza della presenza italiana in questo Paese. È sempre stato così? Chiaramente la comunità italiana di quattro secoli fa era diversa da quella di adesso, ma possiamo dire che, oggi, Praga è una città che parla italiano: ad esempio, attraverso la sua architettura ed i suoi palazzi, con artisti che hanno lasciato una traccia indelebile, oppure tramite i molti imprenditori che hanno sempre contribuito, e continuano ancora oggi, a rendere importante la presenza italiana. Per tale ragione, uno dei miei fini è rivitalizzare la Congregazione, che proprio quest’anno festeggia i 400 anni dall’apertura della Cappella degli Italiani di via Karlova. Un monumento importantissimo, se si considera che la nostra comunità è stata anche la prima ad aprire, qui a Praga, un ospedale ed un orfanotrofio a cui erano ammessi tutti: cittadini italiani e stranieri, uomini e donne, indipendentemente dalla fede professata. Non credo che esista un’altra comunità in grado di vantare una simile storia e presenza in Boemia. Cosa si può fare, in futuro, per mantenere queste relazioni? In gran parte queste relazioni si realizzano tramite i naturali progressi della modernità. Il Progetto Erasmo, ad esempio, permette a molti ragazzi di studiare all’estero e conoscere realtà differenti da quella del proprio Paese: è il caso di

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tanti italiani che studiano in Cechia. Non dimentichiamoci, inoltre, che i cechi sono tra i principali turisti che ogni anno popolano moltissime località italiane: a partire da quelle alpine fino a quelle più gettonate, quali Venezia, Roma o Firenze. Anche il turismo italiano a Praga è costantemente in aumento. Credo che in un momento di diffuso euroscetticismo, in realtà, a sessant’anni dalla costituzione dell’Unione Europea, dobbiamo considerarne i molteplici lati positivi anziché, come si tende invece a fare più di frequente, responsabilizzare questa organizzazione del peso a carico dei più deboli. L’Unione ha garantito sessant’anni di pace in un continente che mai, in passato, aveva vissuto un periodo così tranquillo. Questo, ovviamente, è un discorso lungo, che meriterebbe di essere approfondito. In questa sede posso solo dire che, a mio avviso, si è fatto molto poco, a livello europeo, per far capire – non soltanto in Repubblica Ceca, ma in tutto il continente – la reale importanza di un’Europa unita. Ci diceva che quest’anno si celebra una importante ricorrenza per la Congregazione degli italiani a Praga, di cui è membro. Di cosa si occupa, esattamente, la Congregazione? Lo statuto originario della Congregazione (attiva a partire dal 1573, ndr) aveva lo scopo di proteggere i propri membri. Come accennavo in precedenza la presenza italiana in questa città, già in quegli anni, era fortissima. Gli edifici più importanti di Praga, infatti, sono italiani: dal Castello, alla sede del Ministero degli Esteri, ed in parte allo stesso Ponte Carlo: la scala che porta dal ponte all’isola di Kampa, ad esempio, fu realizzata dall’architetto italiano Bossi. Qualche tempo fa, una ricerca evidenziò che in Boemia esistono oltre mille edifici di ispirazione architettonica italiana: un tale patrimonio non può essere ignorato. Ecco perché l’idea di rivitalizzare una congregazione, di fatto, mai chiusa: non per contrastare strumenti o istituzioni già esistenti – quali l’Ambasciata d’Italia, l’Istituto Italiano di Cultura o la Camera di Commercio Italo-Ceca – che svolgono le rispettive funzioni in maniera ammirevole, ma per dedicarsi ad attività più “caritatevoli”, che aiutino i bisognosi. L’obiettivo è individuare, ogni anno, un paio di progetti ai quali dedicarsi, come ad esempio fornire supporto, tramite borse di studio, ad uno o due studenti, oppure restaurare un’opera d’arte. Credo ci sia davvero tanto da fare e che la Congregazione abbia, in questo senso, non soltanto i requisiti storici e culturali, ma un vero e proprio obbligo morale. Questa città ha dato tanto a noi italiani, ed è bello poter ricambiare. Per informazioni: http://www.eleutheria.cz

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LIFESTYLE

Syndrome Magazine: perché le donne fanno ridere

La piattaforma globale di comedy al femminile

A cura di Silvia Bajardi

Il senso dell’umorismo ha le proprietà di un liquido: si adatta a un contenitore, ne riflette i colori, spesso ne assorbe persino la temperatura. Rispecchia, in poche parole, non solo la società, ma la cultura, il paese, la lingua e, non ultimo, il genere sessuale.

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La satira si nutre di senso dell’umorismo, ma lo utilizza come strumento per stimolare una reazione rispetto a un punto di vista istituzionale che si considera come debole o fallace. Tradizionalmente i giornali di satira hanno criticato i costumi, sono fioriti attorno al nocciolo duro della politica, hanno strapazzato le vicende storiche offrendone un volto diverso, spogliando gli stereotipi dall’ipocrisia e sfidando persino la censura. Mettere in luce le carenze di certi comportamenti e le problematiche che ne derivano in modo che risultino assurde, persino divertenti, è un’arte potentissima: non solo consente di raggiungere le masse, ma spesso ne smuove le coscienze. Il punto di vista, però, è rimasto a lungo tempo di appannaggio maschile, così come i settori a cui veniva applicato. Il linguaggio e lo humour si sono adeguati, infarciti di doppi sensi e: “Pardon, signora, non mi ero accorto che era presente”. Fino a un pomeriggio del 2012. Una pagina di Facebook, in italiano, raccoglie battute e riflessioni comiche: un gruppo chiuso che però accetta utenti di ogni genere, a patto che siano divertenti. Le migliori battute sono selezionate e pubblicate online. In questo modo la satira ha una diffusione immediata. All’interno di questa palestra ci sono anche molte donne che utilizzano il luogo per esprimersi e sperimentare nuove forme di scrittura. Tra di loro si crea internamente una sintonia virtuale accomunata da una consapevolezza: la risata unisce. Come e più che al fronte o in seguito a un’esperienza dolorosa, ridere agisce come un collante che crea coesione e solidarietà. Ma è immensamente più piacevole.

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Non sono le prime ad accorgersene, in Italia. Il concetto di ironia aveva già mostrato una nuova versione al femminile grazie ad attrici come la Littizzetto o giornaliste come la Lucarelli, per menzionarne solo due tra le più celebri. La novità non è solo la donna che sa scherzare sulla realtà in cui è immersa, ma la sua capacità di osservarsi con un occhio esterno in modo autocritico e dialettico, facendo leva sui propri errori o difetti. La satira femminile, in questo senso, è uno strumento che funziona a 360°. Come in ogni fase di grande fermento, la lingua evolve: prende di petto gli stereotipi maschili, ne scimmiotta il linguaggio, ride dei cliché. Soprattutto, sorprende. L’obiettivo è strappare i laccetti a un’immagine di donna che soffoca come un corsetto di altri tempi, e che ha stufato non solo il pubblico femminile, ma i molti uomini che non sono più (o esclusivamente) arroccati all’ultimo trentennio di veline e soubrette. Mancava ancora la forza del numero, una voce che fosse corale e non solo l’espressione di una visione individuale. Si mette in piedi una palestra rosa all’interno di una pagina definita la “cucina”, un luogo conviviale che stimola la creatività e dove ci si può raccontare tra un bicchiere di vino e l’altro. Dopo un anno le parole volano oltre le mura domestiche e sfondano i cavi di Internet: il gruppo finalmente si conosce di persona. È amore a prima vista, anzi, molto meglio: la percezione positiva di avere occhi che vedono, bocche che parlano e orecchie che ascoltano. Insieme. Gli incontri si infittiscono, sempre all’insegna di cibo e aperitivi, e alla faccia delle calorie. In fondo il lavoro ha bisogno di essere sostenuto. Nasce Syndrome. L’idea è che alle donne è sempre attribuita una sindrome di qualche genere: pre-mestruale, post-partum, dell’astinenza sessuale. Alla “sindrome” intesa come sentimentalismo, fragilità e incapacità di ragionamento la rivista propone una medicina perfetta: riderci su. Perché non sia più un pretesto di esclusione o sottomissione. Il motto è: Noi siamo la Syndrome, e siamo la cura.

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Il progetto editoriale scaturisce dalla presenza nel gruppo di una donna con una storia speciale. Poetessa e giornalista iraniana, attivista politica, si espone in prima linea per raccontare la vita nel suo paese e il regime che lo affligge. Le violenze subite e i ripetuti arresti non le impediscono di mantenere una voce ironica, spesso tagliente, nella consapevolezza del potere di resistenza della satira in quanto mezzo espressivo non convenzionale. Il giornale per cui collaborava è stato chiuso, tutta la redazione arrestata. Dopo vari processi e condanne, ora è in attesa dell’ennesima sentenza e ai domiciliari con il divieto di pubblicare su qualsiasi social. Manda gli articoli per Syndrome con mezzi da spionaggio russo, sotto pseudonimo, ma con la sua foto senza il velo pubblicata sul sito. Il pensiero è stato: quante donne ci sono nel mondo con questa forza? Questo coraggio? Questo desiderio di farsi ascoltare? La risposta si sta componendo di nuove collaboratrici ogni giorno. E di nuove lettrici. Il progetto Syndrome, partito con battute di satira, è cresciuto prestissimo con una forte presenza sulle piattaforme social. Il formato grafico è rosa, anzi un fucsia più grintoso, con un taglio nero sullo sfondo che ricorda la tela di Fontana (o forse altro, chi lo sa). Ma è dal 2016 che, finalmente, il progetto si configura nella sua interezza. Nasce Syndrome Magazine. La rivista si compone di risorse multimediali e categorie di lettura: notizie fresche di giornata, rubriche femminili “rivisitate”, ma anche articoli estratti da blog di scrittrici internazionali con un occhio sul mondo. La redazione è composita. Ci sono medici, giornaliste, avvocati, attrici, impiegate, casalinghe, mamme e single convinte. Mille professionalità e mille teste, donne di tutte le età e orientamento sessuale, in pensione, professioniste o studentesse. C’è un’anima fortissima, la fondatrice, che ispira e tiene insieme il gruppo, incita e guida, sgrida e tira bacchettate ma sempre con una pacca amorevole: Charlie Syns. Senza di lei, la montagna non si sarebbe smossa, Maometto starebbe ancora a casa sua.

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In “cucina” si trascorrono le ore fino a notte fonda elaborando idee, condividendo spunti per articoli e battute, spesso accavallando gli orari di due professioni diverse. “Mi piace avere la Syndrome, diffonderla, riconoscerla in altre persone (anche uomini!).” ha detto una delle scrittrici, interrogata sul senso del progetto. “Abbiamo bisogno di essere infettati da creatività, voglia di fare e di esprimersi. Per me la rivista rappresenta uno spazio di libera espressione, di incontro e di confronto. Una possibilità di costruire quel tipo di mondo in cui mi piacerebbe vivere.” Link http://www.syndromemagazine.com/ https://www.facebook.com/sindrome.magazine/?fref=ts https://twitter.com/Syndrome_Mag https://www.instagram.com/syndrome_magazine/?hl=en

Silvia Bajardi, scrittrice e blogger, è originaria di Torino ma vive a Seattle. Tra due parentesi italiane ha vissuto con la sua famiglia (tre bambini ed un marito inglese) ad Hong Kong e Singapore, due metropoli che hanno accresciuto il suo amore per la cucina asiatica e la paura per le altezze. Negli Stati Uniti, Silvia ha creato il blog: “Un italiana nel nuovo mondo: quando sentirsi a casa dipende dal viaggio che intraprendi”. http://unitaliananelnuovomondo.com/

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ITALIANI NEL MONDO

Chiara Condi

Fondatrice di Led by Her

A cura di Paola Caronni

Perché ha lasciato l’Italia e dove risiede attualmente? Buongiorno. Ho trent’anni, di cui dodici vissuti in Italia e il resto all’estero, tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Ho lasciato Milano nel 1997, quando sono andata a vivere con la mia famiglia a New York. Da quattro anni vivo a Parigi. Nel 2008, mi sono laureata ad Harvard in Lettere e Storia ed ho poi proseguito i miei studi a Parigi e Londra, dove ho conseguito dei Master in Economia. Il mio primo vero lavoro è stato presso una banca internazionale, dove mi occupavo di donne e sviluppo.

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Di che cosa si occupa ‘Led by Her’ e come le è venuta l’idea di fondarla? Lei che ruolo ricopre al suo interno? Led By HER è un associazione che si occupa di promuovere l’innovazione, l’imprenditoria femminile e i diritti delle donne - soprattutto per le questioni riguardanti la violenza di genere: ha, infatti, creato un incubatore di impresa solidale per aiutare donne che hanno incontrato difficoltà gravi, nella vita, a costituire la propria impresa e ricostruirsi un’esistenza. Abbiamo lanciato la prima promozione di Led By HER nel 2014. Già ero sensibile, grazie al mio primo lavoro, alle questioni di genere ed appassionata a certe tematiche femminili. Questo lavoro mi ha dato la voglia di fare di più, ma a modo mio e ad una dimensione più “umana”. Lavoravo a grandi progetti e mi sentivo un po’ distante dalle problematiche sul campo: quindi, quando la vita mi ha portata a Parigi, ho voluto fare qualcosa di concreto ed ho subito pensato alle donne. Mi aveva scioccata, durante il mio lavoro precedente, vedere quante donne subiscono violenze, in tutti i paesi del mondo. Ho visto che tutto restava focalizzato sul passato e che non esisteva nulla che le aiutasse a creare un futuro. Quando ho chiesto aiuto ad alcune scuole commerciali, queste mi hanno dato subito il loro appoggio: ciò mi ha permesso di creare il primo programma. All’inizio ho fondato l’associazione da sola (e sono tuttora Presidente della struttura) ma adesso siamo in tanti! Oggi abbiamo un consiglio di amministrazione di una ventina di persone, che lavorano su progetti molto diversi all’interno dell’Associazione. Abbiamo anche molte aziende che ci sostengono (Bain, AXA, Orange, Salesforce, DELL, Google), un acceleratore (DOJO) e le due scuole di commercio (IESEG e ESCP), presenti fin dall’inizio. Abbiamo oltre 200 persone che dedicano il loro tempo al progetto. Chi sono le vostre clienti, dove sono localizzate e come vengono a conoscenza della vostra esistenza? Al momento l’associazione è attiva solo a Parigi, con un programma d’imprenditoria femminile. Le persone che aiutiamo ci trovano tramite le associazioni, gli assistenti sociali o i gruppi di sostegno. Per partecipare al programma, queste devono contattarci attraverso il nostro sito internet ed essere intervistate dal nostro consiglio di amministrazione. Vi rivolgete solo a donne ‘svantaggiate’, oppure a qualsiasi donna che abbia un sogno e desideri realizzarlo? Per adesso il nostro programma si dedica ad una trentina di donne che hanno subìto diversi tipi di violenza e che hanno presentato i loro progetti; purtrop-

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po, i mezzi attuali non ci permettono di fare di più. Stiamo esplorando nuove soluzioni digitali che ci permetteranno di aumentare l’impatto di quel che facciamo e l’expertise che abbiamo acquisito in tutti questi anni sull’imprenditoria femminile, per poter poi aiutare più donne. In che modo le aiutate? Come funziona il mentoring? Aiutiamo le donne offrendo un programma che permette loro di riappropriarsi della propria vita tramite la realizzazione dei loro sogni professionali. Aiutiamo le partecipanti a ritrovare la propria identità, espressione e autonomia tramite un progetto professionale: ricostruirsi la vita. Il mentoring è un aspetto molto importante. È fondamentale, quando si intraprendono nuovi progetti, avere qualcuno che creda in te e che possa aiutarti in questa direzione. Eseguire tutto da sole può essere molto duro e difficile. I nostri mentor ricevono quattro giorni di formazione, ciascuno da un suo proprio coach che sottolinea l’importanza dell’ascolto, e apprendono così delle tecniche di base per lo sviluppo personale. Saper fare e saper insegnare sono due cose molto diverse. I mentor sono anche molto seguiti durante il programma e partecipano a una riunione mensile di sostegno. Quanti ‘corsi’ sono necessari per riuscire a realizzare il proprio sogno? In che modo le vostre clienti riescono a finanziarli, dato che molte di loro, presumo, sono in quel momento senza lavoro o provengono da situazioni finanziarie difficili? Crediamo nelle capacità e nel potenziale delle donne che accompagniamo, ma non crediamo nelle soluzioni facili. L’evoluzione personale e professionale che noi cerchiamo di effettuare con ogni persona che partecipa al nostro programma richiede tempo. È per questo che, con il supporto delle scuole di commercio e dei coach, abbiamo creato un programma di 100 corsi (300 ore) che parlano di imprenditoria come sviluppo personale (questo costituisce un terzo del nostro programma). Abbiamo poi dei workshop, con piccoli gruppi di partecipanti o individuali, che permettono a queste donne di lavorare in modo più dettagliato al loro progetto, e possediamo un spazio di co-working da ‘Orange’, dove possiamo svolgere queste attività. Organizziamo anche una serie di eventi che fanno parte del programma pedagogico e che permettono alle imprenditrici di confrontarsi con la realtà, ricevere feedback e creare dei network e delle squadre di lavoro dedicate al loro progetto. Molte persone continuano a seguire i progetti ben oltre gli eventi, creando relazioni personali importanti. A parte tutto questo percorso collettivo molto importante, ciascuna partecipante ha anche un mentor che le permette di lavorare

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in modo individuale, sviluppando il proprio percorso personale. Ogni partecipante si sostiene in modi differenti e i mezzi finanziari variano, in quanto abbiamo un pubblico molto eterogeneo. Alcune persone lavorano mentre partecipano ai corsi, e altre sono supportate da altri mezzi, come ad esempio gli aiuti dello stato. Avete dei progetti futuri, riguardanti Led by Her? Stiamo attualmente studiando come poter diffondere il nostro messaggio ed avere più impatto sulle nostre tre aree di azione: innovazione, imprenditoria femminile e diritti delle donne. Ci stiamo unendo con altre associazioni per far sì che la nostra comunità imprenditoriale e digitale sia al servizio di soluzioni innovative che risolvano le violenze verso il genere femminile e che proteggano i diritti delle donne. Abbiamo anche creato un blog dove i nostri esperti danno consigli a tutte le donne che vogliono iniziare un’impresa. La prossima tappa sarà creare una piattaforma per le donne imprenditrici. Cerchiamo, tramite il nostro messaggio ed esempio, di sensibilizzare sempre più la società, e chi sta al potere, verso questi temi. Qual è il suo sogno nel cassetto o la sua prossima ‘avventura’? Vorrei creare una comunità globale di donne imprenditrici ed essere molto più attiva nel campo dei diritti delle donne. Penso che oggi ce ne sia davvero bisogno. Per informazioni: http://www.ledbyher.org/

Paola Caronni: insegnante, interprete, traduttrice, poetessa e scrittrice, è originaria di Milano e si è trasferita a Hong Kong nel 1995. Qui si è distinta per l’intensa attività filantropica svolta nell’ambito dell’Associazione Donne Italiane, di cui è stata Presidente dal 2008 al 2011: ruolo per il quale le è stata conferita, il 16 gennaio 2013, l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia. https://paolacaronni.wordpress.com

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PITTURA E SCULTURA

Benedetto Norcia

Pittore su mosaico, scultore e incisore

A cura di Stefania Del Monte

Benedetto Norcia è nato e cresciuto a Monreale, dove ha frequentato l’Istituto per il Mosaico, imbattendosi in docenti che hanno saputo infondergli il desiderio di continuare a credere nei suoi sogni, quali Pino Anselmo e Piero Villanti. Successivamente ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Milano. Incuriosito dalla cultura mitteleuropea, circa vent’anni fa si è trasferito in Svizzera aprendo un atelier di pittura, scultura, mosaico, incisione e restauro.

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La sua opera spazia dalla pittura mosaico alla scultura e all’incisione. Come sono nate queste passioni? Nascono dall’esigenza di esprimere al meglio un concetto. Ognuna di queste tecniche permette, compreso l’acquerello, il disegno a pastelli, matite, e così via, di esprimere al meglio un mondo, un concetto, un istante. Un artista ha anche il dovere di tenere in vita tecniche che, altrimenti, andrebbero perse, come ad esempio l’incisione o il mosaico o l’affresco. La formazione di un artista deve passare prima dalle tecniche. L’arte non si può insegnare: puoi imparare la tecnica ma se non hai niente da dire non ti rimane altro che imitare. Quanto ha contato, nella sua formazione artistica, il fatto di essere monrealese e siciliano? Il contesto dove ci si forma è fondamentale: è chiaro che non può solo essere una contaminazione passiva, devi essere capace di decodificare ed estrapolare da un contesto vario ed articolato ciò che ti è più congeniale. Ero una ragazzino di 8-9 anni, con una bella inclinazione al disegno, quando incontrai l’artista Pino Anselmo nel suo atelier di Monreale. Fino ad allora non immaginavo che potesse esistere un luogo simile, colmo di possibilità e tecniche. Vivere appoggiato alle absidi del duomo di Monreale per me, che assorbivo ed assorbo ogni energia creatrice, è stato un momento di profonda consapevolezza di ciò che l’uomo cerca attraverso l’arte. E quanto l’ha influenzata, invece, la sua spiccata propensione per i viaggi e la convivenza con altre culture? La sicilianità è intrisa di cultura mediterranea: questa ti abbraccia e coccola come una madre amorevole, ma come ogni figlio anch’io ho sentito la necessità di scoprire luoghi altri ed altre culture. Come la varietà di tecniche mi aiuta ad esprimere meglio un concetto, l’incontro con società diverse mi rivela punti di vista differenti e ciò contribuisce ad una mia maggiore consapevolezza artistica. In un suo scritto ha definito le opere d’arte “creazioni di un luogo altro, quell’altrove dove si vivono le idee e la poesia dell’artista”. Elabori questo pensiero… L’opera d’arte deve avere un potere salvifico, deve generare domande. Si fa spesso confusione fra una riproduzione ed una creazione. La realtà è di grande aiuto e la natura è madre delle più potenti ispirazioni ma, per rendere utile, valida e sensata l’opera, non può scimmiottare il reale ma

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deve sottendere al divino. In ogni essere umano esiste un’anima divina ed un giacimento di poesia che le vicissitudini della vita reprimono. L’opera d’arte deve dare al fruitore la possibilità di riscoprire e riconciliarsi con la propria interiorità. Le sue mostre, sia quella recentemente realizzata a Brno che quella in programma presso l’Istituto Italiano di Cultura a Praga, a settembre, sono state organizzate grazie ad una stretta collaborazione tra le istituzioni italiane e quelle ceche. Ritiene che l’arte in generale, oggi, riceva adeguata attenzione e supporto? L’arte è un vestito che vogliono indossare in tanti ma pochi sono disposti ad accettarne il peso. Le istituzioni sono attente alle manifestazioni artistiche e, nei limiti delle loro funzioni, le promuovono. Ritengo che sia un dovere morale di ogni amministrazione promuovere la bellezza, intesa come ricerca dell’eccellenza del sé attraverso la fruizione di opere d’arte pubbliche, che accarezzino il cuore dei cittadini e che conducano gli animi in luoghi di bellezza e consapevolezza. Gli artisti devono essere d’ispirazione alle amministrazioni, spesso sorde. Ho fatto mostre in mezzo mondo ed ho sempre cercato il dialogo con le amministrazioni locali e le ambasciate Italiane, trovando sempre occasioni di incontro. Anche in Repubblica Ceca posso affermare che i rapporti con l’Ambasciata italiana e l’Istituto italiano di cultura sono edificanti. Con l’amministrazione della città di Brno si stanno inoltre creando i presupposti per un sodalizio costruttivo. Progetti in cantiere? Sono davvero tanti: in settembre una grande mostra a Praga presso l’istituto Italiano di Cultura. Prossimamente la presentazione, alla città di Brno, di alcuni progetti fra cui i cantieri culturali Musìa, che hanno lo scopo di avvicinare i giovani al mondo dell’arte e delle tecniche antiche come il mosaico, l’incisione, la scultura e la pittura tradizionale. Altri progetti si svolgono all’estero; in Italia, la realizzazione di un monumento per le vittime della torre piloti di Genova, abbattuta nel 2013. Mi occupo, da sempre, anche di restauro di mosaici antichi e moderni e vorrei mettere a disposizione della Repubblica Ceca la mia non trascurabile esperienza. http://musia-art.org

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BIGHELLONANDO FUORI PRAGA

Da Praga a ÄŒeskĂ˝ Krumlov e ritorno

Alla scoperta della Boemia del Sud

A cura di Marco Ciabatti

Per la serie dei luoghi fuori Praga poco conosciuti da noi italiani, ma che meritano sicuramente di essere visitati, in questo numero voglio proporvi un vero e proprio itinerario, ideale per un weekend primaverile fuori porta, a contatto con la storia e con la natura!

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La prima tappa di questo viaggio è il castello di Červená Lhota, posto a circa 120 km a sud di Praga e che si raggiunge in circa un’ora e mezza percorrendo la strada E55. La particolarità che rende unico nel suo genere questo splendido castello, oltre al suo inconfondibile e particolarissimo colore rosso mattone, è quella di trovarsi su di un piccolo isolotto in mezzo ad un lago, contornato interamente da prati e da fitti boschi di conifere che si rispecchiano sulla superficie dell’acqua; una natura rigogliosa che, specialmente nei mesi estivi e autunnali, lascia letteralmente senza fiato. Al castello, interamente ricostruito nel XVI secolo al posto di una preesistente fortezza gotica e visitabile internamente solamente in alcuni mesi dell’anno, si accede quindi unicamente attraverso un caratteristico ponte di pietra, che si trova sul fronte della struttura e conduce direttamente al portone di ingresso. È possibile, inoltre, fare il giro completo del lago a piedi, oppure affittare una piccola barca a remi per poter ammirare ogni angolazione del castello direttamente dall’acqua. Proprio nei pressi del castello è presente anche un ottimo e suggestivo ristorante, dove è possibile fermarsi per il pranzo, ma nei mesi caldi la scelta ideale è quella di fare un bel picnic in riva al lago dove, volendo, sono anche presenti alcuni tavoli, per godere appieno della pace e della bellezza di questo luogo fiabesco. E proprio per il suo legame con il mondo delle favole il castello di Červená Lhota è molto famoso in tutta la Repubblica Ceca; vi è stata infatti ambientata la trasposizione televisiva di una delle più famose favole tradizionali: “Zlatovláska” (ovvero, La principessa dai capelli d’oro), che viene riproposta, oramai da generazioni, ogni anno nel periodo natalizio. Un’altra curiosità particolarmente interessante è che, durante il periodo comunista, in questa struttura venne ricavato dal regime un ospedale pediatrico. Una volta completata la visita al castello, al quale vi consiglio di dedicare al massimo una mezza giornata tra storia e assoluto relax, l’itinerario continua per altri 75 chilometri verso la seconda tappa di questo nostro weekend ideale: Český Krumlov. Questa cittadina, a mio parere, è una delle più belle di tutta la Repubblica Ceca. Non è, infatti, un caso che l’antico borgo di Český Krumlov, nato sul finire del XIII secolo e che conta ad oggi circa 14mila abitanti, sia stato interamente riconosciuto patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. La prima cosa che colpisce, quando si arriva, è la grandezza e la maestosità imponente del castello di epoca medioevale, dal quale si domina l’intero centro abitato: è infatti una cosa piuttosto singolare che una cittadina così piccola – seppure

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nel passato, grazie alla sua posizione geografica, abbia rivestito una grande importanza come crocevia di scambi commerciali – possa vantare il castello più grande di tutta la Repubblica Ceca, dopo quello di Praga! La seconda cosa che colpisce è sicuramente la bellezza incredibile di questo luogo: tutto il centro abitato, ad eccezione unicamente del castello, è costruito infatti all’interno di un’ansa del fiume Moldava (Vltava, in ceco), il quale proprio in questo tratto del suo percorso forma un grande ferro di cavallo, che sembra fatto apposta per abbracciare le tante costruzioni che si trovano ordinatamente allineate lungo il suo argine interno. E proprio per questo motivo Český Krumlov è anche un paradiso per gli amanti della canoa o del canottaggio: il fiume in questo punto è piuttosto impetuoso ed è un vero e proprio parco giochi all’aperto, sia per i professionisti che per i principianti! È infatti possibile, per chi vuole provare questa esperienza, noleggiare un gommone o una canoa e provare il brivido, seppure per un breve tratto, di farsi trasportare dalla corrente, affrontando anche le piccole ma insidiose rapide che si incontrano lungo il percorso. Ma la bellezza incantata di questo luogo è anche dovuta al verde intenso delle colline circostanti e, più in generale, alla calma ed alla pulizia di ogni singola stradina del centro storico, quasi totalmente privo di auto e dove si può quindi passeggiare in tutta tranquillità, curiosando nelle vetrine dei tantissimi negozietti che vendono prodotti tipici del luogo o fermandosi ad immortalare gli scorci favolosi che questo luogo offre a tutti gli appassionati di fotografia. Questa cittadina e il suo magnifico castello meritano sicuramente una visita prolungata ed approfondita, che si estenda anche alle ore notturne, e per questo è il luogo ideale dove passare la notte, grazie anche alla presenza di alberghi, ristoranti e strutture turistiche in genere. Ripartendo da Český Krumlov, la mattina del secondo giorno, una tappa irrinunciabile è sicuramente lo splendido e imponente castello di Hluboká nad Vltavou, che si trova a soli 35 km circa di distanza. Completamente ricostruito in stile neogotico tra il 1839 e il 1871 (ispirandosi al castello di Windsor) come sede di rappresentanza della famiglia Schwarzenberg, nel luogo dove già dalla metà del XIII secolo esisteva un’antica fortezza, questo castello è un’autentica perla, specialmente per il suo caratteristico colore bianco. Circondato da un ampio parco all’inglese, dove è presente anche un ex maneggio, oggi utilizzato come ambiente per esposizioni artistiche, può essere visitato anche internamente e vale davvero la pena prendersi un po’ di tempo per salire sulle alte torri merlate per ammirare il panorama circostante, che si estende davvero a perdita d’occhio, con una splendida vista sui laghi circo-

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stanti e sul fiume Moldava che, come suggerisce il nome stesso del luogo, scorre proprio lì vicino. Prima di arrivare a quest’ultimo castello, però, non si può non consigliare (magari fermandosi anche per il pranzo) una tappa a České Budějovice, il capoluogo della regione, che conta circa 95.000 abitanti ed è famosa in tutto il paese ed anche all’estero soprattutto per la birra che vi viene prodotta, ovvero la Budweiser Budvar. Attraversata anch’essa dal fiume Moldava, questa importante cittadina della Boemia Meridionale, fondata dal re boemo Ottocaro II sul finire del XIII secolo, ha un piccolo ma curatissimo centro storico, caratterizzato da una grande piazza centrale contornata da palazzi in stile rinascimentale e barocco, che merita sicuramente di essere visitata, specialmente per ammirarne la fontana posta al centro. Tornando verso Praga consiglio di non fare la medesima strada dell’andata, ma di allungare il percorso passando a Pilsen, attraversando così la zona dei laghi, che sono un’altra caratteristica davvero unica di questa parte della Boemia. Una zona famosa anche per l’allevamento delle carpe, pesce che non deve mancare su nessuna tavola, nel giorno della vigilia di Natale. Passerete così accanto a una miriade di laghetti grandi e piccoli, ognuno con nascosta da qualche parte la propria statuetta del Vodník, ovvero il caratteristico folletto verde appartenente alla tradizione favolistica della Repubblica Ceca, che abita in ogni corso o specchio d’acqua e che ha il compito di conservare, in delle apposite ampolle di vetro poste sul fondo, le anime delle persone che muoiono annegate.

Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. http://www.bighellonando.eu

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PROGRAMMA EVENTI MAGGIO - GIUGNO 2017

Fino al 28 maggio

Mostra fotografica

Dolomiti, il cuore di pietra del mondo

Omaggio alle Dolomiti con cinquanta scatti del fotografo Georg Tappeiner. La mostra è frutto della collaborazione tra National Geographic Cechia, Ambasciata d’Italia a Praga e Fondazione Dolomiti UNESCO. Patrocinio dell’Istituto. Novoměstská radnice (Karlovo náměstí 1/23, Praha 2) Orario di apertura: martedì – domenica, ore 10.00 - 18.00 Ingresso a pagamento Giovedì 25 maggio, ore 18.00

Evento speciale

All’ombra dell’orologio. Storie di italiani a Praga

Presentazione del volume organizzata dalla Redmont Consulting Limited e dal magazine “CIAOPRAGA”, in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto. In occasione dell’evento si terrà una raccolta fondi, organizzata da “CIAOPRAGA” e Redmont Consulting, a sostegno del Laboratorio di Immunoterapia diretto dal medico oncologo Luca Vannucci. Istituto Italiano di Cultura, Ingresso: 200 CZK Martedì 30 maggio, ore 18.00

Medicina

Ipnosi e terapie ipnotiche nel terzo millennio: attualità di una disciplina antica

Seminari a cura del prof. Stefano Benemeglio e del dott. Giancarlo Russo, allievo diretto del prof. Karel Lewit, fondatore della “Scuola di Praga di Riabilitazione”. Organizza l’Istituto. Sala conferenze dell‘Istituto Italiano di Cultura, Ingresso libero

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Dal 3 al 29 giugno

Musica

Concentus Moraviae

XXII. Festival Internazionale di Musica di 13 città con il sottotitolo “La voce”, dedicato al tema della voce umana e del canto. Il festival si svolge in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura Moravia del Sud e Vysocina | www.concentus-moraviae.cz, www.ticketportal.cz Lunedì 5 giugno ore 17:00

Concerto

Quartetto Pražák e flautista italiana Luisa Sello.

Il concerto si terrà in collaborazione con l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), il Conservatorio di Praga e l’Istituto Italiano di Cultura Palazzo Conservatorio di Praga, Wallenstein 158/14, Praga 1, Ingresso libero Giovedì 8 giugno ore 18:00

Concerto

Isola ItalyThere rugiada divina

Concerto del compositore e cantante Sharon Gutman Delilah (voce) e del violinista Rephael Negri, organizzato dalla comunità ebraica di Praga in collaborazione con l’Istituto. Jerusalem Synagogue, Praga 1, Ingresso libero Martedì 13 giugno ore 19:30

Teatro

Benna ha un foro nella parte inferiore (Commedia)

Commedia diretta da Štěpána Smolíka e Raffaella Perrotta, in collaborazione con l’Istituto. Teatro Kampa, Hellichova 2a, Praga 1, www.ujeto.cz, www.teatralie.cz Ingresso CZK 150 Venerdì 23 giugno ore 21:00

Concerto

Rocco Zifarelli Trio

Concerto di Rocco Zifarelli (chitarre e strumenti elettronici), Daniele Sorrentino (basso e contrabbasso) e Valerio Vantaggio (batteria). Festival Internazionale di Musica di Praga Proms, The Loop Jazz Club, www.pragueproms.cz Ingresso CZK 350

Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it

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EVENTI

Ciaopraga presenta “All’Ombra dell’Orologio” Il 25 maggio incontro all’Istituto Italiano di Cultura di Praga

È con grande piacere ed orgoglio che vi presentiamo All’Ombra dell’Orologio. Storie di Italiani a Praga, un libro nato dalla duplice missione di CIAOPRAGA: far conoscere meglio Praga a chiunque parli italiano nel mondo e, allo stesso tempo, promuovere l’Italia e la cultura italiana.

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ALL’OMBRA DELL’OROLOGIO - Storie di italiani a Praga

ALL’OMBRA DELL’OROLOGIO Storie di italiani a Praga a cura di Stefania Del Monte

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Il volume, che verrà presentato ufficialmente il prossimo 25 maggio presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga e si avvale di una prefazione a cura di S.E. Aldo Amati, Ambasciatore d’Italia in Repubblica Ceca, è frutto di oltre un anno di lavoro e dell’impegno giornaliero di un gruppo giovane, dinamico, innovativo ed affiatato. Un gruppo eterogeneo ma legato dalla volontà di portare avanti un progetto comune, senza fini commerciali e mosso esclusivamente da una grande passione per la cultura, in tutte le sue forme. Al fine di rimarcare lo spirito non commerciale del progetto, la redazione di CIAOPRAGA e Redmont Consulting, responsabile editoriale, hanno deciso di organizzare, in occasione della presentazione del 25 maggio, una raccolta fondi in favore del laboratorio di immunoterapia diretto da Luca Vannucci, medico oncologo a Praga. Fin dalla sua nascita, CIAOPRAGA ha promosso lo scambio di valori e di idee con l’obiettivo di offrire, ai propri lettori, dei momenti di riflessione e la condivisione di esperienze che siano espressione non solo della vita culturale praghese ma anche di quella italianità che ci rende unici al mondo. I racconti degli italiani a Praga, di cui il volume contiene un’accurata selezione, hanno esattamente questo obiettivo. L’idea è cercare di avere e, allo stesso tempo, stimolare una coscienza critica attiva, capace di aprire nuovi scenari. Un progetto nel quale i nostri lettori si ritrovano e sono felici di identificarsi. Lo dimostra il fatto che gli italiani di Praga, sia attraverso il nostro blog che sulle pagine del magazine, condividono con entusiasmo le loro storie fatte di sogni, di sfide, ma anche di avventure e di tanti successi. Storie che proponiamo nella speranza che possano servire da ispirazione a chiunque le legga. Un aspetto importante del progetto è che non solo la redazione ma anche i nostri lettori si distinguono per una forte passione. Ogni storia è infatti accompagnata da una inevitabile carica di energia. Il lettore di CIAOPRAGA ha voglia di fare, vuole cambiare il mondo, vuole vivere i propri sogni; non si fa scorrere la vita davanti in maniera passiva ma vi partecipa attivamente. Per questo molti degli italiani che avevano inizialmente condiviso con noi la loro storia, sono poi diventati nostri collaboratori. Per portare avanti la nostra missione, però, pensiamo sia necessario coin-

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volgere sempre più persone. Un concetto riassume perfettamente il nostro spirito: “la cultura è l’unico bene dell’umanità che, se condiviso, anziché diminuire, aumenta”. Ecco perché CIAOPRAGA ha sempre cercato la collaborazione dei lettori, delle istituzioni e delle altre realtà mediatiche presenti sul territorio. Con molti di questi esistono scambi proficui, che speriamo possano evolversi ulteriormente. In un mondo sempre più diviso, l’impegno comune rimane quello di unire favorendo l’integrazione, il dialogo e la reciproca conoscenza. Per informazioni: ciaopraga.magazine@gmail.com

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Ciao Praga Magazine è una pubblicazione

REDMONT C O N S U L T I N G Event Management e Comunicazione

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