CIAOPRAGA Volume 4

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volume 4

CIAOPRAGA

arte, cultura e lifestyle


Ciao Praga Magazine

Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle

Volume 4 /// marzo - aprile 2017

Redazione

Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Coordinamento Redazione Sabrina Perrucci Collaboratori

Maria Grazia Balbiano Mariapia Bruno Paola Caronni Marco Ciabatti Paolo Dalponte Laura Di Nitto Alessia Moretti Lorenzo Pelliconi Andreas Pieralli Andrea Rampini Emanuele Ruggiero Silvia Succi Roberto Vinci

Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com Crediti fotografici

Immagini per gentile concessione di: Cover: Imogen Kelly (http://www.imogenkelly.com.au/) Š Nelli Scarlet Danilo De Rossi pagina 3, 117, 119, 120-121, 123, 125 Luca Vannucci pagina 7, 9 Francesca Gheri pagina 45 Studio Esseci pagina 51, 52-53, 55, 57, 59 Roberto Vinci pagina 61 Consorzio Vino Chianti pagina 65 Laura Artuso pagina 67, 69 Emanuele Ridi pagina 97, 101, 102-103, 104-105 FAMU pagina 109, 110-111, 113 Silvia Bajardi pagina 127, 135 Paolo Dalponte pagina 141, 143, 144, 145 IIC Praga pagina 172 Dal Web pagina 11, 13, 15, 17, 18-19, 21, 22-23, 25, 26-27, 29, 31, 32-33, 34, 35, 37, 38-39, 4041, 42, 43, 47, 49, 58, 63, 68, 69, 71, 73, 74, 75, 77, 78-79, 81, 83, 84-85, 87, 88-89, 91, 93, 95, 98-99, 107, 115, 122, 128-129, 131, 132-133, 137, 139, 146-147, 148-149, 150-151, 153, 154-155, 156-157, 158-159, 160, 161, 163, 164-165, 166-167, 169, 170, 171, 175, 176-177, 178, 179

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LETTERA DEL DIRETTORE

Gentili Lettori, La primavera è dietro l’angolo e Praga si prepara, come sempre, ad accoglierla in grande stile. Tra gli eventi che accompagneranno l’arrivo della bella stagione in città da non perdere i mercatini pasquali, la notte delle streghe ed il Festival Internazionale di Pittura dal Vivo, oltre che la prima edizione del Festival del Burlesque. A coronare il tutto, come sempre, un fitto programma di eventi proposto dall’Istituto Italiano di Cultura, tra i quali spicca il concerto “C’era una volta in Italia”, con musiche tratte da otto grandi capolavori del cinema nostrano. Questa è anche l’occasione per celebrare una regione che, per diversi motivi, vanta con Praga una relazione secolare: la Toscana. Partendo da Lucca, città legata a Praga fin dai tempi di Carlo IV, che vi soggiornò durante il suo viaggio in Italia, le prossime pagine raccontano l’amicizia tra il sovrano boemo e Francesco Petrarca, durata una vita intera. Tuttavia, un altro filo rosso tiene unite, da oltre un secolo, le due città: le note del lucchese Giacomo Puccini che, ancora oggi, risuonano costantemente nei teatri di Praga. Il panorama su Lucca si conclude col dolce sapore del Buccellato ma il nostro giro in Toscana prosegue con le immancabili rubriche dedicate all’arte (in questo caso, alla pittura senese) ed al vino (che ci porta invece sulle colline del Chianti Montalbano). Moltissimi, inoltre, sono i personaggi toscani che a Praga ed in Cechia si distinguono, ogni giorno, grazie agli eccellenti risultati raggiunti nei rispettivi settori: tra questi il viareggino Luca Vannucci, Direttore del Laboratorio di Immunoterapia, ed Emanuele Ridi, chef elbano, ormai divenuto una star televisiva ed un grande beniamino del pubblico ceco. E poi, ancora tantissime storie: le interviste a Giovanni Robbiano, Direttore di FAMU International, a Silvia Bajardi, italiana a Seattle, ed a Francesca Gheri, psicologa a Praga; il rapporto dei cechi con la loro terra; le memorie praghesi del designer Paolo Dalponte; gli scatti ispirati di Danilo De Rossi, fotografo italiano a Praga, raccontati da Paola Caronni. Infine, non ci resta che immergerci, con il toscanissimo Marco Ciabatti, nelle acque benefiche del triangolo termale boemo. Buona lettura! Stefania Del Monte


CONTEN UTI Luca Vannucci

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Chirurgo Oncologo e PhD in Immunologia

Un toscano alla corte di Carlo IV

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La lunga amicizia tra Francesco Petrarca ed il sovrano boemo

Quando si dice Lucca, si dice Puccini

28

Intervista a Gabriella Biagi Ravenni, Presidente del Centro Studi Giacomo Puccini

Lucca e dintorni

36

Da Carlo IV a Puccini tra storia, musica e paesaggi mozzafiato

Francesca Gheri

44

Psicologa-psicoterapeuta

Il buon secolo della pittura senese

50

I grandi protagonisti del Seicento in mostra in Toscana

Il Chianti Montalbano

60

Un vino figlio della storia

Profumi e sapori lucchesi

70

Il Buccellato: una tradizione lunga 500 anni

Streghe, frustini e baci Dalla notte di Valpurga all’amore di Måj, le feste della primavera praghese

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Il paese dove la retta via non è smarrita L’amore dei cechi per la loro terra

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Emanuele Ridi Uno Chef toscano a Praga

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Giovanni Robbiano FAMU International ed il cinema a Praga

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Il sogno di modernità di Danilo De Rossi Hong Kong tra la verticalità dei luoghi e il brulicare delle sue esistenze

126

Silvia Bajardi Un’italiana nel Nuovo Mondo

140

Memorie praghesi Tra il fumo delle Sparta ed il sapore della Slivovica

146

Festival internazionale di pittura dal vivo Al via la prima edizione, che si terrà a Praga dal 21 al 28 aprile

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Karlovy Vary, Mariáské Lázně e Františkovy Lázně Il triangolo termale della Repubblica Ceca

162

C’era una volta in Italia Il cinema e la musica italiana protagonisti in un concerto alla Smetana Hall

174

Festival internazionale del Burlesque di Praga Il 10 e 11 marzo, al Teatro Royal, la prima edizione


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L’INTERVISTA

Luca Vannucci

Chirurgo Oncologo e PhD in Immunologia

A cura di Lorenzo Pelliconi

Il Laboratorio di Immunoterapia, facente capo all’Istituto di Microbiologia, è situato a Krč (Praga 4) nel vasto campus dell’Accademia delle Scienze, ente pubblico di ricerca della Repubblica Ceca e omologo del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano. Il Dr. Luca Vannucci – nativo di Viareggio, in provincia di Lucca – è approdato a Praga al crepuscolo degli anni ‘90 per un progetto di ricerca, in collaborazione con il Dr. Miloslav Pospíšil, presso il Laboratorio di Immunità Cellulare Naturale, antenato dell’odierno Laboratorio di Immunoterapia di cui Vannucci è direttore dal 2009. Chirurgo alla scuola del professor Franco Mosca a Pisa e poi del Prof. Fabrizio Michelassi, di cui fu il primo fellow student alla University of Chicago, il Dr. Vannucci ha avuto la possibilità di “imparare il mestiere” di medico e ricercatore dai migliori. Corsista negli USA di Charles Brenton Huggins, che nel 1966 vinse il Premio Nobel per le sue scoperte in merito alla correlazione tra ormoni e tumori alla prostata e alla mammella, ha poi avuto modo di imparare da alcuni luminari italiani della medicina contemporanea: quali

Pierotti, biologia molecolare, Clerici, immunologia, Baietta e Bonadonna, chemioterapia, Veronesi chirurgia oncologica. Il Laboratorio di Immunoterapia è oggi coinvolto in ricerche di respiro internazionale, svolte per mezzo di tecnologie all’avanguardia. Gli studi in corso includono: l’indagine su nuove possibilità di diagnosi e terapia dei tumori del colon-retto, l’analisi di meccanismi dell’infiammazione che possono facilitare o modificare la crescita dei tumori e l’uso di nanotecnologie (nanoparticelle) per portare i farmaci di chemio o immunoterapia direttamente dentro le cellule tumorali.

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Quotidianamente impegnato nella ricerca e nel reperimento fondi per la sussistenza del Laboratorio, il Dr. Vannucci ha un ottimo rapporto con la comunità italiana in Repubblica Ceca e, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Italiano e l’Ambasciata d’Italia a Praga, ha organizzato conferenze divulgative e partecipato ad eventi di beneficenza, ottenendo sempre una risposta molto solidale dai connazionali. Il prossimo appuntamento pubblico sarà però di tipo prettamente medico. Dal 24 al 27 aprile si terrà infatti a Praga, nelle sale dell’Hotel Ambassador a Václavské náměstí, un congresso di immunoterapia che coinvolgerà circa 200 ricercatori. Il congresso offrirà un panorama aggiornato del processo evolutivo dell’immunoterapia, che, considerata per tanti anni alla stregua della magia nera, è divenuta a tutti gli effetti parte integrante della terapia oncologica. Dr. Vannucci, prima di trasferirsi a Praga, ha lavorato come chirurgo e come docente per l’Università di Pisa. Cosa si ricorda di quel periodo che risale ormai a quasi 17 anni fa? A Pisa sono nato e cresciuto come medico, vi ho fatto l’università e la specializzazione in chirurgia generale. Ho vinto una borsa di studio per un corso di specializzazione chirurgica negli Stati Uniti, durante il quale ho imparato a fare modelli sperimentali in animale e ho avviato un modello di carcinogenesi del tumore all’intestino, che avrei successivamente sviluppato a Pisa. Al mio ritorno ho lavorato per due anni all’ospedale di Favizzano come chirurgo, mentre ero ricercatore universitario volontario perché non c’erano posizioni disponibili. Nel frattempo, ho ultimato la specializzazione in oncologia medica a Milano con maestri illustri del calibro di Veronesi, Bonadonna, Baietta, Pierotti. Personaggi che hanno gettato letteralmente le basi della materia, per cui è stato un enorme vantaggio studiare in quel periodo. Entrato definitivamente all’Università di Pisa in qualità di ricercatore e docente, essendo a quell‘epoca l’unica figura a parlare un inglese fluente, diventai il “Ministro degli Esteri” dell’Istituto, il che mi permise di incontrare il professor Miloslav Pospíšil, fondatore del Laboratorio che ora dirigo. Com’è nata l’idea di Praga? Nel ‘94, il professor Pospíšil stava cercando un modello sperimentale di tumore, su cui non ci fossero degli effetti antifisiologici da parte delle sostanze che venivano utilizzate per simulare la carcinogenesi. A un mese di distanza dalla prima chiacchierata, mi arrivò un fax dall’Accademia delle Scienze che mi invitava a collaborare, applicando il mio modello sperimentale. Nel febbraio ‘95 iniziarono i primi test e così le mie visite, con cadenza regolare, per la preparazione e la verifica del modello e la relativa discussione dei risultati. Nel ‘98, dopo risultati rilevanti in merito all’azione di particolari zuccheri sull’attivazione delle cellule immunitarie, ottenemmo un finanziamento quinquennale e mi trasferii in pianta stabile a Praga. Nel 2005 arrivò poi la proposta

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dell’Accademia: Senior Researcher nel campo dell’immunologia, che accettai diventando a tutti gli effetti un lavoratore ceco. Nel frattempo, ottenni anche il Dottorato di Ricerca (PhD) in Immunologia presso l’Università Carolina. Qual è lo stato dell’arte del laboratorio di cui, dal 2009 è direttore? Su cosa si sta lavorando e quali sono gli obiettivi di breve e lungo periodo? Il nucleo dei nostri studi è il microambiente tumorale, l’immunità del medesimo e come le condizioni locali subiscano una mutazione delle strutture che si adeguano allo sviluppo del tumore e alle risposte immunitarie. I risultati scientifici degli ultimi 20 anni hanno permesso di individuare due “dogmi“ nello studio del tumore. Primo, il punto debole di tutte le terapie è il microambiente in cui si sviluppa il tumore. Secondo, lo sviluppo del tumore e la sua modulazione sono basati su fenomeni infiammatori. Su queste basi, misuriamo la distribuzione delle cellule immunitarie prelevando la milza oppure la mucosa intestinale dagli animali, e valutandone i cambiamenti molecolari durante la carcinogenesi. Utilizziamo anche un modello non comune a molti laboratori a livello internazionale, ovvero animali germ-free. Di che si tratta? Si tratta di animali che vengono estratti per via cesarea da un utero completamente sterilizzato. I feti, che non hanno batteri né sulla superficie né nell’organismo, non subiscono, crescendo, la stimolazione cronica di attivazione immunitaria comune invece all’intestino di tutti noi. È possibile quindi contaminarli selettivamente e, tramite la comparazione, capire quali parametri permettono il controllo e quali condizioni possono modificare l’insorgenza del tumore. Questa sperimentazione ha permesso di comprendere che nei germ-free insorgono meno tumori e di dimensioni inferiori. Ne deriva che la stimolazione infiammatoria tipica degli organismi “normali” genera un background che impedisce il riconoscimento di elementi iniziali di carcinogenesi e la conseguente attivazione immunitaria. Questi risultati sono racchiusi in un articolo che è stato citato in varie riviste internazionali specializzate, e ne sono molto contento. Il Laboratorio fa parte di un sistema per gli studi biomedici ovviamente differente da quello italiano. In che termini? L’Accademia occupa un posto importante nella ricerca scientifica nazionale ed esprime un indirizzo importante a livello governativo, a differenza del CNR italiano di cui è omologa. Gli organi direttivi sono scelti dagli accademici stessi, il che è un vantaggio ma anche un problema a seconda di chi governa. Vari sono stati gli attacchi subiti dall’Accademia negli ultimi anni. In particolare dal governo Topolánek, che nel 2009 stabilì una riduzione del budget pari al 20% annuo per tre anni. La conseguente protesta della società civile e di tanti istituti culturali portò il governo a una parziale marcia indietro. Oggi, tuttavia, navighiamo con un budget ridotto di circa il 40% rispetto a quando sono arrivato. Per andare avanti, bisogna trovare i fondi. Le call e i grant nazionali non bastano. Si deve entrare in cordate per fondi europei e internazionali,

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sperando che le tematiche su cui si lavora siano compatibili con la richiesta. Tutto ciò, senza dimenticare i fondi privati, magari offrendo alle ditte la possibilità di fare dei test con le proprie tecniche. In qualità di direttore, non si occupa quindi esclusivamente degli aspetti medico-scientifici, ma diventa a tutti gli effetti un procacciatore di finanziamenti... Assolutamente. È una parte fondamentale della mia attività, che rischia sfortunatamente di prevalere sulla ricerca. Il personale è stipendiato con il budget del laboratorio stesso, non dell’Istituto, e, pur con tabelle stipendiali dequalificanti, si fatica a coprire le spese. I salari bassi, a loro volta, danno vita a problemi di continuità nella ricerca, dovuta al continuo ricambio dello staff. I ragazzi, che magari vengono qua a svilupparsi professionalmente, migrano verso le tante industrie farmaceutiche e biotech che offrono stipendi d’entrata doppi rispetto a quello che noi riusciamo a pagare, e non si può dargli torto. La gestione del laboratorio prevede dunque tanto sacrificio. Tra sperimentazione, valutazione dei risultati, redazione di articoli e serate di beneficenza, per me serate e weekend liberi sono diventati una rarità. La comunità scientifica è un insieme di centinaia di migliaia di centri d’intelligenza, le persone stesse, dislocati nel mondo. Come si delinea la strategia da seguire nel suo campo? Ogni tanto emergono idee folgoranti, il classico tappo di champagne che parte e rivela quella che era la sensazione comune. I vari ricercatori iniziano ad analizzare e, man mano che emergono, i risultati vengono selezionati per rilevanza. Un meccanismo in continuo movimento, come quando si mettono a cuocere gli gnocchi e pian pianino vengono a galla. Qui è lo stesso, nelle dovute proporzioni. A cuocere ci sono tante cose e quelle più importanti vengono su, diventando le milestones sulla strada che si sta costruendo. Ci sono poi i congressi dove vengono presentate le scoperte. Quelli più grandi sono come fiere del settore, delle grandi mostre, mentre quelli più efficaci sono di media grandezza, dove è possibile presentare, discutere e avere un’interazione più profonda. Da questo milieu, dove rappresentanti di laboratori che lavorano sulla stessa tematica si incontrano, nascono idee e collaborazioni. Su internet esiste infine un sito, www.researchgate.net, che funziona come un social network della ricerca, facilitando la connessione e dando la possibilità di rendere accessibile i propri lavori pubblicati. Da espatriato di lunga data, può fare una fotografia del momento storico che sta vivendo il nostro paese? Mi sembra un momento molto caotico. Da un lato c’è un crollo verticale dei valori sociali ed etici e della capacità di difenderli. Il panorama politico non offre grandi personaggi che possano sostenere il recupero etico-sociale che servirebbe. La mancanza di un’ideologia, di un credo nel quale l’individuo si possa riconoscere ne è la causa principale. Questo è un problema grosso del nuovo secolo, dalla fine del secolo breve ad

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ora. Un esempio pratico è dato dal riscontro della figura del Papa. Lui è il rappresentante riconoscibile di un’entità con un’identità etico-sociale chiara, che mette in luce alcune necessità del convivere e della dignità umana essenziali: il lavoro, il rispetto degli altri, la pacificità delle relazioni, la carità. Elementi che sono condivisibili anche da un ateo, poiché basi del convivere sociale. Il fatto che il solo baluardo rimasto di valori “normali”, lapalissiani, sia una figura religiosa evidenzia il vuoto di rappresentanza. Per il resto, mi sembra sia in corso una sparizione dei limiti che permettono il dibattito e la libertà, nel senso di condivisione e rispetto del prossimo. Parole che richiamano una figura che abbiamo perso di recente, Zygmunt Bauman, e la sua società liquida. In Italia, il dibattito è spesso dominato dalla circolazione coatta di “false verità”. Si spazia tra la dipendenza vaccino-autismo e la psicosi meningite, correlata erroneamente al fenomeno delle migrazioni. A inizio gennaio, il virologo Roberto Burioni, dopo aver ricevuto ripetuti attacchi su temi scientifici da individui senza qualificazione né competenza, ha affermato che la scienza non è democratica. Quali possono essere gli anticorpi per situazioni di questo tipo, che infettano il vivere comune? L’anticorpo sarebbe il livello di credibilità attribuita a chi dice una certa cosa. Se non credi al pulpito da cui viene la predica, perché ne metti in discussione competenza ed esperienza, allora non c’è capacità di dialogo. Un dialogo alla pari si verifica quando ognuno cerca di capire, e poi, in maniera logica, si arriva alla prevalenza di una delle due parti. Se però si parte dal principio che tutti i dati sono manipolati dalle big pharma, è evidente che non si parla più di fatti oggettivi ma di affabulazione generale non comprovata e che, allo stesso tempo, non può essere nemmeno smentita. Questo è il dramma grosso. Se avessimo due malati di polmonite, io l’antibiotico e uno stregone la propria danza, sarebbe semplice dimostrare quale rimedio funzioni. L’audience di chi cavalca queste teorie inverosimili è però molto più ampia rispetto a quella di chi usa il linguaggio scientifico, più arido e meno coinvolgente per definizione. Questo fa sempre parte del crollo dei limiti e dell’identificazione dei soggetti. Dire che la scienza non è democratica è vero, ma fino a un certo punto. È il rispetto del dato logico e della prova che deve essere considerato, perché qualora non lo fosse salterebbero tutti i limiti della discussione. L’Italia è il settimo paese al mondo per impatto nel campo della ricerca su scala mondiale. Allo stesso tempo, i nostri investimenti sono ampiamente sotto la media EU. Il trade off, certamente positivo, è sostenibile nel tempo? Il fatto che si ottengano risultati significa che i cervelli sono buoni e lo si vede anche andando in giro per il mondo. Purtroppo il know how continua a essere coltivato con gli scarti della finanziaria, senza conseguenze reali né per il futuro né per l’occupazione nell’immediato. Se si investisse in maniera continuativa, si potrebbe avviare un trend positivo sia per l’industria sia per la ricerca, portando a migliori possibilità d’impiego e all’apertura di altri campi applicativi. D’altronde, ogni nuovo prodotto vendibile

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oggi è il risultato di ricerche di anni, partite da un banco di laboratorio dove ne sono state scoperte le basi. Minori investimenti, invece, si traducono in tempi più lunghi e ricerche meno competitive, perché da altre parti magari sono già arrivati al risultato. Bisogna saper guardare al futuro e non, come al solito, alla punta delle proprie scarpe, come purtroppo accade troppo spesso nella politica nazionale ed internazionale. L’aumento dei fondi destinati alla ricerca è fondamentale, ma anche la loro gestione deve essere logica e lungimirante... Gli stati dimenticano che non si fa la scienza con imprese faraoniche, grandi laboratori e super centri. O meglio, la scienza si fa anche così quando bisogna raggiungere risultati specifici in particolari progetti. Ma un ricercatore bravo non nasce dal nulla. Se non c’è la scuola che insegna a usare una pipetta, o a separare cellule e dna, come fanno questi studenti a diventare ricercatori da Premio Nobel? Se i fondi sono devoluti per le super eccellenze, viene fatta affogare tutta quella marea di laboratori di piccola e media grandezza, che di fatto crea, educa, e permette lo sviluppo progressivo dei ricercatori di domani. È come se si volessero aprire un sacco di università, senza prima avere aperto le scuole elementari.

Lorenzo Pelliconi, laureato al MIREES (Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe) presso l’Università di Bologna, ha lavorato nel campo della cooperazione e della progettazione europea per LDA Subotica (Serbia) e per Unione Italiana, organizzazione che rappresenta la minoranza autoctona italiana in Croazia e Slovenia. Da poco atterrato a Praga, si interessa di storia, urbanismo e sport. lorenzo.pelliconi22@gmail.com 15


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STORIA

Un toscano alla corte di Carlo IV

La lunga amicizia tra Francesco Petrarca ed il sovrano boemo

A cura di Marco Ciabatti

Francesco Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304. Era figlio di un celebre notaio fiorentino, per la precisione di Incisa, coetaneo e amico di Dante Alighieri, di nome Pietro di Parenzo di Garzo (ma meglio noto come Ser Petracco) che, proprio come il sommo poeta, si era schierato nelle file dei guelfi bianchi, finendo per essere esiliato da Firenze insieme alla moglie Eletta Canigiani.

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Il Petrarca venne quindi al mondo già esiliato dal luogo di cui i suoi genitori erano originari. Oltretutto la famiglia per intero si trasferì ad Avignone (eletta nuova sede papale) già nel 1312, cosa che lo portò negli anni a sviluppare un certo distacco nei confronti della propria terra, in netta contrapposizione con la società medioevale dell’epoca, dove invece era molto forte l’attaccamento al proprio luogo d’origine. Questo facilitò, in Petrarca, la tendenza a viaggiare molto nel corso della sua vita, accettando di svolgere incarichi e di trasferirsi senza indugio in luoghi che allora apparivano remoti, divenendo così uno dei primi veri cittadini del mondo, condizione che non gli risparmiò numerose critiche da parte degli altri artisti e intellettuali suoi contemporanei, come ad esempio lo stesso Boccaccio, che glielo rinfacciò apertamente in una delle sue lettere. Ciò che a noi interessa in modo particolare sono, però, i rapporti che intercorsero tra Francesco Petrarca e Carlo IV di Lussemburgo (del quale ci siamo ampiamente occupati, in precedenza, su queste pagine) e che culminarono, nel 1356, con il viaggio ed il soggiorno del Petrarca a Praga, quando fu invitato ufficialmente per la prima volta alla corte dell’imperatore boemo. Quello tra Carlo IV e il poeta aretino fu un rapporto di profonda stima reciproca (e, in un certo qual modo, di amicizia) di notevole importanza a livello internazionale, in quanto ebbe come effetto principale quello di condizionare lo svolgersi delle vicissitudini politiche interne al Sacro Romano Impero, che riguardavano quindi gran parte dell’Europa. Petrarca, infatti, aveva preso molto a cuore l’intento di dare il suo fattivo contributo al fine di ripristinare in maniera duratura la pace tra i vari stati che componevano l’impero, e, soprattutto, di soffocare una volta per tutte lo scontro di potere cruento e dannoso che si era venuto a creare tra il papato e l’allora imperatore Ludovico IV, detto dispregiativamente “il Bavaro”; scontro che si stava ripercuotendo negativamente sulla popolazione. Ma in che cosa consisteva, nella pratica, questo contributo? Fin dal 1346 Carlo IV, del quale Petrarca aveva già grande stima, era stato eletto dal papato (con l’appoggio della corte di Francia) anti-imperatore, in contrapposizione alla figura ufficiale di Ludovico il Bavaro, e sicuramente si sarebbe arrivati ad uno scontro violento tra le armate dei due imperatori, non fosse stato per il fatto che lo stesso Ludovico morì solamente un anno dopo, prima quindi che vi fosse il tempo di passare alle armi.

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Dopo la morte di Ludovico, Carlo IV, nella sua veste di imperatore in-pectore, avrebbe potuto partire subito alla volta di Roma, in modo da essere incoronato ufficialmente, tuttavia il sovrano era probabilmente molto preso dalle sue innovazioni in Boemia (basti ricordare, ad esempio, che nel 1348 fondò l’Università Carolina di Praga, la prima a nord delle Alpi) e non si decideva ad intraprendere il lungo viaggio verso la capitale. Il 24 febbraio del 1351 Petrarca, da Padova, decise quindi di scrivere una lettera a Carlo IV che fosse il più possibile rispettosa ma, al tempo stesso, determinata, per sollecitarlo a non esitare oltre e partire alla volta della penisola, per far valere la propria autorità. Nella lettera il poeta parla, tra gli altri, a nome del defunto imperatore Enrico VII di Lussemburgo, nonno del sovrano e padre di quel Giovanni di Lussemburgo che Dante Alighieri definiva “il re ideale”, esortandolo a continuare nel suo intento di “prendere Roma e le sue lacrime e farne di nuovo uno stato” essendo lui morto prima di poter portare a compimento questa impresa. Ricorda, in particolar modo, al nipote che nemmeno lui è immortale e gli consiglia, quindi, di muoversi velocemente, e attraversare al più presto le Alpi perché “Roma chiama il suo promesso sposo e l’Italia il suo salvatore, e brama di essere toccata dai tuoi piedi”. L’appello si conclude con una considerazione bellissima: “Per i cattivi non sarai mai abbastanza titubante, mentre per i buoni non sarai mai abbastanza frettoloso. Già questo è motivo sufficiente a che tu ti sbrighi e porti ai buoni la gioia e ai cattivi pena oppure clemenza. Del resto tu sei l’unico a cui Dio onnipotente ha riservato la fama tardiva del mio sforzo inutile”. La lettera di Petrarca sortì il proprio effetto solamente tre anni più tardi, quando finalmente il sovrano decise di scendere nella penisola alla volta di Roma per ricevere ufficialmente la corona imperiale, partendo da Norimberga il 26 settembre, due giorni prima della festa di San Venceslao, figura alla quale Carlo IV era da sempre molto devoto. Appena il Petrarca venne a sapere dell’arrivo in Italia del suo agognato imperatore, che nel frattempo si era fermato a Mantova (dove aveva subito dato inizio al processo di riappacificazione degli stati ricevendo gli ambasciatori di Milano, Venezia e Pisa), gli scrisse da Milano, dove nel frattempo si era trasferito e svolgeva incarichi per la famiglia Visconti, una lettera carica di entusiasmo, nella quale esprimeva anche la speranza di poterlo incontrare di persona. Scriveva il Petrarca: “Per me non sei più re boemo, ma re del mondo! Ora sei già sovrano dell’impero e il vero imperatore. Troverai pronto tutto quello

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che ti ho promesso, non temere: la corona, il potere, la gloria immortale e anche la strada per il Paradiso!”. E l’invito non tardò ad arrivare, Carlo IV inviò da Mantova il suo consigliere e uomo di fiducia Sagremor de Pommiers, un francese di origini nobili che militava per legame di parentela al servizio dei Visconti, in modo che recapitasse il suo messaggio al poeta. Nonostante (come scrive ad un suo amico lo stesso Petrarca) l’inverno iniziasse a farsi più rigido, il nostro non poté certo rifiutare di raggiungere il suo imperatore e si mise quindi subito in viaggio, raggiungendo Mantova in appena quattro giorni, viaggiando, come lui stesso ammette, ogni giorno fino a notte inoltrata, in modo da arrivare al più presto. Durante il soggiorno a Mantova, Petrarca trascorse un’intera giornata in compagnia del sovrano che tanto aveva atteso. In quell’occasione Carlo IV gli chiese di avere in dono, quando fosse stato completo, una copia della sua opera “De viris illustribus” (Vite degli uomini illustri), richiesta alla quale il Petrarca rispose con queste parole, che lui stesso ci ha tramandato: “Per quanto riguarda me, quest’opera richiede adeguato tempo di vita, poiché le grandi cose non possono essere compiute in fretta. Per quanto riguarda te, imperatore, bisogna che tu sappia che soltanto dopo sarai degno di questo dono e di quel titolo che porta il mio libro. Quando ti aggiungerai agli illustri non solo con la lucentezza del tuo rango e con la corona, ma con le tue azioni e con i tuoi meriti e se vivrai in modo che i tuoi discendenti leggeranno di te come tu leggi degli eroi del passato”. Poi, dopo aver pronunciato queste parole, Petrarca fece dono al sovrano di alcune monete d’oro e d’argento con le effigi di antichi sovrani (tra i quali spiccava quella dell’imperatore Augusto) e gli dis-

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se: “Guarda imperatore, al posto di chi sei arrivato, a chi dovresti assomigliare, chi devi ammirare. Loro sono il tuo esempio, a nessun altro tranne te le avrei date. Il tuo gran potere mi ha spinto a farlo, io conosco benissimo il loro carattere, i loro nomi e ciò che hanno compiuto. Il tuo compito, però, non è soltanto quello di conoscerli, ma di camminare all’interno delle loro orme”. Secondo Petrarca, Carlo IV accettò il suo dono con tale gioia che sembrava non avesse mai ricevuto in vita sua un regalo più bello. Mentre l’imperatore riprendeva il suo lungo viaggio verso Roma, Petrarca entrò in contatto, per via epistolare, anche con alcuni personaggi di spicco della corte di Praga, tra cui Jan ze Středy, allora cancelliere e vescovo di Neuburg, che divenne poi arcivescovo di Praga e infine cardinale. Tra i due si venne presto a creare un reciproco rapporto di grande stima e affetto tanto che, quando Carlo IV elesse Francesco Petrarca al titolo di conte palatino, conferendogli numerosi privilegi, fu lo stesso Jan a redigere il diploma e ad inviarlo al poeta, racchiuso in una teca d’oro. Proprio a Jan ze Středy si deve in gran parte l’invito, che il Petrarca ricevette qualche tempo dopo, di fare visita all’imperatore a Praga. L’occasione per intraprendere il viaggio si presentò finalmente nell’estate del 1356, quando il poeta venne inviato alla corte imperiale come ambasciatore di Galeazzo Barnabò Visconti. Il motivo del viaggio non è del tutto certo, la famiglia Visconti (potentissima a Milano, tanto che ancora oggi ritroviamo il loro stemma nobiliare, ovvero il famoso “biscione”, in tante realtà aziendali lombarde, come ad esempio il gruppo Fininvest e Mediolanum, l’Alfa Romeo e il vecchio stemma dell’Inter) non era certo grande amica dei Lussemburgo. Addirittura si dice che, dietro al tentativo di avvelenamento che lo stesso Carlo subì durante il suo primo viaggio in Italia per conto del padre, quando aveva ancora 15 anni, ci fosse proprio lo zampino della famiglia Visconti. Tuttavia, in quegli anni nel nord Italia, stava prendendo forma una lega anti-viscontea e, secondo alcune fonti, il Petrarca fu inviato proprio al fine di intercedere presso l’imperatore, affinché intervenisse in proposito. Petrarca si mise quindi in viaggio verso Basilea e, dopo aver fatto tappa nella cittadina svizzera, partì finalmente alla volta di Praga, che raggiunse grossomodo alla metà di luglio, dopo un viaggio durato una ventina di giorni, e dove soggiornò per circa un mese. Così come si può solo ipotizzare il motivo di questa missione, allo stesso modo non si sa se essa ebbe successo o meno. Di sicuro il soggiorno a Praga fu, per il Petrarca, un’ottima occasione per rinnovare il suo rapporto di amicizia con Jan e per guadagnarsi la sti-

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ma e il favore di altri influenti membri della corte reale, in particolare quella dell’imperatrice Anna di Schweidnitz, seconda moglie di Carlo IV (la prima, Bianca di Valois, era deceduta nel 1348) e madre del suo successore Venceslao, in quanto il primo figlio dell’imperatore era morto da piccolo. Questo rapporto di cordialità e stima tra il Petrarca e i membri della corte reale, ma anche di grande apertura nei confronti di territori all’epoca considerati “barbari” da un punto di vista prettamente culturale e letterario, è testimoniata da quello che lui stesso scrisse, l’anno successivo, in una lettera inviata all’Arcivescovo di Praga, Arnošt z Pardubic: “Ricordo bene con quale aspetto, con che animo e con quanta cortesia tu, l’anno scorso, hai saputo legare a te questo straniero che conoscevi soltanto di nome. Rammento con quanta gentilezza mi ripetevi spesso: “ti compatisco, amico, perché sei venuto tra i barbari”. E io, invece, confesso di non aver visto nulla di meno barbaro e di più umano di Cesare e di alcuni di quei sommi uomini che non sto qui a nominare, sommi e degni di maggior menzione e, per quanto posso dire io, cortesi ed affabili come se fossero nati nell’antica Atene. Ma com’era Praga quando la vide Petrarca? Sicuramente molto diversa da quella che conosciamo oggi: il quartiere della Città Nuova era solo un piccolo embrione di quello attuale; la Città Vecchia era ancora cinta dalle mura, circondate a loro volta da un profondo fossato che oggi è il grande viale che congiunge Náměstí Republiky (Piazza della Repubblica) con Piazza Venceslao e che comprendevano il possente edificio in pietra dove si trovava la corte reale, accanto all’odierna Porta delle Polveri, che venne però costruita solo nel secolo successivo. Il municipio della Città Vecchia, con la famosa torre dell’orologio, era in corso di costruzione da meno di vent’anni, ma il celebre orologio astronomico (realizzato solo nel 1410 e perfezionato poi nel 1490) non esisteva ancora. Non era possibile attraversare la Moldava a piedi. Il ponte di Giuditta, infatti, ovvero il primo ponte di pietra costruito a Praga, era già crollato a seguito di una inondazione, ma i lavori per la costruzione

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del Ponte Carlo sarebbero partiti soltanto l’anno successivo: ovvero il 9 luglio del 1357. I lavori di costruzione della cattedrale di San Vito, uno dei maggiori simboli di Praga, erano stati iniziati solo una decina d’anni prima e la chiesa era quindi ancora lontanissima dall’essere completata (l’intero processo di costruzione ha attraversato diversi secoli). Il castello, invece, si presentava ancora in stile medioevale, con delle possenti mura al posto degli odierni palazzi. Il Quartiere Piccolo era caratterizzato dalle case dei contadini e da grandi appezzamenti di terreno agricolo e pascoli, che si estendevano fino a raggiungere la base delle mura del castello. Infine l’elegante quartiere di Vinohrady, dove tanti italiani residenti a Praga hanno oggi la loro abitazione, era ancora interamente occupato dai celebri vigneti reali che gli hanno dato il nome. Dopo quel primo viaggio a Praga, Petrarca fu invitato alla corte reale altre due volte ma, per vari motivi, non ebbe più la possibilità di tornarvi.

Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. http://www.bighellonando.eu

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MUSICA

Quando si dice Lucca, si dice Puccini Intervista a Gabriella Biagi Ravenni, Presidente del Centro Studi Giacomo Puccini

A cura di Laura Di Nitto

Quando si parla di Lucca, agli appassionati di musica non può che venire in mente Giacomo Puccini, compositore eclettico e icona dell’opera e della cultura italiana nel mondo. In una città tanto vivace dal punto di vista culturale, allora come oggi, ed in seno ad una famiglia di musicisti, maestri di cappella del Duomo di Lucca da molte generazioni, il grande compositore iniziò da giovanissimo a studiare violino all’Istituto musicale «G. Pacini» - scuola rinomata anche oltre le mura lucchesi – e composizione con Carlo Angeloni, ex allievo del padre Michele.

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Nato nel dicembre del 1858, frequentò dal 1880 al 1883 il conservatorio a Milano, al termine del quale decise di dedicarsi in modo esclusivo alla composizione, piuttosto che all’insegnamento e all’esecuzione musicale. In realtà, si racconta che la passione per il teatro musicale lo colse ancor prima di finire gli studi, dopo aver assistito ad una rappresentazione di Aida di Verdi, nel 1876 a Pisa, dove si sarebbe recato addirittura a piedi con due amici. Incontro fondamentale, per la carriera del giovane Giacomo, fu quello con l’editore Giulio Ricordi, che si accorse di Puccini a seguito della rappresentazione della sua prima opera, Le Villi, nel 1884. Entusiasta, il più importante editore musicale italiano gli commissionò una seconda opera, l’Edgar, che tuttavia non fu un gran successo. A Puccini toccò attendere, squattrinato ma felicemente innamorato della moglie Elvira Bonturi, i tempi migliori che sarebbero arrivati con Manon Lescaut, nel 1893, anticipatore dell’enorme successo de La Bohème, che si estese anche oltre i confini italiani. Con le opere successive, Tosca del 1900 e Madama Butterfly del 1904, il successo internazionale fu consacrato con la presenza delle sue opere presso i più importanti teatri dell’opera all’estero: nel 1905 a Buenos Aires e Londra, nel 1906 a Budapest e Londra, nel 1907 a New York, nel 1908 a Parigi. Nel 1910, per la prima volta, un’opera di Puccini ebbe il suo debutto all’estero: La fanciulla del West fu messa in scena nella sua prima assoluta a New York. Tutt’oggi il successo internazionale continua ad essere indiscusso e, nella magnifica Praga, capita spesso che siano in scena, contemporaneamente, diverse opere di Puccini. È il caso, infatti, di questi vibranti primi mesi del 2017, con Tosca, Madama Butterfly e La Bohème al Teatro Nazionale e al Teatro dell’Opera: occasioni che si ripetono spesso e che, tuttavia, vale la pena cogliere, per concedersi eventualmente più di un bis! Del resto, questa continua presenza delle splendide opere di Puccini nei teatri di tutto il mondo non stupisce. Tutt’altro. E spiega chiaramente la passione di tanti studenti e ricercatori per la figura del compositore lucchese e l’interesse all’approfondimento della sua opera. È una sorta di “circolo virtuoso”, per cui più un’opera viene messa in scena, più vi si crea interesse attorno e più c’è interesse, tanto maggiore sarà il desiderio dei teatri di metterla in scena. Racconta la professoressa Gabriella Biagi Ravenni, presidente del Centro Studi Giacomo Puccini di Lucca, che sono tanti gli studenti che arrivano nella città toscana da diversi paesi del mondo, proprio per approfondire l’opera e lo studio della figura del compositore.

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“Il Centro Studi Giacomo Puccini nasce proprio con lo scopo di fare ricerca – afferma - e oggi, a vent’anni dalla sua fondazione, possiamo dire che molti degli obiettivi sono stati raggiunti, nonostante le risorse limitate e grazie alla passione di tutti coloro che collaborano per il puro interesse nella figura e nell’opera dell’artista”. Tra le attività principali del Centro c’è il reperimento, l’analisi e la pubblicazione dell’epistolario, fondamentale per acquisire notizie concrete sulla vita di Puccini, sugli incontri, sulle letture che faceva. Insomma, un percorso articolato e mosso che permette di ricostruire le tappe della genesi dell’opera dell’artista, ora arrivato alla redazione del secondo volume con le lettere fino al 1901. Un lavoro enorme, con un database di oltre 8500 lettere, che continua a crescere. La professoressa Ravenni parla, inoltre, di un avvicinamento dei giovani all’opera, anche grazie ai programmi realizzati dai grandi teatri: “La Scala di Milano, ad esempio, organizza una ‘prima della prima’, aperta solo ai giovani fino ai 30 anni: un’iniziativa bellissima, che permette ai ragazzi di godere di recite splendide dal punto di vista artistico e tecnico, senza dover temere la grandiosità del luogo deputato, che spesso può intimorire e fare da deterrente”.

Gabriella Biagi Ravenni è laureata in Lettere (tesi in Storia della musica) presso l’Università di Pisa, diplomata in pianoforte presso l’Istituto musicale «L. Boccherini», socio ordinario dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti. Professore associato di Musicologia all’Università degli studi di Pisa, nel 1996 ha partecipato alla fondazione del Centro studi Giacomo Puccini, del quale è attualmente Presidente e membro del Comitato scientifico. Ha coordinato la Commissione storico-scientifica ed è stata membro della Giunta del Comitato Nazionale per le celebrazioni pucciniane 20042008, istituito dal Ministero per i beni e le attività culturali. Fa parte della Commissione scientifica dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini, istituita dal Ministero per i beni e le attività culturali nel 2007, nell’ambito della quale coordina il Comitato per l’edizione dell’Epistolario. Nel 2005 ha partecipato alla fondazione del Centro studi Luigi Boccherini, del quale è stata Vicepresidente fino al 2015, ed è membro del Comitato scientifico. Dal 1995 al 30 settembre 2014 è stata direttore e curatore del Museo Casa Natale di Giacomo Puccini (Lucca). Dal 2002 al 30 settembre 2014 è stata direttore della Fondazione Giacomo Puccini. È autrice e/o curatrice di vari volumi e ha pubblicato numerosi saggi su riviste nazionali e internazionali e in volumi miscellanei, ha ideato e curato mostre, ha ideato convegni, ha curato atti di convegni, ha scritto voci per dizionari italiani e internazionali. Nel 2015 le è stato conferito il Premio Illica per il volume “Giacomo Puccini. Epistolario. I. 1877-1896”, curato in collaborazione con Dieter Schickling.

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Tra i suoi sogni nel cassetto per il futuro del Centro Studi, che accompagna anche il lavoro del Museo Casa Natale di Puccini, c’è la produzione di esecuzioni di altissimo profilo nella città di Lucca: “per cominciare a consolidare l’idea di ascoltare le opere di Puccini nella sua città natale, con il supporto dato dal lavoro di ricerca del Centro. Un po’ come si è fatto a Salisburgo con la splendida esperienza del Mozarteum: un’intera università fondata e ispirata a Mozart e finalizzata alla formazione di talenti eccezionali, per i palchi più importanti del mondo”. Ciò potrebbe vedere giovani di tutto il mondo formarsi in un centro studi d’eccellenza e suonare nella città di Lucca come trampolino verso i palchi di teatri prestigiosi. Per gli appassionati del compositore lucchese ricordiamo anche l’appuntamento, nel mese di maggio, al Lucca Classica Music Festival, “dove racconta la professoressa Ravenni - saranno presentati, ancora una volta (come nei Puccini Days), inediti pucciniani ricomposti da fonti frammentarie e trascritti e studiati per poter essere messi in scena dai fortunati musicisti che riceveranno questo dono, con tutta l’emozione che la sua unicità comporta”. Un’esperienza unica anche per gli ascoltatori, che potranno godere di questo spettacolo eccezionale.

Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. https://www.linkedin.com/in/lauradinitto

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IL BEL PAESE

Lucca e dintorni

Da Carlo IV a Puccini tra storia, musica e paesaggi mozzafiato

A cura di Maria Grazia Balbiano

Per una volta riavvolgiamo il tempo e pensiamo al concetto di viaggio comune sino a qualche secolo fa. Ecco, nessun volo aereo, nessun all inclusive in 48 ore ma un lento, piacevole, scoprire passo a passo un altro paese. Il percorso cambia, si compone in una serie di tappe, pause necessarie a riposare, diventa un modo per conoscere anche luoghi meno noti. Allora, con un piccolo sforzo mentale d’immedesimazione, possiamo capire perché Lucca e dintorni siano stati luoghi di soggiorno di Carlo IV di Boemia e di altri viaggiatori, nei secoli a seguire. Certo, va considerato un piccolo dettaglio: Carlo era un giovane che studiava da Re e doveva esercitarsi amministrando i beni di famiglia “periferici” – una dozzina di città italiane tra cui, appunto, il centro toscano – curare i rapporti con i banchieri fiorentini, essere in prossimità dalla Roma dei Papi, ma questa è un’altra storia…

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Anche oggi si può viaggiare in modo più “vintage”, senza troppa fatica, ma con molta curiosità e qualche suggerimento. Tra le strade minori ci si perde in scoperte colte, che permettono di comprendere meglio la storia, l’arte, la cultura italiana che tutto il mondo ammira. I piccoli centri sono la realtà aumentata, che ci consente di entrare nel vero tessuto di un paese come l’Italia. “Vale un viaggio”: è il titolo perfetto di una recente pubblicazione di Cinquesensi, editore lucchese, la cui autrice Beba Marsano ci offre spunti inusuali per vedere l’Italia tra arte, tradizioni ed enogastronomia. Per arrivare a Lucca da nord, via terra, ci s’imbatte in una Lunigiana segreta, una zona tra Liguria e Toscana un tempo crocevia tra terra e mare, prossima al parmense, in cui scoprire la cultura megalitica. Siamo a circa 90 km da Lucca. Le indicazioni del libro suggeriscono una tappa al Museo delle Statue Stele di Pontremoli, allestito nel Castello del Pignaro. La toponomastica dei luoghi varrebbe, da sola, un approfondimento. Sono visibili una quarantina di statue: soggetti antropomorfi, con stilemi universalmente comprensibili ma, al tempo stesso, ricchi di incognite. Una produzione che inizia a metà del IV millennio a.C. e continua nei tre successivi, in una sotto area geografica molto circoscritta. Un tempo le steli erano piantate nel terreno

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in punti considerati importanti: necropoli, radure nei boschi, luoghi votivi. L’impianto scenico doveva avere sicuramente un notevole impatto. Immaginiamo quale impressione potesse trarne il viandante straniero che, dopo giorni di cammino, si trovasse in un territorio costellato di statue vigili su di lui. Ancora oggi molte sono le domande aperte sul chi, il come ed il perché di queste creazioni ma resta il fatto che si tratta di una delle testimonianze artistiche di un’era. Una deviazione d’area, sempre pensando ad un viaggio meno rinascimentale, è la zona della Garfagnana, entroterra in cui ci si può avventurare tra rocche e fortezze in luoghi, per definizione, non di strada. Il viandante da nord affrontava l’ingresso nel territorio da Passo Carpinelli, seguendo poi la via del Santo Sepolcro, ancora oggi praticabile e adatta ad escursioni lente. In alternativa c’è una comoda statale. Si arriva alla Fortezza di Verrucole, che ha avuto nei secoli varie destinazioni d’uso ma offre, ancora oggi, un certo sapore di “feudalesimo”. Attualmente il centro è gestito da giovani con uno spiccato amore per la storia, che guidano in una visita filologica suggestiva. Riprendendo il cammino che fu di tanti pellegrini e turisti ante litteram, a poco più di una decina di chilometri si arriva alla fortezza di Monte Alfonso, una seria di edifici in gran parte recuperati, sempre visitabili. Zone che riportano a ma-

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trici antiche e sono facilmente raggiungibili in auto, in giornata, per chi sceglie Lucca come snodo del soggiorno toscano, o si ferma in fase di avvicinamento, sempre dal nord. Lucca, quindi, una bella città nel verde, mosso, ma molto più dolce degli altri luoghi suggeriti, ha un’eleganza aristocratica e raccolta. Le mura cinquecentesche su cui si può passeggiare e, all’occasione, anche mangiare. Le torri medioevali. Impossibile non notare un albero in vetta di quella dei Guinigi! La bellissima piazza, ex anfiteatro romano, di cui conserva la forma ed è stata spesso set di film e spot tv. Le strade in cui ci si perde volentieri, in armonia con se stessi. Qui la guida “Vale un viaggio” gioca in casa e propone il Museo di Puccini che, contrariamente a quanto si possa pensare, non è a Torre del Lago, comune – anche nel nome – tutt’uno con il compositore, ma nel quartiere Corte San Lorenzo di Lucca. La casa in cui nacque è infatti visitabile: qui si possono scoprire carteggi, spartiti, costumi di scena, il suo pianoforte, ma anche oggetti del quotidiano, i mobili di famiglia ed i suoi abiti di sartoria. Il lucchese si fa apprezzare come un territorio di cultura, poco lontano dalla vita mondana di Forte dei Marmi ma assai legato a quell’agricoltura che produce il meglio dell’Italia: olio e vino toscano non hanno confini in quanto ad apprezzamento. Volendo fare un giro fuoriporta, continuando verso sud, ci si può avvicinare ad un’altra dimensione secolare – quella produttiva – e scoprire che in un podere sui monti pisani, a Vicopisano, il signor Antonio Rossi lavora e accoglie i curiosi nella sua casa del 1400, in cui si dice abbia soggiornato un tal Leonardo da Vinci per disegnare la Rocca del Brunelleschi. Qui si coltiva olio, pregiatissimo, e si convive con la cultura del territorio alta e millenaria. Ma stiamo già sconfinando a Pisa e certe antiche rivalità, qui in Toscana, si fanno ancora sentire.

Maria Grazia Balbiano è una giornalista e addetta stampa, specializzata in Media Relations e Integrated Communication. http://www.mariagraziabalbiano.com/ 42


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ITALIANI A PRAGA

Francesca Gheri

Psicologa-psicoterapeuta

Faccio una psicoterapia di tipo integrato centrata sulla persona, lavorando sulla scoperta ed accettazione delle proprie emozioni, sull’importanza di integrare questo con un corpo che ci parla anche quando noi non lo ascoltiamo. Ricostruendo, per associazioni, la rete di relazione che ci può essere tra ciò che nasce in terapia e ciò che abbiamo vissuto nel nostro passato. L’esperienza di cambiamento che possiamo raggiungere attraverso un percorso terapeutico porta ad un aumento della nostra libertà emotiva ed un’assunzione di responsabilità verso la propria storia di vita, riconoscendoci un’immensa possibilità di scelta. Si diventa artisti consapevoli, pronti a dipingere un nuovo e sorprendente quadro della nostra vita. La mia è una professione di ascolto, dove non si danno consigli ma è la persona che arriva in seduta che delinea la strada dell’intervento. Perché chi si conosce meglio di se stesso? 44


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Lavoravo come libera professionista per il Ministero di Grazia e Giustizia presso due Case Circondariali della Toscana, dove svolgevo il mio lavoro di psicologa nell’ambito della diagnosi e trattamento delle persone detenute in tali strutture. Dopo un’esperienza di un anno a Marsiglia, dove ho seguito un master in criminologia, Praga è stata una sorpresa, una proposta lavorativa per il mio compagno che io ho scelto di seguire, credendo fermamente che il cambiamento porta in sé un arricchimento. Voglio viverlo così, come fonte di crescita ed apertura. Il passaggio da Marsiglia a Praga ha portato, i primi mesi, a doversi confrontare con un ambiente ed un approccio alla vita completamente diverso. I primi mesi sono stati mesi di assestamento. Dal caldo sud al freddo est ma questo è vero solo in parte, solo se ci si blocca alla prima impressione, spesso glaciale, che è l’approccio con l’altro. Se lasciamo margine alla conoscenza della loro cultura si entra in un mondo di tradizioni di cui sono fieri e che amano far conoscere ed apprezzare. Cosa che, ahimè, spesso nelle nuove generazioni si va perdendo. L’organizzazione del trasporto pubblico, precisa e funzionale, sorprende ed aiuta nell’organizzazione anche per un nuovo arrivato, privo di mezzi propri. A Praga ci sono ancora da troppo poco per dire che mi abbia cambiato la vita, sicuramente lo stile di vita che ho qui è ben diverso da quello che avevo in Italia. Mi ha dato, vista la grande comunità italiana che vi risiede, l’opportunità di aprire uno studio privato come avevo in Italia, cosa che non credo sia molto semplice in altri paesi. Fornendo quindi un servizio per la comunità italiana, sapendo come sia difficile affrontare un percorso terapeutico in una lingua che non sia quella madre. Sicuramente la difficoltà più grande incontrata è rappresentata dalla lingua e, pur conoscendo anche inglese e francese, ho riscontrato che l’inglese è più diffuso tra le nuove generazioni. Non conoscendo la lingua è difficile anche accedere ad una serie di servizi ma spesso si possono incontrare persone disponibili, che cercano di aiutarti, alcune proponendosi come mediatori linguistici, altri aiutandosi con i mezzi che possono. Qualche parola di ceco l’ho imparata e mi piacerebbe approfondire. La mia soddisfazione è essermi riuscita ad ambientare in un contesto così distante dalla realtà in cui vivevo. Ho conosciuto diverse persone interessanti, molte coppie italo-ceche con le quali condividere emozioni, sentimenti e perplessità, soprattutto nel primo periodo e che hanno molto aiutato nella comprensione di questa città, ricca di storia e cultura. Vivendo in campagna in Italia, la cosa che amo di più di Praga è questo im-

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menso polmone verde che ci avvolge. Vicino al mio studio c’è il grande parco della Stromovka, che ogni volta mi lascia senza parole: è bello entrare lì dentro e lasciarsi sorprendere dalla potenza della natura. Rigenerarsi con i colori delle stagioni che cambiano, con la neve che ci resta per settimane. I laghetti che si ghiacciano ed i bambini che vanno subito a pattinarci. La Divoka Sarka, un parco più naturale ma altrettanto bello, pieno di alberi di ciliegio e cespugli di rosa canina, dove spesso si incontrano proprietari di lupi cecoslovacchi che si ritrovano per andare a far passeggiate. La passione per i cani, in questa città, è evidente ed arrivare su ad ammirare il panorama con una muta di cani è un bello spettacolo, per chi ama gli animali. Un altro piccolo parco nella zona di Mala Strana, che mi piace molto, è Vojanovy Sady, con i suoi pavoni ed alberi da frutto. Non ho nostalgia del paese ma delle persone care che vi sono là. Dei bambini nuovi che mettono piede in questo mondo e magari vedrò dopo dei mesi. Oggi, con le nuove tecnologie, ancor meglio di una volta si accorciano le distanze e ci sentiamo ancora più vicini agli affetti che abbiamo in giro per il mondo. Non è la stessa cosa ma il filo che ci unisce alle persone, se è un filo forte, costruito su esperienze e condivisione di emozioni, non si lacererà anche con la distanza. Nonostante i parchi la nostalgia rimane della vita e dei suoni nel piccolo borghetto toscano di Codilupo (Il Colle del lupo) dove ancora, davvero, il nostro lupo torna a farci visita, il cinghiale si affaccia alla porta ed il cervo bramisce nel campo. Ad un italiano che desidera trasferirsi sicuramente consiglierei di fare un corso di ceco, per facilitare ogni tipo di comunicazione o, almeno, avere un inglese ad un buon livello. Il mercato immobiliare è molto vivace ma, proprio per questo, per trovare la soluzione adeguata alle esigenze a volte ci vuole del tempo, per cui armarsi di pazienza e sano ottimismo, che prima o poi l’occasione giusta arriva. Ma, soprattutto, mettere sempre in valigia la voglia di cambiare idea, di aprirsi ad una nuova percezione delle cose e permettersi di dire…”su questo mi sbagliavo….”. Chi lo dice che Praga è “fredda”? Progetti futuri? Sono per il futuro… Adesso voglio vivere il presente che è qui, con ancora molto da scoprire, da sperimentare e da vivere. In Italia, prima o poi, torneremo sicuramente arricchiti da questa esperienza, che sarà fonte di cambiamento. Ringrazieremo questa città e i suoi abitanti, e non sarà un addio ma un arrivederci. Sì, insomma….un “CIAO PRAGA”! per informazioni: francescagheri@hotmail.com

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ARTE

Il buon secolo della pittura senese

I grandi protagonisti del Seicento in mostra in Toscana

A cura di Mariapia Bruno

Beccafumi, Sodoma, il Riccio, il Rustichino: ecco i grandi protagonisti dell’arte del Seicento senese. A loro, e ai loro contemporanei, è dedicata la grande mostra intitolata Il buon secolo della pittura senese. Dalla Maniera moderna al Lume Caravaggesco, che aprirà i battenti il prossimo 18 marzo presso tre diverse località nel cuore della Toscana: Montepulciano, San Quirico D’Orcia e Pienza. Un’equipe di esperti in materia, guidata da Antonio Paolucci, accende dunque i riflettori su quegli artisti di eccellente spessore che si sono distinti in terra di Siena tra i primi del ‘500 e la seconda metà del ‘600. Roggero Roggeri e Marco Ciampolini, curatori della sezione di Pienza, ci raccontano meglio questa brillante avventura.

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Montepulciano, San Quirico D’Orcia e Pienza: come mai sono state scelte queste località? Queste località rappresentano, in modo pressoché completo, il sud della provincia di Siena ed un bellissimo territorio molto uniforme, con caratteristiche paesaggistiche ed enogastronomiche uniche: la Val d’Orcia, patrimonio mondiale Unesco, in cui si trovano San Quirico d’Orcia e Pienza, e la Val di Chiana, dominata da Montepulciano, perla architettonica del ’500. La scelta di queste location è dovuta alla volontà delle amministrazioni territoriali di iniziare una fattiva e reciproca collaborazione, che porti a realizzare progetti di ampio respiro culturale, allo scopo di valorizzare e far conoscere sempre di più un territorio unico al mondo. Come è nata, dunque, l’idea della mostra? L’idea della mostra nasce dalla presenza, in ciascuno di questi Comuni, di un’importante opera d’arte che rappresenta un segmento di quel Buon Secolo della pittura senese (che va dai primi del ‘500 a circa la metà del’600) che l’evento vuole valorizzare. Attorno a queste tre opere, già presenti in sede, si sono costruiti altrettanti percorsi espositivi, arricchiti dalla presenza di numerosi capolavori provenienti da prestigiose istituzioni pubbliche e private, che dividono l’esposizione in tre sezioni. La prima, con sede in Montepulciano, curata da Alessandro Angelini e Roberto Longi, prende origine dalla scoperta di un dipinto attribuito di recente al giovane Domenico Beccafumi, custodito nel locale Museo Civico, sede espositiva, e approfondisce la conoscenza dell’ambiente artistico senese nel primo decennio del ‘500; la seconda, a cura di Gabriele Fattorini e Laura Martini, si svolge a San Quirico d’Orcia, nel palazzo Chigi Zondadari, si dipana attorno ad un capolavoro di Bartolomeo Neroni detto il Riccio, ivi conservato e prende in esame la pittura senese negli ultimi decenni della Repubblica, dalla tarda attività del Sodoma e della sua bottega fino alle opere, appunto, del Riccio; la terza, a Pienza, i cui curatori sono Marco Ciampolini e

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Roggero Roggeri, prende spunto dalla magnifica pala di Francesco Rustici detto il Rustichino, presente nella chiesa di S. Carlo, per un percorso espositivo che prende in esame il movimento pittorico naturalista senese, con una particolare attenzione all’attività del Rustichino. Ogni sezione prevede, inoltre, un itinerario alla scoperta di opere altrettanto significative rispetto a quelle esposte ma che, per varie ragioni, sono rimaste nelle loro sedi originali. Questa soluzione permette di completare idealmente la visita con il valore aggiunto di percorrere e scoprire una terra splendida e magnificamente conservata. In che modo la città di Siena, a pochi passi dalla grande madre Firenze, ha attratto gli artisti del territorio circostante? La domanda andrebbe ribaltata: come mai gli artisti di Siena sono stati intensamente chiamati dal territorio circostante nonostante la vicinanza della ‘grande madre’ Firenze? Per rispondere a questo quesito, bisogna a nostra volta porci una domanda: Firenze è stata veramente la ‘grande madre’ di tutta la Toscana? La risposta, chiaramente, è no. L’errore a cui siamo indotti è dovuto al fatto che la società moderna non considera la storia, dà per scontato, cioè, che l’assetto territoriale, politico, amministrativo e culturale del passato sia lo stesso di oggi. Così facendo si creano degli equivoci fuorvianti. La vicinanza o il fatto di appartenere ad una stessa nazione non giustifica la stessa unità culturale. Bisogna pensare al rapporto Siena-Firenze come a quello Bratislava-Vienna. Città che distano fra di loro poco più di 50 chilometri, che appartenevano agli stessi regnanti, ma che hanno una cultura, anche una lingua nel caso di Bratislava, completamente diverse. Siena è, al pari di Firenze, la ‘grande madre’ di un vasto territorio, ossia sostanzialmente di tutta la Toscana meridionale. Un territorio che essa ha costruito intorno a sé, che ha modellato a sua immagine, che ha innervato della propria cultura, del proprio modo di pensare e di considerare le cose. È chiaro quindi che quando un committente di Pienza, Montalcino, San Quirico d’Orcia, ma anche di Massa Marittima, di Magliano in Toscana, di Gavorrano (comuni, questi ultimi, che oggi fanno parte della provincia di Grosseto, che è stata ritagliata nel territorio di Siena), cercava un artista, si rivolgeva a quelli nei quali riconosceva la propria cultura, ossia agli artisti di Siena. La città di Siena, nel periodo Medievale e in parte di quello Moderno, è stata una nazione autonoma. Solo alla fine di una delle più sanguinose guerre del Cinquecento europeo è stata conquistata dalle truppe imperiali, che l’hanno ceduta in Feudo al Duca di Firenze, il quale, dal quel

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momento ha potuto fregiarsi del titolo di Gran duca. Questo fatto ha permesso a Siena e al suo territorio di mantenere un’autonomia interna, che si è tradotta in un’autonomia culturale. Così la ‘Scuola senese del Seicento’, alla quale appartiene Francesco Rustici, protagonista dell’esposizione di Pienza, è completamente autonoma rispetto a quella Fiorentina. Ad esempio, il caravaggismo è un movimento che i pittori fiorentini non capiscono, mentre è l’elemento che domina la cultura pittorica senese del terzo e quarto decennio del Seicento; un elemento così partecipato che permette alla città di offrire al movimento caravaggista Rutilio Manetti e, appunto, Francesco Rustici: due dei suoi migliori adepti, i quali ebbero una vasta fortuna in tutt’Italia e anche oltre. Quali pittori si distinguono in maniera particolare nella retrospettiva? Quali sono le loro peculiarità? La nostra sezione è imperniata sulla figura di Francesco Rustici, pittore di cui Pienza possiede un importante capolavoro nel conservatorio di S. Carlo, nei cui locali l’esposizione si articola. Siamo partiti quindi da una presenza importante in loco per organizzarle intorno un’antologica sul suo autore. L’intento, quindi, è stato duplice: da un lato far conoscere un’opera difficilmente accessibile, dall’altro rendere noto anche al grande pubblico un artista fortemente apprezzato al suo tempo, ma in seguito ingiustamente dimenticato. Un analogo lavoro di valorizzazione è stato fatto a Montepulciano, dove si sono indagati gli anni giovanili di Domenico Beccafumi, e a San Quirico d’Orcia, con la tarda attività del Sodoma e la “riscoperta” del Riccio. Quali aspetti, nella vostra veste di curatori, avete voluto sottolineare nel percorso espositivo? Si è voluta inquadrare la figura di Francesco Rustici nel suo tempo, presentando nella prima sezione i pittori sui quali si è formato, primi fra tutti lo zio Alessandro Casolani e il padre Vincenzo. Nella seconda sezione sono stati illustrati i grandi pittori caravaggeschi e classicisti di riferimento per il Rustici, da Orazio Gentileschi a Guido Reni, da Antiveduto Gramatica a Rutilio Manetti. Infine, dopo una rassegna di opere del maestro, illustrante tutte le fasi del suo breve percorso stilistico, si è concluso con i maestri che a sua volta hanno suggestionato il Rustici, fra i quali spiccano i nomi di Niccolò Tornioli e Bernardino Mei. Ci sono dei collegamenti con l’arte cecoslovacca? Oppure, si ha noti-

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zia di qualche artista del territorio ceco che ha potuto assaporare il meglio dell’arte della toscana del 500-600? Non si può parlare propriamente di arte cecoslovacca nel 500-600, infatti l’entità della nazione come l’abbiamo conosciuta prima della scissione non esisteva. Rapporti vi sono stati certamente fra arte boema del primo Quattrocento e l’arte gotica senese. Ricordo, ad esempio, un Pastorale a Praga, che nel ricciolo presentava il sigillo trecentesco della città di Siena. Ma parlare di arte senese in periodo bassomedievale è un po’ come parlare dell’impressionismo nel tardo Ottocento. Tutti vi dovevano fare i conti: i confronti, quindi, rischiano di essere generici. Se ci rivolgiamo poi all’arte rudolfina del secondo Cinquecento, quella per intenderci patrocinata dall’imperatore Rodolfo II, che amava risiedere nel Castello di Praga, notiamo che Bartholomeus Spranger, il più importante pittore rudolfino, fu certamente, nel suo soggiorno romano, un punto di riferimento per Francesco Vanni, il più importante rappresentante della scuola senese fra Cinquecento e Seicento.

Mariapia Bruno: giornalista professionista ed amante dell’arte, è redattrice di Tempi e Il Messaggero, autrice di Let’s Bake ART e YouTuber. http://letsbakeart.wordpress.com/

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FOOD & WINE

Il Chianti Montalbano

Un vino figlio della storia

A cura di Roberto Vinci

“…….sullo sfondo le montagne azzurre e dorate, davanti ad esse le colline, create solo perché su ognuna vi fosse un castello una fortezza, una roccaforte; pendii coperti di cipressi e boschetti di pini, boschetti di querce, di acacie, ghirlande di vite, trecce succose e azzurre della bottega dei Della Robbia, ruscelli impetuosi e soavi: esattamente così dipinsero Fra’ Angelico, Fra’ Lippi, il Ghirlandaio e Botticelli, Piero di Cosimo e tutti gli altri, credetemi: essi hanno dato a questa terra la soave pienezza, tenera e pittoresca, e l’hanno ressa un libro illustrato, perché noi lo sfogliassimo con piacere, con un sorriso, con gli occhi scintillanti……….”.

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Foto: Roberto Vinci


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Queste sono le parole di Karel Čapek, scrittore, giornalista e drammaturgo ceco, riguardo la campagna toscana, parole che non solo sottolineano la meravigliosa bellezza di scenari naturali unici ma ne legano l’essenza al rapporto stesso con l’uomo, al suo essere attivo protagonista culturale dell’ambiente che lo circonda, modellatore e vero homo faber di un rapporto con la terra della quale si nutre ed alla quale sempre dovrà tornare come ogni figlio fa nei riguardi della propria madre. La vite stessa non è altro che il frutto di una natura prodiga, sapientemente modellato, lavorato, educato dal lavoro quotidiano dell’uomo. Senza questa dedizione, senza tutto l’operoso sacrificio dell’essere umano non esisterebbe altro che una liana strisciante. È solo l’uomo infatti che, curando come fosse una figlia la sua amata vigna, le permette di dare alla luce i suoi frutti migliori, glorificandoli poi in quel prodotto meraviglioso che si chiama vino. Ed è proprio del vino che voglio parlarvi, del Chianti, del re della Toscana, di quel vino che per lungo tempo avrà il nome di “Vermiglio” o di “vino di Firenze” prima di essere identificato, solo nel ‘600, come prodotto legato al territorio toscano. La denominazione di origine controllata “Chianti” nasce nel 1967 ed ottiene la DOCG nel 1984. Fanno parte della DOCG “Chianti” le seguenti sottozone: Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Montalbano, Rufina e Montespertoli. Ed il Chianti “Montalbano” DOCG è il nostro protagonista di oggi. Il territorio nel quale viene prodotto il vino Chianti “Montalbano” DOCG è compreso tra le province di Firenze, Prato e Pistoia. Il Monte Albano o Montalbano è infatti una catena collinare, diramazione dell’Appennino Tosco-Emiliano, di grande interesse naturalistico e vinicolo. Il pregio di tale area risiede in caratteri legati alla storia, all’evoluzione dell’uomo nei secoli, alla morfologia ed alla composizione geologica del territorio fatto di aree boschive, naturali, di insediamenti umani che affondano le proprie radici in una storia antica, di ettari di vigneti. Un paesaggio mai comune, mai uguale, mosso, intenso, segnato da tinte diverse, forti e lievi al contempo, nette. Un paesaggio nel quale la presenza umana e quella naturale da sempre sono riusciti a trovare una sapiente sintesi di convivenza e bellezza. Il profilo delle colline, delineato dalla presenza di olivi e viti, non solo rivela la vera anima di queste contrade ma manifesta quanto i contadini del luogo abbiano sapientemente interpretato le potenzialità di un territorio orientandolo con perizia ed intelligenza artigianale.

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Il ritrovamento di vasi di vino all’interno di alcune tombe etrusche e la presenza dei veterani di Cesare assegnatari di terre site tra l’Arno e l’Ombrone, già allora destinate ad essere coltivate a vite, ci forniscono un chiaro ed inequivocabile segnale di quanto il territorio toscano fosse legato alla produzione del vino. Risale al dominio dei Franchi (804 d.C.) uno dei primi documenti sulla produzione vinicola ed olearia di queste zone come altrettanto note sono le tracce, risalenti al duecento, di quantità di vino inviate come tributo alla mensa dei vescovi di Pistoia. I vini “Chianti” sono prodotti da uve Sangiovese (dal 70 al 100%). Possono inoltre concorrere alla produzione, le uve provenienti da vitigni idonei alla coltivazione nella Regione Toscana come, ad esempio, Canaiolo, Canina Nera, Ciliegiolo, Colorino, Mammolo, Merlot, Montepulciano, ecc. . Inoltre, possono entrare nella composizione del Chianti DOCG, i vitigni a bacca bianca ( Ansonica, Trebbiano Toscano, Malvasia Bianca di Candia, Malvasia Bianca lunga, ecc.) per un limite massimo del 10%, singolarmente o congiuntamente, ed i vitigni Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, singolarmente o congiuntamente, nel limite massimo del 15% (per la sottozona “Colli Senesi” sono previste lievi differenze: quantità minima di Sangiovese non inferiore al 75% e non più del 10% di Cabernet Franc o Cabernet Sauvignon considerati singolarmente o congiuntamente). Ci si potrebbe meravigliare nel vedere la presenza di vitigni a bacca bianca parlando di Chianti, ma, per comprenderne pienamente il motivo, bisogna fare un passo indietro ripercorrendo la storia fino al 1870, quando il Barone Ricasoli, in una lettera indirizzata al professor Cesare Studiati dell’Università di Pisa scriveva : “il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo e una certa vigoria di sensazione; dal Canaiolo l’amabilità che tempra la durezza del primo senza togliergli nulla del suo profumo, per esserne pur esso dotato; la Malvasia tende a diluire il prodotto delle prime due uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoprabile all’uso della tavola quotidiana”. Così nasceva la formula del Chianti. Il vino Chianti DOCG anche con riferimento alle sottozone, può aver diritto alla menzione «riserva» se sottoposto ad invecchiamento di almeno 2 anni e, nel caso della sottozona “Montalbano”, un contenuto in alcol non inferiore a 12,50%. Da ricordare che è stata recuperata per il Chianti DOCG la tipologia “Superiore”. Appare interessante sottolineare che nella vinificazione del Chianti DOCG sono ammesse soltanto le pratiche “locali, leali e costanti”, recita il discipli-

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Fonte: Consorzio Vino Chianti

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nare di produzione, tra le quali c’è “il governo all’uso Toscano”. Ma in cosa consiste tale pratica? In sostanza consiste nell’aggiungere al vino appena svinato, entro il mese di dicembre, una certa quantità di mosto (dal 3% al 10% della massa) ottenuto da uve preventivamente fatte appassire su stuoie di canne (cannicci). La tradizione e la storia narrano che le uve utilizzate a questo scopo fossero del vitigno colorino. In questo modo si attiva una seconda fermentazione che conferisce al vino maggior contenuto in glicerina, in alcol, rendendolo più “rotondo”, piacevole e meglio disposto ad abbinarsi ai piatti tipici della tradizione gastronomica toscana quali salumi, arrosti, carne alla griglia. Da ricordare che sulle bottiglie del vino Chianti DOCG è obbligatorio indicare l’annata di produzione delle uve e che , nel caso in cui il Chianti sia confezionato in fiaschi, è vietato l’uso di un fiasco diverso da quello tradizionale all’uso toscano come definito dalla normativa specifica che riferendosi proprio al fiasco, ne precisa dettagliatamente le caratteristiche indicando che debba trattarsi di “recipiente in vetro………..rivestito in tutto od in parte con sala o paglia o altro materiale vegetale naturale da intreccio”. Non è mio interesse entrare nella polemica ormai storica della disputa tra DOCG “Chianti Classico” e DOCG “Chianti”. Le denominazioni di origine non hanno più la valenza di 30 o 40 anni fa. Non nascondo che esse possano ancora avere un “appeal” commerciale anche importante in taluni mercati, specie quelli esteri, ma è fuor di dubbio come proprio tali denominazioni di origine siano, allo stesso tempo, in gran parte incomprensibili proprio all’estero ed abbiano poco a che fare con la qualità di un vino. La qualità ormai può essere garantita solo ed esclusivamente dal produttore, dal suo onesto lavoro giornaliero in vigna ed in cantina, nel rispetto dell’ambiente, del territorio, della salute dei consumatori. Conoscere direttamente il vignaiolo ed il suo operato, è questa la vera garanzia di qualità di un vino. Di produttori bravi, capaci, onesti, autori di vini intensi, profondi, di bella ed infinita bellezza gustativa, ce ne sono sia in “Chianti Classico” che in “Chianti”. Sta all’appassionato scovarli, parlare con essi, assaggiare il frutto delle loro fatiche giornaliere, anno dopo anno, per comprenderne profondamente lo spirito, per gustare quei territori che proprio i vignaioli riescono a tramutare in vino interpretandone gli aspetti, le stagioni, i colori.

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Foto: Roberto Vinci


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Il vino è tutto questo: anima, calore, terra, tempo, tanto lavoro umano, infinita passione, gioia. Chi si ferma ad una denominazione è destinato a fallire miseramente. La qualità di un vino la trovi oltre il disciplinare, oltre il testo normativo, la trovi negli occhi di chi quel vino lo fa e lo cura ogni giorno, nella sua anima profonda, nelle mani che sanno di terra e ad essa appartengono. Venendo infine agli abbinamenti, bisognerà sempre tenere in considerazione le caratteristiche del piatto per poter abbinare correttamente il vino, in questo caso il Chianti “Montalbano” DOCG. È chiaro che i piatti tradizionali del territorio trovano in questo vino il loro ideale e miglior abbinamento. Si va dalla zuppa di farro con fagioli, alle pappardelle al sugo di cinghiale o di lepre fino ai maccheroni alla pistoiese. E poi, coniglio in umido, trippa alla fiorentina, cinghiale in umido, classica fiorentina o salsicce e fagioli all’uccelletto. La scelta è infinita. Il Chianti “Montalbano” DOCG sembra essere stato concepito appositamente per accompagnare tutte queste delizie. Scegliete un “Montalbano” dotato di maggior gioventù per i primi piatti, un altro invece con un buon patrimonio tannico per i piatti in umido, un terzo infine più morbido ma dotato di buon tenore alcolico per accompagnare una fiorentina alla griglia. Con questo vino ci si può veramente divertire giocando con tutte le sue multiformi ed innate sfaccettature: freschezza, acidità, tannino, contenuto alcolico, sapidità, persistenza. Perciò, buon Chianti “Montalbano” a tutti.

Roberto Vinci è sommelier professionista e fotografo. Comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. http://www.robertovinci.viewbook.com

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CUCINA

Profumi e sapori lucchesi Il Buccellato: una tradizione lunga 500 anni

A cura di Alessia Moretti

Quando si arriva a Lucca e si attraversa la medievale cinta muraria che custodisce il centro storico chiunque, che sia la prima volta o la centesima, ha la vivida sensazione di entrare in un’altra epoca; le viuzze acciottolate del Fillungo, la piazza dell’Anfiteatro con i suoi locali, i suoi mercatini alimentari e i coloratissimi balconi infiorati, la Torre Guinigi con i suoi lecci posti sulla sommità, la Piazza San Michele – cuore della città non solo dal punto di vista storico e monumentale ma anche per tutte quelle che sono le attività socio-culturali (il Lucca Comics ne è un chiaro esempio) – hanno consentito a Lucca di essere annoverata, in questi ultimi tempi, tra le mete turistiche, toscane e non solo, più visitate.

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Ma non è solo l’impatto visivo e la sua “ambientazione” a renderla così curiosamente intrigante. Ci sono altri elementi sensoriali che concorrono a dare la percezione di quanto la sua storicità sia ancora attuale ed uno di questi è – senza dubbio – il profumo di una tradizione culinaria vecchia di almeno cinquecento anni. In particolare, passeggiando tra i vari rioni e le stradine strette del centro, non è difficile essere travolti dal profumo dell’anice, spezia ed ingrediente essenziale per la preparazione del Buccellato, uno dei dolci più tipici e forse più storici di questa città. Creato da alcuni pasticceri alla metà del 15° secolo, troviamo le prime notizie di questa delizia – seppure non molto confortanti - in alcuni incartamenti di un processo in cui una donna, accusata di aver ucciso il marito, aveva messo del veleno all’interno del suo impasto; sembrerebbe, infatti, che in virtù del profumo e del sapore dell’anice il marito non si fosse accorto di nulla, per poi morire immediatamente dopo averlo mangiato. Tralasciando questo “dettaglio” (detto tra noi, magari il marito se lo meritava pure!) e dando un po’ di credito al detto popolare per cui “chi viene a Lucca e non mangia il Buccellato, è come se non ci fosse mai stato”, possiamo dire che questo dolce, con un nome d’ispirazione latina – buccellatum – è un chiaro esempio di quanto pochi ingredienti, la loro giusta combinazione e il perseverare di una tradizione culinaria siano un modo vincente per non far dimenticare, o peggio, perdere, quelli che io chiamo i “sapori antichi”. Farina, burro, uova, lievito naturale, uva zibibbo e anice: ingredienti antichi che, per dare il loro “meglio”, hanno solo bisogno di una lavorazione diligente e, soprattutto, della giusta lievitazione. Quindi, parafrasando, di tempo e attenzione: niente di più per avere questo “pane dolce”, con l’interno morbido e profumato e una crosta scura e croccante. Per i lucchesi, quella di comprare un “filoncino” o una ciambella di Buccellato in una delle tante botteghe che ci sono in città, è una consuetudine quasi quotidiana; ma se si vuole veramente incontrare la tradizione – nel vero senso della parola – il posto più adatto è la rinomata e storica Pasticceria Taddeucci, in Piazza San Michele. Nata alla fine del 19° secolo, ha mantenuto quell’ambiente retrò che, appena si entra, accoglie elegantemente. Le vetrine grandi sempre ben fornite, la stigliatura in legno scuro, i numerosi vasi di vetro pieni di caramelle, la scritta interna “la nostra Ditta non ha succursali”, coniugano le memorie di un passato in un presente pronto a recepirlo e, semmai ce ne fosse bisogno, a portarlo avanti sempli-

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cemente arricchendolo di qualche sfumatura. Quando penso a questo dolce non mi resta affatto difficile compararlo ad un’altra delizia che mi ha “preso il cuore”, ovvero il TRDLO O TRDELNIK (insomma, il Manicotto di Boemia!). So perfettamente quanto siano profondamente differenti, nella loro sostanza e nel loro gusto. In uno c’è l’anice, mentre nell’altro la spezia dominante è la cannella. Eppure il loro ruolo è lo stesso: tramandare una tradizione che non riguarda solo l’aspetto culinario ma la storia di un intero popolo, le sue consuetudini, le vicende di un’epoca passata. Corde sensibili, dentro di noi, che vibrano quando un elemento sensoriale entra in gioco, come un profumo o un sapore. Ed è forse proprio per questo che mi viene spontaneo accostare i due dolci, completamente diversi negli ingredienti e nella lavorazione ma entrambi caratterizzati dallo stesso minimo comune denominatore: la cultura dei sapori antichi e il loro rispetto.

Alessia Moretti è una Pastry Chef di quarta generazione. Dopo una parentesi, a Roma, nel settore immobiliare, si è trasferita a Praga quattro anni fa, tornando alla sua vecchia passione e fondando Favole di Dolci. http://www.favoledidolci.eu

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CURIOSITÀ

Streghe, frustini e baci Dalla notte di Valpurga all’amore di Máj, le feste della primavera praghese

A cura di Stefania Del Monte

Pasqua è alle porte e a Praga si può godere davvero appieno della magia di questa festa. Nella Piazza della Città Vecchia e a Piazza Venceslao, due dei fulcri principali della città, dei mercatini pasquali aprono ogni anno per circa 3 settimane: quest’anno l’apertura è prevista dal primo al 17 aprile e sono ben 90 le bancarelle che offrono ogni sorta di prodotti tradizionali. Nulla è paragonabile all’atmosfera che si può respirare in questi deliziosi angoli di Praga: postazioni decorate con fiocchi dai mille colori e ramoscelli di betulla, che simbolizzano la Pasqua e la primavera; stand gastronomici che offrono piatti locali, disponibili solo in questo periodo dell’anno; donne in costume tipico, che vendono fiori e uova splendidamente dipinte (kraslice).

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L’arte di decorare le uova, forandole con un ago in entrambe le estremità, svuotandole e preparandole per essere dipinte, nacque in Canada verso la metà del ‘900. Nel tempo si è evoluta fino ad includere decalcomanie e scatole di cioccolatini a forma di uovo, contenenti dolci di vario tipo. A Praga e nel resto della Cechia questa pratica è talmente diffusa che le uova decorate si possono trovare in vendita tutto l’anno. In Boemia e Moravia, inoltre, vi sono musei che esibiscono esemplari di pregiato valore artistico. Le uova Vnorovske provengono dall’omonimo villaggio in Moravia, dove sono realizzate usando la tecnica Batik, i cui colori dominanti sono il rosso, il giallo e l’arancione. Quelle decorate a nodi provengono invece dalla Boemia del Sud, mentre quelle incise con minuscoli motivi floreali, o lavorate con la cera, sono caratteristiche della Moravia del Sud. Le uova forate, più contemporanee, sono ispirate infine ai ricami di Madeira e vengono prodotte in tutto il paese. Inizialmente si decoravano solo uova sode, che venivano regalate in occasione della Pasqua, e donare a qualcuno un involucro vuoto era considerato inconcepibile.

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Un’usanza a dir poco singolare prevede inoltre – sia in Boemia che in Moravia – una reinterpretazione della benedizione pasquale: a ridosso delle festività, gli uomini preparano piccoli frustini, ricavati da ramoscelli intrecciati, mentre le donne dei villaggi dipingono le uova. Il lunedì di Pasqua, gruppi di uomini si recano di casa in casa per dare la ‘benedizione’ alle donne del villaggio: la pratica consiste in una leggera fustigazione sulle gambe, seguita da un bagno freddo. Secondo la tradizione, tale usanza ha lo scopo di allontanare tutte le malattie e gli spiriti malvagi, portando salute e giovinezza. Per questa ragione il frustino è chiamato pomlázka (da pomladit o “rendere giovani”). Una volta terminato il rito della fustigazione le donne donano, a ciascuno degli uomini, un uovo dipinto. Inoltre, ornano con un nastro colorato i ramoscelli, che pertanto a fine giornata risultano decoratissimi. La popolazione ceca postcomunista ha abbracciato in pieno la cultura capitalista e consumistica: nei mercatini praghesi non potevano quindi mancare, tra i souvenir in vendita, anche questi coloratissimi frustini. Ma le celebrazioni di primavera, a Praga, non terminano qui. Ogni anno nella notte tra il 30 aprile ed il primo maggio, infatti, si celebra un’antica tradizione folcloristica ceca: il Carodejnice, o Paleni Carodjenic, ovvero il “rogo delle streghe”. Si tratta di una vera e propria festa della primavera: qui, in un’atmosfera da favola tra canti, balli e corone di fiori colorati, si attende che le streghe escano dai loro rifugi a danzare sotto la luna, per poterle catturare e bruciare nei grandi falò che, per l’occasione, illuminano l’intera città.

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Quest’antica usanza pagana viene celebrata in diversi paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Il carodejnice ceco, detto anche Notte di Valpurga, ha due possibili origini: la prima è il Beltane, un festival risalente al periodo in cui le tribù celtiche abitavano questa zona; la seconda è, invece, un rito estivo scandinavo o tedesco, chiamato Notte di San Walpurga, da cui deriverebbe anche il nome dell’evento praghese. I roghi della festa precristiana sono sostituiti, oggi, dalle feste notturne attorno ai falò, che si tengono soprattutto nell’isola di Kampa e nei sobborghi della capitale e che possono essere davvero suggestivi. In molte piazze vengono allestiti enormi bracieri, che contribuiscono a creare un’atmosfera misteriosa. Oltre a bruciarvi fantocci e vecchi manici di scopa, i falò vengono generalmente utilizzati per grandi grigliate di carne e accompagnati da numerose attività, dedicate sia agli adulti che ai più piccoli: giochi, mercati e spettacoli di ogni genere. Il principale luogo di ritrovo per visitatori e praghesi, in questa notte magica, è la collina di Petřín, dove viene allestito un grande rogo e, assieme ai riti propiziatori per scacciare gli spiriti maligni, si brinda all’arrivo della bella stagione. La collina (in passato uno dei vitigni di Re Carlo) è uno dei luoghi più belli e romantici di Praga. Le sue pendici, durante la primavera, invitano a passeggiare tra i ciliegi in fiore o a fare picnic, godendo di una meravigliosa vista panoramica sulla città. La collina è ben riconoscibile anche per via della torre della televisione che vi si trova in cima, che è una miniatura della torre Eiffel. È possibile raggiungere la cima della collina a piedi: si tratta di una leggera arrampicata lungo un suggestivo sentiero all’interno del bosco che ricopre le pendici del colle. In alternativa, si può prendere la funicolare. Tuttavia, in occasione del primo maggio, la collina di Petřín è famosa anche per un’altra ragione. Qui si trova, infatti, la statua di Karel Hynek Mácha, il grande poeta romantico, autore del più famoso poema ceco sull’amore: Máj (Maggio). La statua è un punto di ritrovo per gli innamorati, che qui si danno appuntamento proprio il primo maggio – l’ufficioso “giorno dell’amore” in Cechia – per dichiararsi l’amore eterno. In questo paradiso degli innamorati le coppie respirano l’aria primaverile, leggono poesie e, come vuole la tradizione, si baciano sotto i ciliegi in fiore: la leggenda narra che l’amore sigillato con un bacio davanti a questa statua, in questo giorno, durerà per sempre.

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CULTURA

Il paese dove la retta via non è smarrita L’amore dei cechi per la loro terra

A cura di Andreas Pieralli

La primavera è ormai alle porte e con essa sta arrivando, con mio sommo gaudio, il momento propizio per riprendere una delle mie attività preferite, e non parlo né delle buone letture, o del tempo trascorso con gli amici, né tantomeno di quella che diverte tutti gli esseri viventi (e grazie alla quale, per inciso, siamo ancora qui nonostante gli innumerevoli tentativi di autodistruzione). Mi riferisco alle passeggiate per i boschi, possibilmente in solitaria, a tu per tu con la natura, e per questa attività (così come per l’altra, ma questa è un’altra storia), questo paese è perfetto. In un recente articolo per l’edizione locale di Newsweek (settimanale da poco chiuso, per la cronaca), prendevo in giro i cechi per la loro mania di cercare di “portare a casa” qualsiasi tipo di primato mondiale, europeo o almeno centroeuropeo, a volte sembrando anche un po’ buffi.

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Ma esiste un primato dove non hanno concorrenza e per il quale meritano, a mio avviso, il massimo rispetto: questo paese, infatti, vanta la più estesa e capillare rete di percorsi e sentieri turistici segnalati di tutto il mondo: poco meno di 41.000 km. Non importa quanto sperduto sia il paesino, o remoto il castello, monumento culturale o naturale che decidiate di visitare, state pur certi che nel suo centro, di solito la stazione dei treni o degli autobus, troverete l’immancabile rozcestník, ovvero un palo o un albero con le destinazioni raggiungibili, la distanza in chilometri e la segnaletica da seguire. 40.597 km Grazie infatti all’encomiabile attività del Klub českých turistů, ovvero il Club dei turisti cechi (il CAI locale per intendersi) nato nel 1888, è virtualmente possibile attraversare a piedi tutto il paese dall’estremità occidentale a quella orientale senza dover mai abbandonare questa rete che vanta ben 40.597 km di percorsi, contrassegnati da quattro colori a seconda del grado di difficoltà: rosso, blu, giallo e verde. Sì, avete letto bene, praticamente quanto una circonferenza terrestre che, dalla regia, (leggi Google), mi dicono essere di 40.075 km! E se aggiungiamo le piste per i ciclisti su strada (33.356 km) e sul terreno (3.584 km), quelle per gli sciatori (639 km) e quelle per gli amanti dell’equitazione (1.950 km) arriviamo alla ragguardevole cifra di 80.126 km, ovvero due volte il giro della terra! L’ordine del o nel bosco? Una volta scemato lo stupore, vale forse la pena interrogarsi se esista una spiegazione ragionevole per questo peculiare primato tutto ceco. Forse sì, e la risposta può aiutarci anche a comprendere meglio questo paese e la sua cultura che per molti di noi, compreso me nelle cui vene scorre il 25% di sangue ceco, restano un mistero affascinante. In tal senso ci viene incontro l’ottimo articolo di Martin Šimečka intitolato “Un paesaggio venerato” e pubblicato nel numero 40/2016 del settimanale Respekt. Šimečka, stimato giornalista per metà slovacco, si interroga sulla differente percezione che cechi e slovacchi hanno dei loro territori intesi come complessi morfologici fatti di campi, boschi, laghi, fiumi, montagne ecc. La sua interessante riflessione si apre con un ricordo d’infanzia. Durante una gita tra le foreste montane in Slovacchia sua madre, ceca, si lamentava del fatto che il “bosco fosse in disordine”. Martin bambino sorrise, chiedendosi perché mai un ambiente così naturale e selvaggio avrebbe dovuto essere ordinato. Partendo da quella insolita “rimostranza” di sua madre, oggi, il Martin giornalista va alla ricerca del nocciolo di questa differente percezione tra i due popoli e, dunque, probabilmente anche del motivo di quelle migliaia e migliaia di sentieri segnalati.

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La sua teoria parte dalla constatazione che, con la sua maestosità, il territorio della Slovacchia, prevalentemente montuoso e puntellato di cime anche molto aspre e alte (almeno per i parametri centroeuropei, dove una collina di 500 metri viene promossa automaticamente a montagna), incute un timore quasi reverenziale, al contrario di quello ceco dove la Sněžka, con appena 1602 metri la montagna più alta del paese, viene onorata e celebrata manco fosse il Monte Bianco. Quello ceco, infatti, è un territorio composto da colline amichevoli, rilievi morbidi, alture comode, paesaggi dolci e accoglienti, insomma, una terra sicura e ospitale tutta da camminare, esplorare, pedalare, passeggiare piacevolmente, senza drammi né veri e propri rischi. Anche le foreste ceche sono così “ordinate” da sembrare grandi parchi piuttosto che vere e proprie foreste, almeno se paragonate a quelle selvagge dei loro vicini orientali, dove la natura sovrana e incontrastata fa cosa vuole. Ips typographus Boschi ordinati e puliti che sono anche il risultato, non ultimo, delle monoculture diffuse in tutto il paese di abeti rossi, o pecci, alberi dal buon ritorno economico per il loro ciclo vitale rapido e l’ottima lavorabilità del legno. Vale la pena notare che, forse, possiamo leggere anche in tal senso lo scontro durissimo (ovviamente a parole, poiché i cechi raramente arrivano alle mani), cui abbiamo assistito qualche anno fa tra, da un lato, i sostenitori del lasciar completamente carta bianca a Madre Natura nel Parco Nazionale della Šumava, in italiano nota come Selva Boema, anche quando ciò significava far soccombere decine e decine di ettari di bosco sotto le insaziabili fauci del temibilissimo Ips typographus (per gli amici scolitide dell’abete rosso) e, dall’altro, i fautori dell’intervento umano per fermare l’epidemia, ovvero dell’abbattimento degli alberi malati (che poi, guarda il caso, si possono vendere). Mi chiedo, allora, se sullo sfondo delle palesi questioni economiche di chi, mascherandosi da salvatore del bosco, voleva soprattutto far quattrini col legno, non sia ravvisabile anche questo bisogno di “addomesticare” la natura e trasformarla in un luogo tranquillo e sicuro dove nemmeno in un parco nazionale, tra l’altro di pregiato valore naturalistico, c’è spazio per l’azione libera e disordinata della natura. La prigione del giardino fiorito Ma torniamo al nocciolo della questione. Šimečka, dunque, parla della Cechia come di un grande giardino accogliente dove è piacevole passeggiare tra morbide colline e alture per niente impegnative, un paesaggio sicuro nei cui boschi potete incontrare al massimo un capriolo, una volpe o un cinghiale, mentre in Slovacchia si aggirano lupi ed orsi. Se i latini etichettavano con un generico

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hic sunt leones il mondo esterno al loro limes, i cechi potrebbero etichettare con un hic sunt lupi et ursi i propri cugini a oriente e magari, già che ci sono, pure quelli settentrionali di cui non è che poi abbiano tutta questa grande opinione. Da questa constatazione, diciamo di carattere puramente geomorfologico, il nostro fa discendere un’interpretazione interessante del carattere e della cultura di questa nazione basata appunto sulla forma del suo territorio. E qui comincia la parte più interessante. Šimečka arriva alla conclusione secondo cui in Slovacchia la natura più ostile e pericolosa induce l’uomo a rispettarla e, di qui, a percepire la vita come divisa tra un mondo umano, sicuro e conosciuto, e uno, quello della montagna, invece al di fuori del suo controllo, sconosciuto e potenzialmente pericoloso. Il rapporto allora di rispettosa riverenza, opposto a quello di presunto controllo e dominio, si tradurrebbe, per riflesso, nella percezione della dimensione metafisica. Nel caso slovacco la montagna, indomita e indomabile, costringe l’uomo a riconoscere la limitatezza delle proprie forze e, di conseguenza, ad accettare l’esistenza di qualcosa di più grande, misterioso e incontrollabile. Il paesaggio ceco, al contrario, così docile e facilmente addomesticabile, sarebbe all’origine della notoria riottosità dei cechi verso la metafisica e la spiritualità in generale (se non quella in salsa fai da te, vedi a tal proposito il mio articolo sul numero precedente di CP). Una sfiducia, spesso un vero e proprio fastidio verso tutto ciò che non può essere contato, calcolato e misurato, traducibile nel narrativo nazionale: “esiste un solo mondo, questo, il nostro, e noi lo abbiamo pienamente sotto controllo”; non ultimo, appunto, con 80.000 km di sentieri, piste e tracciati di vario tipo. Ecco allora spiegato il realismo e il materialismo tipici dei cechi e quella loro sicurezza, illusoria secondo Šimečka, data appunto dalla ristrettezza di questo giardino felice, così limitato da non lasciar spazio nemmeno alle più naturali mire espansionistiche di tutti i popoli: i cechi

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non bramano né mai hanno bramato o rivendicano terre altrui. Con il Praotec Čech, di cui più avanti, hanno trovato la loro terra promessa e tanto gli basta. E i cechi non sembrano anche a voi sempre così sicuri di tutto e perennemente pronti a dimostrare di conoscere la soluzione anche di questioni che non hanno mai avuto, come per esempio quello dell’integrazione di estese comunità di immigrati di credo musulmano, oppure quello degli effetti dell’Euro? Funerale? Con quello che costa? Un rapporto non conflittuale con l’ambiente che si manifesterebbe quindi in uno scarso timore verso l’ignoto, il bosco oscuro nella nostra parafrasi, che avrebbe mutilato lo sviluppo del sentimento religioso. Šimečka si stupisce, e io con lui, del fatto che un ceco su tre se ne torna al Creatore, nel quale comunque non crede, senza nessun funerale o cerimonia che sia perché, dicono, “costa troppo”. Be’, Šimečka fa giustamente notare che anche in Slovacchia i funerali sono cari (come in tutti gli altri paesi dove esiste una forma più o meno sviluppata di rispetto del defunto e del suo trapasso) ma nessuno si immaginerebbe mai di far seppellire o cremare un parente senza funerale. Allora, si interroga il nostro, non potrebbe essere che i cechi non sono in realtà atei, piuttosto venerano il loro paesaggio, la loro terra? La loro divinità, aggiungo io, potrebbe essere proprio la česká kotlina, ovvero la conca boema e, dunque, la loro religione uno strano caso di moderno animismo paesaggistico? Máme taky u nás L’analisi di Šimečka continua verso quella certa autoreferenzialità tipica dei cechi, sempre frutto di questo presunto controllo dell’ambiente che, davanti a tanti prodigi del mondo, vuoi tecnici, culturali, artistici o di qualsiasi altro tipo, induce gli autoctoni a trovare un corrispettivo locale, non importa quanto lontano o improbabile, per poter pronunciare il proverbiale “Máme taky u nás”, ovvero “Ce l’abbiamo anche noi”. Vale a dire, in questo nostro piccolo mondo c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, il mondo intero è condensato e pienamente rappresentato nella česká kotlina. Pure l’inno ceco non parla quasi d’altro che dei loro paesaggi, invero bellissimi, e il motivo principale dell’amatissima sinfonia Vltava di Smetana vuole imitare, appunto, il suono del fiume principale del paese, tra l’altro riuscendoci benissimo. Il titolo stesso dell’inno nazionale Kde domov můj, Dove la casa mia, pare rimandare a una dimensione della patria molto più terrena che ideale. Insomma, questo paesaggio tranquillo, bucolico, quasi da Arcadia, protetto lungo tutto il suo perimetro dalle montagne, che rende in un certo modo così

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“comodo” vivere qui, sarebbe anche all’origine di una certa chiusura, per non parlare di ottusità, dei suoi abitanti, abituati a rapportare tutto il mondo alle loro piccole proporzioni da Hobbit. Un boemocentrismo che si esplica in una grande passione per il folklore, le feste popolari e le antiche tradizioni quale, appunto, forma di questa venerazione, rigorosamente laica intendiamoci, per la propria terra. Se avete girato un po’ il paese avrete sicuramente notato che ovunque, ma proprio ovunque, si trova qualcosa che ne racconta la storia, le origini e la cultura. Può essere una chiesetta, una rupe, una cascatella, una grotta, un cenacolo sulla via, un pannello informativo o magari anche un semplice albero che per il solo fatto di avere superato il secolo si merita una targa e il battesimo di památný strom (albero commemorativo). Per non parlare della famosissima hospoda, la tipica locanda ceca di cui è letteralmente disseminato l’intero paese. Šimečka ci invita a notare il numero impressionante di hospody che potete trovare davvero ovunque, al di là evidentemente di ogni logica economica. Nonostante certe forzature, allora, va comunque loro riconosciuto un amore sincero e profondo per la propria terra, forse anche per questo è un popolo che emigra poco, ancestralmente legato alla propria terra, grandi viaggiatori, quello sì, ma poi tornano sempre cantando il motivetto di Kde domov můj. Caccia all’intruso Magari è da ricercare qui anche il motivo di questa loro esagerata e altrimenti inspiegabile fobia dello straniero, del forestiero, di colui che è diverso da loro. Prima il bersaglio erano i Rom, adesso si sono scagliati sugli immigrati. Una caccia alle streghe incomprensibile in un paese dove i profughi di guerra e i richiedenti asilo vanno cercati col lanternino! Sarà forse la paura di perdere questo loro piccolo giardino fiorito? Il timore del bambino che non vuole condividere il giocattolino? La sensazione che l’ombra di Mordor stia per lambire le montagne a guardia dei loro confini? Hai voglia a lamentarsi di UE, NATO e Schengen, ma intanto è anche e soprattutto grazie a queste strutture sovranazionali che questo piccolo paese di nemmeno 11 milioni di abitanti si è goduto un invidiabilissimo quarto di secolo di crescita, pace e prosperità. Říp, una Mecca per i cechi Chissà, forse dietro a tutta questa smania di mappare il territorio si cela allora anche una paura atavica di perderlo. Come ogni popolo che si rispetti anche i cechi hanno una mitologia sulle proprie origini, ovvero una leggenda che narra la fondazione della nazione. Nel nostro caso, per intendersi, lo potremmo identificare con il mito di Romolo e Remo affidati alla generosità della mammellata lupa. La leggenda boema vuole che l’antenato Čech, da cui il nome della nazio-

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ne, fosse partito dalle lontane steppe orientali con la sua tribù in cerca di nuove terre a ovest. Arrivato in Boemia, il cui nome è più antico e risale ai Celti, salì sul Monte Říp (monte di 455 m tanto per rimanere in tema), dalla cui cima, guardandosi intorno, avrebbe pronunciato le celebri parole “Questa è la terra promessa dove scorre il latte e il miele”. Tra parentesi, Wikipedia ci ricorda che una targa di legno del chiosco turistico reca: “Quello che la Mecca è per un islamico, Říp dovrebbe essere per un Ceco!”, come a dire máme taky u nás! Ebbene la storia ci dice che il Progenitore Čech avrebbe dovuto anche aggiungere “...e che i germani, bontà loro, hanno abbandonato per andare a fare razzie a sud”! I Sudeti e la marcatura dei confini Non a caso, infatti, questo paese, e in particolare la Boemia, occupa la propaggine più occidentale del mondo slavo. Magari è qui che cova la paura che i germani possano tornare a rivendicare le terre allora abbandonate. In fondo, non troppo tempo fa un certo Adolfo ci aveva provato, e che la paura del saraceno alto e biondo, che arriva da ovest invece che da est, sia ancora viva lo dimostra la vittoria alle presidenziali di un paio d’anni fa di un altro innominabile col colpo basso dello spauracchio delle rivalse germaniche. E allora il bisogno continuo di “marcare” il territorio con sentieri segnalati, monumenti, cappelle, statue, alberi commemorativi, percorsi didattici e chi più ne ha più ne metta, per dimostrare ai Němci, ovvero i tedeschi, (da němý, muto, cioè colui che non parla la nostra lingua) che questa è terra loro e non intendono mollarla in nessun caso. Scrivendone mi chiedo se anche la grande espulsione di circa 2,5 milioni di cittadini cecoslovacchi di etnia tedesca dai Sudeti, terre dove vivevano più o meno dai tempi di Carlo IV, non sia stata inconsciamente, oltre che a una rivalsa per le tragedie della seconda guerra mondiale, come comunemente affermato, anche un’inconscia riaffermazione dei confini più occidentali tra la sfera germanica e quella slava. Ma anche questa è un’altra storia e, come al solito, sto divagando. Una Contea chiamata Boemia In chiusura, allora, provo a riassumere, e alleggerire anche un po’, con un altro paragone che da tempo amo fare e per il quale ho avuto l’estremo piacere di trovare conferma anche in un personaggio interessante come Tomáš Sedláček, che ha scritto qualcosa di simile (sì, però io prima di lui!). Ai miei occhi, allora, questo paese ricorda un po’ la Contea del capolavoro di J.R.R. Tolkien dove i piccoli hobbit, chiamati mezz’uomini forse anche perché non vedono il mondo per intero, vivono tranquilli e beati lavorando una terra verde, fertile, ospitale disseminata di campi rigogliosi e boschi ospitali. Un piccolo mondo tanto felice quanto completamente ignaro del fatto che, poco fuori dai suoi confini, i

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regni dei loro vicini cadono sotto il martello di Mordor. Se mi chiedete chi era allora Frodo vi rispondo subito Václav Havel, ma questo, come direbbe Jules Winnfield, non è lo stesso campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport. Tutto il paese in un click Chiudo, questa volta davvero, invitando tutti coloro che magari vivono in questo bellissimo paese già da qualche anno e hanno esaurito le visite delle principali attrazioni culturali, a provare a scoprire il paese “reale” indossando un paio di scarpe comode: davanti a voi niente di meno che l’imbarazzo della scelta tra 41.000 km di sentieri segnalati. Oltre alle bellezze naturali, con buona pace dello scolitide dell’abete rosso, ad attendervi troverete luoghi meno pomposi, paesetti un po’ remoti a latere delle destinazioni turistiche principali ma non meno interessanti e, soprattutto, in qualche modo più veri. E se, come me, siete pigri e non avete voglia di cimentarvi con enormi mappe che una volta aperte non c’è modo di ripiegarle com’erano prima, allora l’amore dei cechi per l’informatica vi verrà incontro. Ebbene sì, questa fantastica rete di sentieri è tutta online! Non ci credete? Andate sul sito www.mapy.cz e nelle tipologie di mappe spuntate quella “turistica” e, come per magia, il territorio visualizzato sullo schermo si riempirà di linee colorate dei quattro colori di cui sopra. Divertitevi ad esplorare tutto il paese, vi sfido a trovare una zona senza sentieri. Non temete di perdervi, ché in questo paese la retta via non è smarrita. Postfazione: Se il vostro livello di ceco è discreto vi invito caldamente a leggere l’articolo da cui ho copiosamente tratto ispirazione. Vi assicuro che ne vale la pena: https://www.respekt.cz/tydenik/2016/40/uctivana-krajina

Andreas Pieralli: nato nel 1977 da madre morava e padre toscano, dal 2005 vive a Praga dove lavora come traduttore, scrittore e pubblicista freelance. Si interessa di società, politica, economia e diritti umani. Commenta l’attualità italiana per la TV ceca e altre testate giornalistiche. Segue, tra gli altri, il progetto per un Giardino dei Giusti a Praga. http://www.andreaspieralli.eu/ 95


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LIFESTYLE

Emanuele Ridi

Uno Chef toscano a Praga

A cura di Stefania Del Monte

Emanuele Ridi (4 agosto 1973) è uno chef originario dell’Isola d’Elba e proprietario del lussuoso Manú Risto & Lounge, a Praga, le cui specialità includono piatti ispirati a ricette italiane e mediterranee. La sua passione per la cucina, nata da bambino nel ristorante dei nonni, lo ha portato a diventare uno degli chef più celebrati della Cechia.

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Da quanto tempo vive a Praga e come mai ha deciso di trasferirsi? Sono arrivato qui nel 1992, pochi giorni prima di Capodanno, perché mio padre aveva aperto dei negozi di abbigliamento ed aveva bisogno di un braccio destro: la sua terza moglie era incinta, quindi, chi meglio di suo figlio? Io sarei dovuto partire per il servizio militare proprio in quel periodo: infatti, avevo appena ricevuto la famosa “cartolina”. All’epoca, però, in Italia c’era una legge che esonerava dal servizio chiunque si trasferisse all’estero, purché non rientrasse nel paese per un periodo superiore ai due mesi. Di conseguenza, fino al mio 28° compleanno, ogni volta che decidevo di tornare a casa dovevo prima recarmi in Ambasciata e segnalarlo, specificando anche per quanto tempo intendevo restare. È nato e cresciuto nell’Isola d’Elba. Cosa ha portato con sé dalla Toscana e dall’Italia e cosa ha preferito lasciare a casa? Sono molto fiero di essere isolano! Noi elbani chiamiamo l’isola “il nostro scoglio”, perché non è poi tanto grande e, comunque, non troppo lontana dalla terraferma. Della Toscana ho portato con me un po’ di tutto: il nostro modo di vivere, i valori che ho appreso da bambino... È proprio grazie a quei valori che sono riuscito a farmi strada in questo paese. Non credo di aver lasciato indietro niente. Anche gli affetti, gli amici e la famiglia, li ritrovo comunque ogni volta che torno a casa. E qual è, invece, la cosa più importante che le ha insegnato Praga? A Praga ho imparato tantissimo. Praticamente sono cresciuto qui, visto che mi sono trasferito

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all’età di 19 anni. Anzi, sarebbe meglio dire che Praga ed io siamo cresciuti insieme. Quando sono arrivato qui, infatti, la città era completamente diversa, stava cominciando pian piano ad aprirsi al mondo. In questi anni Praga ha fatto passi da gigante. I cechi, così come in generale i popoli nordici, in certe cose sono davvero bravissimi: noi italiani, a volte, ci perdiamo in un bicchier d’acqua mentre loro sono molto più concreti. Forse è proprio questo che Praga mi ha trasmesso: qui ho imparato a cogliere le opportunità che mi si presentavano. Chissà, forse questo aspetto era già parte del mio carattere, ma credo in qualche modo di dover dire grazie anche a questo paese per averlo messo in luce. Il suo percorso non è quello tipico di uno chef “da accademia”. Dagli studi di economia e commercio è passato alla cucina professionale. Com’è nata questa passione? La mia passione verso la cucina è nata quando ero piccolo: i miei primi esperimenti erano con le focacce, che mi piacevano molto. Posso dire, però, di aver trascorso tutta la mia infanzia tra le primizie della cucina italiana: mio padre era pescatore ed i miei nonni paterni avevano un ristorante sul mare, mentre quelli materni importavano frutta e verdura sull’isola. Tutto questo ha sicuramente abituato il mio palato ai prodotti più buoni che ci regalava la nostra terra. Quando mi sono trasferito a Praga, soprattutto nel primo periodo, ho avuto molte difficoltà: la frutta e gli ortaggi freschi, soprattutto le insalate, erano difficili da reperire. Inoltre la cucina in casa non era delle migliori quindi, pian piano, consultandomi al telefono con mia madre e mia nonna, ho iniziato a cucinare. Le persone che assaggiavano i miei piatti apprezzavano sempre di più e, allora, mi tornò in mente una frase di mio nonno – il ristoratore – che quando ero bambino mi disse che un giorno, quello, sarebbe diventato il mio lavoro. A quanto pare, aveva ragione! Il suo ristorante è considerato uno dei più prestigiosi di Praga: quali sono le ragioni di questo successo? Sapere che il mio locale è così apprezzato non può che farmi immensamente piacere. Amo il mio lavoro ed amo i prodotti di qualità. Inoltre, cerco di istruire al meglio i miei cuochi: persone che lavorano con me da tanti anni e che prima, di cucina italiana, non sapevano nulla. Sono riuscito a farli innamorare del nostro paese, dei nostri prodotti. Ormai anche a casa loro si preparano regolarmente piatti italiani. Forse la mia sfida più grande è stata quella di riuscire a creare un ristorante italiano di qualità, usando personale ceco. Anzi, più di uno, visto che ne ho avuti diversi. Una delle esperienze più belle è stata, senza

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dubbio, quella di un locale a Praga 6, che ho avuto per 18 anni e che ora è gestito da personale che ha collaborato con me a lungo. Per quanto mi riguarda, però, dopo così tanto tempo nello stesso posto avevo bisogno di un cambiamento: la mia nuova sfida è Manú, questo posto sull’acqua incredibile, bellissimo, su un isolotto collegato da un piccolo ponte, con un panorama indimenticabile. Interrompere quella monotonia quotidiana mi è servito a trovare nuovi stimoli e ad esprimermi, forse, ancora meglio di prima, con una cucina italiana “fusion” che mi sta dando ottime soddisfazioni. Le grandi qualità professionali e la personalità carismatica l’hanno portata ad essere uno degli chef più celebrati della Cechia, fino a farla diventare ospite regolare di diversi programmi televisivi. Ci parli un po’ di queste sue esperienze. Il mio debutto televisivo è avvenuto quasi per caso, a fine 2009. Una persona mi disse che c’era la necessità di realizzare, nella Repubblica Ceca, un programma sul formato di quello lanciato in Gran Bretagna da Jamie Oliver, che insegnasse a cucinare a casa e che facesse “incollare la gente alla televisione”. Io provai senza dar troppo peso alla cosa, loro mi presero, nonostante il mio ceco maccheronico e dall’accento inconfondibilmente toscano. Partimmo con questo progetto ed ebbe un grandissimo successo. Subito dopo mi venne proposto di girare delle pubblicità per delle grandi marche. Una, in particolare, per la telefonia: e pensare che in Italia, per fare la stessa cosa, c’era gente famosissima…Per me è stato un bellissimo sogno! Ho fatto televisione per quattro anni e tuttora i miei programmi (un centinaio di puntate in tutto) vengono trasmessi in replica. In quel periodo sono riuscito a portare la televisione ceca in Italia, girando sia a casa mia, all’Elba, che a Firenze e nel nord. Ho fatto vedere un po’ di tutto: da come si prepara il risotto a come macellare la carne, sempre cercando di trasmettere il mio amore per l’Italia. In seguito sono stato ospite di numerosi programmi televisivi e, di recente, ho anche partecipato a Stardance (l’edizione ceca di “Ballando con le stelle”), dove ancora una volta ho avuto un grande sostegno da parte del pubblico, arrivando fino ai quarti di finale. Il continuo calore che ricevo dalla gente ceca è meraviglioso! Pur essendo straniero, questo paese mi ha sempre dimostrato un grande affetto e apprezzamento per le mie qualità, e questo mi fa sentire davvero appagato. Quanto deve al suo paese d’adozione? Sicuramente molto. Non posso dire “tutto”, perché malgrado in Cechia sia

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riuscito a crescere sia a livello professionale, sia a livello di notorietà, tutto questo è accaduto perché non ho mai perso quello che credo sia il mio carattere distintivo, e cioè la mia italianità. Non dimentico mai da dove vengo: pur vivendo a Praga da tanto tempo, continuo a mangiare italiano, vestire italiano, “vivere” italiano. Se sono arrivato fin qui è grazie a tutti e due i paesi: la Cechia mi ha permesso di realizzarmi ma, probabilmente, se non fossi stato italiano non avrei avuto tanto successo. Come immagina il suo futuro? Sto lavorando ad un paio di progetti che spero di realizzare entro quest’anno, sia nell’ambito della mia cucina che a livello televisivo. Pensando più a lungo termine, invece, la decisione si fa difficile. Mi manca l’Italia, mi manca il mare, però le cose nel nostro paese non funzionano bene. Questo è uno dei più grandi problemi e dispiaceri che abbiamo noi italiani: sempre più giovani sono costretti ad andarsene, a cercare di costruirsi un futuro altrove, perché l’Italia non offre più niente. Anche se è il più bel paese del mondo, e non lo dimenticherò mai, oggi è diventato uno dei paesi europei in cui è più difficile vivere. L’ideale, per me, sarebbe vivere otto mesi in Cechia e quattro in Italia, godendomi il mare d’estate e Praga d’inverno, ma quello è un sogno ancora lontano: nel frattempo, mi impegno per realizzarlo! http://manuristo.cz/

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CINEMA

Giovanni Robbiano

FAMU International ed il cinema a Praga

A cura di Emanuele Ruggiero

Giovanni Robbiano è uno sceneggiatore, regista e docente cinematografico. Da settembre 2015 dirige il dipartimento internazionale della FAMU di Praga, la famosa Scuola del Cinema. Laureato in Storia del Cinema al D.A.M.S. di Bologna ed in sceneggiatura alla Film Division della Columbia University di New York, dove è stato anche assistente del Prof. Emir Kusturica, ha lavorato per Marcia Nasatir ed Hector Babenco. In seguito ha diretto diversi lungometraggi: Figurine (1997), A Deadly Compromise (2000), 500! (2001, co-diretto con Matteo Zingirian e Lorenzo Vignolo); la sua ultima pellicola è Hermano, interpretato da Rade Serbedzija, Paolo Villaggio, e dal suo vecchio “maestro”, Kusturica, che compare in un cameo. Il film ha vinto il premio Solinas (1996), come miglior soggetto cinematografico. I suoi lavori più recenti come sceneggiatore sono “Tutti i rumori del mare”, di Federico Brugia (2012), che ha raccolto molti premi, e la serie TV “Task Force 45 - Fuoco amico”.

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Ha anche lavorato come produttore creativo su vari lungometraggi e, allo stesso tempo, come story editor e consulente alla sceneggiatura in molte produzioni cinematografiche, in tutta Europa. Fin dai primi anni ‘90 è docente di film e formatore, presso istituzioni pubbliche e private, nonché presso le Università degli Studi di Bologna, Milano e Genova. Ha, inoltre, insegnato in molti altri programmi ed istituzioni, laboratori e scuole di tutta Europa e in Africa. Per il programma MEDIA dell’Unione Europea, ha lavorato per MFI (Mediterranean Film Institute). Ha, infine, pubblicato un volume di tecnica sulla sceneggiatura cinematografica. Dal 2013 è membro dell’EFA, European Film Academy. Giovanni, di cosa ti occupi, a Praga? Dirigo il dipartimento internazionale della FAMU, la facoltà accademica di cinema e televisione, nell’ambito dell’Accademia di Musica e Teatro di Praga: una delle scuole di cinema più prestigiose d’Europa e del mondo. Vivo qui dal settembre del 2015. Sono alloggiato all’interno della sede dell’Università: una piccola camera, molto comoda; un sottotetto, in pieno centro a Praga. Praga è una delle città più piacevoli d’Europa, con una qualità della vita molto alta, tranquilla e funzionale. Sono davvero contento di questo lavoro. Un lavoro prestigioso – e faticoso – ma di grande visibilità e di grande impegno, che mi dà molte possibilità di rapporti con l’estero e con situazioni altrettanto prestigiose. FAMU ha più di 70 anni di vita. Ha sfornato molti registi di grande talento, da quelli senz’altro più conosciuti in Repubblica Ceca, come Jiří Menzel o Miloš Forman, ai più recenti, come Emir Kusturica, oltre che nuovi registi non europei, da quando 8 anni fa è stato aperto questo dipartimento in inglese. Come ti trovi in Repubblica Ceca? Cosa ti piace di questo Paese? La Repubblica Ceca è un paese molto ordinato. Magari per certi versi, arrivando dall’Italia, perfino troppo tranquillo. Io apprezzo, in realtà, il grande livello di efficienza dei servizi, tutto sommato l’understatement sociale e civile di un Paese che è molto tollerante e aperto, sia pure con i suoi problemi che, specialmente in questo periodo non felicissimo per l’Europa unita, forse si sentono anche di più. La mentalità ceca è caratterizzata da un forte senso di appartenenza, di nazionalità più che nazionalismo, che magari in certi momenti ti fa sentire un po’ diverso da loro. Devo dire che a Praga vive una quantità enorme di stranieri e anche, soprattutto, di italiani ed è difficile sentirsi isolati, in una città del genere. I cechi sono piuttosto pratici e lavorano molto, ma hanno una particolare tendenza a giudicare, anche in termini di funzione: se fai molto bene, te lo dicono, e quando sbagli non ti risparmiano le critiche. Noi latini siamo un po’ più flessibili.

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C’è una certa rigidità che non sfocia mai nell’ostilità ma che può creare piccoli disagi. I cechi usano essere molto diretti mentre gli italiani in genere usano forme molto più mediate e diplomatiche. È fondamentale avere una mentalità aperta ed adattarsi ad un nuovo stile di vita, ad un clima diverso, e ad una lingua oggettivamente ostica per noi, con dei suoni quasi impronunciabili. Infine, abituarsi alla cucina, che è particolare e diversa da quella italiana, e che ovviamente ha le caratteristiche culinarie di un luogo con un clima molto freddo. Il lavoro, peraltro, mi porta ad essere in contatto con studenti giovani di qualsiasi nazionalità: dalla Cina agli Stati Uniti, agli altri Paesi europei, ai Paesi dell’Est o ai Paesi dell’ex Unione Sovietica, agli Emirati, al Qatar, o all’India. Ho, tra l’altro, uno studente palestinese ed una studentessa israeliana che lavorano insieme. Siamo un po’ carenti sull’Africa o su alcune aree dell’Asia, anche se la scuola ha uno scambio oramai consolidato con la Birmania e con alcuni Paesi del Sud America, come il Venezuela e la Colombia. Insomma, un bel caleidoscopio di culture, e naturalmente di persone affascinanti che, sebbene giovani e non ancora completamente formate, hanno un grande talento che la scuola cerca di assecondare, tenendo conto di quelli che sono i cambiamenti nel mercato e nel mondo dell’audiovisivo. Ci sono state delle difficoltà, all’inizio, a Praga? Cosa consiglieresti ad un italiano che volesse venire a vivere qui? Ufficialmente, per me, no. Io sono entrato in una struttura ben oleata. Le difficoltà erano specifiche, inerenti al compito: la mia difficoltà è stata quella di entrare in una struttura già funzionante senza fare danni e trovando il mio spazio. Non ho avuto difficoltà a relazionarmi sul lavoro, anche se allo stesso tempo non è che qui si fermano ad aspettarti (come, d’altronde, in ogni posto di lavoro). In un discorso più ampio bisogna aggiungere che, chi volesse arrivare a Praga per cercare lavoro, troverebbe un ambiente senz’altro ricettivo, ma con un approccio diverso da quello tipico italiano. Quando ero all’università, in Italia, se veniva un collega “da fuori” chiunque, immediatamente, si sarebbe proposto di invitarlo a cena. In Italia c’è una facilità di rapporti che però, certe volte, è anche superficiale e di convenienza, e che ti porta ad essere molto aperto. Qui non succede, anche perché questo effettivamente è un paese più piccolo, che comunque vive ed ha vissuto gli scambi con culture diverse, compresa l’Italia. C’è molto interesse e molto rispetto per la nostra cultura, perfino una certa corrispondenza di simpatia, ma non è che i cechi si fermino a celebrarti con un “benvenuto tra noi, ti accogliamo come un figlio”: bisogna rispettare la loro diversità di cultura e attendere i loro tempi per creare sinergie. Ci sono poi ulteriori aspetti positivi che sono notevoli: per esempio la burocra-

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zia. Questo è un Paese che funziona bene e che fa riflettere sul funzionamento dell’Italia. Qui è abbastanza comune, senza che venga presa come una critica, andare in un ufficio pubblico e vedere risolto il problema, così come succede nel caso dell’università. C’è un certo atteggiamento logico nella praticità delle cose. Ad esempio, per ottenere l’abbonamento ai trasporti, o per avere la tessera sanitaria, o ancora – come nel mio caso – per registrarsi dal punto di vista fiscale. Sono cose che si fanno tranquillamente. Si va in ufficio, si compila una richiesta e il più delle volte la pratica viene evasa immediatamente, oppure viene dato un termine dove la richiesta sarà evasa, senza ulteriori proroghe. Come sono le opportunità di lavoro? Consiglieresti ad un italiano di trasferirsi? Ci sono molte opportunità di lavoro per chi viene dall’Italia, soprattutto se si hanno delle specializzazioni: come nel campo dell’alimentazione, oppure in settori come l’informatica o legati a specificità artistiche e del mondo dello spettacolo. In un contesto generale come quello dell’Europa, che rileva una certa sofferenza, la situazione in Repubblica Ceca è sicuramente migliore. La crisi, a detta dei miei amici, si è sentita anche qui, ma molto meno rispetto ad altri Paesi europei, perché qui c’è una struttura sociale molto più compatta. Questo è qualcosa a cui non siamo abituati, ed a cui, invece, ci abituiamo con grande piacere. Il costo della vita è molto più abbordabile. A Praga è più oneroso comprare una casa ma questo è un Paese che, per chi abbia poi forti nostalgie, è ad un’ora di volo dall’Italia, ed oggi come europei dobbiamo anche considerare il nostro mercato e la nostra realtà come qualcosa che vada oltre le Alpi, o i confini regionali. Lavorare a Praga non è poi più difficile che cercarsi lavoro, probabilmente, a Milano o a Roma, arrivando da un’altra parte dell’Italia. Pensi che un giorno tornerai in Italia, rimarrai qua, o ti trasferirai in un altro Paese? Quali sono i tuoi progetti, in questo momento? Penso che ritornerò in Italia, dove c’è la mia famiglia. Il grande rammarico della partenza di questa avventura era il particolare momento famigliare: era appena mancato mio padre; inoltre, essendo i miei figli abbastanza grandi, non si è mai considerata l’idea di trasferire tutta la famiglia. Mia moglie e i miei figli sono italiani e bisogna anche porsi il problema di deradicarli da un luogo dove vivono bene, che è Genova. Fra qualche anno tornerò, anche perché non sono poi “di primo pelo”. Non posso pensare di andare avanti per altri dieci anni! La mia idea è senz’altro quella di completare qui un ciclo di lavoro, che in termini di buon senso può essere di 4 o 5 anni. Sono stato chiamato con un mandato e direi che comincio a incidere sulla struttura di que-

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sto corso e di questo dipartimento. Quindi, il mio progetto principalmente è di lavorare qui all’università e rendere questo dipartimento più forte e migliore, internazionalizzarlo ancora di più, aprendo e consolidando rapporti con l’estero e con altre strutture, anche molto lontane. Naturalmente ci sono dei rapporti quasi fisiologici, come quelli con l’Ungheria, con Lodz in Polonia, o con Bratislava. Ci sono due elementi fondamentali: una è quella di rendere la scuola più presente e più riconosciuta, per poter attirare sostanzialmente più studenti ed una migliore qualità degli stessi; l’altra è quella – avendo la fortuna di avere un nome che ha una certa rilevanza a livello internazionale – di “brandizzare” il prodotto FAMU e “commercializzarlo”. Esso è un ente culturale che deve sopravvivere in un mercato molto aggressivo e vendere i propri servizi educativi laddove c’è richiesta. Proprio a tal fine, nel settembre scorso, ho trascorso una decina di giorni in Kazakistan. Sono stato anche in Libano, dove penso di ritornare, aderendo ad una richiesta molto forte di portare formazione nel campo della comunicazione audiovisiva, che è un settore in grande espansione. FAMU mi permette di allargare molto i miei confini ed anche di poter considerare delle possibilità diverse. È molto piacevole vivere qui; è anche possibile che, col tempo, si trovi una forma di mediazione o di compromesso, cioè di mantenere un rapporto magari non così impegnativo come la direzione del Dipartimento, che davvero riempie tutti i giorni e tutta la settimana, ma continuando ad insegnare ed utilizzando dei tempi più ragionevoli, da passare in casa con la famiglia, o fuori. Dal punto di vista professionale sono arrivato a questa possibilità tardi, o comunque al culmine di una carriera, e ora sto avendo gli anni migliori della mia vita. Naturalmente, come tutti, esiste l’ambizione di migliorarsi e di migliorare il proprio livello e le proprie conoscenze ed i propri rapporti. Tu sei sceneggiatore e regista ed hai alle spalle quattro film. Hai, creativamente, altri progetti da sviluppare? Un anno fa avrei risposto “sì, ho questa sceneggiatura; sto facendo questo, sto scrivendo quest’altro, e poi insegno”, adesso la prospettiva si è completamente ribaltata: innanzitutto sono in questo ufficio nel centro di Praga e da qui dirigo un dipartimento che gestisce circa 200 studenti l’anno e dove offriamo, direttamente o indirettamente, sei corsi: un master, un corso annuale, un corso professionale per giovani produttori e poi diversi programmi di scambio con università ed enti americani. Al contempo, ho la possibilità di occuparmi dei miei progetti, come ad esempio una sceneggiatura che sto seguendo e che è, attualmente in attesa di una risposta su possibili fondi in arrivo: un progetto su cui c’è il mio nome anche come regia, 17 anni dopo la mia ultima esperienza in questo senso.

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In realtà non so neanche cosa augurarmi, perché prendere quel finanziamento vorrebbe dire staccare completamente, per tre mesi, dalla scuola. In questo momento non so se voglio farlo. Bisognerebbe aspettare l’estate, ma l’estate è preziosa per diversi motivi, perché in estate ci si può preparare all’intenso anno seguente. Fino ad oggi sono riuscito a far convivere la professione di scrittura e di sceneggiatura e, recentemente, di produzione, con l’insegnamento, perché il livello di quest’ultimo era gestibile, con un impegno modulare contingentato. Insegnare all’università, o ai corsi di formazione, mi occupava poco tempo, andando due o tre volte l’anno in giro per l’Europa; adesso vado una volta al mese a fare workshop di due o tre giorni, o anche di una settimana. Detto questo, sono un film-maker e non abbandono “la baracca”! Anzi, come sai, si parla continuamente di nuove cose da mettere in cantiere ma poi, tante, rimangono “pour parler”, e tante altre prendono un passo deciso, diventando progetti concreti. Il nostro mestiere consiste nell’avere cento idee, portarne dieci ad una fase di sviluppo, per poi avere un solo prodotto finito. Tutto questo va gestito e acquisito perché tale è la realtà di quello che facciamo e di ciò che il mercato offre. Io ho assunto un atteggiamento flessibile e fatalista: nel momento in cui comincio un paio di progetti, anche se so che si va verso un conflitto di tempi, vado avanti, perché ho visto che quando non ho privilegiato una cosa rispetto ad un’altra non ne ho fatta nessuna delle due. Questo è un mestiere dove puoi pianificare in tempi lunghi e in maniera molto astratta: il mio obiettivo è farlo ma, avere una pianificazione specifica del tempo del lavoro, è assolutamente impossibile, perché il lavoro nasce e muore, ogni giorno, nel giro di poche ore. Per esempio, ieri sera raccontavo di una sceneggiatura di un film che sembrava partisse tre o quattro mesi fa, in Italia, con un regista col quale amo molto lavorare ma alla fine, per ragioni incomprensibili, non si farà più. Sono stati due anni di lavoro molto intensi, che non hanno portato a nulla: è la natura del nostro lavoro.

Emanuele Ruggiero è regista freelance, produttore, direttore della fotografia e giornalista. Ha lavorato nel mondo dello spettacolo per oltre 25 anni. http://www.kinovision.it/

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FOTOGRAFIA

Il sogno di modernità di Danilo De Rossi Hong Kong tra la verticalità dei luoghi e il brulicare delle sue esistenze

A cura di Paola Caronni

Danilo De Rossi, fotografo italiano a Praga, ha appena pubblicato il suo libro “Cityscapes. The Dream of Modernity”, che raccoglie scatti di diverse città orientali quali Hong Kong, Shanghai e Pechino. Il libro verrà presentato dall’autore, insieme ad una sua mostra fotografica, il prossimo 9 marzo alle ore 18, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. Nelle parole di un’italiana ad Hong Kong la singolare visione, nei Cityscapes di De Rossi, di una città che non dorme mai.

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In Italia, nei miei ricordi d’infanzia e giovinezza, la mia visione degli spazi si è per lo più sviluppata ‘in senso orizzontale’. Non ricordo molti incontri con grattacieli e i luoghi esterni erano vasti: spazi aperti e continui, dove l’occhio poteva vagare indisturbato. Durante gli ultimi ventun anni passati in Asia, tra Singapore ed Hong Kong, ho dovuto ricalibrare il mio sguardo. In particolare ad Hong Kong, dove tutte le moderne costruzioni si sviluppano in vertiginose altezze, raggiungibili tramite ascensori che si arrampicano velocissimi, anche oltre il centesimo piano, e dove gli spazi aperti sono spesso interrotti dalla presenza di qualche grattacielo che fa capolino tra le colline, il verde e il mare. Gli altissimi edifici costituiscono lo spazio vitale, anche se minimo e ristretto, in cui si svolge l’esistenza della maggior parte dei più di sette milioni di abitanti di questa città, sia che si tratti di appartamenti, che di uffici. Ogni giorno, nuove strutture crescono verso il cielo, come funghi che sbucano da una foglia: i numerosissimi funghi del fitto bosco urbano. Pensare, quindi, che la verticalità dei luoghi costituisca l’essenza di Hong Kong, dove ogni centimetro di terra ha un prezzo altissimo – e dove si devono accomodare tutti gli abitanti in un’area geograficamente non sempre adatta alla costruzione di case – fa riflettere sul fatto che, per questa città, “the sky is the limit”. Si continua a salire, fra tratti convergenti che si confondono e incrociano e tra i quali fa capolino, ogni tanto, un piccolo quadrato di cielo. Guardando le fotografie di Danilo De Rossi, scattate in maggioranza ad Hong Kong, si coglie la vera forma ed essenza della città e si è inevitabilmente trasportati tra le numerose linee e parabole – di case allineate come tanti blocchetti di Lego, o celle di alveari, che a volte sembrano appena appoggiarsi sul piatto mare – di ponti, cavalcavia, gru e cavi che s’incontrano e poi separano. In uno strano gioco di opposti, ci vengono le vertigini se ci abbassiamo a terra e guardiamo in alto, sentendoci presto rinchiusi nel labirinto dei palazzi, attaccati l’uno all’altro. De Rossi è chiaramente attratto dai molti giochi di simmetria, non solo di linee perfette e studiate, ma anche di quel che sembra messo lì a caso e che in realtà presenta, nella sua ‘randomness’, il fascino della precisione, come i pesci in vendita al mercato locale – appesi ai ganci e ben allineati – o le loro teste, riposte sul sanguinante tagliere del pescivendolo.

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Dalle forme esterne si passa agli interni e s’intravedono – e quindi immaginano – la vita degli abitanti, i loro rituali, le loro consuetudini, la loro socievolezza e solitudine. Ed è qui che incontriamo una Hong Kong spesso sconosciuta non solo ai turisti, ma all’occhio meno attento, abituato a vagare casualmente e quindi impreparato a cogliere l’attimo, il contrasto e la bellezza delle moderne forme esterne, che spesso si sposano con lo squallore degli ambienti più poveri e con chi in essi vive. Con i suoi scatti, De Rossi mette in luce – giocando sia con le onnipresenti luci di una città che sembra non dormire mai, sia con le sue ombre – le idiosincrasie di una metropoli che rimane unica nel suo genere, proprio per questa sua unione di attenta geometria e simmetria degli spazi con il disordinato, trafficato e caotico svolgersi della sua umanità.

Paola Caronni: insegnante, interprete, traduttrice, poetessa e scrittrice, è originaria di Milano e si è trasferita a Hong Kong nel 1995. Qui si è distinta per l’intensa attività filantropica svolta nell’ambito dell’Associazione Donne Italiane, di cui è stata Presidente dal 2008 al 2011: ruolo per il quale le è stata conferita, il 16 gennaio 2013, l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia. https://paolacaronni.wordpress.com

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Il libro Una città che cresce inglobando vicinati, in uno stato di costante transizione con edifici enormi, la cui grandezza sorpassa ogni senso di scala. La periferia diventa progressivamente centrale; gli spazi vengono demoliti e ricostruiti. Mentre le città storiche sorgono attorno alle rovine di antiche civiltà, le città moderne sembrano convergere verso collezioni omogenee di edifici ed interni anonimi, offrendo al visitatore e ai cittadini un posto globalizzato e privo di ogni diversità. Acciaio inossidabile e vetro brillano giorno e notte, offrendo superfici impenetrabili al nostro sguardo, presentando un’idea di perfezione senza età e, per questo, inumana. Facciate costruite con materiali riflettenti creano un senso di estraneità, collocando i cittadini costantemente al loro esterno. Lo spazio vuoto tra i palazzi – in questa realtà asettica è un disturbo? Nelle stradine, sotto i cavalcavia ed ovunque c’è spazio disponibile, il vero tessuto della città si manifesta e crea una diversità necessaria. Questi spazi sono un promemoria di come i tentativi di razionalizzare la meravigliosa complessità della vita umana siano destinati, inesorabilmente, al fallimento. Questi luoghi aggiungono tessuto e incredibile energia alla città e sono ciò che veramente definisce il carattere individuale di una città moderna. Essi offrono una vera esperienza sensoriale, dove l’occhio e la mente possono accarezzare i materiali e soffermarsi sui dettagli. Qui si può incontrare la bellezza dell’inaspettato: quasi un’esperienza esotica, nella metropoli moderna globalizzata. La sera, e quando piove, la città diventa inaspettata. Nella pioggia, riflessi sull’asfalto sfocano la vista e trasformano la città in un quadro impressionista: imperfetto, umano e, per questo, in grado di attivare i sensi. Nella profondità della notte strade e palazzi si congiungono, in un fiume di ombre grigie. L’assenza di luce riattiva i sensi primordiali: l’udito, l’olfatto ed il tatto. Ombre umane, con sfondi d’infrastrutture gigantesche, provocano il sogno di nuove situazioni inaspettate, echi visivi di romanzi gialli. L’autore Danilo De Rossi (Roma, 1969) si occupa di fotografia da più di vent’anni. Le sue prime memorie visuali sono di quando – da bambino – rimaneva ad ammirare le enormi strutture dei gazometri che dominavano il paesaggio dell’area industriale romana dove suo nonno lavorava. Più tardi, durante i suoi viaggi, è sorto l’interesse per l’architettura, per il senso di luogo e per la relazione tra la città e i suoi abitanti. La sua interpretazione non è razionale ma emotiva. L’uso del bianco e nero consente di mantenere la rappresentazione della realtà a livello astratto. I suoi lavori sono stati pubblicati ed esposti a Hong Kong, in Australia, in Italia e in Gran Bretagna. Il libro è acquistabile presso: www.daniloderossi.com Ufficio Stampa e Marketing www.redmontconsulting.co.uk info@redmontconsulting.co.uk

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Danilo De Rossi

CITYSCAPES

The Dream of Modernity Presentazione libro 9 marzo 2017 ore 18.00 Mostra fotografica 9-24 marzo Istituto di Cultura Italiana Praga Šporkova 335/14 118 00 - Malá Strana www.daniloderossi.com

REDMONT C O N S U L T I N G

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ITALIANI NEL MONDO

Silvia Bajardi

Un’italiana nel Nuovo Mondo

A cura di Stefania Del Monte

Silvia Bajardi, scrittrice e blogger, è originaria di Torino ma vive a Seattle. Tra due parentesi italiane ha vissuto con la sua famiglia (tre bambini ed un marito inglese) ad Hong Kong e Singapore, due metropoli che hanno accresciuto il suo amore per la cucina asiatica e la paura per le altezze. Negli Stati Uniti, Silvia ha creato il blog: “Un italiana nel nuovo mondo: quando sentirsi a casa dipende dal viaggio che intraprendi”.

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Seattle, la patria di Microsoft, Amazon e Starbucks, ma anche di Christian Grey. Che cosa l’ha portata fin qui? Microsoft, per l’appunto, anche se effettivamente sarebbe stato più interessante fosse stato Christian Grey! Mio marito lavora dallo scorso anno per il gigante informatico e ci siamo trasferiti con i nostri tre bambini ad agosto 2016. È la terza volta che ci trasferiamo per il suo lavoro. Siamo stati a Hong Kong, Singapore, poi siamo ritornati per un periodo in Italia. Abbiamo una specie di carovana itinerante che ogni volta dev’essere rimontata, pezzo per pezzo, per adattarla alle esigenze di tutti: dalle scuole, alle relazioni personali, alle porte lavorative. In questo percorso avrei potuto sentirmi schiacciata se non avessi deciso di non assumere semplicemente il ruolo di “moglie al seguito”. La motivazione vera che mi ha spinto ad accettare la scelta di mio marito è che mi diverto. Mi piace “indossare le scarpe degli altri”, come si dice in inglese. Vedere come si vive altrove. “Vivere” come si vive altrove. È un’esperienza che il semplice turismo non consente. Una volta le donne seguivano i mariti in un contesto congelato, con regole sociali così rigide che dovevano rinunciare alla loro individualità. Io ho deciso di farla diventare un’esperienza arricchente per me stessa. Voglio scrivere: il mio obiettivo è capire i mondi e metterli a confronto, il che penso possa avere anche un’utilità sociale. In questa fase in America in cui si parla di integrazione o segregazione credo sia un tema particolarmente attuale. Capire è fondamentale. Seattle è una città che offre molti spunti: attrae un certo tipo di cervelli, allenati all’ordine e alla precisione, ma anche creativi, sotto un certo punto di vista. Le idee partorite dalle aziende che ha citato hanno un’influenza di portata mondiale. Ed è un continuo fermento, le persone qui non si fermano mai. Mentre progettano come creare il programma informatico del secolo, corrono una maratona e si dedicano a fondazioni umanitarie per i senzatetto. Con un caffè sempre in mano. Da un lato è stimolante vedere che ci sono luoghi dove ancora vale il principio di causa-effetto: quando si agisce, spesso c’è un riscontro pratico, la speranza di un successo. Dall’altro, faticoso, soprattutto quando tutto ciò che vorresti fare è sprofondare sul divano e mangiarti una minestrina col dado. Credo che qui saresti additato come “pigro”, un’onta terribile. È interessante che Christian Grey appartenga proprio al modello di business man all’apice della propria carriera. Nel privato ha qualche piccola

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disfunzione nella sfera intima, il che la dice lunga sul conflitto che può instaurarsi tra ambito lavorativo e sfera personale. Se si fosse mangiato qualche minestrina anche lui, avrebbe trovato una brava ragazza ma il libro non sarebbe mai diventato un best-seller! Un’italiana nel nuovo mondo (il nome del suo blog) ma con una lunga esperienza internazionale, soprattutto in Asia. Quali sono, a suo avviso, i caratteri distintivi delle città in cui ha vissuto finora? Anni fa, ho vissuto in Inghilterra e in Spagna, prima per motivi di studio poi di lavoro. Le esperienze giovanili sono state contradditorie: molto divertenti a momenti e difficoltose in altri. A Manchester, una città col più alto numero di studenti in Europa, ho frequentato un Master di Traduzione Automatica. A Barcellona ho lavorato nel settore, poi sono ritornata a Londra per una sbandata amorosa e un lavoro precario. La costante di tutti questi viaggi è la mia passione per le lingue, che a volte ho approfondito e altre solo cominciato a studiare, in preda al desiderio di poter comunicare alla pari. Sono passata dal francese che mi appartiene anche per legami famigliari (mia nonna era francese), all’inglese, allo spagnolo, al cinese. Con brevi intervalli di ebraico, portoghese e persino wolof. Anche i fidanzati stranieri hanno rappresentato uno stimolo linguistico. Ricordo una discussione adolescenziale con mio padre in cui, in un impeto di ribellione, giuravo che non avrei mai sposato un torinese, soprattutto se tifoso del Toro. Pur di non avere una replica di ciò che già conoscevo mi sarei trovata un bel marziano! Grazie al cielo mio marito (che è inglese) mi ha riscattato dai miei deliri di onnipotenza. I trasferimenti dopo i figli sono stati più impegnativi, il bagaglio più ingombrante. Siamo partiti per Hong Kong con due bambini piccoli e le nostre sole valigie. Siamo finiti in una zona di expat che mitigava inizialmente l’impatto con l’Asia, che a volte può lasciare frastornati, facilitando allo stesso tempo le relazioni. Ma ciò che mi attirava davvero era l’anima cinese, una giungla di grattacieli che nasconde un sottobosco in evoluzione di mercatini, strade che si snodano tra attività commerciali e ristoranti, odori pungenti e situazioni chiassose. È un via vai umano continuo. Provo un affetto particolare per Hong Kong: è l’immagine del dinamismo, un crocevia dove l’oriente incontra l’occidente. Persino io ho abbracciato il cambiamento con una gravidanza: mia figlia è nata lì. Singapore è subentrata in un momento lavorativo di grande instabilità che mi ha impedito di conoscerla a fondo. L’ho apprezzata a un livello più

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superficiale: l’architettura, la vegetazione, i quartieri. Ci sono zone dove il verde si integra perfettamente con gli spazi, gli edifici coloniali coi grattacieli, le moschee con i templi indù. Purtroppo Singapore resta per me la città dove ho preso il morbillo da adulta. Il ritorno in Italia dopo questi paesi esotici è stato un sollievo ma ha anche rappresentato un ulteriore sforzo di integrazione al contrario. Viaggiare non per turismo crea a volte un senso di “non appartenenza”. È uno dei temi che vorrei affrontare nel mio blog. Da cos’è nata l’idea del blog? Dai miei viaggi. Come il “mal d’amore” esiste il “mal di casa”, la sensazione di non avere una patria. Credo sia molto comune a tutte le persone che per una ragione o per un’altra hanno affrontato viaggi lunghi. È lo sradicamento di Ulisse, che quando torna a Itaca si chiede se sua moglie avesse avuto quei baffetti anche prima della partenza, se le piastrelle di casa fossero davvero di quella tinta verde fagiolo e i Proci non fossero in realtà suoi compagni alle medie. È la costruzione di una nuova identità itinerante, la stessa curiosità che spingeva una volta i navigatori a imbarcarsi dopo anni trascorsi sul mare. Ora le sirene o i pirati si presentano sotto altre forme, altre paure. Innanzitutto la preoccupazione di non essere all’altezza. Non posso descrivere lo sconforto di trovarsi per la prima volta in un supermercato all’estero: non riconoscere nemmeno un prodotto, dover leggere le etichette una a una (se non sono in cinese). In vacanza, questo tipo di esperienza può risultare divertente. Quando ci si trasferisce, spesso si tra-

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sforma in un accumulo di informazioni insieme alle regole per la patente, alla diversa organizzazione delle scuole, alla burocrazia, ai modi di approcciarsi alle persone, al lavoro. Senza contare che io ho un senso dell’orientamento terribile e mi perdo costantemente. All’inizio si cerca di trasportare il proprio bagaglio di conoscenze e applicarlo con diligenza. C’è la fase dei paragoni, poi quella dell’accettazione. Infine subentra la fase opposta, quella che mette sotto la lente di ingrandimento le abitudini precedenti. Fare di un luogo una casa è un processo lungo che funziona come lo stratificarsi del suolo, dove a ogni strato corrisponde una serie di minerali e un’era geologica. Ma c’è sempre una cavità, da qualche parte, ed è la casa che si è lasciata alle spalle. Per me, colmare i vuoti, unire tutte le ere geologiche in un unico gustoso purè, è diventato importante. Ed ecco il blog. Il motto del blog è: “quando sentirsi a casa dipende dal viaggio che intraprendi”. Qual è, per lei, il tipo di viaggio da intraprendere per sentirsi a casa? La risposta è ancora in fase di costruzione, spero che il blog mi aiuti a individuarla. Credo che il racconto però debba essere corredato da un’intenzione. Io voglio avere una casa, voglio sentirmi stabile. Ci sto lavorando consapevolmente. Il primo passo è rendersi conto che i continui confronti non sono sufficienti per interpretare la nuova realtà. La nostalgia non può diventare frustrazione. La funzione del mio blog è mettere in discussione gli automatismi di comportamento. Quando all’interno di una situazione mi rendo conto che non sono efficaci provo a ricalibrarmi. Questo spostamento della prospettiva mi permette di dare un senso alle esperienze e trovare una continuità. È questo ciò che io chiamo “casa”: ritrovare me stessa in luoghi estranei e rapportarmi a persone completamente diverse da me. A Seattle si sente a casa? Non ancora, ma sono sulla buona strada. Mi sento alternativamente a mio agio e fuori posto. Anche l’ambiente influisce sull’umore: sono abituata a un contesto cittadino e i suburbs americani, anche se pittoreschi, nei primi mesi mi hanno fatto sentire molto isolata. Mi sono resa conto però di avere alcune possibilità di scelta: ad esempio, diventare una casalinga disperata come quella delle serie TV; oppure dedicarmi all’insegnamento come fa-

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cevo in Italia; o sviluppare le mie carenti abilità sportive, e così via. Nei ritagli di libertà, nel cuore della notte o negli Starbucks, mi sono ritrovata a scrivere, non sapendo neppure io in che direzione o perché. Qualcosa ha fatto click. Ho capito che questa fase della mia vita poteva diventare un’opportunità per sviluppare la mia capacità di utilizzare il linguaggio in modo creativo. È ciò che mi fa stare bene: mi permette non solo di aprire nuovi canali di comunicazione, ma anche instaurare relazioni umane interessanti. Non scrivo solo per compiacere il mio amore per le parole: il rapporto col lettore è un legame dinamico, dove ho la possibilità di apportare un cambiamento reale, fosse anche una riflessione fugace. Il mio obiettivo è questo. È in contatto con la comunità italiana della zona? Sono in contatto con Il Punto, un’associazione culturale italiana a Seattle. Al contrario di altre associazioni presenti in America che sono ancora molto ancorate all’Italia delle prime ondate migratorie, il Punto si propone di promuovere l’immagine di un’Italia più attuale. L’ho conosciuto grazie a Paola Croci, un’amica che con il suo entusiasmo sa coinvolgere soggetti di diverse professionalità, nuovi arrivati in città così come persone che per una qualche ragione hanno interesse a mantenere i contatti con l’Italia. Hanno una biblioteca, organizzano lezioni di italiano e hanno un calendario fitto di eventi tutto l’anno. E con i locali, che rapporti ha? Li sto conoscendo un po’ per volta. Hanno un approccio molto cordiale al primo impatto anche se spesso è difficile instaurare una conoscenza più che superficiale. Prossima destinazione? L’Italia. Abbiamo viaggiato, questa è la nostra ultima esperienza all’estero, anche se non abbiamo ancora un’idea precisa della durata. Mi pongo anche il problema di non sradicare troppo i miei figli, anche se per il momento sembra che abbiano accettato con una certa facilità i cambiamenti. Quali sono i suoi progetti al momento? Per un periodo ho avuto il problema di decidere in quale lingua scrivere. Vivere in una famiglia bilingue a volte crea una situazione un po’ schizofrenica. Ultimamente ho deciso di ritornare all’italiano, alla mia lingua madre. Oltre agli articoli per il mio blog collaboro attivamente con Syndrome, una

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rivista online di satira rivolta alle donne di tutto il mondo. Syndrome è partito con una presenza molto forte sui social media, attraverso battute di satira. Le collaboratrici hanno diversa provenienza e formazione ma hanno tutte in comune la voglia di mettersi in gioco e di sorridere. In questo momento particolare in cui sembra che nella società le donne siano costrette a un nuovo passo indietro, la forza della parola e l’ironia possono aiutare a prendere coscienza, a stravolgere pregiudizi e stereotipi e a rispondere in modo più efficace alle prevaricazioni. Charlie Syns, la fondatrice, ha avuto la grande capacità di riunire tante teste e cuori e la rivista sta decollando con sempre nuove adesioni. Sto anche raccogliendo materiale per un progetto di scrittura più corposo in cui confluiranno molte delle riflessioni e delle esperienze di questi anni. Siti Blog http://unitaliananelnuovomondo.com/ Pagina Facebook https://www.facebook.com/unitaliananelnuovomondo/ Il Punto https://ilpuntoseattle.org/ Syndrome http://www.syndromemagazine.com/it

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DESIGN

Memorie praghesi

Tra il fumo delle Sparta ed il sapore della Slivovica

Testo e disegni a cura di Paolo Dalponte

Visitai Praga per la prima volta nel 1984, con tre amici. Passammo la prima notte all’Hotel Vitkov. Il giorno seguente andammo a trovare Marek (nome di fantasia), che già uno dei miei amici conosceva: nonostante le sue modeste condizioni economiche si dimostrò molto ospitale e generoso. Ci offrì subito di dormire presso la sua famiglia per il resto del soggiorno e noi accettammo con un lieve senso di colpa, subito vinto dalla sua insistenza. Era, per lui, assolutamente ridicolo pagare una cifra “da turisti”, quando si poteva risolvere diversamente il problema dell’alloggio. Quella persona dal triste passato diede, fin dal primo giorno, l’imprinting al mio sentimento verso quel paese, allora ancora chiamato Cecoslovacchia: storico, membro dell’Accademia delle Scienze e praticamente defenestrato (come i famosi ambasciatori dell’imperatore Rodolfo II gettati, dalla finestra del Castello, direttamente nella Fossa dei Cervi) dopo il suo dissenso contro l’ingerenza e l’invasione sovietica. Era la fine degli anni Sessanta ed io, a quei tempi, avevo una decina di anni ma ricordo perfettamente che seguivo i reportage fotografici su “Epoca”, periodico che sfogliavo, ogni domenica, a casa della mia nonna materna.

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Marek aveva avuto, e continuava ad avere, una vita difficile a causa di quella scelta; una tragedia famigliare ed una situazione economica non facile, unita ora ad un difficile stato di salute, dovuto al trascorrere degli anni ed agli innumerevoli pacchetti di Sparta senza filtro fumati in passato. Nei pochi giorni seguenti visitammo la città. Personalmente ero stupefatto dalle sue bellezze architettoniche. Era un ottobre bellissimo e la luce che illuminava Praga sembrava rubata da una delle vedute del Bellotto. Il sole brillava sulla Moldava e le foglie ingiallite doravano le stradine di Kampa. Mi colpiva il sapore di carbone, che al mattino si poteva sentire sulla lingua, ed il grigiore di antichi palazzi che sembravano avere subito, oltre che il deposito di una polvere millenaria, anche la tristezza di una sovranità perduta. La gente camminava per le strade vestita di colori sbiaditi e nei negozi non c’era una grande scelta di articoli ma la visita di luoghi, monumenti e musei, mi faceva gustare Praga sopra ogni immaginazione. Il giro che facevamo da turisti italiani in vacanza si trasformava quando, di solito dopo le sedici, Marek ci raggiungeva all’appuntamento sotto l’orologio dal meccanismo complicato di Piazza della Città Vecchia dove, dopo aver assistito alla solita recita delle figure meccaniche ed al canto di un gallo gracchiante, ci offriva uno yogurt. Andavamo poi a fare degli strani giri lungo percorsi insoliti, visitando luoghi meravigliosi come Mala Strana, il Castello ed il Monastero di Strahov: qui ci accompagnò un amico di Marek, curatore di quelle sale. Nella mia visita successiva, con altri amici, nella primavera del 1986 (proprio nei giorni della tragedia di Chernobyl), gli portammo in regalo una caffettiera italiana ed un chilo di caffè, che lo rese più felice di un bambino. Insieme visitammo le sale dove erano ospitati i resti dello sconfinato patrimonio della wunderkammer di Rodolfo II. Avemmo il permesso di aprire gli armadi ed esaminare direttamente le cose che contenevano. Tra questi, il rostro di un narvalo, con il suo vecchio avorio, lucidato dal passaggio di migliaia di polpastrelli in passato, perfettamente avvolto su se stesso: l’oggetto che, probabilmente, ispirò l’immagine del leggendario unicorno. Andammo anche da un altro amico, un giornalista, pure lui dissidente politico, con problemi di salute. A lui avremmo poi lasciato, durante il viaggio dell’ottantacinque, dei farmaci per lo stomaco, introvabili in Cecoslovacchia e per i quali ebbi in cambio un biscotto in pasta di miele, realizzato dentro un antichissimo stampo: rappresentava un gallo e fece bella mostra di sé su uno scaffale del mio studio fino a quando non si ridusse in un mucchietto di finissima polvere. Quel vagare per Praga, quei lunghi racconti in compagnia, tra il fumo delle Spar-

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ta ed il sapore della slivovica, mi sono entrati per sempre nel cuore, insieme alle infinite leggende di quella città, che avrei approfondito nel mitico libro di Ribellino: Il “Praga Magica” che nessun amante di quel paese dovrebbe ignorare. Molti anni dopo ci sono tornato, di passaggio, con mia moglie, ospite di un’altra famiglia nel quartiere di Modrany, durante un agosto che ci sorprese con un mattino a cinque gradi ma con un caldo sole, che ci accompagnò per tutta la nostra permanenza. Un ulteriore viaggio risale a pochi anni fa, invitato da un amico moravo con la prospettiva di organizzare, insieme, una mostra d’arte. Il luogo previsto era all’interno di un centro commerciale, abbastanza frequentato. Quel posto, però, non era ancora completamente finito e decidemmo di desistere dal progetto. Visitammo, invece, la lussuosa sala del consiglio di amministrazione della società, una multinazionale americana dove lavorava il mio amico. Ci trovavamo all’ultimo piano di un edificio abbastanza alto e dalla terrazza, appena fuori dalla grande vetrata della sala, si poteva godere di una superba veduta sulla capitale. Davanti ai miei occhi apparve una città lucente e movimentata, piena di turisti e colorata. Quale contrasto con la Praga del tempo andato, con il grigiore e la vita che si trascinava rassegnata e stanca, attenta a non urtare i ferrei regolamenti di polizia dei controllori! Una città che aveva certamente guadagnato in libertà e ricchezza economica ma che, ai miei occhi, aveva perso un certo sapore: l’aura di mistero, di leggenda e magia che avevo trovato in quella mia prima, lontana visita, alla fine della quale, scendendo lungo la Piskova verso la Moldava, iniziando il viaggio di ritorno a casa dopo un emozionante saluto a Marek, mi era scesa una lacrima, come se avessi dovuto lasciare una creatura amata da tanto tempo.

Paolo Dalponte è un disegnatore, umorista e pittore che, pur non avendo mai vissuto a Praga o in Cechia, vi è molto legato. Nel 2010 ha esposto un erbario immaginario ad Hyncize, presso la casa museo di Mendel. Ha inoltre esposto nel 1995, 1999, 2001 e 2003 a Novy Jicin, nel 2002 a Opava e nel 2011 a Prostejov. http://www.paolodalponte.it 144


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PITTURA

Festival internazionale di pittura dal vivo Al via la prima edizione, che si terrĂ a Praga dal 21 al 28 aprile

Dal 21 al 28 aprile, Praga verrĂ immortalata sulle tele dei numerosi artisti partecipanti alla prima edizione del Premio Internazionale di Pittura dal Vivo.

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‘L’idea – afferma Sevil Askerova, direttrice di MS Studio Gloria, la compagnia organizzatrice dell’evento in collaborazione con il Centro di Scienza e Cultura Russa di Praga – è nata per promuovere le relazioni tra artisti internazionali nella splendida cornice di Praga, che possiamo considerare, senza dubbio, una delle città più belle del mondo!” “L’evento – prosegue - si propone di accogliere principalmente pittori cechi, russi ed italiani che, ispirati dalla capitale boema, dipingeranno le loro opere dal vivo, dislocati nei vari angoli della città”. Il tema del festival è: “Praga, vecchia conoscenza e…?” La frase dovrà essere conclusa da ogni artista, mediante la propria opera. Il fitto programma sarà inaugurato da una cerimonia ufficiale di apertura del Festival presso la sede praghese del “Rossotrudnichestvo”, il distaccamento culturale del Ministero degli Affari Esteri russo, situato a Na Zatorce 16, a Praga 6. Qui, ogni artista dovrà comunicare la località di Praga che, nei giorni successivi, si accingerà a dipingere dal vivo. Nella stessa giornata è, inoltre, prevista una visita all’Accademia gastronomica di Monica Salvatore, presso la prestigiosa sede del Castello Savoia, a Skvorec. A partire dal 22, invece, si entrerà nel vivo della competizione ed ogni artista comincerà a cimentarsi nella propria opera. In serata si terrà, inoltre, un incontro con Elena Noskova, insegnante al Conservatorio di Praga ed

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all’Accademia di Arti Musicali. Le opere dovranno essere completate entro il 27 aprile, in modo da poter essere sottoposte alla valutazione della giuria nella giornata del 28. Sempre per il 28, è previsto, presso la sede culturale di Na Zatorce, un incontro creativo con Nikas Safronov, artista emerito della Federazione Russa, nonché pittore e ritrattista molto conosciuto a livello internazionale. Successivamente si passerà alla consegna dei premi ai vincitori e dei souvenir di partecipazione a tutti gli artisti in gara, concludendo la serata con la cerimonia di chiusura ufficiale del Festival. Sono previsti diversi premi: al miglior disegno, alla migliore aderenza al tema da un punto di vista emotivo e storico, alla migliore scelta del colore, all’originalità ed alla migliore grafica. Vi sarà, inoltre, un premio speciale consegnato all’autore dell’opera prescelta da Nikas Safronov ed un “gran premio”, consegnato a colui che sarà proclamato il miglior artista in assoluto dell’edizione. Per informazioni, contattare Sevil Askerova, email: msstudiogloria@mail.ru

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BIGHELLONANDO FUORI PRAGA

Karlovy Vary, Mariáské Lázně e Františkovy Lázně

Il triangolo termale della Repubblica Ceca

A cura di Marco Ciabatti

La Cechia è famosa nel mondo soprattutto per quattro cose: Praga, la capitale, meta ogni anno di milioni di turisti; i suoi numerosissimi castelli (questo Stato vanta, infatti, la più alta densità di castelli al mondo); il circuito motociclistico di Brno, dove ogni anno si svolge una delle gare più avvincenti del “motomondiale” e, infine, la birra.

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Pochissimi, però, conoscono un’altra caratteristica di questa terra (ed in particolare della Boemia Nord-occidentale), ovvero la straordinaria ricchezza di fonti termali, concentrate soprattutto in tre cittadine che, non a caso, formano quello che è comunemente chiamato il “triangolo termale della Repubblica Ceca”. Si tratta di Karlovy Vary, Mariánské Lázně e Františkovy Lázně. Tra tutte, Karlovy Vary (Karlsbad, in lingua tedesca) è il centro più grande e famoso a livello internazionale: posta nell’estremo nord-ovest della Boemia, una zona della Boemia ricchissima di vegetazione e sovrastata dai monti metalliferi Krušné Hory (catena montuosa che corre lungo il confine con la Germania e caratterizzata da importanti giacimenti di argento, stagno, uranio e litantrace) è anche il capoluogo dell’omonima regione. È così chiamata in onore di Carlo IV, che la fondò nell’anno 1370. Karlovy Vary è il punto di arrivo del fiume Teplá, il cui nome in ceco significa “caldo” perché, nonostante la posizione geografica le sue acque, riscaldate dalle sorgenti termali della zona, non gelano mai. Proprio nel centro di Karlovy Vary il fiume termina il suo percorso di 64 chilometri, per immettersi nel fiume Ohře, che attraversa invece tutto il centro storico. Qui si possono trovare circa 80 fonti di acqua termale, dalle quali ogni giorno sgorgano circa sei milioni di litri d’acqua ad alto contenuto di minerali e ad una temperatura compresa tra 30 e 73 gradi centigradi, particolarmente adatte – per le loro proprietà – alla cura dell’apparato digestivo, metabolico e articolare. Di queste 80 fonti, solo 15 sono ancora oggi aperte ai turisti (specialmente russi, tedeschi e austriaci) che ogni anno affollano le strade della cittadina, anche se (esattamente come per le altre due località del triangolo termale ceco) è stato nel 18° e 19° secolo che Karlovy Vary ha vissuto il suo massimo splendore: in questi due secoli infatti, quando i territori dell’odierna Repubblica Ceca erano ancora compresi nei confini dell’impero austro-ungarico, la cittadina boema è stata uno dei più importanti e conosciuti centri termali di tutto il Nord Europa e, per le sue strade, hanno passeggiato personaggi di fama internazionale come Beethoven o Goethe, ma anche capi di stato, sovrani e nobili, provenienti dai più svariati paesi europei. Uno degli avvenimenti più importanti della vita mondana di questa città è sicuramente il Festival Internazionale del Cinema, che si svolge ogni anno in estate e che vede la partecipazione di numerose star e celebrità, con centinaia di film in concorso provenienti da ogni parte del mondo. Questo evento non gode, tuttavia, di una grande risonanza mediatica al di fuori dei confini della Repubblica Ceca: la manifestazione è stata, infatti, pesantemente penalizzata durante la seconda parte del periodo comunista (ovvero dal 1968 al 1989), quando al concorso potevano partecipare esclusivamente film e registi che

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avessero preventivamente ottenuto l’approvazione del partito comunista. A Karlovy Vary, infine, viene prodotto fin dal 1807 uno dei più famosi liquori cechi: la Becherovka. Questo eccezionale liquore alle erbe è famoso soprattutto per le sue proprietà digestive ed è chiamato anche “tredicesima fonte”, facendo riferimento proprio alle fonti termali di cui abbiamo parlato prima, visto che viene prodotto utilizzando l’acqua ricchissima di minerali che contraddistingue la regione. La ricetta originale, elaborata da un giovane farmacista alle dipendenze di Jan Becher, nel lontano 1805 (e successivamente perfezionata, nel corso degli anni, dallo stesso Becher), comprende una mistura di 20 erbe ed odori, ed è tutt’ora mantenuta segreta e custodita gelosamente. Mariánské Lázně e Františkovy Lázně sono certamente più piccole e meno famose di Karlovy Vary eppure, a mio parere, sono tra le località in assoluto più belle della Boemia: anch’esse ricchissime di fonti termali (cinquanta solo a Mariánské Lázně) e caratterizzate da un centro cittadino elegante e curato, con grandissimi giardini ricchi di verde, punteggiati da rigogliosi alberi di varie specie, aiuole fiorite, laghetti e torrenti. Le imponenti strutture alberghiere e gli edifici in generale, se possibile ancora più colorati e variopinti che nelle altre zone del Paese, spiccano in particolar modo sul bianco, che è un altro elemento tipico di tutte le località termali della Repubblica Ceca: sono infatti di un bel bianco candido le panchine, le statue, le stazioni termali, i piccoli ponti di legno ad arco posti in corrispondenza dei corsi d’acqua e i tipici loggiati in stile liberty che proteggono e, al tempo stesso, segnalano i punti dove sono presenti le varie fonti che dispensano le acque curative. Le numerose fontane decora-

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tive sono un’altra delle caratteristiche peculiari di queste splendide cittadine che, specialmente nei mesi primaverili e in estate, offrono ai visitatori il loro lato migliore ed hanno la comune caratteristica di trasmettere un grande senso di pace, freschezza e relax. In inverno, sulle montagne circostanti, esistono strutture attrezzate dove poter praticare sport invernali come lo sci, o lo sci di fondo, ma i rigogliosi boschi che le ricoprono sono ideali anche per gli amanti del trekking, con numerosi percorsi caratterizzati da una segnaletica chiara e facilmente individuabile. Il prodotto probabilmente più tipico di questa zona sono i particolarissimi grandi wafer circolari, prodotti unicamente qui fin dal 1856 e che, a quell’epoca si potevano assaporare soltanto recandosi sul posto; oggi, invece, si possono trovare in tutti i supermercati. Questi wafer sono composti da due grandi cialde rotonde di biscotto (che può essere sia normale che al cacao), con all’interno crema di cacao o di vaniglia. Nell’Ottocento, le nobildonne, erano solite gustarli mentre passeggiavano nei giardini o chiacchieravano sedute sulle panchine accanto alle fontane.

Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. http://www.bighellonando.eu

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EVENTI

C’era una volta in Italia

Il cinema e la musica italiana protagonisti in un concerto alla Smetana Hall

A cura di Sabrina Perrucci

Ancora una volta la musica italiana diventa protagonista, a Praga, con un concerto dal titolo “Once Upon a Time in Italy: Music from Italy’s most famous movies”, che si terrà il 13 marzo, alle 19.30, presso la Smetana Hall della Municipal House.

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La musica dal vivo, eseguita da un’orchestra sinfonica condotta dal maestro Tomás Brauner, sarà accompagnata da alcune scene dei film più famosi del cinema italiano, proiettate su uno schermo gigante nella cornice liberty della Smetana Hall. L’evento si terrà in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. I film dai quali il concerto trae ispirazione sono La Dolce Vita, Amarcord, C’era una Volta nel West, Il Gattopardo, La Vita è Bella, Nuovo Cinema Paradiso ed il mitico 8 e Mezzo. Pellicole magiche, dirette da nomi indimenticabili della storia del cinema italiano: Federico Fellini, Sergio Leone, Luchino Visconti, Giuseppe Tornatore, Roberto Benigni, con musiche scritte da musicisti che fanno ormai parte della leggenda, quali Nino Rota, Ennio Morricone, Nicola Piovani e Luis Bacalov. Molte di queste storiche pellicole sono state accompagnate dalle note sublimi del compositore e premio Oscar Ennio Morricone, che ha deliziato la Repubblica Ceca con il suo recente concerto all’O2 Arena di Praga, il 4 febbraio scorso, ottenendo l’ennesimo sold out. Il maestro Morricone ha scritto musica per più di 500 film e serie TV ed ha dato voce alla prima serie di western italiano, successivamente ribattezzata “Spaghetti Western”, collaborando con l’amico Sergio Leone, conosciuto tra i banchi delle scuole elementari a Roma e di cui è divenuto, in seguito, il fedele compositore per ogni pellicola da lui creata. Le musiche di Morricone la fanno da padrone anche nello storico film di Giuseppe Torna-

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tore, “Nuovo Cinema Paradiso”, ma non solo: questi due grandi professionisti hanno infatti lavorato insieme in altri dieci film, ottenendo una serie di indiscussi successi. “Nuovo Cinema Paradiso” è la dimostrazione di come il successo non sempre arrivi in maniera immediata e scontata. Al contrario, spesso è il risultato di un insieme di valori e sentimenti che devono essere compresi e condivisi dal pubblico, in quanto portatori di significati profondi. Ma i compositori che hanno musicato i più famosi film della storia del cinema italiano sono davvero tanti e, tra questi, spicca anche Nino Rota, che ha saputo interpretare il pensiero di uno dei maggiori registi della storia del cinema italiano: Federico Fellini. Fellini è un personaggio sicuramente di rilievo a partire dagli anni ’60, per la sua voluta provocazione e per il suo anticonformismo, espressi molto chiaramente ne “La dolce vita” e “8 e ½”: due pellicole innovative e prodotte con grande coraggio, da parte del regista. È d’obbligo, inoltre, ricordare che Rota ha accompagnato al successo anche Luchino Visconti, nel famigerato colossal del 1963 “Il Gattopardo”, ed ha ottenuto un successo altrettanto straordinario con le musiche composte per la trilogia de “Il Padrino”, nata da un’idea del regista Francis Ford Coppola. Tutti questi grandi compositori e direttori d’orchestra sono espressione di un’Italia autentica e verace. Solo il maestro Luis Bacalov si è contraddistinto in quanto nato in Spagna, da una famiglia di origini bulgare e di tradizione religiosa ebraica, ma “naturalizzato italiano” a seguito di una serie di esperienze giovanili internazionali, che lo hanno portato a trovare il suo successo nel “Bel Paese”. Solo verso la fine degli anni ’70 le sue musiche sono approdate al mondo cinematografico, per accompagnare la pellicola del maestro Fellini “La città delle donne”. Da lì in avanti, è stato un crescendo di successi, sia nell’ambito del cinema italiano che in quello internazionale. Come dimenticare, inoltre, il pianista, compositore e direttore d’orchestra Nicola Piovani? A lui si deve il grande merito di aver saputo interpretare, con le sue struggenti melodie, il discusso ma apprezzatissimo film dell’attore e regista Roberto Benigni: “La vita è bella”. Il vasto panorama del cinema italiano, unitamente alle colonne sonore

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che lo arricchiscono, è da molti anni espressione di consapevolezza, empatia e provocazione. Fin dagli anni ’60 i nostri registi ed i nostri compositori hanno trovato spazio e riconoscimento non solo in Italia, ma anche e soprattutto all’estero, ottenendo innumerevoli premi, quali: Oscar, Golden Globe, David di Donatello, Grammy Awards, Nastro d’Argento, Leone D’Oro, Palma D’Oro e così via. Il concerto “C’era una volta in Italia” vuole riportare alla memoria del pubblico proprio le emozioni e le sensazioni trasmesse da alcuni dei nostri più grandi maestri e, a dirigere l’orchestra, sarà Tomás Brauner, uno dei direttori più ricercati, nonché Direttore della Filarmonica di Pilsen e dell’Orchestra Praga Radio Symphony. Nato a Praga nel 1978, Brauner ha studiato oboe al Conservatorio di Praga e si è poi laureato come direttore d’orchestra all’Accademia di Praga, nel 2005. Nel 2007 ha iniziato a raccogliere i frutti della sua formazione debuttando al teatro di Pilsen e, nel 2008, ha debuttato all’Opera di Stato di Praga con l’Otello di Giuseppe Verdi. Ad arricchire il suo curriculum, ora, anche la direzione del concerto del 13 marzo.

Sabrina Perrucci è un’esperta di pubbliche relazioni ed office management, con una grande passione per le lingue e le culture straniere. https://www.linkedin.com/in/sabrina-perrucci-40684a111

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PROGRAMMA EVENTI MARZO 2017 3 marzo

Spazio di incontri

Su iniziativa di Magdalena Kracík Štorkánová, il progetto riunisce varie personalità artistiche col fine di documentare nel corso di un anno l’evoluzione dei singoli percorsi di ricerca in diversi contesti nazionali ed europei. Partecipano: Magdalena Kracík Štorkánová (Repubblica Ceca) – mosaico; Orodé Deoro (Italia) – scultura e performance; Anita Bartos (Austria) – collage; Lea Stefan Ruppert (Austria) – improvvisazioni e Stephen Filípek (Repubblica Ceca) – musica. Organizza l’associazione Art a craft Mozaika z.s., in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Praga, il Forum Austriaco di Cultura, il Museo della Città di Usti nad Labem, la Galleria dei cristalli cechi di Praga, il birrificio di Únětice e l’Accademia di Belle Arti di Praga. Orario di apertura: Venerdì 3 marzo 2017, ore 17.00 Museo della città di Usti nad Labem (Masarykova 1000/3)

9 marzo

Mostra fotografica e presentazione libro Cityscapes. Il sogno della modernità

Presentazione del libro fotografico e inaugurazione della mostra di Danilo De Rossi. Organizza la società Redmont Consulting in collaborazione con l’Istituto. Inaugurazione: giovedì 9 marzo 2017, ore 18.00. La mostra resterà aperta al pubblico fino al 24 marzo 2017 con il seguente orario: lunedì – giovedì, ore 09.0013.00 / 14.00-17.00; venerdì, ore 09.00-14.00 Loggiato dell’Istituto Italiano di Cultura

13 marzo

Concerto

C’era una volta in Italia. Musiche dai più celebri film italiani nell’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica della Radio ceca, diretta da Tomáš Brauner. Il concerto sarà accompagnato dalla proiezione di alcuni spezzoni dei film e di numerose fotografie. L’esecuzione musicale sarà inoltre trasmessa in diretta da Radio Ceca 2. Collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura. I biglietti, prezzo da 230 a 390 CZK, sono disponibili online su www.rozhlas.cz/socr/abonm, al Czech Radio Shop (Vinohradská 12, Prague 2), alla biglietteria dell’Obecní dum o presso Colosseum Ticket. Lunedì 13 marzo 2017, ore 19.30 Sala Smetana dell’Obecní dům di Praga

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23 marzo

Musica

Conferenza della compositrice italiana Ada Gentile sul suo stile musicale nel panorama della musica italiana contemporanea. Traduzione simultanea italiano/ceco. Organizza l’Università HAMU di Praga in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura. Ingresso libero. Giovedì 23 marzo 2017, ore 17.00 HAMU – aula 2020, Malostranské nám. 13, Praga 1

23 marzo

Cinema

24esima edizione del FebioFest - Festival internazionale del cinema di Praga Nell’ambito del FebioFest, in programma dal 23 al 31 marzo 2017 al CineStar Andel di Praga, il 26 marzo alle ore 18.00 è prevista nella Sala 1 la proiezione del film “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese. L’evento si terrà all’interno della sezione Culinary Cinema e sarà seguito da una cena presso il Vienna House Prague Hotel, dove lo chef Matteo De Carli proporrà il menu “Don’t judge a book by its cover”. Il costo dell’intero pacchetto è di 1.790 CZK. Collaborazione dell’Istituto. Per informazioni, visitare il sito http://www.febiofest.cz, scrivere una mail a: info@febiofest.cz o contattare il numero +420 221 101 120.

28 marzo

Mostra fotografica Jazz World Photo 2015

La mostra presenta una selezione di 30 scatti di autori provenienti da tutto il mondo che hanno partecipato alla seconda edizione dell’omonimo concorso internazionale organizzato da Patrick Marek, Tomáš Katschner e Ivan Prokop. Organizza Jazz World Photos, in collaborazione con il Ministero della cultura ceco e l’Istituto Italiano di Cultura. Informazioni: www.jazzworldphoto.com Inaugurazione: Martedì 28 marzo 2017, ore 18.00. La mostra resterà aperta al pubblico fino al 21 aprile 2017 con il seguente orario: lunedì – giovedì, ore 09.00-13.00 / 14.00-17.00; venerdì, ore 09.00-14.00 Loggiato dell’Istituto Italiano di Cultura

30 marzo

Evento speciale

Incontro con i massimi rappresentanti del sistema giudiziario della Repubblica Italiana Lezione del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini: “Cooperazione giudiziaria e riforme della giustizia. Contrasto alla criminalità organizzata e gestione dei flussi migratori”. Lezione del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Giovanni Canzio: “Le sfide riformatrici delle Corti Supreme e il dialogo tra le Corti”. Traduzione simultanea italiano/ceco. Organizzano l’Ambasciata d’Italia e il Rettorato dell’Università Carolina, in collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura e l’Istituto Italiano di Cultura. Ingresso libero previa registrazione al +420 224 491 251 o alla e-mail rsvp@cuni.cz. Giovedì 30 marzo 2017, ore 11.00 Aula magna dell’Università Carolina (Ovocný trh 3, Prague 1)

Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it 173


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EVENTI

Festival internazionale del Burlesque di Praga

Il 10 e 11 marzo, al Teatro Royal, la prima edizione

A cura di Andrea Rampini

“I gioielli del Burlesque nella Città d’Oro”. È questo lo slogan della prima edizione del Festival Internazionale del Burlesque di Praga, che si terrà presso il Teatro Royal il prossimo 10 ed 11 marzo. Lo spettacolo di varietà – in particolare nelle forme del vaudeville, del cabaret e del burlesque – vanta a Praga una tradizione secolare. All’inizio del ‘900, infatti, la città era rinomata per essere uno dei luoghi più ricchi e culturali d’Europa con studi cinematografici, all’epoca, anche più importanti di Hollywood. Proprio per questo il soprannome di “città d’oro”.

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Più tardi, dopo anni di sofferenze, invasioni e soppressione politica, la rivoluzione di velluto ha riportato l’attenzione verso Praga. Nel 2007 Sonny Vargas decise di far rivivere questa antica forma artistica, fondando il Prague Burlesque. Insieme alla sua fidanzata Miss Cool Cat – un’attrice e modella slovacca, nonché vera e propria diva del burlesque – producono da allora spettacoli a cadenza regolare in due teatri praghesi. Il primo, dal titolo “Royal Burlesque”, ha luogo ogni venerdì sera al Theatre Cinema Cafe Royal, una struttura che risale al 1929; qui, su un grande palcoscenico, viene presentato uno spettacolo dai costumi magnifici ed ispirato alla magica atmosfera degli anni ’20. Il secondo spettacolo, invece, dal titolo “Strictly Burlesque”, ha luogo in un’atmosfera più intima, presso il “Bar and Book” e, tra il fumo dei sigari e l’acre odore del whiskey, si avvicina più ad uno stile newyorkese. La prima edizione del festival vedrà esibirsi due star molto conosciute nel mondo del burlesque: Perle Noire ed Imogen Kelly. Perle Noire, soprannominata “la regina di mogano” del burlesque, è il Direttore Artistico della Casa di Noire, una società specializzata in spettacoli che si contraddistinguono per eleganza, glamour ed opulenza la quale, oltre a dei seminari di danza, offre spettacoli di animazione per feste private ed aziendali. Imogen Kelly, invece, è un’acclamata scrittrice, regista e produttrice considerata la regina australiana del burlesque, ma non solo: nel 2012 ha vinto, a Las Vegas, il titolo mondiale di regina del burlesque; possiede, inoltre, una laurea in Belle Arti, un diploma in arti circensi ed uno in film-making, oltre che una laurea in regia. Insomma, uno spettacolo da non perdere! Per informazioni: www.pragueburlesquefestival.com

Andrea Rampini: Guida turistica e fondatore di “Andrea Tour Praga”, cerca di coniugare lavoro e divertimento organizzando tour nella città che ha conquistato il suo cuore. http://perpragatour.com/

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Ciao Praga Magazine è una pubblicazione

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