CIAOPRAGA Volume 7

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volume 7

CIAOPRAGA

arte, cultura e lifestyle


Ciao Praga Magazine

Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle

Volume 7 /// settembre - ottobre 2017

Redazione

Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Vice Direttore Laura Di Nitto Collaboratori

Maria Grazia Balbiano Marco Ciabatti Raffaele De Pascalis Laura Di Nitto Flavio R.G. Mela Marisa Milella Alessia Moretti Ottaviano Maria Razetto Roberto Vinci

Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com In copertina:

La Schiava Turca, Parmigianino, 1532 (Galleria Nazionale di Parma)

Crediti fotografici

Immagini per gentile concessione di: Danilo De Rossi p. 3 Laura Di Nitto p. 21 Marisa Milella p. 37 Franco Maria Ricci p. 39, 41, 42-43 Diofebo IV Meli Lupi p. 47, 49, 51 Raffaele De Pascalis p. 61 Alessia Moretti p. 66 Ottaviano Maria Razetto p. 81 Flavio R.G. Mela p. 106 Roberto Vinci p. 112 Eva Poddaná p. 115 Angelica Calò p. 119 Maria Grazia Balbiano p. 123 Marco Ciabatti p. 131 IIC p. 132 Dal Web Copertina, p. 7, 11, 13, 15, 17, 18-19, 23, 25, 28-29, 31, 33, 35, 55, 57, 58-59, 63, 65, 67, 69, 73, 74-75, 77, 79, 84-85, 89, 93, 95, 97, 99, 102-103, 107, 109, 113, 117, 120-121, 125, 126-127, 128-129

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LETTERA DEL DIRETTORE

Gentili Lettori, in questo numero vi portiamo alla scoperta di una Parma in versione autunnale. La bellissima perla emiliana e Praga sono legate da rapporti secolari, spesso sconosciuti perfino agli stessi abitanti delle due città. Da giovane, Carlo IV visse per tre anni presso la piccola città ducale e Rodolfo II collezionò opere di Correggio e Parmigianino. Maria Amalia d’Asburgo-Lorena, ultima duchessa di Parma, visse al castello di Praga i suoi ultimi anni di vita e, alla sua morte, fu sepolta nella cripta della Cattedrale di San Vito. Spostandoci ad una manciata di chilometri da Parma, nel piccolo borgo di Soragna, troviamo poi il Castello Meli-Lupi: al 1347 risale l’investitura, da parte di Carlo IV, del marchesato, in seguito divenuto principato. Parma è anche stata proclamata, dall’Unesco, città creativa per l’alimentazione. Un riconoscimento che nasce dalla ricchezza dei prodotti tipici che contraddistinguono il territorio parmense, come il prosciutto di Parma, il parmigiano reggiano, la pasta Barilla, ma anche meno note specialità dolciarie, come la spongata o le scarpette di Sant’Ilario. E rimanendo in tema di eccellenza italiana, non possiamo dimenticare due marchi che hanno reso famosa la città ducale nel mondo: Sorelle Fontana e Acqua di Parma. E ancora, Parma è la città di Verdi, dalle cui dita nacquero capolavori immortali come Nabucco, la Traviata, Aida e il Trovatore, ma anche di figli illustri come Franco Nero, stella del cinema hollywoodiano, e Franco Maria Ricci, da molti considerato il più importante editore a livello mondiale. L’offerta culturale di questo bellissimo numero include, inoltre, le interviste a due donne straordinarie – Eva Poddaná ed Angelica Calò – oltre che all’inarrestabile italiano a Praga, Ottaviano Maria Razetto. Flavio Mela ci racconta, invece, un aspetto ancora poco conosciuto di Giacomo Casanova: i suoi ultimi anni di vita, trascorsi lavorando come bibliotecario in un castello boemo, mentre Roberto Vinci ci guida alla scoperta della carta dei vini e Marco Ciabatti ci rivela i segreti dello stadio di Strahov, un gigante abbandonato nel cuore di Praga. Buona lettura! Stefania Del Monte


CONTEN UTI Franco Nero

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Attore e regista

Parma a Praga

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Un progetto firmato Fondazione Eleutheria

Una passeggiata d’autunno a Parma

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Girovagando per le vie della città

Correggio e Parmigianino da Parma a Praga

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La passione di Rodolfo II per i manieristi parmigiani

Franco Maria Ricci

38

Designer, collezionista, editore ed ideatore di labirinti

Diofebo IV Meli Lupi

46

Principe di Soragna

Parma da gustare

54

Un viaggio nella “città creativa per la gastronomia”

La spongata di Busseto e le scarpette di Sant’Ilario

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Nella capitale dei buongustai, il dolce non può mancare

Acqua di Parma Storia di un’icona

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72

Sorelle Fontana Da Parma, il primo marchio di alta moda italiana nel mondo

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Ottaviano Maria Razetto Architetto e Vice Presidente della Fondazione Eleutheria

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Maria Amalia La duchessa di Parma che riposa a Praga

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Giuseppe Verdi Il cigno di Busseto

98

“Son vissuto da filosofo e muoio da cristiano” L’ultima “maschera” di Giacomo Casanova

108

La carta dei vini Gioie e dolori del ristoratore e dell’avventore

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Eva Poddaná Responsabile Segreteria Associazione Amici dell’Italia in Repubblica Ceca

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Angelica Edna Calò Livne Insegnante, regista, scrittrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom

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Velký Strahovský Stadion Un glorioso gigante del passato


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L’INTERVISTA

Franco Nero

Attore e regista

A cura di Stefania Del Monte

Franco Nero, nome d’arte di Francesco Clemente Giuseppe Sparanero, è nato a San Prospero Parmense, frazione del comune di Parma, il 23 novembre 1941. Per la sua prestanza fisica ed una bellezza maschile molto “americana”, fin dagli esordi Nero ha incarnato il ruolo dell’eroe, attirando l’attenzione di John Huston che, nel 1965, gli affidò il ruolo di Abele nel kolossal “La Bibbia”. In seguito, ha interpretato oltre duecento film e serie televisive, lavorando al fianco dei migliori attori e registi a livello mondiale. in anni recenti si è cimentato anche nel ruolo di regista. Ha vinto, nella sua carriera, premi di grande prestigio tra i quali il David di Donatello, nel 1968, per il suo ruolo ne “Il giorno della civetta”; il Golden Globe, nel 1968, per “Camelot” ed il Globo d’Oro, nel 2006, per “Forever Blues”. Nero è sposato con l’attrice Vanessa Redgrave.

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Pur essendo originario di Parma il suo lavoro l’ha presto portata lontano dalla sua città e dall’Italia. Quanto ha contato, per lei, e quanto conta ancora oggi, essere nato e cresciuto in quei luoghi? Conta molto, perché a Parma ho trascorso un’infanzia stupenda: la migliore; quella che si vive solo nei piccoli centri e non nelle grandi città. Vivevo a Bedonia, in provincia, ed ho avuto il privilegio di imparare tante cose, di essere a stretto contatto con la natura; a differenza dei giovani di oggi, che sono costantemente incollati ai loro smartphone. Lì ho imparato a pescare, a tirare con l’arco, a mungere le mucche e – una volta cresciuto – ho avuto l’occasione di lavorare nel teatro dell’opera più importante al mondo: il Teatro Regio. A Parma, infatti, si possono trovare i più grandi intenditori di opera ed i migliori cantanti lirici: se hanno successo lì, dove c’è un pubblico attento e preparatissimo, allora possono averlo ovunque nel mondo! Da studente – avrò avuto 16, 17 anni – per guadagnare qualcosa iniziai a lavorare come comparsa e, al Regio, ebbi l’opportunità di conoscere i più grandi interpreti di opera lirica: Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Anna Moffo, per citarne alcuni. Proprio a proposito della Moffo, mi torna in mente un episodio accaduto con suo marito, il regista parmigiano Mario Lanfranchi: una sera erano in scena “I Puritani” di Vincenzo Bellini; mancava, però, uno dei coristi e Lanfranchi si rivolse a me, dicendomi: “vai sul palco e fai finta di cantare!”. Per me, naturalmente, fu un’opportunità di guadagnare qualcosa in più: la mia famiglia non era ricca ed io, ogni pomeriggio dopo la scuola, mi arrangiavo facendo di tutto, dall’aiuto pasticcere al gelataio, dal panettiere al macellaio. Quello, fu un periodo di grande formazione personale. Cosa le piace di più, di Parma? Ci torna spesso? Qualche volta torno a trovare mia sorella ed il resto della famiglia che ancora vive lì, ed è sempre un grande piacere. Quando sono lì, prendo la bicicletta e mi perdo nella sua atmosfera incredibile. Come si fa a non amare un luogo come Parma, con tutto quello che ha da offrire? Innanzitutto, come dicevo, è la città numero uno al mondo per l’opera lirica, e lo dimostra la “Corale Verdi”, un’associazione che per tanti anni ha raccolto fondi direttamente dai cittadini, permettendo così a tanti giovani cantanti lirici di esibirsi gratuitamente. A proposito di Verdi, nel 2003 tornai al Teatro Regio proprio per impersonarlo, in occasione dello spettacolo “Buon compleanno, Maestro Verdi”: rimasi sul palco per oltre quattro ore, mentre nei panni del Maestro vidi ripercorrere

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tutta la sua opera, interpretata dai più grandi cantanti al mondo: fu un’esperienza bellissima. Parma, quindi, è la città della lirica, ma non solo. La sua cucina ed i suoi prodotti gastronomici sono famosi in tutto il mondo: dal parmigiano, al prosciutto crudo, alla pasta Barilla. Qui si trovano, inoltre, il giornale più antico d’Europa – La Gazzetta di Parma – ed uno dei profumi più conosciuti al mondo: l’antica violetta di Parma, oggi ribattezzata “Acqua di Parma”. Credo di aver anche letto, da qualche parte, che è stata votata la città più elegante d’Italia, quella dove la gente si veste meglio. Insomma, visitare Parma vuol dire, ancora oggi, immergersi in una piccola Parigi, dove l’eredità di Maria Luigia si può ritrovare perfino nella erre alla francese tipica della cadenza dialettale parmigiana. E parlando di dialetto, un’abitudine dei parmigiani che trovo molto simpatica è quella di parlare il dialetto e l’italiano allo stesso tempo, offrendo all’ascoltatore una continua traduzione simultanea. È davvero divertente! La sua bellissima carriera cinematografica, iniziata negli anni Sessanta, le ha permesso di lavorare con alcuni dei più grandi protagonisti del cinema internazionale. Qual è l’esperienza che ricorda con maggiore affetto? Non è affatto facile rispondere, se si considera che fino ad oggi ho realizzato oltre 215 film! Ho avuto la fortuna di lavorare con i più grandi registi al mondo ma, forse, uno dei personaggi che ricordo con maggiore affetto è Luis Buñuel, ai tempi di quando girammo Tristana, insieme a Catherine Deneuve e Fernando Rey. Appena mi incontrò, volle sapere il mio nome. Quando gli dissi come mi chiamavo, lui mi rispose – da grande dissidente franchista – che da quel momento in poi, per lui, sarei stato semplicemente “Nero”. Mi viene in mente un episodio divertente, che si verificò durante le riprese a Toledo: un giorno, ad un certo punto Buñuel divenne molto nervoso, perché non riusciva a trovare la sua valigetta; pensando che avesse smarrito qualche documento importante, l’intera troupe si mise alla ricerca di questa valigetta, che dopo un po’ venne ritrovata. A quel punto Buñuel si appartò, convinto di non essere visto; tirò fuori dalla borsa un panino al prosciutto ed una bottiglietta di Coca Cola contenente del vino e si mise a mangiare e bere con gusto. Allora mi avvicinai e lo colsi di sorpresa. La sua reazione fu quella di un bambino colto in flagrante durante una marachella. Mi pregò di non dire niente a nessuno ma, ripensando alla sua espressione, ancora oggi sorrido.

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E l’esperienza che, invece, le ha dato di più a livello professionale? Ogni esperienza, per ragioni diverse, mi ha dato qualcosa. Non si può chiedere ad una madre quale dei suoi figli preferisca: tutti i miei lavori, per me, sono come dei figli. Ogni volta che ho accettato una parte, ho sempre dato del mio meglio. Alcune esperienze sono state migliori di altre, ma da ognuna ho imparato qualcosa. Ha interpretato i ruoli più disparati: dal kolossal “La Bibbia” di John Huston, nel 1965, ai gialli politici italiani. Da western come “Django”, nella doppia esperienza con Corbucci e Tarantino, a commedie quali “Letters to Juliet”, nel 2010, a fianco di sua moglie Vanessa Redgrave. C’è un genere nel quale ama di più cimentarsi? A questo proposito vorrei fare una premessa. Per un po’ di tempo ho avuto la fortuna di vivere a Londra e lì, tra i tanti personaggi conosciuti, incontrai anche Laurence Olivier, che mi diede dei consigli preziosi. Mi rivelò che gli ricordavo lui da giovane e che con la mia faccia ed il mio fisico sembravo nato per interpretare la parte dell’eroe. Secondo lui mi si prospettavano due possibilità: potevo fare un film all’anno, interpretando sempre lo stesso ruolo – quello dell’eroe, appunto – oppure scegliere di cambiare ruolo in continuazione, mettendomi costantemente alla prova ma, soprattutto, divertendomi ad interpretare i personaggi più disparati, senza alcuna preferenza. “Andrai incontro ad alti e bassi – mi disse – ma, a lungo andare, questa varietà darà i suoi frutti”. E non sbagliava! Gli ho dato retta e, per questo, oggi posso dire di avere acquisito un bagaglio di esperienze davvero incredibile. Ad esempio, sono forse l’unico attore al mondo ad aver interpretato personaggi di oltre trenta nazionalità: dal ceco, al russo, al polacco e tantissime altre. È davvero una grande soddisfazione. È anche stato protagonista, a partire dagli anni Settanta, di diverse produzioni televisive. Trova ci siano delle differenze nell’interpretare un ruolo per la televisione, piuttosto che per il cinema? Sì, tantissime: cinema e televisione sono come il giorno e la notte. Il cinema è pura magia. Un film rimane per sempre, non muore mai. Ancora oggi vengono riproposti film che avevo girato quarant’anni fa. La televisione, invece, è un attimo fugace. Per questo ho sempre cercato di privilegiare ruoli importanti, come ad esempio quello di Garibaldi, oppure serie epiche come “I Promessi Sposi” o “La Bibbia”.

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Cosa ci può dire, invece, della sua più recente esperienza come regista? Amo moltissimo la regia, fin da ragazzo, ma a causa del mio aspetto fisico sono sempre stato spinto a fare l’attore. Mi sono, però, cimentato nella regia molto spesso, non solo nelle produzioni da me firmate ma anche aiutando, in diverse occasioni, registi con cui mi trovavo a lavorare o semplicemente a confrontarmi. Nel 1992 ha interpretato, a Praga, il film “Prova di Memoria”, diretto da Marcello Aliprandi. Che ricordo ha della città? A Praga, in realtà, ho girato diversi film. Nel 2003, ad esempio, ho interpretato “Post Coitum”, per la regia di Juraj Jakubisko e sempre con lui, nel 2008, ho avuto un cameo in “Bathory”, la storia di una contessa ungherese dotata di grandi poteri ed accusata di stregoneria. Ho delle bellissime memorie di Praga: ricordo musica ovunque! Durante le riprese di “Prove di Memoria”, infatti, alloggiavo vicino a Ponte Carlo e spesso mi divertivo a percorrerlo più volte, avanti e indietro, affascinato dalle orchestrine jazz che sul ponte sembrano essere onnipresenti. Mi ricordo che chiamavo in Italia, facendo ascoltare la musica ai miei amici, dal cellulare. Adoro il jazz e spesso, alla sera, ci si ritrovava in compagnia di Lino Patruno (che era uno dei produttori del film) e di altri colleghi del cast a fare musica e ad improvvisare canzoni nei locali jazz della città. Progetti in cantiere? Sto lavorando alla regia di due film, che usciranno il prossimo anno. Inoltre, ho appena finito di interpretare una pellicola canadese dal titolo “The Neighbourhood” ed un’altra, inglese, dal titolo “A rose in winter”, basata sulla storia vera di Edith Stein, morta ad Auschwitz e proclamata santa da Papa Wojtyla, col nome di Santa Teresa Benedetta della Croce, patrona d’Europa. Infine, tra poche settimane mi trasferirò in Cornovaglia per le riprese del film “Delicious”.

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CULTURA

Parma a Praga

Un progetto firmato Fondazione Eleutheria

A cura di Laura Di Nitto

Parma e Praga sono legate da rapporti secolari che, spesso, sono sconosciuti perfino agli stessi abitanti delle due città. Carlo IV visse da giovane per tre anni presso la piccola città ducale e lo stesso Rodolfo II acquistò uno dei quadri più famosi del Parmigianino, Cupido che fabbrica l’arco, oggi conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna. La duchessa Maria Amalia d’AsburgoLorena (ultima duchessa di Parma fino al 1802, quando fu deposta da Napoleone Bonaparte), giunse proprio a Praga e visse i suoi ultimi due anni di vita al Castello, dove poi fu sepolta nella cripta della Cattedrale di San Vito. I legami tra le due città non finiscono qui e, se ci spostiamo a qualche chilometro da Parma, nel piccolo borgo di Soragna, troviamo il Castello omonimo, proprietà della famiglia dei Principi Meli-Lupi dal XIV secolo. E proprio a questo secolo, e precisamente al 1347 (confermato nel 1364 e nel 1368), risale l’investitura da parte di Carlo IV del marchesato che poi, nel corso dei secoli, diventerà principato.

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Carlo IV, Scena delle reliquie (dettaglio), Nicholas Wurmser, Karlstejn (circa 1361-64) 15


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Ma Parma è anche la città del cibo e dei prodotti alimentari di qualità. È stata riconosciuta dall’Unesco città creativa per l’alimentazione. Quella stessa Unesco che ha dichiarato il centro storico di Praga patrimonio culturale mondiale. Un riconoscimento che nasce dalla ricchezza di prodotti tipici che contraddistinguono il territorio parmense (prosciutto di Parma, formaggio Parmigiano-Reggiano, Culatello di Zibello, Salame di Felino, Spalla Cotta di San Secondo, ecc.), dal fatto di ospitare, proprio a pochi chilometri da Parma, a Colorno, la più importante scuola di alta cucina italiana, e, negli ultimi anni, per il fatto che proprio a Parma ha sede l’Autority europea per la Sicurezza Alimentare (il più importante organismo dell’Unione Europea nel campo dei prodotti alimentari). Del resto, Parma è sede di una ricca industria alimentare: la Barilla e la Parmalat in primis, ma anche una miriade di piccole e medie aziende che fanno, del territorio parmense, un unicum non solo in Italia, ma nella stessa Europa. E ancora, se Praga è la città dove soggiornò lungamente Mozart e dove diresse la prima del Don Giovanni e della Clemenza di Tito, Parma è la città di Toscanini ma soprattutto di Verdi, dalle cui dita nacquero capolavori immortali, come Nabucco, la Traviata, Aida e il Trovatore. Premesse, queste, che risultano necessarie per comprendere quanto possa essere interessante presentare, o meglio “portare” Parma e la sua provincia – durante un evento di quattro giorni dedicato alla presentazione della propria comunità locale fatta di cultura, realtà imprenditoriali ed industriali, attrazioni turistiche, prodotti alimentari e tanto altro ancora – a Praga: città multiculturale, sospinta da uno sviluppo economico veloce e solido, ma anche città di cultura e tradizioni. Il progetto “Parma a Praga”, ideato dalla Fondazione Eleutheria e che avrà luogo nella primavera del 2018, parte proprio da questi elementi di contatto tra i due territori, da cui possono nascere conoscenza reciproca, sinergie e collaborazioni in campo istituzionale, economico ed imprenditoriale. Il programma, come menzionato, avrà una durata di quattro giorni, periodo in cui la città di Praga ospiterà mostre d’arte, incontri, tavoli di confronto, presentazioni culinarie e lezioni dedicate a Parma. Ogni giornata sarà dedicata ad un settore specifico, tra quelli preminenti del territorio parmense. Vi sarà una giornata dedicata al settore economico, una all’alimentazione e alla cucina, una alla cultura ed una allo sport e alla salute.

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Cupola del Battistero, Parma


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La fondazione Eleutheria, istituita nel 2008 grazie a due fratelli parmigiani – Francesco Augusto ed Ottaviano Maria Razetto – ha come obiettivo quello di rispondere alle esigenze di conoscenza e divulgazione del patrimonio storico e artistico dei periodi meno conosciuti e studiati, attraverso attività rivolte a promuoverne l’immagine e la valenza culturale. La fondazione, a tale scopo, promuove convegni, seminari e mostre; istituisce premi e borse di studio; avvia collaborazioni e stipula convenzioni con istituti universitari e di ricerca e con enti culturali ed istituzioni operanti in settori attinenti all’attività della fondazione stessa. La prima iniziativa realizzata da Eleutheria, ha avuto luogo nel 2008. Si trattava della redazione di una monografia in lingua inglese, italiana e ceca, dal titolo Realismo socialista Cecoslovacchia: 1948-1989, in cui vennero pubblicate le opere più significative di proprietà della fondazione. A questa seguì, l’anno successivo, una mostra sul medesimo tema, che venne ospitata all’interno degli spazi del padiglione Manes, luogo prestigioso della vita culturale praghese. L’iniziativa fu realizzata sotto il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia, dell’Istituto Italiano di Cultura e della città di Praga. Nel 2010 la fondazione decise di proporre una serie di iniziative e studi rivolti all’arte del manifesto vietnamita. L’arte del manifesto in Vietnam rappresenta, per certi versi, un unicum all’interno della produzione grafica. I temi e le immagini usate dai creatori di queste vere e proprie opere d‘arte, meritavano, per la loro originalità, un’attenzione e uno studio che, in Occidente, non erano stati compiuti adeguatamente. A tale scopo fu prodotta una seconda monografia, realizzata in collaborazione con la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Praga, scritta in inglese, italiano e ceco. Il libro, uscito nel mese di dicembre del 2010, presentava i contributi scritti di eminenti studiosi d’arte, tra i quali il direttore della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Praga, Prof. Tomáš Vlček ed il critico d’arte italiano Prof. Vittorio Sgarbi, giàSoprintendente di Venezia, nonché curatore di numerose mostre d’arte in Italia e all’estero. La mostra, inaugurata dal Prof. Sgarbi e dal Prof. Vlček, ebbe una vasta eco su numerosi organi di stampa cechi ed internazionali e venne ripetuta, nel 2011, presso gli spazi del palazzo del Parlamento Europeo di Bruxelles – sotto il patrocinio del Membro del Parlamento Europeo (MEP) On. Jiří Maštálka – con una selezione di circa 50 manifesti, rappresentativi dell’intero periodo di produzione dei manifesti vietnamiti.

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Il 28 aprile 2015 a Roma, presso il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, venne inaugurata la mostra Et Cetera, una collettiva di 18 giovani artisti provenienti dalla Repubblica Ceca, selezionati tra i migliori talenti del paese. In esposizione 34 opere tra dipinti, sculture, fotografie ed installazioni di varie dimensioni. La mostra, realizzata in collaborazione con il MAXXI di Roma, si avvalse dei patrocini di Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo, Ministero della cultura della Repubblica Ceca, Assessorato alla cultura, creatività e promozione artistica e turismo di Roma Capitale, Ambasciata della Repubblica Ceca, Ambasciata di Italia a Praga, Istituto Italiano di Cultura a Praga, Camera di Commercio e dell’Industria Italo Ceca, Praga Capitale e Centro Ceco di Milano. Tra i numerosi ed illustri ospiti intervenuti all’inaugurazione, si ricordano l’ex Ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, l’Ambasciatore della Repubblica Ceca a Roma, S.E. Petr Burianek, l’Ambasciatore d’Italia a Praga, S.E. Aldo Amati, l’Assessore alla Cultura del Comune di Praga, Jan Wolf, l’On. Gianni Rivera e il Curatore del Museo MAXXI, Hou Hanru. Tra le numerose iniziative organizzate dalla Fondazione Eleutheria negli ultimi anni, da menzionare l’evento dell’ottobre 2016, incentrato interamente sulla figura del grande maestro della fotografia cinematografica Vittorio Storaro, tre volte vincitore del Premio Oscar. Per informazioni: eleutheria.cz

Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. www.linkedin.com/in/lauradinitto 21


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IL BEL PAESE

Una passeggiata d’autunno a Parma Girovagando per le vie della città

Passeggiando per le vie di Parma, ad ogni stagione ma soprattutto in autunno, si è come sospesi. I suoi viali sono cosparsi di foglie ingiallite ed il Parco Ducale si presenta di mille colori. È bello girovagare per le strade signorili, lasciarsi trascinare nel ritmo strascicato tipico delle città di provincia, nei percorsi che si snodano dalla Piazza Garibaldi, lungo le stradine strette del centro storico, poco trafficate, dove capita ancora di sentire il brulicare delle vecchie città d’una volta con le loro piccole botteghe, le drogherie e i caffè.

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Tempio di Arcadia, Parco Ducale


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L’università, che accoglie ragazzi provenienti da tutta Italia, regala al centro un’aria più gioviale, stimoli e colori, riscattandola da quel torpore in cui spesso sembra indugiare. Le vie del centro sono luogo d’incontro per uomini e donne d’affari, per le casalinghe con borse della spesa caricate nei cestini delle biciclette e per studenti in pausa dalle lezioni. Nonostante rappresenti un importante snodo economico, Parma vive ancora la realtà del piccolo centro. Sebbene negli anni abbia conosciuto una notevole espansione demografica ed urbanistica, il centro conserva la bellezza e la tranquillità originaria. Costeggiando il torrente Parma si potranno ammirare i colori e la particolarità delle case che si affacciano su di esso e si potrà notare l’eleganza della cittadina nell’estrema cura delle sue vie e dei ponti che attraversano le due sponde del torrente. Giunti al ponte di Mezzo ci si può immettere lungo via Mazzini e rapidamente giungere all’epicentro della vita cittadina, Piazza Garibaldi, sede del Palazzo del Comune e del Palazzo del Governatore con la sua torre, in cui è collocata una statua della Vergine incoronata da stelle ed una splendida meridiana. A pochi metri dal Palazzo del Comune si potrà visitare la Chiesa di San Vitale, una delle più antiche erette in centro. Immettendosi nell’elegante Strada Cavour si giunge fino a via Pisacane, dalla quale incomincia a lasciarsi intravedere il Duomo, con il suo incredibile Battistero in marmo rosa. La musica di un artista di strada accompagna lungo questo percorso fino a giungere nella piazza acciottolata del Duomo, con i suoi leoni a difenderne l’ingresso, e il battistero sulla destra. Una visita al Duomo permette di osservare la cupola dipinta dal Correggio, oltre che di ammirare la bellezza del Battistero. Lasciata la piazza si può decidere di percorrere una qualunque delle stradine che da lì si snodano, con i loro ristoranti e le piccole botteghe artigiane. Il nostro percorso può quindi ricominciare dal piazzale della Pilotta. Per giungere ad esso, dal Duomo si incontra il Complesso di San Paolo, un monastero risalente all’anno Mille, in cui è custodita “La camera di San Paolo”, affresco del Correggio. Giunti al Palazzo della Pilotta (da Pelota, il gioco praticato nei cortili interni), ci si ritrova nel centro storico e culturale della città. Il Palazzo, adibito in parte ad uffici ed in parte ad attività museali, è spesso sede di mostre. Ospita infatti al suo interno la biblioteca Palatina, il museo archeologico nazionale, il ligneo Teatro Farnese, il museo Bodoniano e la Galleria Nazionale, una delle più importanti pinacoteche

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Italiane. Camminando sul largo viale si giunge in pochi passi al Teatro Regio, caratterizzato da un austero stile neoclassico ma la cui bellezza interna lo rende uno dei teatri più importanti d’Italia. Si può quindi continuare il percorso perdendosi lungo le stradine circostanti per assaporarne la realtà più sincera, senza aver paura di perdersi. A poca distanza dalla piazza si staglia la chiesa di Santa Maria della Steccata, in cui sono riposte alcune delle perle dell’arte parmigiana. Il percorso può quindi ricominciare attraversando il portale del Palazzo della Pilotta che, dal suo interno, conduce direttamente sul piccolo ponte Verdi, attraverso il quale si accede al Parco Ducale, d’aspetto settecentesco ma risalente al 1500. In autunno, il parco, si offre agli occhi dei visitatori in tutta la sua bellezza. Lungo i viali si incontrano le rovine di un tempietto dell’arcadia e dodici statue di marmo bianco di Carrara rappresentanti miti greci. Il centro del parco è costituito dalla grande “peschiera”, frequentata da anatre e cigni, in cui si trova la Fontana del Trianon. All’interno si trova anche il Palazzo del Giardino, voluto dal duca di Parma Ottavio Farnese nel 1500, caratterizzato dal classico color giallo Parma, e il Palazzetto Eucherio Sanvitale. Uscendo dal Parco ci si trova in Piazzale S. Croce con l’antica Chiesa, risalente al 1210, prima tappa tra le chiese della Strada Romea. Sulla destra della chiesa parte Via D’Azeglio, la zona più vivace della cittadina. Le stradine, caratterizzate dalle case basse e colorate, sono infatti abitate per lo più da studenti e migranti di ogni nazionalità, che in questa zona hanno creato il proprio centro aggregativo più vasto. La strada è un vero brulicare di negozi indiani, di venditori di kebab, di drogherie, panetterie e pub che alla sera tendono ad animarsi. Qui ha sede anche una piccola sala cinematografica con una programmazione da cinema d’essai, unica superstite all’invasione delle multisale. Percorrendo questo viale, ci si trova quindi ad aver attraversato il crocevia della cittadina. Infatti, dopo aver superato la statua del sindacalista Corridoni e il ponte di Mezzo, si arriva di nuovo lungo via Mazzini e, quindi, in prossimità di Piazza Garibaldi. Per lo shopping potete continuare lungo via della Repubblica, nella quale trovano sede i negozi più belli ed eleganti della città. Ripartendo dal piazzale e svoltando a sinistra, il percorso continua con una passeggiata lungo il Viale San Michele (sulla destra si trova l’edificio del

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Convitto Nazionale Maria Luigia, chiamato anche Palazzo Imperiale dell’Arena) e Viale Martiri della Libertà. Da qui, entrando da una qualunque delle vie sulla sinistra, si accede alla Cittadella, una grande fortezza costruita alla fine del XVI secolo a margine delle mura storiche di Parma, per scopi difensivi come emblema del potere ducale. La sua struttura pentagonale si ispira fortemente alla cittadella di Anversa. Tornando sul viale principale e percorrendolo sulla destra si potrà entrare in Via Farini, sul cui percorso si trovano l’orto botanico e alcuni palazzi oramai adibiti a uffici. Questa strada conduce nuovamente in Piazza Garibaldi, dove il percorso si potrà ritenere concluso. Fonte: abiyoyo.com

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Archi, Palazzo della Pilotta


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ARTE

Correggio e Parmigianino da Parma a Praga

La passione di Rodolfo II per i manieristi parmigiani

A cura di Marisa Milella

Le strade di due grandi del “Rinascimento parmigiano”, attraverso le loro opere, si intrecciano con quella di una delle più esclusive collezioni europee, purtroppo dispersa: quella di Rodolfo II d’Asburgo. La “Scuola di Parma” fu costituita da coloro che si formarono guardando il Correggio al lavoro soprattutto in San Giovanni Evangelista; tra questi c’era anche un giovanissimo Parmigianino, proveniente dall’unica bottega presente allora a Parma: quella della sua famiglia. Correggio si può definire come il capostipite di una scuola di artisti che poi ebbe un successo europeo, arrivando a influenzare anche i pittori fiamminghi.

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Cupola di San Giovanni Evangelista, Parma, Correggio (circa 1520-1524) 31


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Antonio Allegri, detto il Correggio (1489 Correggio – 1534 Correggio), e Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (1503 Parma – 1540 Casalmaggiore), sono nominati insieme nelle ‘Vite’ del Vasari, accanto a Leonardo, Raffaello e Michelangelo, come gli iniziatori della cosiddetta Maniera Moderna, uno stile che caratterizzò tutto il Cinquecento, famoso per la sua erudizione, ricercatezza e raffinatezza. Correggio venne nominato per la sua pittura piena di grazia, il Parmigianino come colui che alla grazia di Correggio aggiunse un ”eccesso di grazia e alla regola una licenza”. Con una serie di perifrasi Vasari indica il Parmigianino quale inventore del Manierismo. Un Manierismo che diventa europeo, arrivando fino a Fontainebleau e a Praga. Sono tantissimi i pittori fiamminghi che vennero a studiare a Parma; Kare van Mander, nel suo volume sulla vite dei pittori fiamminghi (1604) scrive che tanti arrivavano per imitare il Parmigianino e, tra questi, quello che diventerà poi il pittore dell’imperatore Rodolfo II: Bartholomäus Spranger. Nato ad Anversa, dopo aver lavorato a Parigi e aver conosciuto l’Ecole de Fontainebleau, Spranger soggiornò nel 1566, ventenne, alcuni mesi a Parma, dove aiutò il Gatti negli affreschi della cupola della Steccata e studiò il Correggio (porterà a Praga l’uso delle nuvole come quinte) e il Parmigianino (le cui stampe aveva già copiato in patria). Trasferitosi a Roma, il cardinale Alessandro Farnese lo impiegò nella decorazione di alcune stanze della dimora di Caprarola. Poi, dopo aver servito il papa Pio V, l’artista andò a Vienna e a Praga al servizio degli imperatori Massimiliano II e Rodolfo II. Forte di tutte queste esperienze, Spranger sintetizzò pittoricamente

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Il ratto


o di Ganimede, Correggio, 1531-1532, Museo Kunsthistorisches, Vienna

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Giove ed Io, Correggio, 1532-1533, Museo Kunsthistorisches, Vienna


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una vasta cultura internazionale, nella quale emerse con evidenza la ‘matrice‘ della Scuola di Parma, impressa da Correggio e Parmigianino. Pittore di corte dal 1581, con l’architetto Joseph Heintz e con Hans von Aachen viaggeranno in Europa alla ricerca di opere per la collezione imperiale. Trasferendo la capitale dell’Impero da Vienna a Praga, Rodolfo II fondò un centro di cultura che richiamò artisti, letterati e studiosi delle più varie discipline. Il suo mecenatismo, che intendeva perfezionare la tradizione della casa d’Asburgo, dette luogo alla caratterizzazione praghese del Manierismo europeo di fine secolo, crocevia di un’arte propriamente rudolfina, che fu un Manierismo per certi aspetti ritardato, per altri sospeso fuori del tempo, tra i modelli del Parmigianino e di Fontainebleau e quelli a venire dell’erotismo settecentesco. Al centro di un Impero agitato da turbolenze politiche e contrasti religiosi, Rodolfo costruì per sé un mondo cosmopolita, governato da arte, scienza e libero pensiero. Più che contemplare opere d’arte, Rodolfo intendeva vivere esperienze di conoscenza e di estetica all’interno di una concezione idealizzata della realtà in cui l’esaltazione della dinastia e l’autocelebrazione divennero compulsive. In lui era forte il bisogno di emulazione: non ebbe pace finché non entrò in possesso delle raccolte dello zio, arciduca Ferdinando del Tirolo e signore di Ambras, per aggiungerle alle proprie e ottenere così la più ricca Wunderkammer di tutti i tempi. Rodolfo cercò di procurarsi quanto di più raro e prezioso egli potesse raggiungere per mezzo dei suoi agenti. Fra i suoi consiglieri, il celebre commerciante d’opere d’arte Jacopo Strada e suo figlio Ottavio. Dallo scultore veneziano Alessandro Vittoria, amico di Jacopo Strada, passò a Rodolfo l’Autoritratto allo specchio di Parmigianino, ora a Vienna (Kunsthistorisches Museum). È il primo autoritratto del Parmigianino, dipinto a 21 anni per papa Clemente VII. Il volto efebico, dalle labbra carnose e gli occhi grandi e chiari, viene riflesso in uno specchio convesso con effetto straniante sulla luce e sulla tela posta sul cavalletto e con la proposizione in primo piano della lunghissima, enorme mano destra, “strumento” dell’abilità del pittore. L’autore lo regalò a Clemente VII, il quale lo donò a Pietro Aretino, che lo portò ad Arezzo dove l’osservò Vasari, che così lo descrisse: “E perché tutte le cose che s’appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono, vi fece una mano che disegnava un poco grande, come mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissima” (Le vite, 1568). L’opera giunse

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Autoritratto entro uno specchio convesso, Parmigianino, Museo Kunsthistorisches, Vienna (1524) 35


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quindi allo scultore vicentino Valerio Belli e dopo la sua morte, avvenuta nel 1546, attraverso suo figlio Elio Belli fu acquistata nel 1560, per dieci scudi, da Alessandro Vittoria a Venezia: da questi giunse a Rodolfo II nel 1608. Rodolfo fu collezionista appassionato e talvolta privo di scrupoli. La predilezione di Rodolfo per soggetti sensuali era nota a tutti. Il fatto che desiderasse anche in questo campo tematico la massima qualità artistica è dimostrato dalle snervanti contrattazioni intercorse in Spagna per potersi impossessare della serie degli Amori di Giove del Correggio. Già nel 1598, alla morte dello zio Filippo II, Rodolfo aveva allertato l’ambasciatore a Madrid, Hans Khevenhüller, per ottenere i quadri della raccolta reale spagnola, oltre a quelli confluitivi dalla collezione dell’ex segretario Antonio Pérez. I migliori, però, se li aggiudicò Pompeo Leoni, che li rivendette a Rodolfo II tra il 1601 ed il 1603. Partirono per Praga raffinati dipinti, di cui l’imperatore ammirava l’invenzione, come il Cupido che fabbrica l’arco del Parmigianino, ora a Vienna (Kunsthistorisches Museum), insieme alla sensuale serie degli Amori di Giove di Correggio, cui appartengono la Danae, ora a Roma nella Galleria Borghese, la Leda di Berlino e i viennesi Giove e Io e Ratto di Ganimede, inseguito per vent’anni da Khevenhüller per la brama di Rodolfo. Cupido che fabbrica l’arco, del Parmigianino, databile al 1533-1535 circa, stando al Vasari, venne commissionata da cavalier Francesco Baiardo, amico e patrono del Parmigianino. L’opera ereditata da Marcantonio Cavalca, in seguito passò ad Antonio Pérez, segretario di Stato di Filippo II di Spagna. Nel 1579 Pérez cadde in disgrazia e, dopo essere stato condannato a pagare una forte multa, dovette vendere il dipinto, attirando l’interesse del conte Khevenhiller, intermediario per Rodolfo II. L’opera, sequestrata, entrò nei beni della casa reale spagnola e solo dopo alcune trattative, tra il 1601 e il 1603, fu acquistata dal conte, per Rodolfo, assieme agli Amori di Giove del Correggio, in tutto quattro dipinti: Ganimede e l’aquila, Leda e il cigno, Danae e Giove ed Io. La prima testimonianza su questa serie di dipinti fu quella del Vasari, che ricordò come Federico Gonzaga aveva commissionato due dipinti a Correggio da donare all’imperatore, Carlo V, in occasione del suo viaggio in Italia del 1530. Secondo studi più recenti, il ciclo degli Amori di Giove potrebbe essere stato realizzato per la Sala di Ovidio in Palazzo Te a Mantova, destinata all’amante del duca, Isabella Boschetti. Nel Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura, edito a Milano nel 1584, Lomazzo scrisse di aver visto i dipinti

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di Correggio che ritraevano Giove e Io e la Danae nella collezione d’arte dello scultore Leone Leoni. Ancora non è chiaro come fossero giunte nella collezione milanese: c’è chi sostiene che le tele furono regalate a Leone da Filippo II, figlio di Carlo V; chi suppone che i quadri furono acquistati dal collezionista direttamente dal Correggio; chi infine dice che le tele, di proprietà di un favorito di Filippo II, Pérez, vennero acquistate da Leoni dopo la sua caduta in disgrazia. Di sicuro nel 1601 il figlio di Leoni, Pompeo, si accordò con l’ambasciatore di Rodolfo II per vendere le tele della Danae e di Giove e Io, che presero la strada per Praga nel 1603. La straordinaria collezione di Rodolfo, in parte è andata persa; sono sopravvissute le opere trasportate a Vienna già nel 1612 alla sua morte, fra queste Giove ed Io e il Ratto di Ganimede di Correggio e l’autoritratto allo specchio e Cupido che fabbrica l’arco di Parmigianino. Nel 1648, all’indomani di una strenua seppur vana resistenza alle truppe svedesi del conte von Königsmarck, che depredarono Praga, il generale torturò il tesoriere Dionysio Miseroni per ottenere le chiavi della Kunstkammer con l’inventario redatto nel 1647, oltre a farne compilare un altro. Sembra che il terribile Sacco del 1648 fu innescato proprio per ottenere le raccolte di Rodolfo II, per la figlia del re Gustavo II Adolfo, Cristina di Svezia. Di questo gruppo facevano parte la Danae e la Leda di Correggio. Dopo l’abdicazione e la conversione, nel 1655 Cristina si trasferì a Roma, a palazzo Riario alla Lungara, insieme alla raccolta, con cinquantasette quadri del lotto praghese, soprattutto Correggio e veneziani; gli altri dipinti, rimasti a Stoccolma, andarono distrutti durante gli incendi del 1697 e del 1702.

Marisa Milella: Dal 1979 al 2016 Storico dell’Arte Direttore Coordinatore del Ministero per i Beni e le attività Culturali ed il Turismo, ha ricoperto diversi incarichi fra i quali Direttore del Castello di Copertino (LE), responsabile del settore Mostre ed eventi. Docente in master post universitari di management dei beni culturali, ha curato mostre a livello nazionale ed internazionale. Dal 2016 vive a Praga. marisa.milella@gmail.com 37


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ARTE E DESIGN

Franco Maria Ricci

Designer, collezionista, editore ed ideatore di labirinti

A cura di Stefania Del Monte

Franco Maria Ricci è una delle personalità più complete e complesse del panorama artistico italiano. Nasce nel 1937 a Parma e in questa città inizia la sua attività nel 1963 come artista grafico. Progetta marchi, manifesti, pubblicazioni aziendali e intanto studia l’opera, i caratteri, lo stile di Giambattista Bodoni. L’interesse e lo studio di Bodoni lo portano alla decisione di ristampare la sua opera fondamentale: il Manuale Tipografico. Con questi tre volumi tirati in 900 esemplari numerati nasce, nel 1965, la casa editrice Franco Maria Ricci. Negli anni successivi Ricci crea le sue collane: Quadreria, Segni dell’Uomo, La Biblioteca di Babele (diretta da Borges), Grand Tour, Signorie, Principati e Antichi Stati d’Italia, le Guide Impossibili. Nel 1982 dà vita alla rivista d’arte che lo ha reso celebre nel mondo, FMR, di cui lascia la direzione nel 2004, per dedicare gran parte del suo tempo alla costruzione di un labirinto nella campagna parmense, aperto al pubblico il 28 maggio 2015.

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Nato a Parma e innamorato del manierismo. Cos’altro la lega alla sua città? Sia la città sia il territorio circostante sono ricchi di bellezze artistiche e architettoniche, che spesso ho mostrato anche nei miei volumi. È proprio questo tessuto di piccole città e borghi che circondano Parma, ognuno con una sua identità, un suo capolavoro, come la Rocca di Fontanellato con la camera di Diana e Atteone interamente affrescata dal Parmigianino o la rocca Meli Lupi di Soragna, con la sua galleria dei ritratti, a legarmi a questi luoghi. Rimanendo in tema di manierismo, nel XVI secolo, grazie a Rodolfo II, Praga ne divenne il maggiore centro europeo. Ha mai visitato la capitale boema? Se sì, cosa l’ha colpita di più? Sono stato a Praga ma più che un singolo luogo mi ha colpito l’atmosfera della città, che nel corso del tempo ha attirato moltissimi artisti. Uno che mi piace ricordare e a cui ho dato spazio sulle pagine della mia FMR è Adolf Kohn, pittore autodidatta che nelle sue piccole tele non si stancò di raffigurare il ghetto di Praga, con le sue case, le sinagoghe, gli abbaini, le tegole, gli empori con le loro merci espanse sui marciapiedi… Aiutati dalla sua arte modesta, ci addentriamo nel vuoto scenario dove, tra artigiani, finanzieri e rabbini, il Golem, patriarca dei robot, visse la sua vita, non meno effimera ed enigmatica della nostra. Prima di entrare nel mondo del lavoro si era dedicato allo studio della geologia. Dopo la laurea, però, ha intrapreso la carriera di editore ed artista grafico. Come mai questo cambio di direzione? Tornato da un viaggio in medio oriente, un apprendistato in una compagnia petrolifera per cui lavoravo, fui coinvolto da alcuni amici nell’organizzazione del Festival del Teatro

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Abitazione di Franco Maria Ricci a Fontanellato. Nella fotografia sono visibili Fedor Scialjapin nelle vesti di Don Chisciotte di Charles Adolphe Huard, Ballerina in marmi policromi e danzatrici crisoelefantine Deco. Foto di Massimo Listri 41


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Abitazione di Franco Maria Ricci a Fontanellato. Nella fotografia sono visibili alcuni pezzi della collezione. 43 Foto di Massimo Listri


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Universitario. Erano gli anni Sessanta, partecipavano al Festival tutte le università europee: Praga, Parigi, Lisbona… I miei amici vollero che mi occupassi della pubblicità e dell’immagine del Teatro e io lo feci. Il vero punto di svolta fu, però, nel 1963. Occupandomi di grafica e di tipografia e abitando a Parma, l’incontro con l’opera di Bodoni fu inevitabile e fu un vero e proprio colpo di fulmine. All’inaugurazione del Museo Bodoniano ebbi l’occasione di vedere il Manuale Tipografico, e proprio in quell’occasione decisi di ristamparlo, intraprendendo così la carriera di editore. Come si è collocata la sua attività editoriale nell’Italia della Transavanguardia, caratterizzata da mode espressive in continua evoluzione? Con i miei libri ho codificato uno stile poi ripreso e copiato da molti altri editori. L’attenzione a tesori sconosciuti e inediti, la precisione nei dettagli, l’accurata scelta delle immagini, rese ancora più incisive dall’impiego del nero, che dà risalto alle opere… Oggi sembrano cose naturali ma all’inizio furono una vera scoperta. E poi la dedizione ai progetti di cui mi occupo. Allora come oggi l’editoria è un mondo frenetico, specie quando si parla di internet; nella mia casa editrice un singolo libro è sempre stato frutto di un lavoro che dura molti mesi… in alcuni casi anni! Nella sua biografia viene definito “un collezionista accanito, la cui passione è in grado di unire le epoche e i luoghi più disparati”. Le sue pubblicazioni spaziano dal Rinascimento al Barocco, dall’Europa cristiana alle Indie orientali ed occidentali. Se potesse scegliere un luogo ed un’epoca in cui vivere, quali sarebbero? Sono un Neoclassico nel gusto e nello spirito, quindi forse sceglierei la Parma di fine Settecento, quando la città diventa un laboratorio ricco di presenze importanti: per circa mezzo secolo un architetto come Alexandre Petitot, oltre a insegnare all’Accademia di Belle Arti, operò direttamente sul tessuto urbano della città, e Bodoni, sublime tipografo, lavorava alla corte ducale, mentre Boudard cambiava il volto dei giardini ducali. Nel 2005, in collaborazione con l’architetto Pier Carlo Bontempi, ha avviato la costruzione di un labirinto nella campagna parmense. Qual è lo scopo del progetto? Il Labirinto della Masone è molte cose e io e i miei collaboratori facciamo di tutto perché diventi ogni giorno più versatile: luogo di svago e meta del weekend per un Teseo di oggi, magari con famiglia, Museo, Biblioteca, casa editrice

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(l’equivalente moderno e computerizzato di quegli “scriptoria” del Medioevo da cui uscivano meravigliosi codici miniati), luogo di ristoro, ma anche cuore popolare e piazza di uno borgo immaginario fatto di molti borghi, attivo e pulsante di vita. Al di là delle circostanze che hanno presieduto alla sua nascita, e che ho raccontato molte volte, questo miscuglio regolato di vegetazione e architettura, di opere d’arte, di libri, di percorsi destinati a suscitare perplessità, è nato, credo, da un desiderio profondo che mi ha accompagnato sin da giovane: diventare un luogo. Ho sempre voluto che le mie case, nel senso più lato del termine, i miei uffici, le librerie, tutti i luoghi che ho disegnato e arredato, sparsi per il mondo, rispecchiassero le mie inclinazioni estetiche, la mia attenzione per la forma, il mio stile (giacché credo di averne uno). E così è accaduto anche in questo caso; insomma “le Labyrinthe c’est moi”; ma ovviamente è anche un lascito, visto che durerà più di me. La Fondazione Franco Maria Ricci, cui il Labirinto appartiene e che ha il compito di garantirne la continuità, ha un suo Statuto che individua due scopi: custodire e promuovere la conoscenza delle opere custodite nel Museo e nella Biblioteca, oltre che la difesa e il restauro ambientale della Pianura padana. Una Pianura che è uno scrigno di bellezze ma che, posseduta dal demone dell’operosità, in anni recenti si era un po’ trascurata, si era lasciata andare. Geologo, grafico, editore, collezionista, ideatore di labirinti. Quale di queste definizioni la rappresenta meglio? Forse nessuna di queste. Un neoclassico: così qualcuno mi ha definito ed è una definizione che accetto e faccio mia; sono convinto che la bellezza futura possa germogliare solo da quella che ci è stata trasmessa. Custodirla, averne cura è il nostro primo dovere. È stata questa tensione alla ricerca della bellezza che ha sempre guidato il mio cammino. Così come Bodoni, vorrei poter dire “Je ne veux que du magnifique, je ne travaille pas pour le voulgaire”. Per informazioni: francomariaricci.com labirintodifrancomariaricci.it

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STORIA E LEGGENDE

Diofebo IV Meli Lupi

Principe di Soragna

A cura di Stefania Del Monte

Diofebo VI Meli Lupi è uno degli uomini più titolati d’Europa. È, infatti, Principe del Sacro Romano Impero e di Soragna, Marchese, Grande di Spagna, Conte PalatinoPatrizio Veneto, Nobile di Bologna, Cavaliere d’Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, Gran Cancelliere dell’ordine Costantiniano di San Giorgio. E la lista non finisce qui ma prosegue in una lunghissima sequenza di titoli, alla fine della quale c’è anche il dottorato in Economia, conseguito alla Bocconi di Milano. La Rocca di Soragna, in provincia di Parma, è la dimora della sua famiglia fin dal 1300: un’antica fortezza trasformata, nei secoli, in una sfarzosa residenza nobiliare con oltre cento stanze, arricchite da innumerevoli opere d’arte di inestimabile valore.

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La Rocca di Soragna ha un’origine molto antica ed appartiene alla sua famiglia da sempre. Qual è la sua storia? Sì, la Rocca è un maniero medievale, trasformato in residenza nobiliare fra il 16° ed il 19° secolo. Il primo castello difensivo della zona fu edificato nel 985 da Adalberto I, figlio di Oberto I Obertenghi, al quale nel 962 l’imperatore del Sacro Romano Impero, Ottone I di Sassonia, aveva concesso le terre comprese tra Soragna e Busseto. Nel 1077 il re d’Italia, Enrico IV di Franconia, investì Ugo e Folco I d’Este di parte del territorio di Soragna che, nel 1090, fu assegnata a Folco. Negli anni successivi il marchese Oberto Pallavicino, detto Pelavicino, forse attraverso qualche permuta e concordato con gli Estensi, rimase l’unico feudatario. Nel 1145 Oberto cedette tutte le corti che possedeva nel parmense al Comune di Piacenza, che lo investì ufficialmente di quei feudi in cambio del giuramento di vassallaggio. Nel 1186 la fortezza subì un attacco congiunto da parte dei guelfi parmigiani e cremonesi i quali, durante gli scontri contro piacentini e borghigiani, distrussero il maniero; i diritti sulla signoria furono tuttavia confermati ai Pallavicino quando, nel 1189, il marchese Oberto ne fu insignito dall’imperatore Federico Barbarossa. Nel 1198 un matrimonio consentì alla famiglia Lupi di entrare in possesso del feudo e di avviare i lavori di ricostruzione del castello, detto Castrum Novum per distinguerlo dal Castrum Vetus della Castellina, ancora appartenente ai Pallavicino. Ugo, Sopramonte, Rolando e Guido Lupi ereditarono i beni paterni nel 1237. Nel 1347 le truppe di Luchino Visconti si spinsero nel parmense e, a Soragna, espugnarono e distrussero la fortezza; Ugolotto e Raimondino Lupi si rivolsero all’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, il quale li investì del feudo di Soragna, elevato al rango di marchesato imperiale, e delle terre di Castione. Nel 1513 il marchese Diofebo Lupi, privo di figli, designò come erede il giovanissimo pronipote Giampaolo I Meli, nipote di sua sorella Caterina; l’anno seguente, dopo la sua morte, il nipote Giambattista Meli prese possesso di Soragna per conto del figlio. Nel 1709 l’imperatore Giuseppe I d’Asburgo elevò il marchesato a principato del Sacro Romano Impero; i Meli Lupi arricchirono ulteriormente il castello, incaricando dei lavori gli architetti Angelo Rasori, nel 18° secolo, e Antonio Tomba nel 19°. Nel 1805 il principato di Soragna fu soppresso in seguito agli editti napoleonici ma la mia famiglia mantenne la proprietà della Rocca.

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Scalone d’onore, Rocca Meli Lupi di Soragna


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Il feudo di Soragna, quindi, fu elevato a marchesato nel 1347 ed assegnato a Ugolotto Lupi da parte dell’imperatore Carlo IV. Esiste, pertanto, un legame profondo tra Soragna e la Boemia? Certamente! L’investitura da parte di Carlo IV di Boemia nei confronti di Ugolotto e Raimondino Lupi venne ufficializzata il 21 settembre 1347: ad essi vennero riconosciuti dall’imperatore, con diploma emesso a Praga, i diritti feudali di marchesi di Soragna e Castione, incluso il diritto di podestà di spada sui feudi, nonché il diritto di battere moneta, di amministrare la giustizia e di condannare chiunque trasgredisse le leggi del feudo. Questo fu un modo, per i Lupi, di assicurarsi la protezione imperiale per conseguire il recupero di quelle terre e, per l’Imperatore, di favorire i Lupi perché combattevano i Guelfi, all’epoca suoi nemici. La Rocca vanta un patrimonio artistico e culturale di valore inestimabile. Tra le opere qui conservate, ve ne è qualcuna che occupa un posto speciale nel suo cuore? Ognuna delle stanze della Rocca, ed ogni opera in esse contenuta, può essere apprezzata per un motivo diverso. Una delle mie favorite è la Sala del Baglione, detta anche Sala delle Grottesche, caratterizzata dagli affreschi rinascimentali a grottesche, appunto, che ricoprono interamente le pareti e la volta del soffitto; in perfetto stato di conservazione, i dipinti furono realizzati nel 1580 dal pittore Cesare Baglione, che si ispirò alle tipiche decorazioni parietali di epoca augustea. Vi sono raffigurati – in un itinerario filosofico che parte dalla rappresentazione del nulla assoluto e, attraverso l’evoluzione degli elementi, giunge fino al viaggio dell’uomo verso la conoscenza – figure maschili e femminili, talvolta ibride e mostruose, animali esotici ed immaginari, strumenti e stemmi, oltre a piccoli cammei di paesaggi nelle lunette; al centro della volta, campeggia in un riquadro il grande emblema dei Farnese. La sala è, inoltre, arricchita dal grande camino in pietra e dall’arredamento antico, costituito da cassapanche

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La Sala delle Grottesche (dettaglio)


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risalenti ad epoche varie, tavoli a fratina e sedie; di pregio risulta, infine, una nicchia chiusa da due ante lignee dipinte a grottesche, che si ipotizza fosse originariamente utilizzata come altare, in quanto decorata internamente con motivi religiosi. Un’altra stanza molto bella è la Sala del Trono, dove venne nominato il Principe di Soragna e dalla quale sono passati, nel corso dei secoli, sovrani, ambasciatori e tantissimi altri protagonisti della storia d’Europa. Qui l’ambiente è solenne, decorato sulle pareti con broccati e velluti pregiati e dominato da un enorme baldacchino, riccamente intagliato e dorato, da cui scendono drappeggi rossi; al di sotto sono collocate due maestose poltrone barocche realizzate da Ottavio Calderoni, che in origine fungevano da troni, anch’esse laccate in oro ed ornate con velluti. I mobili, di fattura veneziana, giunsero a Soragna per via fluviale attraverso il Po, fino al porto di Polesine Parmense, e poi via terra fino alla Rocca. Da menzionare anche la Camera Nuziale, anch’essa decorata con mobili veneziani. L’ambiente è rivestito sulle pareti da tessuti pregiati e decorato sulla volta da affreschi di Giovanni Bolla e Leonardo Clerici, inquadrati da un’elaborata cornice in stucco dorato realizzata da Giacomo Mercoli; l’elevata ricchezza decorativa contraddistingue in particolare l’alcova con soffitto dipinto, separata dal resto della sala da un cancelletto finemente intagliato e laccato in oro e da un’ampia arcata ornata con una cornice lignea intagliata e dorata, realizzata da Giuseppe Bosi nel 1701. Vi è anche una ricchissima biblioteca... Sì, si tratta di una biblioteca contenente sedicimila volumi e documenti storici a partire dal 1033. È suddivisa in vari settori: da quelli contenenti libri di storia o viaggi, alla parte più pertinente alla Rocca, di cui si conserva l’intero archivio documentale e “contabile”. Come qualsiasi castello che si rispetti, anche Soragna ha il suo fantasma: quello di Donna Cenerina. Chi era, realmente? Come e quando si manifesta? Il fantasma è una mia antenata, Cassandra Marinoni, vissuta nel 16° secolo. Ho scoperto la sua presenza in casa da bambino e, da allora, mi appare spesso, mi parla e mi consiglia: sento che mi protegge. Una volta mi ha anche salvato la vita. Correvo in moto e stavo finendo in un burrone ma lei è intervenuta, fermando la mia corsa sull’orlo del precipizio. Solo quando in famiglia stanno per accadere delle disgrazie, diventa nervosa, e allora sono guai. È accaduto alla morte di mio padre e alla morte di mia madre.

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E accade anche quando, nella Rocca, pernottano ospiti a lei non graditi. Se una persona entra nella sua casa e, per qualche motivo, non le piace, Donna Cenerina è capace di scatenare un vero inferno: le porte sbattono, i vetri vanno in frantumi, un vento gelido attraversa i corridoi anche se le imposte sono chiuse, si sentono colpi sulle pareti simili a detonazioni di armi da fuoco. Insomma, coloro che non piacciono a Donna Cenerina trascorrono, alla Rocca, una notte da incubo e spesso, al mattino presto, se ne vanno di corsa. Solo allora, tutto ritorna alla normalità. Molti penseranno che abbia le allucinazioni ma, per me, il fantasma di Donna Cenerina esiste davvero. Cassandra era la moglie del marchese Diofebo II Meli Lupi e venne assassinata dal cognato Giulio Anguissola nel 1573. Da allora, il suo spirito vaga per le stanze della Rocca. In famiglia, abbiamo sempre chiamato il fantasma “Donna Cenerina”, perché nelle sue apparizioni ha un colore cinereo. La Rocca è aperta al pubblico? Sì, il castello è aperto al pubblico e fa parte del circuito dell’Associazione dei Castelli del Ducato di Parma e Piacenza. È possibile visitare, oltre al cortile centrale col porticato, una quindicina di stanze, tra le quali quelle precedentemente menzionate: la Sala del Baglione, la Sala del Trono e la Camera Nuziale. Oltre a visitare la Rocca come turisti, è possibile organizzarvi eventi, congressi, conferenze, concerti e anche matrimoni. Per informazioni: roccadisoragna.it

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GASTRONOMIA

Parma da gustare

Un viaggio nella “città creativa per la gastronomia”

A cura di Raffaele De Pascalis

Con una lunghezza di 1300 km e una estensione costiera di 7456 km, l’Italia sviluppa in questi numeri l’unicità della sua ricchezza, fatta di arte, architettura, bellezze naturali e, non ultimi per importanza, vini e gastronomia: tutte peculiarità che vanno, in molti casi, a rappresentare le “eccellenze” di questo territorio e che trovano la loro singolare espressione in ognuna delle venti regioni che la compongono. In questo interessante mix geografico, le tradizioni popolari e la “cultura del cibo” hanno un ruolo importantissimo per conoscere e meglio comprendere la storia di questo Paese. Ogni regione, ogni provincia, ogni piccola comunità ha conservato, nella maggior parte dei casi, le proprie tradizioni che sono arrivate intatte ai giorni nostri. La gastronomia e la produzione vinicola hanno assunto, in questo, un ruolo che va oltre il “semplice” aspetto divulgativo e del gusto diventando, in molti casi, una espressione sociologica e culturale.

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La creatività è l’espressione che maggiormente caratterizza questo territorio: la si può ritrovare in monumenti imperdibili, gallerie d’arte, palazzi storici, manifestazioni culturali, non è esagerato dire che ovunque il nostro occhio si poggi si possono cogliere aspetti creativi. Una città si può definire “creativa” per tanti buoni motivi, non ultima per la sua cucina; almeno in Italia, dove il patrimonio alimentare è parte integrante (e fondamentale) dell’identità culturale di territori, regioni, province e persino città. Con queste premesse Parma, che già da tempo era stata definita la “capitale della Food valley” e universalmente conosciuta per la capacità di custodire un’eredità gastronomica senza rivali, che regala al mondo prodotti come il Parmigiano Reggiano o il celebre “crudo di Parma”, nel 2015 ha ricevuto il riconoscimento ufficiale dell’UNESCO di “Città creativa per la gastronomia”, affidandole così un marchio che sarà importante volano per il comparto turistico locale, e che è arrivato proprio in coincidenza dei festeggiamenti per i 2200 anni di storia della città, che si protrarranno con numerosi eventi durante tutto il 2017. Nell’elegante cittadina emiliana – e nell’Italia intera – nessuno discute un ruolo conquistato nei secoli e confermato ogni giorno dal lavoro di aziende all’avanguardia che operano nella “valle dei golosi” per garantire prodotti certificati di alta qualità; il riconoscimento è arrivato dopo la candidatura ufficiale avanzata da Parigi e dopo una lotta che potremmo definire “all’ultimo boccone” con altre rivali, in cui la città emiliana ha sfoderato le sue armi migliori: eccellenze gastronomiche famose in tutto il mondo e una rete di aziende e di consorzi di produttori capaci di fare squadra. È giusto anche ricordare che qui hanno sede l’EFSA (European Food Safety Authority), l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, e Alma, la Scuola di cucina internazionale che ha come rettore Gualtiero Marchesi. Unanimemente considerato il fondatore della “nuova cucina italiana” Marchesi, a parere di molti, è lo chef italiano più noto nel mondo e colui che ha contribuito allo sviluppo della cultura culinaria italiana portandola a diventare una delle più importanti del pianeta. Altro fiore all’occhiello, un sistema unico di Musei del cibo ed un colosso come Barilla, che ha aperto qui la sua Accademia: un complesso che ospita un istituto culinario ed una biblioteca gastronomica di oltre 8500 volumi e 4750 menu storici. Proprio quest’anno, i festeggiamenti a Parma si estendono anche ai 140 anni di Barilla: una importante realtà nel campo alimentare, nata a Parma nel 1877 come bottega di pane e pasta e divenuta oggi leader mondiale nel

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settore. In occasione della ricorrenza, l’azienda ha organizzato una visita nei campi di coltivazione di grano duro a fianco del quartier generale di Pedrignano. A fare da guida il vicepresidente del Gruppo, Paolo Barilla, che ha dichiarato in una intervista: “Oggi abbiamo molte più informazioni e competenze per capire e migliorare il prodotto dalle origini della materia prima nel campo di coltivazione fino all’impatto sul benessere degli individui, inteso come piacere gastronomico ed effetto sulla salute. Siamo consapevoli che tutto può essere migliorato ed è questo che ci dà entusiasmo per continuare a lavorare con passione”. Oggi Barilla è una realtà composta da 28 sedi produttive (14 in Italia e 14 all’estero) che esporta in oltre 100 Paesi con un fatturato, nell’anno 2016, di 3,413 miliardi di euro e con oltre 8mila dipendenti. “Un unico modo di fare impresa ispirato al benessere delle persone e dell’ambiente: Good for you, Good for the Planet”. La visibilità data dalla importante nomina da parte dell’UNESCO e delle sue “città creative” aiuterà non solo Parma, ma tutto l’agroalimentare italiano per contrastare anche quei fenomeni di “Italian sounding” che fanno delle nostre produzioni tipiche le più imitate al mondo. Ma proviamo a scoprire e a conoscere alcune delle “eccellenze” parmigiane.

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Iniziare la nostra breve passeggiata nella gastronomia parmigiana con quello che viene definito il “Re dei formaggi” è quasi un obbligo, un diritto acquisito di questo nobile prodotto: il “Parmigiano Reggiano” che ha anche nei suoi numeri i punti di forza, con 3.469.865 forme prodotte nel 2016, pari a 139.680 tonnellate, di cui 49.800 esportate in tutto il mondo; 50mila persone coinvolte nella filiera produttiva, circa il 15,8% della produzione nazionale di latte, 2010 milioni di euro, stima del giro d’affari al consumo (produzione 2014, venduta in 2016); 14 litri di latte per produrre 1 kg di formaggio, 550 litri per una forma dal peso medio di 40 kg. A seguire, ma sempre a pari merito, è la produzione di salumi ed insaccati, realizzati con le stesse tecniche artigianali di una volta. Il “Crudo di Parma”, che deve la sua qualità alla speciale stagionatura sulle ventose colline di Langhirano, segue i severi controlli del “Consorzio del Prosciutto di Parma”, che nasce per garantire quell’inconfondibile dolcezza al prodotto. Perseguendo questa finalità, il Consorzio, ha dettato alle aziende produttrici una precisa metodologia, nel pieno rispetto della tradizione: il Prosciutto di Parma deve superare con successo tutte le fasi di produzione che si concludono con “l’incoronazione” a fuoco del ben noto marchio. Una condizione essenziale per ottenere il

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Prosciutto di Parma è che l’intera lavorazione avvenga in un’area estremamente limitata, che comprende il territorio della provincia di Parma posto a Sud della via Emilia, a distanza di almeno 5 Km da questa, fino ad un’altitudine di 900 metri, delimitato a Est dal fiume Enza e a Ovest dal torrente Stirone. Solo in quest’area hanno luogo tutte le condizioni climatiche ideali per l’asciugatura, ossia la stagionatura naturale che darà dolcezza e gusto al prosciutto. La corona ducale impressa a fuoco contraddistingue il Prosciutto di Parma, ma non è l’unico marchio presente sulla cotenna. La qualità del prodotto DOP è garantita dalla firma lasciata da ogni componente della filiera, in modo che si possa in qualsiasi momento risalire e verificare tutti i passaggi della catena produttiva. Un attento esame rivelerà, quindi, tutto il percorso di ogni singola coscia. Tra re dei formaggi e re dei salumi, il nostro percorso gastronomico prosegue e si arricchisce di sapori e profumi, come quello del Culatello di Zibello – che richiama agli umidi profumi delle terre golenali del Po – del salame di Felino e della Spalla Cotta di San Secondo; specialità spesso accompagnate alla torta fritta – una speciale sfoglia di acqua e farina a forma rettangolare, soffice e croccante al tempo stesso – e che vanno gustate bevendo dell’ottimo Lambrusco. Nascono così i piatti più tipici, i cappelletti o agnolini in brodo di cappone e i tortelli d’erbetta o di zucca, mentre fra i secondi piatti è ancora in voga la trippa alla parmigiana e la “vécia”, una peperonata con patate e carne tritata di cavallo. Dalle zone di montagna arrivano le delizie del sottobosco, fra cui i Funghi di Borgotaro Dop, ottimi con il rosso “Fortana del Taro Igt”, un antico vitigno autoctono della Bassa Parmense. Ecco spiegato, forse, il motivo, per cui in questo meraviglioso e profumatissimo scenario si collocano alcune tra le più importanti aziende e consorzi presenti sul territorio italiano. Tanti i nomi, tra cui spiccano i già menzionati consorzi del prosciutto e del parmigiano reggiano e la Barilla, a cui si aggiungono importanti aziende come la Mutti, leader da oltre 100 anni nella lavorazione del pomodoro. L’eredità dell’azienda affonda le sue radici nel lontano fine ‘800, nel cuore dell’Emilia, dove la famiglia Mutti si dedica alla lavorazione del pomodoro: una passione fondata solo sul prodotto italiano. È un’azienda con radici antiche, ma che ha sempre guardato al futuro. La sua storia e il suo successo sono infatti legati ad una visione imprenditoriale forte: cambiare i paradigmi della categoria del pomodoro, pilastro della cultura gastronomica italiana, attraverso una tenace politica di qualità in un settore prevalentemente orientato alla produzione massiva. Mutti crede che

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il pomodoro debba essere considerato come frutto della profonda unione tra uomini e territorio. Le coltivazioni nascono intorno all’azienda, fino a una distanza media di 130 chilometri, perché ogni raccolto possa andare direttamente dalla pianta alla filiera di lavorazione, senza perdere in gusto e integrità. Tutto il ciclo di produzione viene regolato dalla “legge della freschezza”, che rispetta le tempistiche naturali. La filosofia dell’azienda sostiene un percorso di affiancamento, di supporto e di cooperazione con i propri fornitori. Gli agricoltori sono accompagnati, consigliati e seguiti e si lavora per migliorare anche le loro performance (e quindi anche la redditività dell’agricoltore). Insomma, un’azienda con lo sguardo costantemente rivolto al futuro ed alla sostenibilità; infatti, dal 2001 l’azienda osserva un rigido protocollo “Non OGM” e, grazie alla consolidata partnership con il WWF, attiva dal 2010, ed al monitoraggio dell’impronta idrica, condotto dal Centro Euro Mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), ha raggiunto importanti risultati. Il traguardo fissato nel 2010, ossia la riduzione dell’impronta idrica della filiera Mutti del 3%, non soltanto è stato raggiunto, ma superato raggiungendo il 4,6%. Inoltre, con l’adozione di misure di efficienza messe in atto dall’Azienda e all’utilizzo di energie rinnovabili è stata evitata, tra il 2010 e il 2015, l’immissione in atmosfera di 20.000 ton di CO2. Nel 2015, Mutti ha così raggiunto un obiettivo di riduzione delle emissioni del 27%, rispetto al 2009, per unità di prodotto. Questo “viaggio” nella gastronomia parmense è solo una breve parentesi di quanto questo territorio offra all’Italia ed al mondo in fatto di gusto e creatività, e non si può certo concludere in poche righe. Ogni giorno migliaia di persone e decine di aziende lavorano perché ci sia sulle nostre tavole un prodotto di qualità, nel rispetto della natura e dei suoi tempi produttivi. Ed è sicuramente anche questo che rende unica e ricercatissima nel mondo la proposta agroalimentare italiana e, soprattutto, parmense.

Raffaele De Pascalis, originario del Salento, è architetto e fotografo e tratta principalmente temi ambientali e bio-architettura. Trasferitosi a Praga di recente, qui si dedica ad un’altra sua grande passione: l’enogastronomia. raffaeledepascalis@gmail.com 61


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DOLCI

La spongata di Busseto e le scarpette di Sant’Ilario

Nella capitale dei buongustai, il dolce non può mancare

A cura di Alessia Moretti

Ogni qualvolta che si pronuncia il nome “Parma” la maggior parte delle persone pensa al prosciutto, oppure al parmigiano. È una corrispondenza sensoriale e di tradizioni che nasce spontanea nella mente di tutti, anche di coloro che non sono nati in queste zone, o degli stranieri. Definita la “Capitale dei Buongustai” Parma – la “Food Valley“ d’Italia - fu designata nel 2003, da parte della Commissione Europea, sede permanente dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (ESFA).

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Rinomata per la sua produzione di salumi e formaggi, è una delle mete più riconosciute, a livello nazionale ed internazionale, per il turismo eno-gastronomico; ma se si chiede a qualcuno cosa siano, o se abbiano mai assaggiato, la Spongata di Busseto o le Scarpette di Sant’Ilario, allora la musica cambia: la corrispondenza sensoriale non è più così scontata e sono veramente poche le persone che riescono a fornire una risposta esauriente. La spongata (o spungata), per l’appunto, è un dolce natalizio tipico dei Comuni di confine nelle regioni dell’Emilia, Toscana e Liguria – Parma, Piacenza, Modena, Reggio Emilia, Massa Carrara. Il nome deriva, verosimilmente, dal termine “spongia” o “spugna”, proprio per l’aspetto spugnoso e irregolare della sua superficie, che viene “bucherellata” prima della cottura. Le sue origini sono probabilmente ebraiche e ne troviamo traccia anche nella storia di Milano, in cui si racconta che fu fatto dono di questo dolce al Duca Francesco Sforza nel 1454. Sono in molti a contendersi la ricetta contadina tradizionale, risalente ai primi del Trecento ma, in definitiva, la semplicità di questo impasto è la sua caratteristica principale e le differenze, nelle ricette dei vari comuni, sono veramente minime: un composto di mele e pere, pane tostato, frutta secca e frutta candita, spezie – cannella, chiodi di garofano, noce moscata – racchiuso all’interno di una pasta simil brisée estremamente croccante all’esterno e morbida dentro. Il tutto cotto nei tradizionali stampini di legno, che donano quella particolare forma irregolare. Un dolce difficile – se non impossibile – da trovare fuori da queste zone e preparato quasi esclusivamente durante le feste natalizie. Un qualcosa di “tipico della tradizione

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contadina” che ha trovato un suo posto nella classifica gastronomica, tra una forma di Parmigiano Reggiano ed un Culatello di Zibello. Altra storia sono invece le Scarpette di Sant’Ilario, il santo patrono di Parma, che si festeggia il 13 gennaio. La leggenda narra che un giorno d’inverno, Sant’Ilario, passando per Parma per andare a far visita al Papa, fu visto da un artigiano calzolaio camminare a piedi quasi nudi nella neve. Impietosito da quella vista, l’artigiano decise di regalare un paio di scarpe nuove al santo, affinché si riparasse dal freddo e dal ghiaccio. Il giorno dopo, aprendo la sua bottega, il calzolaio trovò un paio di scarpette d’oro, al posto di quelle donate come ringraziamento per il dono ricevuto. Ad oggi, in ricordo di quelle “scarpette” e di quel miracolo, durante le festività i parmensi gustano dei biscotti di pasta frolla, glassati e decorati, accompagnandoli con un vino Malvasia. Un impasto di burro, uova, zucchero, farina, niente di più. Dolci semplici, basici – come mi piace definirli – ma dal sapore antico. Sebbene questi dolci non siano “famosi” come gli altri cibi “compaesani” e non richiedano particolari lavorazioni, tempi di stagionatura o specifici accorgimenti, meritano comunque di essere conosciuti ed assaggiati. Tutto ciò che riguarda la tradizione culinaria e anche dolciaria tramandata nelle leggende e nei racconti popolari, deve essere conservato e custodito come un qualcosa di prezioso: il nostro Paese, così ricco di materie prime, variegato nel suo paesaggio e nel suo clima, tanto da renderlo unico nel suo genere, conserva in questo senso un patrimonio raro. Sono proprio queste storie che raccontano l’evoluzione di una terra e dei suoi abitanti: non a caso le spezie nella spongata furono aggiunte durante il Rinascimento. Storie che hanno accompagnato l’infanzia di tutti noi, facendoci emozionare, commuovere e sognare… magari proprio mentre mangiavamo una scarpetta di Sant’Ilario.

Alessia Moretti è una Pastry Chef di quarta generazione. Dopo una parentesi, a Roma, nel settore immobiliare, si è trasferita a Praga quattro anni fa, tornando alla sua vecchia passione e fondando Favole di Dolci. www.favoledidolci.eu 66


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LIFESTYLE

Acqua di Parma Storia di un’icona

Nel 1916, in un piccolo laboratorio di essenze nell’antico cuore di Parma – capitale del savoir-vivre ai tempi di Verdi e Maria Luigia, città d’arte, colta e aristocratica, tanto amata da Stendhal – Carlo Magnani, uomo di grande eleganza e raffinatezza, erede di un’aristocratica famiglia di Parma, coadiuvato da abili maestri profumieri, diede vita ad una nuova fragranza, insolitamente fresca e moderna rispetto ai profumi forti di origine tedesca, allora così popolari. Nacque così la prima, vera Colonia italiana, espressione di una nuova sensibilità.

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A colpire, ancora oggi, è la purezza della fragranza, che nasce da ingredienti esclusivamente naturali. Con una composizione immutata nel tempo, Acqua di Parma acquisisce sempre maggiore popolarità. Negli anni Trenta nacque l’attuale ed iconico flacone di ispirazione Art Déco e Colonia divenne “il” profumo dell’epoca. Il successo internazionale arrivò negli anni Cinquanta, grazie ai divi hollywoodiani che, chiamati in Italia dai grandi maestri del cinema nostrano, scoprirono Colonia nelle raffinate sartorie artigianali, dove era accessorio inconfondibile di stile ed eleganza italiani. Negli anni Sessanta, con il moltiplicarsi delle proposte, cambiarono le tendenze nel mondo dei profumi, ma Acqua di Parma continuò ad esercitare il suo appeal su un pubblico di raffinati intenditori, diventando un profumo esclusivo dell’alta società. Nel 1993 Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Paolo Borgomanero investirono nel marchio, uniti dal desiderio di salvaguardare un’antica tradizione italiana. L’ ascesa fu rapida: dopo l’inaugurazione, nel 1998, della prima boutique Acqua di Parma in via del Gesù a Milano, accanto ai nomi più noti dell’alta moda e del prêt-à-porter, vennero aperti numerosi corner negli store più esclusivi di tutto il mondo. Intanto, il successo di Colonia portò al lancio di un’ampia gamma di prodotti contraddistinti dal marchio Acqua di Parma, tutti fedeli alle caratteristiche che negli anni ne avevano fatto un sinonimo di raffinatezza italiana. Nacquero nuove colonie, nuove linee di prodotti quali la prima fragranza femminile, Profumo, la linea Blu Mediterraneo, raffinati prodotti per la casa, articoli di pregiata pelletteria. Quest’evoluzione naturale ampliò progressivamente gli orizzonti di Acqua di Parma, che si affermò come marchio di lifestyle. Nel 2001, con l’ingresso di LVMH all’interno del centenario marchio italiano, si aprì un nuovo ed importante capitolo nella storia di Acqua di Parma. Il marchio gode tuttora di importante internazionalizzazione e traduce i suoi valori in linee e proposte nuove, che esprimono un inedito concetto di lusso contemporaneo. Il carattere distintivo di Acqua di Parma trova espressione anche attraverso la creazione di una linea di prodotti ed accessori per la rasatura dall’accurata manifattura, la nascita di un’esclusiva collezione di fragranze femminili, “Le Nobili”, e la costruzione di sempre nuovi tasselli di un autentico stile di vita, improntato ad un gusto e ad un’eccellenza artigianale tutte italiane, di cui lo storico marchio è portavoce nel mondo. Dal 2008 Acqua di Parma è entrata anche nel mondo delle SPA di Lusso. Tutte le sue linee continuano ad essere rigorosamente prodotte in Italia e distribuite in 36 paesi nel mondo.

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Acqua di Parma è ormai divenuta l’espressione di un saper vivere e un saper fare esclusivamente italiani, oltre che di un lusso discreto e mai ostentato, sempre vissuto in modo personale, che sa coniugare tradizione e contemporaneità. A definirlo sono dettagli sottili, riconoscibili solo dagli intenditori: selezione dei materiali, cura dei particolari, preziose manifatture, raffinatezza delle rifiniture a mano secondo tradizioni artigianali che si perpetuano da secoli e rivivono in chiave contemporanea. I prodotti sono ancora preparati con la stessa attenzione e sapiente lavorazione che ne hanno decretato il successo iniziale. Le fragranze sono create con le essenze e gli estratti più pregiati. L’iconico flacone, con le sue linee pure ispirate all’Art Déco, è realizzato a mano da sapienti artigiani del vetro ed è tuttora caratterizzato dal ricercato tappo nero in bachelite, il materiale utilizzato per produrre le manopole delle radio nei primi decenni del Novecento. Il confezionamento avviene ancora a mano, dove con gesti gentili e accurati l’etichetta è applicata su ogni flacone. Le belle scatole cilindriche delle confezioni - le inconfondibili cappelliere Acqua di Parma - sono realizzate artigianalmente e impreziosite da una goffratura manuale su cui è impresso lo scudetto regio. La carta è da sempre nel caratteristico Giallo Parma, quello stesso colore che dal 1700 contraddistingue le facciate dei più eleganti edifici parmensi. Anche le candele profumate sono create secondo meticolosi procedimenti artigianali, con l’utilizzo di cera naturale selezionata e miscelata ad essenze concentrate. Identica cura è dedicata agli accessori per la rasatura e agli articoli di pelletteria, dalle finissime cuciture e dai pregiati materiali, che si contraddistinguono per la preziosa lavorazione e i dettagli sofisticati.

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MODA

Sorelle Fontana

Da Parma, il primo marchio di alta moda italiana nel mondo

La storia delle Sorelle Fontana (Zoe, Micol e Giovanna), iniziò nei primi del novecento a Traversetolo, una piccola frazione di Parma. Seguendo la tradizione familiare, qui le tre sorelle vennero avviate dalla madre, Amabile Dalcò, al mestiere sartoriale. Diverse per molti aspetti, in comune avevano il desiderio di affermazione, il bisogno di spaziare, il sogno della conquista. La più grande, Zoe, decise un giorno di lasciare il paese natale per una grande città; indecisa tra il nord e il sud lasciò al destino la scelta: avrebbe preso il primo treno che transitava in stazione. Quel treno era diretto a Roma. Così, come ogni fiaba che si rispetti, iniziò l’avventura delle Sorelle Fontana.

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Il primo laboratorio venne aperto in Via Liguria, a Palazzo Orsini, nei pressi di Via Veneto. L’inizio fu difficile. La crescita dell’attività fu in parte ostacolata dalla guerra ma subito dopo, grazie al miglioramento dei commerci e allo sviluppo di Cinecittà, le sorelle Fontana riuscirono a lanciare il loro stile, fatto di corpetti stretti e morbide ed ampie gonne, col marchio “SF”. Un primo successo arrivò nel 1948 con l’attrice Myrna Loy, che nel film “Il caso di Lady Brook” indossava solo abiti Fontana. Tuttavia, la grande occasione fu portata alle sorelle dalla loro prima cliente importante: Gioia Marconi, la figlia del grande scienziato, che si fece confezionare una serie di abiti che riscossero successo, e questo significò la conquista di clienti dai nomi prestigiosi, come Linda Christian, che si affidò alle Sorelle Fontana per l’abito da sposa, in occasione del suo matrimonio a Roma con Tyron Power. Fu il matrimonio del secolo: cinegiornali e rotocalchi vennero invasi dalle immagini di questi due celebri personaggi. Arrivò così in America l’eco delle Sorelle Fontana, artefici di una moda italiana che era in concorrenza con quella francese, ormai affermata e molto costosa. Fra le clienti delle sorelle Fontana iniziarono ad apparire nomi quali le mogli dei presidenti Eisenhower, Truman e Kennedy, o le attrici Ava Gardner, Audrey Hepburn, Ingrid Bergman, Sophia Loren, Kim Novak, Grace Kelly, Anita Ekberg. Il matrimonio, l’abito bianco, divennero argomento principale per tutte le ragazze da marito. Subito dopo Linda Christian, Maria Pia di Savoia si fece confezionare l’abito nuziale dalle celebri sorelle mentre Margaret Truman, figlia del Presidente degli Stati Uniti, oltre l’abito da sposa si fece confezionare anche il corredo.

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La casa di moda continuò a crescere: nel 1955 venne aperta la prima boutique, nel 1960 iniziò la produzione in serie del pret-à-porter che impose l’apertura di un nuovo stabilimento. Dopo la morte di Zoe la produzione venne arricchita con accessori, profumi e valigeria. Le sorelle Fontana si possono annoverare tra le ideatrici della moda italiana e il loro successo è stato premiato con riconoscimenti nazionali ed internazionali e con una serie di importanti mostre in Italia e negli Usa. Per alcuni anni si occuparono anche di arte contemporanea, con una serie d’iniziative e premi. L’idea più originale e assolutamente innovativa fu quella di diffondere arte e moda tramite il tessuto stampato. Ad esempio, erano presenti nelle collezioni due abiti: il primo realizzato con tessuto stampato di Mocchetti, tratto dall’opera pittorica di Eliano Fantuzzi, e il secondo stampato da Bedetti e Bedraglio, che riprendeva un’opera di Nuvolo. Nel 1993 venne inaugurata la Fondazione Micol Fontana, un’associazione no-profit integrata ufficialmente nell’Albo degli Istituti Culturali della Regione Lazio e dichiarata “di notevole interesse storico” dal Ministero per i Beni Culturali. Con la Fondazione che porta il suo nome e di cui fu Presidente fino alla sua morte, nel 2015, Micol Fontana ha realizzato un progetto molto amato e perseguito con grande determinazione in omaggio ad una vita dedicata, con le sorelle Zoe e Giovanna, al mondo della Moda. Il grande patrimonio lasciato in eredità dall’Atelier Sorelle Fontana, costituito da abiti, figurini, biblioteca, emeroteca, fondo fotografico, ricami ed accessori, è infatti conservato nell’Archivio della Fondazione come memoria del passato, messo al servizio delle generazioni future attraverso l’organizzazione di visite, seminari, mostre ed incontri culturali.

Fonti: micolfontana.it comune.parma.it

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ITALIANI A PRAGA

Ottaviano Maria Razetto

Architetto e Vice Presidente della Fondazione Eleutheria

Ottaviano Maria Razetto è Architetto presso Architectural Consulting, VicePresidente della fondazione Eleutheria e membro del Consiglio di Amministrazione del fondo immobiliare Landhouse, riconosciuto dalla Banca nazionale Ceca. Nato a Parma nel 1974 svolge i suoi studi universitari alla facoltà di architettura dell’Università degli Studi di Parma dove, nel 2004, consegue la Laurea Magistrale in Architettura. Nel 2003 viene riconosciuto come miglior studente dell’anno della facoltà di Architettura. Tra il 2000 e il 2006 compie numerosi viaggi di ricerca e di lavoro negli Stati Uniti e in Europa. Nel 2005 si iscrive all’albo Professionale degli Architetti di Parma e, a partire dallo stesso anno, è nominato Perito Tecnico presso il Tribunale di Parma. Nel 2008 si iscrive all’albo professionale degli architetti della Repubblica Ceca. La sua attività professionale si articola, in particolare, nel restauro e nella ristrutturazione di edifici residenziali, nuove edificazioni, uffici, allestimenti per mostre e rassegne. Negli ultimi anni, all’attività di progettazione, si è affiancata quella di relatore a convegni e lezioni universitarie. Dal 2011 è Visiting Professor alla Rome University of Fine Art, nonché autore di articoli su riviste e quotidiani di architettura, tra i quali: Architekt, Dolce Vita magazine, The Prague Post Newspaper, Idnes magazine, Pekne Bydleni, Leader Magazine, Italian Journal mensile di informazione della comunità italiana negli Stati Uniti, Un Mondo di Italiani, Progetto Repubblica Ceca. Molti suoi progetti sono stati pubblicati su riviste ceche ed internazionali. all’attività professionale affianca quella di collezionista e studioso d’arte.

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<<Sono un architetto cioè colui, per dirla alla Thomas Mann, per il quale fare architettura risulta più difficile che a tutti gli altri. Non ho scelto di trasferirmi a Praga: piuttosto, ho deciso di rimanerci! Quando arrivai, tredici anni fa, già la conoscevo bene. Dal 1990 venivo a Praga tre o quattro volte l’anno. Prima per turismo, poi per incontrare mio fratello e quindi, col trascorrere degli anni, per vedere i miei nipoti. Fermarsi, prima qualche giorno al mese e poi sempre più a lungo, è diventato quasi naturale. Quando arrivai qui, la prima volta, esisteva ancora la Cecoslovacchia e Berlino era quell’isola “capitalista” circondata da uno stato che, ancora per pochi mesi, si sarebbe chiamato Repubblica Democratica Tedesca. Non era certamente la Praga di oggi, ma neanch’io sono quello di allora. E come me, tutti coloro che in quegli anni arrivarono a Praga, per turismo o per lavoro, la ricordano con una certa “nostalgia”, anche se, bisogna dirlo, le emozioni che allora provammo erano figlie soprattutto del desiderio della scoperta di un mondo fino ad allora ignoto e, per questo, affascinante. Nel concreto c’era, però, poco di ciò che entusiasmerebbe un ragazzo come quelli che adesso arrivano in gita scolastica. Mi ricordo una città dove regnava il silenzio: il silenzio nelle strade, il silenzio nei pochi e vuoti negozi, il silenzio nello sguardo della gente. Se Praga ha cambiato la mia vita? Difficile dirlo. Non so quanto Praga abbia contribuito a cambiarmi anche se, sicuramente, l’ha fatto; ma so per certo che la stessa Praga è cambiata grazie a quello che hanno portato in termini di idee, cultura e, perché no, anche denaro, gli stranieri che hanno trovato, in questa città, un luogo dove potersi esprimere liberamente, fare impresa, rischiare e rendere reali i propri sogni. Quando si viaggia, come diceva Elias Canetti “si prende tutto come viene, lo sdegno rimane a casa. Si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci solo perché sono nuove”. È quella sensazione che prova solo chi viaggia. In fondo il perdersi per cercare se stessi, senza mai trovarsi, rende tutto ciò che è fuori molto più allettante di quello che abbiamo dentro e tutto quello che è lontano molto più interessante di ciò che è vicino a noi. La Praga di ventisette anni fa, ma anche quella di quattordici anni fa, non era assolutamente quella che vediamo oggi. Mi ricordo che quando, nel 1990, entrai per la prima volta nel supermercato Tesco, a Národní Třída,

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c’era talmente tanto buio che non si vedeva nulla. Del resto, sarebbe stato davvero poco utile vederci meglio, perché sugli scaffali non c’era praticamente nulla. Uscii con in mano solo una mezza dozzina di stampelle, tanto per dire che avevo comprato qualcosa. Tuttavia, le più grandi difficoltà che ho incontrato in questa città, per quanto possa sembrare strano, non sono state di tipo materiale. Ci sono posti in India – paese che mi affascina e che amo visitare tutti gli anni – dove è difficile procurarsi anche una semplicissima bottiglietta d’acqua. Il problema vero a Praga è stato – per dirla con un eufemismo – l’estrema chiusura delle persone. Negli ultimi anni ho colto dei cambiamenti, soprattutto tra le nuove generazioni, ma si respira sempre questo senso di diffidenza verso gli altri. Quando un italiano visita Praga per la prima volta, sente un’affinità con la propria cultura. La ragione è che molti palazzi, chiese, conventi, tra i più importanti costruiti in questa meravigliosa città nel corso degli ultimi cinque secoli, li si deve all’estro ed alla dedizione di architetti, artisti e maestranze italiane. Questi artisti hanno portato a Praga la loro cultura, la loro sensibilità, i loro sogni. Alcuni portarono la loro famiglia, altri se la crearono qui. Esattamente come adesso. Di alcuni conosciamo il nome e la storia, di altri solo la loro opera. Pensiamo, ad esempio, alla Cappella degli italiani in via Karlova. Un capolavoro architettonico realizzato negli ultimi anni del Cinquecento, con una cupola ellittica, come se ne facevano in quegli anni solo a Roma (Sant’Anna dei Parafrenieri, ad esempio, è di poco antecedente). Eppure non si conosce ancora il nome del suo architetto. Quasi sicuramente un allievo, o nella cerchia del Vignola, ma non sappiamo nulla di più. Ecco: pensare, da italiano, di essere il continuatore di questa lunga storia, iniziata molto prima, con Petrarca e forse Boccaccio; pensare che quando realizzo qualcosa in questa città, porto anch’io il mio contributo a questa meravigliosa storia, mi riempie non solo di soddisfazione ma di orgoglio. Sono particolarmente legato ai luoghi della memoria: non nell’accezione che gli dà Pierre Nora, di posti a cui il tempo ha donato un particolare significato simbolico, in cui si riconosce un’intera comunità, ma più semplicemente a quegli spazi che appartengono alla mia memoria. Per raggiungerli, mi è sufficiente ricordarli. Uno di questi posti era sulla Železna: si trattava di un venditore di cialde (Lázeňske oplatky), calde e croccanti, ed era per me un vero rito andarci, soprattutto quando iniziavano i primi freddi. Il venditore non esiste più ma quello, per me, è uno dei ricordi più

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cari che ho di Praga; ogni volta che passeggio davanti al luogo dove c’era la sua vetrina, mi pare ancora di sentire il profumo di quelle piccole cialde croccanti. L’Italia è la mia casa: quella a cui tornare sempre. Non si può partire se non si ha una casa dove tornare. Inoltre, l’Italia è anche quella terra che mi ha reso quello che sono, che mi fa parlare di Carpaccio pensando prima al pittore Vittore e, solo dopo, al delizioso piatto inventato da Cipriani e che mi fa apprezzare il Parmigiano Reggiano, con la certezza che non posso confonderlo con il Gran Moravia. Forse è per questo che provo un senso di vero malessere quando sento alcuni italiani criticare la nostra patria, spesso con ragionamenti dettati solo da ignoranza. Cosa consiglio a chi desidera trasferirsi? Sinceramente, mi trovo così a disagio nella parte di chi deve dispensare consigli. Ognuno ha i propri stimoli, i propri sogni e le proprie aspettative. Sembra un ragionamento fuori dal mondo, il mio, soprattutto in questa congiuntura economica, ma direi di non prendere nessuna decisione in base ai soldi. Lo so che per molti si tratta solo di una scelta dettata da motivazioni pratiche – il lavoro, la promozione, uno stipendio, una vita indipendente – ma vivere all’estero, provare sulla propria pelle il senso dell’avventura che da esso scaturisce, imparare a scoprire una nuova cultura, il gusto dell’altro, non sono forse aspetti da considerare? Se consideriamo solo la fredda logica dei numeri, l’Italia è ancora l’ottava potenza industriale al mondo, è un Paese che ha un PIL pro capite di più di 29mila euro, quando la Repubblica Ceca è ferma a poco più di 17mila. Se pure la Repubblica Ceca dovesse inanellare aumenti del proprio PIL del 4% annui, senza che l’Italia aumenti mai il suo, le ci vorrebbero quindici anni per arrivare agli stessi valori procapite del nostro Paese. Questo si traduce in stipendi medi più bassi rispetto all’Italia, non bilanciati da un costo della vita che, seppur più basso nel resto della Repubblica Ceca, è decisamente alto nella capitale. D’altra parte l’imposizione fiscale, in Cechia, è a livelli così bassi da risultare quasi inimmaginabile a Roma. Insomma, potrei continuare ad elencare dati a favore di un trasferimento e dati contrari ma, ripeto, spesso chi si sposta è spinto da motivazioni diverse. Ecco, in fondo è questo l’unico consiglio che mi sentirei di dare: se decidete di trasferirvi, fatelo con curiosità. Imparate quanto meglio potete la lingua, i costumi e la storia di questo popolo. Cercate di cogliere l’occasione per crescere come persone.

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Progetti per il futuro? Moltissimi, ma ce n’è uno al quale tengo davvero moltissimo: insieme a mio fratello, dirigo la Fondazione Elutheria, che opera oramai da quasi dieci anni e con cui abbiamo realizzato 13 mostre d’arte, cinque monografie, e collaborato con oltre 50 enti internazionali. L’anno prossimo, nel mese di maggio, realizzeremo un progetto che ci sta particolarmente a cuore: porteremo, infatti, Parma a Praga! Attraverso concerti, mostre, incontri tra imprenditori ed operatori turistici, presentazioni di prodotti tipici, serate culinarie, incontri tra cariche istituzionali, e molto altro, presenteremo la città di Parma e il suo territorio in una manifestazione di quattro giorni, che coinvolgerà tutta Praga. È un progetto di cui sono davvero fiero, non solo da parmigiano, anche se non nascondo un piccolo orgoglio campanilistico. Nella mia vita ho sempre viaggiato molto. Già a 15 anni, grazie ai miei genitori, conoscevo mezza Europa; quella, almeno, che si poteva visitare al di qua del muro. È una cosa che spero di non smettere mai di fare. Forse perché trovo molto più interessante l’altro che me stesso, e l’impossibilità di concludere questo viaggio di conoscenza, per quanto cerchi di dedicarmene da tutta la vita, lo rende ai miei occhi ancora più affascinante. Quindi non so dove sarò tra qualche anno. Posso dire, però, dove mi piacerebbe trascorrere l’ultima parte della mia vita. Non ci si pensa mai ma, in fondo, quello è il momento più importante; il momento in cui ci si riappacifica con se stessi e ci si commiata da tutto. In un giorno ancora lontano, quando non mi interesserà più dei posti che ho visto, di quello che ho fatto o di quello che ho posseduto, tornerò a casa, la mia casa, tra i campi dorati di frumento e i profumi della mia fanciullezza>>. Contatto: info@eleutheria.cz

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CURIOSITÀ

Maria Amalia

La duchessa di Parma che riposa a Praga

A cura di Laura Di Nitto

Lussuriosa, violenta, scialacquatrice. Una vita segnata da eccentricità e scandali coniugali. Eppure Maria Amalia d’Asburgo-Lorena (Vienna, 26 febbraio 1746 – Praga, 18 giugno 1804), nata arciduchessa d’Austria e divenuta duchessa di Parma dopo il suo matrimonio con Ferdinando, è tra le nobildonne più amate della storia del Ducato di Parma. In realtà, questa duchessa dalla natura esuberante e ribelle, si rivelò immediatamente un’abile politica, degna figlia di sua madre, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Ancora oggi a Parma si usa dire “fer al gir d’la Malia”, per riferirsi ad una persona che non si nega certi vizi privati: Maria Amalia, infatti, alla corte parmigiana preferiva soggiornare a Sala Baganza, lontana dal marito e circondata da servitori, purosangue e… stallieri! Le sue preferenze erano di dominio pubblico, eppure i suoi sudditi l’amarono e l’apprezzarono per il suo buon cuore, il suo coraggio e la sua generosità.

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Ottava figlia dell’imperatore del Sacro Romano Impero Francesco I e di Maria Teresa d’Asburgo, regina d’Ungheria e di Boemia, arciduchessa d’Austria, Maria Amalia crebbe alla corte viennese degli Asburgo-Lorena tra la Hofburg e il castello di Schönbrunn. Aveva un talento per la pittura, possedeva una voce dolce, da soprano leggero, e scriveva affascinanti versi. Volitiva e dall’aspetto linfatico, era di carattere altezzoso e spinoso ma non per questo il suo personale ne risentiva; era anzi considerata tra le arciduchesse più attraenti. Quando l’ascoltò cantare nel Parnaso Confuso, Metastasio rimase incantato dalla sua figura angelica. Nata alla fine della guerra di successione austriaca, crebbe nell’ombra delle sue sorelle maggiori, promesse a destini brillanti: Maria Antonietta, la futura regina di Francia, e Maria Carolina, che diverrà sovrana di Napoli e Sicilia. All’età di 22 anni, Maria Amalia voleva sposare il giovane, attraente ed intelligente principe Carlo di Zweibrücken, che frequentava la corte di Vienna e aveva chiesto la sua mano. Tuttavia, Maria Teresa ed il suo ministro Von Kaunitz ritenevano entrambi che quest’unione non fosse abbastanza buona per un’arciduchessa. Inoltre, erano già stati fatti progetti matrimoniali per Maria Amalia, che avrebbe dovuto sposare il Re di Napoli o il Duca di Parma, in modo da rafforzare i legami con i Borboni e l’influenza austriaca in Italia. Carlo lasciò così Vienna, covando da quel momento un’ostilità imperitura verso Maria Teresa e l’Austria. Al contrario Maria Cristina, la figlia preferita, poté sposare, unica tra i suoi fratelli, un uomo di sua scelta, anche se di rango inferiore: Alberto di Sassonia-Teschen. Contro la sua volontà, nel 1769 Maria Amalia venne quindi data in sposa al duca di Parma Ferdinando, nipote da parte di madre del re francese Luigi XV e da parte di padre al re spagnolo Filippo V. Il Ducato di Parma si trovava così, in quel periodo, sotto una doppia influenza, anche se preponderante era quella francese, grazie alla presenza del ministro Du Tillot. Il matrimonio si dimostrò, fin dall’inizio, mal assortito. Ferdinando, insolente ed indisciplinato, amava girovagare per i boschi dell’Appennino, arrostire castagne e capretti insieme ai pastori della montagna, spaventare la città scatenando in piena notte le campane dei conventi, frequentare attori, mimi, ballerini, saltimbanchi. Di tutto si occupava, tranne che di governare. Fin da ragazzo, inoltre, coltivava il desiderio di farsi frate, tanto che visse il matrimonio come un trauma e impiegò ben tre mesi a consumarlo, nonostante i consigli di suo nonno Luigi XV. Maria Amalia,

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invece, era vivace e determinata ed il suo carattere deciso si manifestò immediatamente, al suo arrivo a Parma, con la volontà di cacciare dalla città il ministro Du Tillot, il quale non aveva mai visto di buon occhio il suo matrimonio con Ferdinando. Dopo due anni dal suo arrivo, Amalia riuscì infine a farlo destituire, sostituendolo con lo spagnolo Jose del Llano, fortemente raccomandato da Carlo III di Spagna. La duchessa cominciò sempre più ad interessarsi di politica, inizialmente con l’appoggio ed i consigli dell’imperatrice Maria Teresa, la quale desiderava che Amalia attraesse il ducato nell’orbita d’influenza austriaca. Parma riceveva sussidi sia dalla Francia che dalla Spagna, ambedue desiderose di mantenere l’influenza su questo Stato; Amalia mirò quindi ad eliminare queste interferenze, di modo da poterle sostituire con una preponderanza austriaca. In ciò venne agevolata dall’atteggiamento del marito, che continuava a preferire i suoi svaghi privati alla politica. Nei rapporti con Ferdinando, dopo averlo dapprima messo da parte ed aver iniziato a condurre una vita dissoluta, che includeva amanti frequentati apertamente, Amalia cercò in seguito di riavvicinarsi a lui. Nonostante la relazione con la madre si fosse logorata sempre più, Maria Amalia rimase in contatto con le sue sorelle Maria Antonietta e Maria Carolina durante la maggior parte della loro vita da spose. Le tre sorelle erano solite scambiarsi ritratti, lettere e doni. Infatti, una delle ultime lettere di Maria Antonietta, durante la sua prigionia, fu scritta ad Amalia ed a lei inviata segretamente. Maria Amalia diede il nome di Maria Antonietta alla sua seconda figlia e, dopo l’esecuzione della sorella e del marito di lei, maturò un profondo odio verso la Francia ed i rivoluzionari. Quando Napoleone Bonaparte invase l’Italia ed il marito morì (si sospettò che fosse stato avvelenato), Amalia venne nominata capo del Consiglio di Reggenza a Parma. Ma la reggenza durò solo pochi giorni. Il 22 ottobre 1802 i francesi la espulsero dallo stato ed Amalia si stabilì presso il Castello di Praga, dove morì nel 1804. Fu l’unica figlia di Maria Teresa a vivere nel Castello di Praga. Il suo corpo venne sepolto nella cripta reale della Cattedrale praghese di San Vito, mentre il suo cuore venne portato a Vienna e posto dentro un’urna (al numero 33) nella Cripta Imperiale, che custodiva i cuori degli Asburgo defunti.

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MUSICA

Giuseppe Verdi Il cigno di Busseto

Giuseppe Fortunino Francesco nasce a Roncole di Busseto, nel Ducato di Parma, il 10 ottobre 1813 da Luigia Uttini, filatrice, e Carlo Verdi, oste. Carlo proviene da una famiglia di agricoltori piacentini e, dopo aver messo da parte un po’ di denaro, apre una modesta osteria alle Roncole, la cui gestione alterna al lavoro dei campi. Giuseppe, fin da bambino, prende lezioni di musica dall’organista della chiesa, Pietro Baistrocchi, esercitandosi su una vecchia spinetta che gli ha regalato il padre. Gli studi musicali proseguono in maniera irregolare fino a quando Antonio Barezzi, commerciante, amante della musica e presidente della locale Filarmonica, affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari e accademici. Verdi fa pratica nella chiesa di Busseto, ma il piccolo paese gli sta stretto. Aiutato da Barezzi, decide di iscriversi al Conservatorio di Milano, che oggi porta il suo nome. Non riesce tuttavia a superare l’esame di ammissione per “scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età”. Ha 18 anni. Non si dà per vinto e grazie a una borsa di studio del Monte di Pietà di Busseto e all’aiuto economico di Barezzi, comincia a frequentare il mondo della Scala, prendendo lezioni private dal cembalista Vincenzo Lavigna e assistendo alle rappresentazioni.

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Nel 1836 rientra a Busseto da vincitore del concorso per Maestro di musica del Comune. Nello stesso anno sposa la figlia del suo benefattore, Margherita Barezzi, da cui avrà due figli: Virginia e Icilio. Il lavoro sicuro e lo stipendio fisso si rivelano però d’intralcio al sogno milanese, tanto che Verdi decide di lasciare tutto e di tornare a Milano, questa volta con la famiglia. Del 1839 è la rappresentazione al Teatro della Scala della sua prima opera, Oberto Conte di San Bonifacio, che riscuote un discreto successo. Tristemente questo successo venne offuscato dalla morte dei figli e poi della moglie Margherita, a cui Verdi è profondamente legato. In quei giorni così tristi, il Maestro porta a compimento la commissione per un’opera comica, Un Giorno di Regno, che si rivela però un clamoroso fiasco, al punto che Verdi arriva a dichiarare che non avrebbe più composto musica. È un libretto, una storia che funziona, a fargli cambiare idea. L’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, gli fa leggere il Nabucco. In pochissimo tempo l’opera è pronta ed è un trionfo (1842). Il coro del Nabucco ha un successo popolare strepitoso, tanto da venir cantato e suonato perfino per le strade. Sempre in quel 1842, Verdi conosce due donne importantissime nella sua vita: la soprano e pianista Giuseppina Strepponi, che sarebbe diventata sua compagna e poi sua seconda moglie, e la contessa Clarina Maffei, grazie alla quale gli si aprono le porte dei salotti milanesi. Iniziano anni di lavoro durissimo e indefesso, grazie alle continue richieste e al sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle: Verdi li chiamerà “gli anni di galera”. Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I Lombardi alla Prima Crociata (1843) è un altro successo, duramente censurato dal governo austriaco poiché, come il Nabucco, rivisitato in chiave patriottica dagli italiani. E poi: Ernani e I Due Foscari (1844), Machbeth e I Masnadieri (1847), Luisa Miller (1849). In questo periodo si consolida la sua discussa relazione con Giuseppina Strepponi. Dopo Giovanna d’Arco (1845), Verdi si allontana dalla Scala e da Milano e si stabilisce a Parigi. Per l’Opéra, trasforma I Lombardi in Jérusalem (1847), confrontandosi con le esigenze ma anche con gli imponenti mezzi francesi. Solo nel 1849 torna a Busseto, insieme a Giuseppina. Molte le voci su questo rapporto (la soprano aveva avuto due figli da una precedente relazione) e sulla convivenza, ufficializzata con il matrimonio nel 1859. Nel 1851 è finalmente pronta la villa di Sant’Agata, a Villanova d’Arda, dove Verdi e Giuseppina si trasferiscono definitivamente: una dimora circondata da un grande parco, curato da Verdi stesso. In questi anni, nella calma della pianura padana, Verdi scrive la trilogia popolare: Rigoletto (1851), Il Trovatore e La Traviata (1853), con cui ottiene un successo clamoroso.

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I Masnadieri di Verdi, Italia Musicale, 1847

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Nel 1861 Verdi, sollecitato da Cavour, si sente chiamato all’impegno politico. Viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e, nel 1874, è nominato senatore. In questi anni compone La forza del Destino (1862), nel 1865 riscrive Macbeth per il teatro francese e, per l’Opéra, compone il Don Carlos (1867). Nel 1862 compone, per l’Esposizione Universale di Londra, e l’Inno delle Nazioni, su testo di Boito. Con Aida (1871), voluta da Ismail Pascià come opera “nazionale” egiziana, Verdi rilegge in chiave italiana le esigenze spettacolari del “grand opéra”. La Messa da Requiem è scritta e pensata nel 1873 come celebrazione per la morte di Alessandro Manzoni. Nel 1869, la seconda versione de La Forza del Destino, segna il ritorno alla Scala, da cui Verdi non si allontanerà più. Stringe un’intensa amicizia con Teresa Stolz, la prima e grande interprete dell’Aida, e trova anche il modo e il tempo di dedicarsi agli altri, di pensare a chi ha più bisogno: nel 1888 inaugura un ospedale a Villanova D’Arda, da lui interamente finanziato, mentre nel 1880 compra il terreno per costruire quella che ancora oggi è la Casa di Riposo per Musicisti – la sua “opera più bella”, dirà – terminata nel 1899 ma chiusa finché Verdi, che non desidera essere ringraziato da nessuno, è in vita. Nel 1887, all’età di ottant’anni, scrive Otello, confrontandosi ancora una volta con Shakespeare. Nel 1893 dà l’addio al teatro con la sua unica opera comica, il Falstaff. Quattro anni dopo muore Giuseppina Strepponi. Nella tarda maturità compone quattro pezzi sacri, pubblicati nel 1898. Muore il 27 gennaio 1901 al “Grand Hotel et De Milan”, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l’inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia, giorni in cui le strade di Milano vengono cosparse di paglia affinché il rumore degli zoccoli dei cavalli non disturbi gli ultimi giorni del Maestro. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici come era sempre stata la sua vita. Una folla silenziosa segue il feretro. Un mese dopo i corpi di Verdi e della Strepponi vengono portati alla Casa di Riposo per Musicisti. Il parmigiano Arturo Toscanini in testa all’orchestra della Scala e ad un coro di ottocento persone disposte sulla gradinata, intona il “Va pensiero” del Nabucco: è l’addio dell’Italia intera al Cigno di Busseto. Fonte: giuseppeverdi.it

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Otello di Verdi, partitura autografa, 1887, Archivio storico Ricordi

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FILOSOFIA

“Son vissuto da filosofo e muoio da cristiano” L’ultima “maschera” di Giacomo Casanova

A cura di Flavio R.G. Mela

Nel distretto di Teplice, a nord-ovest della Boemia, esiste un luogo chiamato Duchcov (anticamente Dux) che è possibile considerare un monumento commemorativo del Settecento, in particolar modo per aver fatto da scena all’ultimo atto della vita di uno dei personaggi più controversi, complessi e, allo stesso tempo, rappresentativi di quel secolo: Giacomo Casanova. Un nome che, solo a pronunciare, rievoca sensazioni di fuga e avventura, voglia di oltrepassare le regole e tuffarsi nell’ignoto. Un nome, quello del Chevalier de Seingalt, che si declina, rileggendo le cronache, in nominativi sempre diversi come le maschere umane che volle per sé e per le occasioni che il Fato gli offrì o, a seconda dei casi, gli oppose in un rocambolesco duello all’ultimo suadente intrigo.

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Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici

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Votando l’intera sua esistenza al piacere di un’improvvisazione tout court, Casanova, verso i sessant’anni, iniziò tuttavia a cercare la sua Itaca: una meta sicura in cui siglare un personale armistizio con la vita, ridimensionandola, non senza “malpancismi”, a uno status più ordinario e meno ossessionato da passioni e istinti. Ma dove andare? Ancora una volta la casualità delle circostanze gli indicò un sentiero, lungo il quale avrebbe esplorato un mondo del tutto vecchio, ma sul quale mai, prima di allora, si era soffermato: se stesso. Tutto ebbe inizio con la morte, nell’aprile 1785, del suo protettore Sebastiano Foscarini, ambasciatore della Repubblica di Venezia a Vienna, presso il quale svolgeva mansioni di segretario. Un dramma che scombussolò la rotta di Casanova, lasciandolo ancora naufrago in balia di un mare oscuro. Fu per lui una lancia di salvezza, però, aver conosciuto poco tempo prima, proprio alla tavola del Foscarini, il conte Joseph-Charles Emmanuel di Waldstein, il quale, spinto da uno slancio di generosità e impietosito forse dalla condizione precaria del vecchio avventuriero veneziano, gli volle offrire un impiego come bibliotecario presso il proprio castello a Dux, dove, in cambio di 1000 fiorini, avrebbe curato i 40mila libri del fondo di famiglia. Casanova accettò l’incarico e raggiunse la sua nuova sede agli inizi d’autunno del 1785. Da quel momento ebbe inizio l’ultima aria di un’opera dal gusto agrodolce, più lenta rispetto agli allegretti frizzanti e audaci che caratterizzarono gli anni giovanili dell’avventuriero. Esperto conoscitore del paesaggio umano, Casanova subì Dux, senza mai condividerne il sentimento di stantio che dovette caratterizzare quell’angolo disperso d’Europa, distante dalle dinamiche che di lì a poco avrebbero sconvolto il vecchio continente, consegnandolo definitivamente al progressista e industrializzato Ottocento. La profonda passione per l’animo umano, entro cui Casanova seppe giostrarsi in più esperienze, ebbe una tragica battuta d’arresto di fronte a una comunità, quella del castello, profondamente chiusa nella mente come nel cuore, a cui il veneziano non intese per nulla adattarsi, riversando sul suo stesso “io” l’interlocutore più prossimo con il quale condividere pensieri ed emozioni. Le stesse espresse a chiare lettere in molte missive, tante delle quali trasmesse agli amici, vicini o lontani, e tutte rassegnate a divenire un lunga testimonianza degli ultimi anni di Casanova. Al suo amico praghese Johannes Ferdinand Opiz, ispettore delle finanze imperiali e reali di Boemia, scrisse: “Sappiate che non sto a Dux per mia scelta. Dio m’ha mandato qui per punirmi dei miei errori. Ma lo stesso Dio m’ha dato degli amici. Questi è impossibile sce-

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glierli, perché è impossibile sapere se quelli che abbiamo scelto lo siano davvero”. È facile immaginarsi lo stato d’animo di Casanova costretto, dalla stanchezza e dalla necessità, in un limbo di ordinaria attesa dell’indomani. Il conte Waldstein non era poi molto presente all’interno delle sue tenute, preferendo, da potente signore del suo tempo, animati viaggi lontani e ricchi di frivolezze. La gente di Dux, dal proprio canto, si dimostrò distaccata e anche insofferente alla presenza di Casanova, non ammettendolo mai tra i suoi pari: condizione che, anche volendo, non sarebbe stata mai accettata dall’arguto e raffinato veneziano. Anzi, i rapporti tra il bibliotecario e gli inquilini del castello non furono per nulla semplici, in particolar modo con alcuni esponenti del servidorame, rappresentati dal subdolo maggiordomo Feltkirchner e dal cocchiere Wiederholt. Più e più volte i due attentarono alla calma del vecchio italiano, mandandolo su tutte le furie e lasciandogli persino concludere di abbandonare la residenza di Dux. Il maggiordomo, invidioso della posizione privilegiata di cui godeva Casanova agli occhi del suo padrone, approfittando dell’assidua assenza del nobile, architettò una serie di angherie per screditarlo e consegnarlo al grottesco ludibrio della comunità locale. Tra queste, fu memorabile la volta in cui lo accusarono di aver ingravidato la figlia ventenne del portiere, Anna Dorotea Kleer. Un complotto che per fortuna Casanova, sfruttando la sua sottile sagacia, riuscì a sventare, portando la ragazza a confessare di aver avuto rapporti solo con il pittore Francesco Saverio Schöttner. E ancora, il bibliotecario si vide ingiuriato un proprio ritratto da epiteti offensivi e attaccato, nel gabinetto del castello, con escrementi. Pur denunciandoli con fermezza, Casanova ebbe sempre a inghiottire amaramente questi atti infamanti, fintantoché non si passò alla violenza fisica quando, durante un alterco, il cocchiere Wiederholt prese a bastonate il veneziano. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nei primi del ’93, dopo il rientro al castello di Waldstein e un dettagliatissimo resoconto dei soprusi subiti, il conte licenziò il maggiordomo, ponendo fine alle brutalità nei confronti di Casanova. A quei fastidiosi episodi, Casanova ribatteva con un ciceroniano ritiro da otium cum dignitate. Chiuso dalla mattina alla sera nella biblioteca o nello studio, si abbandonava piacevolmente alla lettura, soprattutto dei grandi autori dell’antichità. Era sì spinto da una voglia incontenibile di sapere, ma anche di potersi affermare come scrittore. È così che, ad esempio, nell’estate del 1787, in uno degli ultimi e brevi viaggi, si recò a Praga con la speranza di poter far pubblicare due suoi manoscritti: la biografica Storia

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Starý Duchov, Městské muzeum Duchcov


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della fuga dai Piombi e il romanzo utopistico intitolato Icosameron. Solo il primo ebbe fortuna nel trovare un editore, Schönfeld, mentre il secondo, sovvenzionato a proprie spese, fu un fiasco totale. L’opera che, in particolar modo, consacrò Casanova nel mondo letterario fu Mémoires de J. Casanova de Seingalt, écrits par lui-même: autobiografia, scritta in lingua francese, nella quale l’autore narrò tutte le vicende capitategli nel corso della vita. Il 10 gennaio 1791, il vegliardo di Dux riferì all’Opiz: “Scrivo la mia vita per ridere di me e ci riesco. Lavoro tredici ore al giorno, tredici ore che passano come tredici minuti. Che piacere, ricordare i piaceri. Ma insieme che pena. Mi diverto perché non invento nulla”. Una lunga narrazione che, di sua spontanea volontà, Casanova decise di concludere nell’anno 1772: “Credo – scriveva ancora all’Opiz – che non andrò più avanti perché, dopo i cinquant’anni, non posso raccontare che cose tristi, e ciò mi rende triste. Ho scritto solo per divertirmi con i miei lettori. Ora li affliggerei, e non ne vale la pena”. Il 27 luglio 1792 l’opera era terminata e, con essa, l’esigenza di Casanova di voler andare oltre il tempo, adagiandosi sugli allori della memoria collettiva e, allo stesso tempo, distogliendosi da una vecchiaia che incalzava inesorabile e tremenda. Con l’avanzare degli anni, infatti, il vecchio veneziano si faceva sempre più irascibile, permaloso e bisbetico, cosicché, come si legge in uno scritto del principe Charles Joseph de Ligne, suo amico: “Non passava giorno in cui, per il suo caffè, il suo latte, il suo piatto di maccheroni, non nascesse qualche discussione nella casa. Il cuoco gli aveva fatto mancare la polenta, lo scudiero gli aveva dato un cattivo cocchiere […] Il curato l’aveva annoiato mettendosi in testa di volerlo convertire; il conte non gli aveva dato il buongiorno per primo; […] ha parlato tedesco e non è stato capito; s’è arrabbiato, e si è riso; ha gesticolato, declamando in italiano, e si è riso; […] ‘Perdio’, diceva, ‘canaglie che non siete altro. Siete tutti giacobini. Mancate ai vostri doveri verso il conte, e il conte, pur punendovi, manca ai suoi doveri verso di me. Ho bucato il ventre del grande generale di Polonia: io non sono nato, sono diventato gentiluomo’.” A queste dure parole è persino possibile associare un volto: quello ritratto, nel 1796, da Francesco Casanova, fratello minore dell’avventuriero. Nel quadro, appartenente alla collezione Gianfranco Pompei, è dipinto il profilo sinistro di un Giacomo Casanova vestito di nero con un colletto bianco, come un perfetto uomo di studi. Il volto è scarno, pallido, proprio di un anziano: un uomo in declino, metaforica rappresentazione del Settecento. Un secolo che, a colpi di ghigliottina, guizzava via con tremendo boato,

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annientando tutta un’epoca, quella dell’Ancien Régime, tanto amata dal Casanova e dai suoi vecchi amici, riuniti nel ricordo dei bei tempi trascorsi nella dolcezza di un comune libertinaggio. Il conte Gian Giacomo Marcello Gamba della Perosa di Torino scriveva, nel 1795, a Casanova: “Gli amici dell’antico regime sono rari, e noialtri dobbiamo tenerci per mano e dire: tutti contro noi e noi contro tutti; in verità quanto pericolo c’è di essere schiacciati dalla massa, tanto compiacimento si prova a vivere nella stretta cerchia di coloro che si son salvati dall’epidemia generale. […] Viviamo finché possiamo; è necessario che si conservi la razza degli onest’uomini. Voi siete del numero”. E come se ciò non bastasse a incupire il già angosciato animo dell’avventuriero, ecco che la Storia gli rese ancora più sofferenza quando Venezia, la sua amata patria, cadde nelle mani di Napoleone Bonaparte e nel 1797, a seguito del trattato di Campoformio, venne ceduta all’Austria. In una lettera all’amico Pietro Zaguri, anch’egli veneziano, Casanova si lamentò della tragedia della Serenissima come provocata dal malgoverno degli stessi nobili e dall’indifferenza del suo popolo, vittime di nimia felicitas, ossia “troppa spensieratezza”. Alla luce di quanto accaduto, Giacomo Casanova ebbe il desiderio di poter rivedere la sua laguna e, così, chiese al conte Waldstein di potervisi recare. Ottenuto il permesso, fissò la partenza nell’aprile del 1798, ma una grave forma di idrope non gli permise di realizzare il suo sogno. In quei mesi di grande sofferenza fisica, Casanova ebbe la vicinanza di molti amici, seppur sotto forma di epistole. Commovente è lo scambio di missive con la giovane Cecilia di Rogendorff, con la quale condivise una profonda e sincera amicizia. Un rapporto ideale, all’interno del quale il veneziano giocò un ruolo non d’amante, bensì quasi paterno, raccomandandole affettuosi consigli persino sul coltivare il vero amore come “quello cui è estraneo il godimento”. Un amore platonico e asessuato di cui solo ora, nel perdere i propri sensi, Casanova si faceva fedele seguace. Non si vide mai con Cecilia. Il vecchio di Dux si ostinava a non vedere nessuno: troppo debole, scarno, senza denti: “Il mio pugno – si legge in una lettera – è paralitico e invalido. Da più di otto settimane non esco dalla mia camera. […] Non ho più sonno, né appetito. Vivo più di medicine che di pane. Pazienza”. Sentiva il fiato della morte addosso. Aveva agognato di morire rapidamente e mai per colpa di “una di quelle malattie che rendono l’uomo triste e disgustato dalla vita”. Negandogli questa opportunità, il Fato volle comunque garantirgli la possibilità di prepararsi nello spirito per l’ultima linea rerum. Il 30 aprile 1798, alla nobildonna Elisa von der Recke, sua ammiratrice e amica di lettere, scrisse: “Sono amministrato e provvisto di

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tutti i passaporti spirituali necessari a un cristiano per entrare, dopo questa vita terrestre, nel soggiorno dei beati immortali. La morte è un debito che a un uomo d’onore è permesso non pagare volentieri, dal momento che tale debito non è stato da lui contratto, ma dalla natura padrona, e senza il suo permesso”. Il 4 giugno, adagiato su una poltrona, Giacomo Casanova, il famoso avventuriero girovago dai mille e più volti, “ricevette – come annotò il principe de Ligne – con grandi gesti e qualche sentenza i sacramenti e disse: ‘Gran Dio e voi tutti, testimoni della mia morte: son vissuto da filosofo e muoio da cristiano’.” Fu sepolto nel cimitero nei pressi della chiesetta di Santa Barbara, distrutto successivamente negli anni ’30 del Novecento: delle sue spoglie si persero le tracce. Il sipario discese sul grande teatro del Settecento: un palco sul quale, accanto a re, regine, generali, curati, borghesi e popolani, recitò Giacomo Casanova, una figura “mitologica”, metà uomo e metà vento, mezzo avventuriero e filosofo, distratto perennemente dal piacere di scoprire e dall’esplorazione di nuovi confini, sia geografici o propri dell’esistenza stessa. Pazzo di voglia di vivere, lontano dal giogo della noia, vero guastatore della rassegnazione umana.

Originario della Sicilia, Flavio R.G. Mela è specializzato in progettazione e management nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale. Ha lavorato come esperto di settore in diversi progetti, anche con ruolo di coordinamento, per il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e per il Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana. Residente a Praga, attualmente svolge l’attività professionale di bibliotecario presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga e collabora con la Fondazione “Eleutheria”. flaviorgmela@gmail.com 106


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Ritratto di Giacomo Casanova, Berka, 1788

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VINI

La carta dei vini Gioie e dolori del ristoratore e dell’avventore

A cura di Roberto Vinci

Monumentale come Guerra e Pace di Tolstoj oppure sintetica ed essenziale, originale o scontata, di “pelle umana” o cartacea, regionale o internazionale, esaustiva o scarna: la carta dei vini rappresenta uno strumento necessario ed imprescindibile sia per il ristoratore, per l’enotecario o il proprietario di wine bar, sia per il cliente. È il vero biglietto da visita del locale – chiaramente insieme al menù – e fornisce immediatamente l’esatta e puntuale idea di quale sia l’attenzione prestata al tema “vino” da parte di chi quella carta l’ha curata. Innanzitutto, cominciamo col dire che la carta dei vini non deve essere esaustiva né comprendere tutti i vini del mondo. Deve semplicemente essere fedele ad una linea che consideri tipologia del locale e della ristorazione, target dei clienti, possibili abbinamenti cibo-vino. Può, inoltre, essere ideata percorrendo un cammino regionale, nel caso in cui la cucina sia basata per lo più su piatti di tale genere, oppure avere un profilo più internazionale. L’originalità, poi, è un aspetto molto importante che non dovrebbe mancare in nessuna carta dei vini, aspetto che invita e stuzzica mentalmente il cliente nella scelta di un vino che ogni volta sia in grado di incuriosire e sorprendere.

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Esistono però alcuni elementi che, nella carta dei vini, non possono mancare. Una carta dei vini degna di questo nome dovrebbe, infatti, indicare per ogni vino i seguenti elementi: nome, denominazione di origine completa, sia italiana che straniera (es. DOC Sannio, DOCG Alta Langa, IGT Beneventano, Kamptal DAC, ecc.), produttore, vitigno, annata, contenuto alcolico e prezzo. Non si può assolutamente prescindere dalla presenza di questi dati essenziali. Le carte dei vini non rispettose di queste indicazioni, non possono definirsi tali, ma rischiano di diventare solo pezzi di carta inutili. Certamente, a quelli elencati, possono aggiungersi ulteriori elementi come, ad esempio, l’indicazione della maturazione eseguita o meno con l’utilizzo del legno, piccolo o grande che sia, il periodo di affinamento in bottiglia, ecc., ma è sconsigliabile trasformare uno strumento che deve essere di facile consultazione ed utilizzo in qualcosa che, invece, andrebbe a complicare, nella maggior parte dei casi, la vita del cliente. Sarebbe preferibile ed auspicabile che, nel caso in cui il cliente avesse bisogno di informazioni supplementari, intervenisse un sommelier, il responsabile della carta o il proprietario del locale, anche se mi rendo perfettamente conto che, nella maggior parte dei casi, ciò è pura fantascienza. Spesso ci si imbatte in carte dei vini senza le annate. Ridicole! I vini cambiano, di anno in anno, soggetti come sono alla mano dell’uomo, alla mutevolezza del tempo meteorologico e delle stagioni. Nessuna annata sarà uguale alla precedente o alla successiva. Ognuna di esse avrà caratteristiche proprie ed uniche e così, allo stesso modo, totalmente diversi saranno i vini figli di quelle annate. Altrettanto essenziali sono le indicazioni del vitigno e del produttore. Il cliente ha il diritto di sapere cosa sta per assaggiare e non è detto che sia un profondo conoscitore delle zone di produzione, dei disciplinari di produzione o dei singoli vignaioli. Indicare la/le varietà è quindi doveroso anche e, soprattutto, nell’abbinamento cibo-vino. Stesso discorso per il produttore. Avete mai visto un certificato di nascita di un bambino senza i nomi dei genitori? Non credo. Allo stesso modo, non deve mancare il dato relativo al vignaiolo che ha dato alla luce quel vino. Infine, il contenuto alcolico. È un elemento molto importante che può essere anche determinante nella scelta del vino ed è, fuor di dubbio, di un certo peso anche nell’abbinamento con il cibo. A volte si teme, indicando la gradazione alcolica, che gli avventori possano essere “terrorizzati” dinanzi a vini con gradazione alcolica di 13,5%, 14% o superiori. Bisogna, a tal riguardo, sempre ricordare che il modo di fare vino ed il clima sono mutati radicalmente rispetto ai decenni passati. Il contenuto alcolico, di

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per sé, non rappresenta una sorta di demonio da evitare. Esso, anzi, ci verrà in aiuto in presenza di piatti caratterizzati da succulenza (presenza di liquido direttamente nella preparazione o indotta dalla masticazione) o untuosità (es. olio), vista la sua capacità disidratante. È bene poi ricordare che la presenza di una netta e decisa nota fresca e, quindi, di un buon contenuto in acidità, riuscirà ad equilibrare perfettamente qualche grado alcolico in più, rendendo il vino assolutamente bevibile e mai “pesante”. Il layout della carta dei vini deve essere di facile lettura. Da preferirsi il formato cartaceo piuttosto che i moderni tablet che, il più delle volte, risultano essere di difficile consultazione e di poca immediatezza. La nostra carta, inoltre, deve dare l’esatta indicazione di ciò che in quel momento è disponibile in cantina. Non è accettabile, ed è molto fastidioso, scegliere un vino presente in carta, per poi sentirsi dire: “Mi spiace, purtroppo è terminato”. Non è così che si opera in modo professionale. Conseguenza naturale di quanto detto è che, perciò, la carta dei vini debba essere aggiornata con regolarità, tenendo in considerazione fattori decisivi come la stagionalità, le eventuali nuove proposte dello chef, i gusti e le tendenze del momento, pur mantenendosi fedeli ad una personale e propria impostazione che, comunque, deve essere lineare, chiara, efficace, netta, possibilmente stimolante. Le novità sono ben accette ma che siano sempre rispettose di un cammino coerente, mi raccomando! L’impostazione della carta può seguire diversi criteri. Quello, ad esempio, per provenienza territoriale o per tipologia (bollicine, bianchi, rosati, rossi, vini dolci, distillati). È anche possibile seguire un percorso che consideri la struttura dei vini. Si distinguono, in questo caso, bollicine, bianchi leggeri, bianchi di corpo, rosati, rossi leggeri, rossi di corpo, vini dolci, distillati. I ricarichi sul prezzo del vino devono essere onesti. È un vero peccato non dare la possibilità di assaggiare vini interessanti se li si propone a prezzi da capogiro ed è una politica mortificante, credetemi, anche nei confronti dei produttori il cui fine primo è quello di far conoscere il frutto delle loro fatiche, non di farlo morire sugli scaffali di qualche ristorante. Prezzi spropositati non favoriscono nessuno. Meglio individuare cantine e vignaioli che producono vini di qualità a prezzi interessanti, per poi riproporli in carta con il giusto ed onesto ricarico. Solo così si è in grado di offrire un ottimo servizio e di grande professionalità. Non posso poi non sottolineare come sia fondamentale la mescita al bicchiere. Essa rappresenta un fattore determinante che fa la differenza in senso assoluto

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nel livello e qualità di ogni locale. È chiaro che, anche in questo caso, le scelte vincenti sono quelle dettate da dedizione, passione e amore per ciò che si fa, credo, capacità e conoscenza. Del resto, chi è sprovvisto di queste doti, può anche astenersi e dedicarsi ad altro. Il vino è un mondo a sé, non si vendono calze o penne ma si comunicano territori e gli spiriti che con essi convivono, anime di uomini, stagioni di sudore e di sofferenza, sorrisi di gioia e, soprattutto, emozioni che dai sensi arrivano, talvolta, all’anima, nel profondo, restando scolpiti in una memoria di piaceri che ci accompagnerà per sempre. Voglio infine terminare con qualche consiglio diretto ai ristoratori. Se avete un briciolo di iniziativa o di interesse per ciò che fate, non continuate a farvi scrivere la carta dei vini dai distributori. Finirete solo per avere una delle migliaia di carte anonime, uguali, insignificanti, noiose, ovvie, delle quali sono tutti infinitamente stufi. Se poi i clienti non dovessero consumare l’intera bottiglia, siate intelligenti. Ritappatela anche alla buona, ponetela in una bustina che può anche essere arricchita dal vostro logo aziendale (pubblicità a costo zero) e porgetela simpaticamente a coloro che vi hanno fatto visita. È un gesto di grande gentilezza e rispetto, ancora, purtroppo, poco diffuso nei confronti di chi ha scelto di trascorrere il suo tempo nel vostro locale. Farete un figurone e tale gesto, seppur semplice, darà un’ulteriore impressione positiva del vostro servizio. Nel caso in cui non doveste adottare questo tipo di comportamento, beh, allora per voi è arrivato proprio il tempo di cambiare mestiere e dedicarvi ad altro. Di sicuro, non sentiremo la vostra mancanza. Siatene certi!

Roberto Vinci è sommelier professionista, fotografo e comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. www.robertovinci.viewbook.com 112


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INCONTRI PRAGHESI

Eva Poddaná

Responsabile Segreteria Associazione Amici dell’Italia in Repubblica Ceca

A cura di Stefania Del Monte

La sua passione per l’Italia e la lingua italiana l’ha portata a ricoprire la sua attuale posizione all’interno dell’Associazione Amici dell’Italia in Repubblica Ceca. Qual è il suo ruolo e quando ha ottenuto l’incarico? L’Associazione Amici dell’Italia è stata fondata subito dopo la “Rivoluzione di Velluto” dal dottor Pietropaolo Rostislav e, fin da allora, è sempre stata gestita da lui. Alcuni anni fa il Comitato Esecutivo decise di creare la posizione di Segretario e, dopo aver vinto il concorso indetto dall’Associazione, ottenni l’incarico all’inizio del 2015. Mi occupo, principalmente, di gestire il funzionamento e l’amministrazione delle nostre sezioni su tutto il territorio della Repubblica Ceca: attualmente ne abbiamo undici. Inoltre sono stata eletta Presidente della sezione di Praga quindi, allo stesso tempo, gestisco l’organizzazione dei corsi di lingua italiana (esistono già da 27 anni) e tutte le attività della sezione praghese. Praticamente, svolgo un ruolo di collegamento tra l’Associazione e le istituzioni italiane dislocate su tutto il territorio della Repubblica Ceca. La grande passione per l’Italia mi ha portata a cercare di diffondere sia la lingua italiana che la cultura e la storia di questo Paese affascinante.



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A cosa si deve il suo amore per il Bel Paese? L’Italia ha sempre significato, per me, il Paese ideale dove poter far convivere cultura, storia, qualità di vita e, non ultima, la buona cucina! Mi ricordo che, già da piccola, avevo sempre voglia di andare in Italia. Non esiste un motivo preciso: si è sempre trattato, semplicemente, di una grande passione per questo Paese. Poi, appena ho potuto, ho iniziato ad imparare la lingua: all’inizio solo come autodidatta e, successivamente, tramite i corsi organizzati dall’Associazione Amici dell’Italia, di cui avevo trovato casualmente la pubblicità sui giornali. Qualche anno dopo, appena è stato indetto il concorso per la mia posizione, ho partecipato senza indugio ed eccomi qua! Di cosa si occupa, esattamente, l’Associazione? L’obiettivo dell’Associazione è di approfondire, aiutare e sviluppare i rapporti tra la Cechia e l’Italia, in tutti i settori della vita sociale. Ovviamente, la situazione e le esigenze dei nostri soci sono molto diverse tra di loro ma, dopo quasi trent’anni di vita dell‘Associazione, possiamo dire che il nostro sforzo di proporre sempre cose nuove e di seguire i nostri associati nei percorsi culturali, sociali e di opportunità commerciali ci sta dando molte soddisfazioni. Nella storia dell’Associazione abbiamo registrato circa tremila persone: prova evidente dell’interesse suscitato. Collabora regolarmente con le istituzione italiane? Sì, abbiamo ottimi rapporti con tutte le istituzioni ufficiali italiane: l’Ambasciata, l’Istituto Italiano di Cultura, la Camera di Commercio Italo-Ceca ed il nuovo Console Onorario dell’Italia nella Repubblica Ceca, Pavel Zezula. Queste istituzioni ci permettono di diffondere e rappresentare l’Italia in un Paese geograficamente vicino all’Italia ma ancora, forse, un po’ lontano sotto alcuni aspetti socio-culturali. Visita spesso l’Italia? Che cosa le piace di più del nostro Paese? Sì, abbastanza, ma mi manca ancora molto da vedere. Fino ad ora ho diversificato parecchio le mie visite: una settimana bianca in Val Gardena, una vacanza in Toscana, la bellissima Roma e la mia amata Sicilia, ma posso dire di essere veramente affascinata dall’Italia e, ogni volta che ho l’occasione di visitarla, scopro cose nuove che mi fanno amare sempre di più questo Paese. Per informazioni: prateleitalie.eu

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ITALIANI NEL MONDO

Angelica Edna Calò Livne Insegnante, regista, scrittrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom

A cura di Maria Grazia Balbiano

Angelica Edna Calò Livnè (Roma 27 agosto 1955) è insegnante, educatrice, formatrice, regista, scrittrice, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom-Un inizio per la pace, con sede in Alta Galilea, in Israele. Nata e cresciuta a Roma, Angelica sceglie di andare a vivere in Israele a vent’anni. La svolta della sua vita arriva nel 2001, quando il primo dei suoi quattro figli viene chiamato per il servizio militare. Il suo istinto di madre e la vocazione di educatrice, uniti alla preoccupazione, la spingono a fare qualcosa di concreto per la pace in Medio Oriente. Sviluppa dunque un metodo di educazione per i giovani attraverso le arti, nel quale convoglia l’esperienza di insegnante, attrice, coreografa e regista: nasce prima la Compagnia dell’Arcobaleno, con lo spettacolo di teatro-danza Beresheet, poi la Fondazione Beresheet LaShalom-Un inizio per la Pace. Da allora viene invitata a rappresentare i suoi spettacoli con ragazzi musulmani, ebrei, cattolici, drusi e cirkassi della Galilea, veri protagonisti e destinatari del suo operato. Con la sua Fondazione, Angelica ha preso parte a workshop in tutto il mondo e ha lavorato con giovani provenienti da Egitto, Palestina, Marocco, Giordania, Malta, Italia, Brasile, Polonia, Estonia, Penisola Scandinava e con donne di varie nazionalità, madri ed educatrici, prime mediatrici di un sentire di pace. Il suo impegno per il dialogo tra diversi le è valso molti riconoscimenti e, nel 2005, una candidatura al Premio Nobel per la Pace.

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Conosco Angelica Edna Calò Livne da oltre dieci anni: ci siamo incontrante durante un evento internazionale in cui rappresentava Israele. Insieme a lei una donna palestinese, per fare il pane della pace e dimostrare che il dialogo parte dalle cose semplici, dalla comunione del vivere quotidiano. Da allora mi lega a lei un’amicizia speciale, che si è espressa in questi anni in tantissime attività a sostegno della sua fondazione Beresheet LaShalom-Un inizio per la pace. Un centro nell’Alta Galilea, nel kibbutz di Sasa al confine con il Libano, in cui attraverso le arti ed il teatro-danza educa i giovani, di diverse estrazioni sociali e credo religiosi, a crescere insieme in fratellanza. Una fucina di ragazzi allegri e impegnati che diventano ambasciatori tra altri giovani; un esempio gioioso di convivenza possibile, replicato quale esempio in ogni occasione, in ogni viaggio, in ogni spettacolo e dibattito in giro per il mondo. Quindi, questa non è un’intervista qualsiasi perché Angelica, o Edna se si sceglie di usare il suo nome ebraico, non è una donna qualsiasi, e non è qualsiasi il rapporto che mi lega a lei. Prometto, però, di porgerle domande impegnative. Vivere in un kibbutz, in un Paese sempre in tensione, ha cambiato la tua prospettiva sul mondo? Sì, tantissimo. Ho conosciuto una cultura molto diversa, molto più aperta, molto all’avanguardia per quanto riguarda, ad esempio, il riconoscimento della parità uomo-donna. A Roma vivevo molto nell’ambiente ebraico, una

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comunità in cui son cresciuta; qui ho ampliato gli orizzonti e completato i miei studi con master e dottorato, sempre nell’ambito dell’educazione e delle arti. Nel Paese in cui vivo c’è un forte idealismo e molto più rispetto per gli altri in confronto a Roma: è un aspetto importante, dato che è un Paese ancora a rischio di guerra. Qui s’impara ad esser forte interiormente, per vivere in condizioni non sempre facili. Dell’Italia, invece, cosa ti resta? Ho avuto un’infanzia serena, amici e affetti. Quest’anno si celebrano i quindici anni della Fondazione Beresheet LaShalom: come è cambiata la scena internazionale in questi anni? La situazione, ha cambiato il tuo modo di lavorare? Sì, ho visto dei cambiamenti: dieci, quindici, anche solo otto anni fa, quando dicevo di lavorare per il dialogo, c’era scetticismo. Talvolta mi son sentita anche isolata, poco ascoltata dalle istituzioni ma, anche a Sasa, oggi ne parlano tutti. È stato riconosciuto che il dialogo interculturale è uno strumento necessario per costruire una società libera e rispettosa gli uni degli altri. Hai incontrato migliaia di giovani in tanti paesi diversi; hai portato la compagnia teatrale con giovani musulmani, ebrei, cattolici, drusi a

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confrontarsi con altri ragazzi: ma si può parlare con un ragazzo di New York o Aqaba allo stesso modo? Certo! Oggi i ragazzi di tutto il mondo ascoltano la stessa musica, parlano la stessa lingua sui social, vedono gli stessi film, si interessano delle stesse tematiche. Il teatro-danza, la musica, il mimo, aiutano l’espressività di tutti. Il metodo che ho sviluppato li pone al centro e li aiuta ad esprimersi. La danza tocca tutti i cuori e le frasi che usiamo come leitmotiv si legano all’identità di ognuno, alle tensioni e timori, ai sogni e alle aspirazioni, come volere una famiglia, degli amici, un buon lavoro. Tutte cose che i ragazzi di tutto il mondo provano e desiderano. Quindi, quando metto insieme gruppi diversi, funziona sempre. Il tema del terrorismo e degli attentati in tutta Europa è qualcosa che emerge nel corso delle tue attività? Qui no, non chiedono di parlarne. I controlli sono altissimi e, anche se capita che qualcuno venga fermato e controllato, non è un argomento che si affronta. Però tutti hanno paura del terrorismo: israeliani ed arabi. Da educatrice, pensi che l’educazione sia una questione nazionale o debba esser pensata al di là dei confini? L’educazione guarda a tutti i paesi e ci si confronta con le avanguardie dell’istruzione, con chi sperimenta nuove metodologie didattiche. Interessanti gli approcci del Canada e della Finlandia. In questo periodo lavoro come consulente accademica in una scuola drusa; uso il mio metodo e, ogni giorno, sperimentiamo attività stimolati per far comprendere il valore dell’impegno sociale. Anche in questa veste, ho partecipato a un convegno sulle nuove iniziative pedagogiche a cui erano presenti 180 scuole. Ho raccontato come le arti da palcoscenico aiutino lo sviluppo dell’identità e accrescano la fiducia in se stessi: cosa necessaria ovunque. C’era anche chi ha illustrato esempi di didattica attraverso la filosofia umanistica. Insomma, ci si confronta in termini globali su come crescere i nostri figli. Il tuo impegno per il dialogo e la pace ti ha fatto avere anche una candidatura al Premio Nobel: cos’è la pace, oggi, per te? Ho rivisto completamente il tema della pace: oggi mi piace di più parlare di dialogo. Perché tutti parlano di pace, anche quelli che vendono armi: mi sembra che si sia abusato del termine e semplificato troppo, impoverendone il valore. Penso che si debba partire da dentro, dal sentire di ogni essere

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umano. Il mio metodo vuole aiutare a costruire persone che amano se stesse, che valorizzano le proprie peculiarità, i talenti segreti … quando si ama se stessi si vedono le altre persone in modo diverso, non si temono, ma si sanno apprezzare. Una persona in pace con se stessa, che è andata oltre la paura e l’odio, sa vedere nell’altro se stesso, sa ascoltare e dialogare. Così si vive nel rispetto ed in armonia con gli altri. Sei una sognatrice, hai sempre sfidato le convenzioni e spesso ti sei messa in situazioni anche pericolose, per migliorare le relazioni tra le persone. Qual è un desiderio che vorresti realizzare nel prossimo futuro? Vorrei avere il tempo per tenere seminari di formazione per docenti ed educatori, in vari paesi, per insegnare il mio metodo, e vorrei scrivere le testimonianze di giovani a cui Beresheet ha cambiato la vita. Gli spettacoli che proponiamo, a partire dallo stesso Beresheet, che è stato replicato centinaia di volte, sono sempre vincenti. Vorrei proporlo a chi non l’ha ancora visto: presto sarò a Bucarest e magari, in futuro, ci sarà un invito anche a Praga, dove sono stata molti anni fa, ad un seminario con ragazzi di tutta Europa, alla scoperta della cultura del Seicento. Ne conservo un bellissimo ricordo! Per saperne di più: masksoff.org beresheetlashalom.wordpress.com amicidiberesheetlashalom.wordpress.com

Maria Grazia Balbiano è una giornalista e addetta stampa, specializzata in Media Relations e Integrated Communication. www.mariagraziabalbiano.com

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BIGHELLONANDO A PRAGA

Velký Strahovský Stadion Un glorioso gigante del passato

A cura di Marco Ciabatti

Tra i tanti stranieri che abitano la città di Praga (e ancor di più tra i tantissimi turisti che ogni anno affollano ogni angolo del suo meraviglioso centro storico) non sono in molti a saperlo ma, appena visibile dietro al paravento naturale formato dagli alberi che ricoprono la collina di Petrin, si nasconde silenzioso un vecchio dinosauro di cemento: si tratta del “Grande stadio di Strahov” (in ceco, Velký Strahovský Stadion).

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I numeri di questa enorme struttura sportiva sono impressionanti: lo stadio di Strahov è infatti considerato il più grande impianto sportivo di questo tipo esistente al mondo, con tribune disposte su tutti e quattro i lati, capaci di contenere fino a 250.000 spettatori e che circondano interamente un’area di 62.876 mq, all’interno della quale, per avere un’idea più precisa delle misure, potrebbero trovare posto, uno accanto all’altro, ben nove campi da calcio. Questa gigantesca arena fu costruita nel 1926, a solo otto anni dalla nascita della Repubblica Cecoslovacca al termine della prima guerra mondiale. All’epoca era più piccola e dotata di semplici tribune in legno, sostituite poi nel 1932 dalle attuali gradinate in cemento. Ha subito, successivamente, due diversi interventi di ammodernamento e ampliamento, rispettivamente nel 1948 e nel 1975, fino a raggiungere la dimensione e l’aspetto attuali. La struttura venne realizzata con lo scopo di ospitare i cosiddetti “Slety”, ovvero impressionanti raduni di massa coreografici di ginnasti che venivano organizzati a intervalli di tempo regolari fin dal 1882, seppur con alcune interruzioni dovute all’instabilità della situazione geopolitica di quel periodo. Questi raduni erano, a loro volta, organizzati dal movimento Sokol, che in ceco significa “falco”, un’associazione sportiva di ginnastica (ma non solo: fu, in realtà, molto attiva sotto vari fronti per il rilancio dell’orgoglio e della cultura

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nazionale) fondata a Praga nel 1862, che prese successivamente questo nome perché il falco era considerato, all’epoca, il simbolo per eccellenza della libertà e del coraggio. I fondatori di questo movimento, che in un primo periodo venne chiamato semplicemente “Unione Ginnica di Praga”, traevano ispirazione dalla massima di Giovenale: “mens sana in corpore sano”, ed erano pertanto fermamente convinti che la salute e la bellezza del corpo fossero inseparabili dalla bellezza dello spirito e che, di conseguenza, le due cose fossero direttamente proporzionali sia a livello individuale che su scala nazionale. Il Sokol – a parte durante il periodo della seconda guerra mondiale, quando fu messo letteralmente al bando in seguito all’occupazione tedesca della Cecoslovacchia – proseguì indisturbato la propria attività (in alcune fasi, anche assumendo una connotazione fortemente militaristica) fino al colpo di stato del 1948 che, mettendo al potere il Partito Comunista Cecoslovacco, dette inizio ai successivi quarant’anni di regime comunista. Proprio nell’estate di quell’anno, venne organizzato l’ultimo Slet “indipendente” della storia, al quale parteciparono 500mila atleti, dopodiché il Sokol venne nuovamente messo al bando e tutte le associazioni locali giovanili di questo storico movimento vennero riunite in due distinte associazioni sportive: l’Unione Socialista dell’Organizzazione Giovanile dei Pionieri, per i ragazzi

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compresi fra gli 8 e i 15 anni, e l’Unione della Gioventù Cecoslovacca, per i giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni, entrambi facenti capo al sistema dell’Educazione Fisica Nazionale. A partire da allora furono quindi queste due nuove associazioni ad occuparsi dell’organizzazione nel Grande stadio di Strahov, con cadenza quinquennale, dei successivi Slety, che però sotto il regime acquisirono la medesima denominazione delle competizioni agonistiche di ginnasti esistenti nell’allora Unione Sovietica (dove erano state introdotte dal 1928, in sostituzione dei Giochi Olimpici), ovvero “Spartakiády”, nominativo scelto in onore del tracio Spartaco, gladiatore e condottiero di fama leggendaria che dal 73 al 71 a.C. capeggiò la rivolta degli schiavi a Roma e che, per questo motivo, era considerato dai sovietici un vero e proprio simbolo dell’internazionalismo proletario. La prima Spartakiáda dell’era socialista venne organizzata nel 1955, in occasione del decimo anniversario della liberazione del Paese dall’occupazione nazista (avvenuta nel maggio del 1945) e i grandi raduni coreografici giovanili degli atleti continuarono regolarmente ogni cinque anni fino al 1985, con la sola eccezione di quello del 1970, che non venne organizzato in quanto erano trascorsi soltanto due anni dalla Primavera di Praga, con la conseguente occupazione militare del Paese, e si temeva che non fosse prudente, in quel clima di insofferenza, riunire in un unico luogo un così grande numero di cittadini. Quella del 1985 fu anche l’ultima Spartakiáda organizzata nel glorioso stadio di Strahov, diventato ormai uno dei simboli della città, perché il 1989 portò con sé la caduta del regime comunista in Cecoslovacchia, a seguito della Rivoluzione di Velluto capeggiata dal futuro presidente Václav Havel; lo Slet del 1990 fu celebrato in tono decisamente minore, con l’assenza di molte categorie e degli atleti slovacchi, cosa che rese possibile spostarlo nel più piccolo stadio Evžena Rošického, che si trova proprio lì accanto. Oggi il Grande stadio di Strahov, che è stato anche teatro negli anni Novanta, e fino al 2002, di concerti tenuti da celebri band internazionali come i Rolling Stones, i Guns N’ Roses, gli Aerosmith, i Pink Floyd, gli AC/DC ed altri grandi nomi, versa in stato di quasi totale abbandono, con le storiche gradinate che sono ormai per lo più inagibili e chiuse al pubblico. Al suo interno vi sono attualmente sette campi da calcio di misure regolamentari (di cui uno in erba sintetica) e un campo da calcio a 5, mentre la restante parte dell’area è occupata da una moderna struttura con servizi di proprietà dello Sparta Praga (la principale squadra di calcio della capitale ceca), che svolge qui gli allenamenti della prima squadra e delle giovanili. Nel corso degli anni sono

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stati proposti vari interventi di recupero di questa mastodontica struttura e ne è stata più volte ipotizzata anche la completa demolizione, ma al momento né l’una né l’altra ipotesi si sono concretizzate: nonostante lo stato di abbandono in cui versa la struttura esterna, però (o forse proprio per quello), arrivare di fronte a questo vero e proprio “monumento al nazionalismo” è una delle cose che, specialmente chi abita stabilmente a Praga, dovrebbe fare almeno una volta. Nel grandissimo piazzale di fronte allo stadio (dal quale, tra l’altro, si gode di un bellissimo panorama della città), conoscendone la storia e le vicissitudini, si respira un’atmosfera molto particolare: si percepisce ancora oggi il senso di grandiosità, di orgoglio nazionale e insieme di soggezione che questa immensa arena, diventata suo malgrado uno dei simboli del regime, doveva trasmettere ai cittadini che da varie parti del Paese vi arrivavano davanti per assistere o partecipare attivamente a questi immensi raduni collettivi. Soffermandosi ad osservare le gradinate sembra di sentire ancora oggi, a distanza di tanti anni, le musiche che, ad ogni edizione degli Slety prima e delle Spartakiády poi, accompagnavano le splendide coreografie degli atleti ordinatamente schierati all’interno: decine di migliaia alla volta, provenienti da tante cittadine diverse eppure perfettamente sincronizzati l’uno con l’altro, grazie a mesi e mesi di prove generali nelle varie palestre degli istituti scolastici. E sembra, ancora oggi, di sentire gli applausi entusiasti degli spettatori, che spesso e volentieri accompagnavano con il battito delle mani i movimenti dei loro giovani impegnati sul campo a ritmo di musica, armati di macchine fotografiche analogiche e di binocoli, per vedere meglio. Molto interessante, dal punto di vista architettonico, è anche l’alta doppia torre in cemento e vetro di forma trapezoidale che domina letteralmente il centro del piazzale ed è ben visibile anche in lontananza dal lungo Moldava: in realtà una grande ciminiera, necessaria a smaltire i fumi di scarico delle automobili dal tunnel che passa proprio sotto allo Stadio, attraverso la collina di Strahov.

Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. www.bighellonando.eu 131


Settembre – Ottobre 2017 Fino al 22 settembre

Stars of Art

Mostra collettiva di artisti internazionali presentata in collaborazione con l’Associazione Galleria “Il Collezionista” di Roma. Orario: lunedì - giovedì, ore 10.00-13.00 / 15.00-17.00; venerdì, ore 10.00-13.00 Ingresso libero Loggiato dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga (Šporkova 14, Praga 1)

Dal 12 settembre al 15 ottobre

Il Barocco nelle terre boeme

Mostra del progetto internazionale Hravý architekt (Architetto giocherellone) dedicato alla promozione dell’architettura tra i bambini. Il progetto espositivo raccoglie sei opere vincitrici per ogni scuola partecipante ed è stato presentato ad agosto nella sede parigina dell’UNESCO. L’inaugurazione della sezione praghese si terrà il 19 settembre alle ore 18.00. Organizzano: Hravý architekt, z.s. e Czech Architecture Week, s.r.o., in collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura Ingresso a pagamento Info: http://www.hravyarchitekt.cz/ - http://www.architectureweek.cz/ Palazzo Clam-Gallas (Husova 158/20, Praga 1)

Dal 13 al 24 settembre

“L’Altrui Altrove”

Mostra del maestro Benedetto Norcia. Evento organizzato in collaborazione con NutriSicilia, Associazione no profit. Info: nutrisicilia@gmail.com Orario: lunedì - giovedì, ore 10.00-13.00 / 15.00-17.00; venerdì, ore 10.00-13.00 Ingresso libero Cappella Barocca dell’Istituto (Vlašská 34, Praga 1)

Dal 21 al 23 settembre

“THERANOSTICS: ON THE WAY”

Il workshop conclude le attività dell’Azione Europea COST MiMed sullo sviluppo di diagnosi e trattamenti innovativi del tumore della mammella tramite l’uso di microonde e sullo sviluppo di nuovi contrasti con azione terapeutica locale. Organizza il dottor Luca Vannucci, direttore del Laboratorio di Immunoterapia dell’Istituto di Microbiologia - Accademia delle Scienze Ceca, manager per COST MiMed e Area Leader per il settore Teranostica di questa Azione. Patrocinio della Società di Immunologia Ceca e dell’Istituto Italiano di Cultura.


Info: mbu@biomed.cas.cz Ingresso a pagamento Istituto di Microbiologia dell’Accademia delle Scienze (Vídeňská 1083, Praga 4)

26 settembre

Giornata europea delle lingue 2017

In occasione della Giornata europea delle lingue l’Istituto Italiano di Cultura ha predisposto il seguente programma: 09.30 - 9.45 benvenuto 09.50 - 10.20 gioca con la lingua italiana 10.30 - 11.10 la mia prima lezione di lingua italiana Per partecipare è necessario prenotarsi entro il 19.09.2017 ( corsi.iicpraga@esteri.it ). La giornata si concluderà con uno Speak-dating organizzato dagli Istituti Culturali Europei del cluster EUNIC e dalla Rappresentanza della Commissione Europea in Repubblica Ceca. Info: www.goethe.de/ins/cz/prj/ets/csindex.htm Orario: 15.00-19.00 Ingresso libero Galleria del Palazzo Lucerna (Vodičkova 36, Praga 1)

26 settembre

Requiem in Do minore per coro misto e orchestra di Luigi Cherubini

L’orchestra dei Czech Virtuosi e il coro del Tbilisi “Z. Paliashvili” State Opera and Ballet Theatre (Georgia) saranno diretti dal M° Walter Attanasi. Collaborazione dell’Ambasciata d’Italia e dell’Istituto Italiano di Cultura. Info: www.czechvirtuosi.cz/Koncerty/ Orario: 19.30 Ingresso a pagamento Sala Dvořák del Rudolfinum (Alšovo nábř. 12, Praga 1)

Dal 28 settembre al 27 ottobre 2017

“La commedia dell’arte”

Personale dell’artista, pittore, scultore e poeta Karel Zlín dedicata all’Italia. Orario: lunedì - giovedì, ore 10.00-13.00/15.00-17.00; venerdì, ore 10.00-13.00 Ingresso libero Cappella barocca dell’Istituto (Vlašská 34/355, Praga 1)

Lunedì 16 ottobre

Concerto di Ennio Morricone a Praga

LAST EVER SHOW. Per informazioni: http://www.enniomorricone.org/it/ Ingresso a pagamento O2 Arena

Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it


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