CIAOPRAGA Volume 3

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volume 3

CIAOPRAGA

arte, cultura e lifestyle


Ciao Praga Magazine

Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle

Volume 3 /// gennaio - febbraio 2017

Redazione

Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Marketing e Comunicazione Federica Parretta Coordinamento Redazione Sabrina Perrucci Collaboratori

Maria Grazia Balbiano Mariapia Bruno Marco Ciabatti Danilo De Rossi Laura Di Nitto Lisa Luchita Ilaria Pacini Federico Pelliconi Andreas Pieralli Andrea Rampini Emanuele Ruggiero Shendra Stucki Silvia Succi Roberto Vinci

Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com Crediti fotografici

Immagini per gentile concessione di: Danilo De Rossi Flavia Richetti IIC Praga Alice Raffa Junko D Photography Roberto Vinci Ariella Reggio (ufficio stampa) Maddalena Mayneri (ufficio stampa) Scuola italo-ceca Milena Cull Ton (ufficio stampa) Vendy Atelier/Miroslav Vomáčka

pagina 3, 107, 109, 111 pagina 7 pagina 9, 138, 139 pagina 43 pagina 47 pagina 49, 51, 53, 54, 55 pagina 61, 63, 65, 67 pagina 69, 71 pagina 91 sup. pagina 99 pagina 115, 117, 118-119 pagina 137

Dal Web Copertina (Jan Kaplicky, Selfridges Birmingham) pagina 10-11, 13, 15, 17, 18-19, 21, 23, 24, 25, 27, 28-29, 31, 33, 35, 36, 37, 39, 41, 45, 57, 59, 73, 76-77, 79, 81, 84, 85, 87, 89, 91 inf., 93, 95, 97, 101, 103, 105, 112-113, 116, 121, 123, 124-125, 126-127, 128-129, 130, 131, 133, 135, 136

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LETTERA DEL DIRETTORE

Gentili Lettori, benvenuti nel 2017! Accogliamo questo nuovo anno con rinnovata energia e mille sogni nel cassetto. La redazione di CIAOPRAGA cresce sempre di più, arricchendosi costantemente di preziose collaborazioni che portano nuova linfa, a beneficio di una cura e varietà di contenuti sempre maggiore. Partendo dal conferimento, nello scorso ottobre, del Premio Franz Kafka a Claudio Magris, le prossime pagine rendono omaggio a Trieste e al Friuli Venezia Giulia, patria dell’autore, con una serie di servizi dedicati dai quali trapela il forte legame storico tra questa regione e Praga, ma non solo: la triestina Lisa Luchita rivela i segreti della sua città con gli occhi di chi ogni giorno, da sempre, la vive e la ama profondamente; la friulana Alice Raffa spiega come ambientarsi in una Praga dinamica ed internazionale; il sommelier Roberto Vinci ci guida in una passeggiata romantica tra i filari friulani, mentre le inarrestabili Ariella Reggio e Maddalena Mayneri condividono le loro bellissime esperienze teatrali e cinematografiche. Non manchiamo, inoltre, di illustrarvi una Praga sempre più energica e stimolante: dalle opere del futuristico e visionario architetto ceco Jan Kaplickí, in mostra alla Casa Danzante, al design contemporaneo di Ton, reso vivo da Ilaria Pacini; dall’apertura della nuova scuola Italo-Ceca di Praga, raccontata da Sabrina Perrucci, ad un emozionante ricordo di Jan Palach, a cura di Andrea Rampini; Marco Ciabatti ci accompagna, invece, in una piacevolissima gita fuori porta a Pilsen. A completare questa ricchissima selezione: l’affascinante cinema ceco, raccontato da Emanuele Ruggiero; lo stravagante rapporto dei cechi con la religione, a firma di Andreas Pieralli, e le storie ispiratrici di Massimo Pascotto e Maria Iacuzio. Non mi resta che augurarvi, come sempre, una buona lettura! Stefania Del Monte


CONTEN UTI Franco Iacop

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Il Presidente del Consiglio Regionale Friuli Venezia Giulia in visita a Praga

Claudio Magris

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Da Trieste a Praga, per ricevere il Premio Kafka

Franz Kafka

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Un vero gentiluomo

Trieste, la perla del golfo

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La città ed i suoi dintorni, raccontati da una triestina

Francesco Giuseppe a Miramare

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Immagini e parole, per commemorare il centenario dalla morte dell’Imperatore

Alice Raffa

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Dal Friuli all’Istituto Italiano di Cultura a Praga

Ricordi Friuliani

48

Passeggiata nel “vigneto Friuli”, parlando di vita e di vino

Il prosciutto di Praga

56

Sapori di Boemia a Trieste

Ariella Reggio Da Giorgio Strehler a Woody Allen, l’attrice triestina ripercorre la sua carriera

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Maddalena Mayneri Da Trieste a Cortina, con la regina del cortometraggio

78

Il cinema ceco contemporaneo Breve panoramica dal 1989 al 2006

86

La scuola italo-ceca di Praga Un’educazione multiculturale per aprire la mente al mondo

92

Un popolo di “diversamente credenti” Lo strano rapporto dei cechi con la spiritualità

98

Maria Iacuzio Presidente dell’Italian British Association

106

Massimo Pascotto A Praga da 25 anni, per realizzare un sogno

112

Da Thonet a Ton Il design si piega, ma non si spezza!

120

Jan Kaplický in mostra alla casa danzante Praga ricorda l’iconico architetto ceco

124

Pilsen La città della birra, ma non solo

132

Jan Palach Il 19 gennaio si ricorda l’eroe della resistenza anti-sovietica


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L’INTERVISTA

Franco Iacop

Il Presidente del Consiglio Regionale Friuli Venezia Giulia in visita a Praga

A cura di Stefania Del Monte

Nato a Udine il 1° giugno 1961, Franco Iacop abita a Reana del Rojale. Dopo il diploma di perito industriale, conseguito nel 1980 all’I.T.I. A. Malignani, è diventato funzionario tecnico dell’Università degli Studi di Udine, di cui ora è dipendente in aspettativa. La sua attività politica è iniziata come consigliere comunale e sindaco, dal 1992 al 2003, del Comune di Reana del Rojale. Nel frattempo ha svolto anche altri incarichi di responsabilità pubblica nell’ANCI del Friuli Venezia Giulia, nel Consorzio di Bonifica Ledra-Tagliamento e nel Consiglio provinciale di Udine dal 2001 al 2003. Nella IX Legislatura è stato assessore regionale alle autonomie locali e ai rapporti internazionali e comunitari. Nella X legislatura, è stato eletto consigliere regionale e ha ricoperto l’incarico di vice presidente della V Commissione consiliare. Dal 13 maggio 2013 è presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Da febbraio 2014 a luglio 2015 è stato delegato al Coordinamento dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome. Nel gennaio 2015 è stato designato membro titolare del Comitato delle Regioni dell’Unione Europea e, da aprile, fa parte dell’Ufficio di presidenza del medesimo organo, in qualità di membro supplente. Nel luglio 2015 è stato eletto coordinatore della Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali e delle Province autonome e, l’8 aprile 2016, presidente dell’intergruppo EUSALP del Comitato delle Regioni UE.S.E.

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Presidente Iacop, come mai ha scelto di presenziare, qui a Praga, l’inaugurazione della mostra “Guido Guidi. Guardando ad Est”? La mostra, ospitata dall’Istituto Italiano di Cultura a Praga, è stata allestita dal Craf (Centro di ricerca e archiviazione della fotografia di Spilimbergo) che è una realtà molto importante in Friuli Venezia Giulia, non solo per la promozione di eventi artistici e culturali legati al mondo della fotografia ma anche per la preziosa attività di archiviazione di un patrimonio di immagini che documenta l’evoluzione storica e sociale del territorio regionale. Il Craf, sostenuto dalla Regione e dall’istituzione che presiedo, il Consiglio regionale, merita attenzione e supporto nella promozione degli eventi soprattutto, come in questo caso, quando la portata si estende al di là dei confini regionali e nazionali. Peraltro il Craf e l’Istituto Italiano di Cultura a Praga hanno già avuto esperienze di collaborazione in passato. La mostra di Guido Guidi “Guardando ad Nord Est” dona scorci inediti del nordest Italia, con la restituzione di punti di vista curiosi e talvolta apparentemente decontestualizzati, ma non per artificio di inquadratura bensì perché caratterizzati da quell’atmosfera rarefatta, che nella contemporaneità identifica i cosiddetti nonluoghi. Praga e Trieste, due città piuttosto diverse tra loro, eppure molto vicine. A cosa si deve questo legame? La proiezione di Trieste, e più in generale del Friuli Venezia Giulia, verso est è un dato storico che, nonostante l’evoluzione politica dei confini europei, mantiene in essere la propria potenzialità, non fosse altro che per la presenza multietnica e plurilinguistica, ragione peraltro per la quale questa regione gode di uno statuto speciale. Trieste e Praga hanno vissuto momenti di stretta vicinanza sotto l’impero austro-ungarico, con scambi culturali fertili e tracce che permangono ancor oggi. La cultura tecnico-scientifica boema, ad esempio, ha contribuito allo sviluppo tecnico-industriale di Trieste e del suo porto. Già da tempo le istituzioni italiane e ceche stanno lavorando per potenziare i rapporti commerciali e culturali tra Praga ed il Friuli-Venezia Giulia. Quali sono, a suo avviso, le iniziative più importanti intraprese finora in questo senso? Vi sono state e vi sono iniziative nelle quali è direttamente coinvolta la Regione e altre iniziative che vedono protagoniste organizzazioni sostenute o che collaborano indirettamente con la Regione stessa. Per quanto riguarda il programma Interreg Central Europe, nella passata programmazione (2007-2013), va segnalato il progetto strategico CEP-REC (Regional Energy Concepts), che ha incentrato la propria azione nel campo delle energie rinnovabili e del miglioramento

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...la terra friulana, un tempo parte di un immenso dominio e ora ai confini d’Italia, una terra bellissima, segreta, composta, che si svela lentamente... (Laura Leonelli, Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2016)

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dell’efficienza energetica. La documentazione relativa al progetto è disponibile al sito www.cep-rec.eu. Attualmente, all’interno del primo bando della Programmazione 2014-2020, troviamo un altro progetto in ambito energetico, il CE-HEAT (Comprehensive model of waste heat utilization in CE regions), con APE (Agenzia per l’Energia del Friuli Venezia Giulia), partner per il Friuli Venezia Giulia, e con l’Istituto per le Politiche Economiche e Ambientali dell’Università Jan Evangelista Purkyne di Usti nad Labem (Univerzita Jana Evangelisty Purkyně v Ústí nad Labem). Il progetto si colloca nell’ambito di un’economia a basse emissioni di CO2 e si pone l’obiettivo di migliorare la governance dell’efficienza energetica, focalizzandosi su una maggiore utilizzazione del calore residuo. In ambito turistico, culturale ed economico sono, invece, da sempre molto attivi il consolato onorario della Repubblica Ceca e l’Associazione Culturale Mitteleuropa, entrambi con sede a Udine ed entrambi retti dal console onorario Paolo Petiziol, che sta lavorando per giungere a un ampio protocollo di collaborazione con la regione di Vysočina e un gemellaggio con la regione di Plzeň. E gli obiettivi ancora da raggiungere? L’Europa si costruisce e si rinsalda facendo lavorare tra loro i territori che la compongono. Le regioni d’Europa possono e devono stabilire rapporti di collaborazione, al di là degli Stati a cui appartengono, su progetti concreti di interesse comune sia cogliendo l’opportunità di sfruttare pregressi rapporti e affinità storico-culturali (come il caso del Friuli Venezia Giulia e della Boemia) sia stabilendo nuovi legami sulla base di esigenze di sviluppo che sono sempre meno circoscrivibili ai confini nazionali (vedasi ad esempio le tematiche energetiche e ambientali). Soltanto così l’Europa potrà smarcarsi dall’essere percepita come entità astratta e rafforzerà la propria posizione nei confronti delle grandi economie mondiali.

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Le Alpi friulane

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LETTERATURA

Claudio Magris Da Trieste a Praga, per ricevere il Premio Kafka

“Quando mi hanno annunciato il conferimento del premio, credevo che si trattasse di uno scherzo in stile Jaroslav Hasek, o magari una storia di Karel Capek, dove succedono questi equivoci. Non per falsa modestia, ma sentire il mio nome legato a quello di Kafka al tempo stesso mi emoziona e mi onora. Kafka è l’autore che più si avvicina al mio modo di concepire il mondo e con lui condivido il sentimento che la scrittura è necessaria per vivere, per cogliere il senso della vita. Quello che colpisce è che Kafka, nonostante o grazie alla sua estrema modernità, incarnando tutti i beni e soprattutto i mali dell’uomo contemporaneo è, tra gli scrittori del ‘900, l’unico che abbia realizzato una di quelle grandi opere che danno il senso completo della vita e del sacro. Forse prima di lui solo Dostoevskij ci ha costretto a fare i conti col bene e col male: dopo non c’è nessun altro”.

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Con queste parole Claudio Magris, scrittore triestino di fama mondiale, ha accolto il conferimento del Premio letterario internazionale Franz Kafka, avvenuto presso il municipio della Città vecchia di Praga il 27 ottobre 2016. Il premio, patrocinato dal Presidente del Senato della Repubblica Ceca e dal Sindaco del Comune di Praga, è organizzato dal 2001, epoca in cui la Repubblica Ceca ha pienamente riabilitato lo scrittore praghese di lingua tedesca. Kafka, infatti, era stato ignorato e per lungo tempo oscurato dalla censura comunista. Da allora, il premio viene assegnato annualmente da una giuria internazionale di esperti, designati dalla Franz Kafka Society, ad un autore tradotto in lingua ceca che si sia distinto per gli alti meriti letterari della sua produzione e per la capacità di coinvolgere e di stimolare il lettore senza considerarne le origini, la nazionalità e la cultura, come testimoniato dall’opera letteraria di Franz Kafka. Il nome di Claudio Magris si aggiunge a quello di altri celebri scrittori e poeti premiati nelle passate edizioni, tra cui Philip Roth, Haruki Murakami e Václav Havel. Alla vigilia della cerimonia lo scrittore triestino aveva anche partecipato ad un incontro letterario nella Cappella barocca dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga – condotto dal direttore del Dipartimento di italianistica dell’università Carolina e studioso di lingue romanze Jiří Pelán – confrontandosi con il pubblico in sala, tra cui l’Ambasciatore Aldo Amati, ed affrontando alcune delle tematiche salienti della sua ricerca letteraria, quali: il mito asburgico, lo spaesamento, la cultura della diaspora e dell’esilio, i luoghi ed i paesaggi quali elementi costitutivi del vissuto personale, la domanda identitaria ossessiva di città simbolo quali Praga e Trieste, la cultura ebraica orientale come tentativo di risposta alle tragedie del mondo. Durante una conferenza stampa organizzata dall’Istituto di Cultura, Magris aveva inoltre affrontato la questione della crisi dei migranti e dell’atteggiamento mostrato, in merito, dai Paesi dell’Europa centrale. “L’atteggiamento di chiusura – aveva affermato l’intellettuale friulano – è oggi certamente un problema del mondo, non solo di questi Paesi. Fatta questa premessa, ciò che più mi impressiona e mi addolora – soprattutto a Praga, che considero la mia seconda città natale – è questa regressione politica di tipo barbarico, un fenomeno che riguarda anche la Polonia e l’Ungheria”. Per Magris: “In questi Paesi, visto tutto il periodo di illibertà sofferta durante il regime pre ‘89, c’è ancora la necessità non dico di leccarsi le ferite, ma di concentrarsi sulla propria identità, a lungo violata, oltraggiata. Magari anche oggi, quando non c’è più la necessità di difendere in questo modo la propria identità”.

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A cominciare da Danubio (1986), l’opera di Magris raccoglie tutte le influenze culturali della Mitteleuropa che si possono ritrovare, ad esempio, nelle atmosfere internazionali e multietniche della città di Trieste descritte in Microcosmi (vincitore, nel 1997, del Premio Strega), oppure nelle peripezie dell’avventura umana nell’oceano della storia e dell’identità di “Alla cieca” (2005); per arrivare, con “Non luogo a procedere” (2015), a parlare dell’immenso cumulo di delitti del nazifascismo a Trieste, attraverso la vicenda di un archivista di reperti bellici e della sua insolita collezione: armi cui restano attaccati i brandelli di memoria della violenza e dei delitti di ogni guerra. La città natale dell’autore si ritrova frequentemente nei suoi scritti: “Ho lasciato Trieste a diciotto anni per studiare a Torino – aveva dichiarato Magris durante un’intervista rilasciata, nel 2012, a Le Magazine Letteraire – A quattordici anni avevo letto Tolstoj, Dostoevskij e Goethe, ma non gli autori triestini. È stato proprio a Torino che ho cominciato a leggerli. Allora ho acquisito la consapevolezza di quanto avevo vissuto inconsciamente a Trieste: il ruolo della comunità ebraica che per me evocava semplicemente gli amici di famiglia che venivano a giocare a carte a casa nostra; l’importanza del Carso, non solo come luogo in cui andare a passeggio ma come punto di incontro con il mondo sloveno, che a Trieste ricopre un ruolo notevole. Mi sono reso conto che Trieste non è solo una città italiana, ma il crogiolo italiano di diverse culture. Bisogna uscire dalla propria famiglia per amarla davvero. Lasciare Trieste mi ha permesso di prendere in considerazione tutte queste dimensioni. Tuttavia, io non sono stato costretto ad abbandonarla come gli intellettuali della generazione precedente diventati adulti mentre il futuro del “territorio libero” – status provvisorio della città – restava incerto. Trieste sarebbe diventata italiana o jugoslava? Sarebbe appartenuta all’occidente o all’impero di Stalin? (Gli intellettuali, ndr) Non sono mai riusciti a perdonare a Trieste questa necessità di abbandonarla, e hanno sempre intrattenuto con la città un legame edipico. Io, invece, ho un rapporto libero con Trieste. Molto intenso, ma senza complessi. Come qualcuno che ama la madre senza esserne ossessionato”. Fonti: http://www.iicpraga.esteri.it/iic_praga/it/ http://www.magazine-litteraire.com

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Nato a Trieste nel 1939, Claudio Magris ha insegnato Lingua e Letteratura tedesca presso le Università di Trieste e di Torino, ottenendo numerosi riconoscimenti. Più volte è stato proposto per il Premio Nobel. Tra le sue opere, sono da ricordare: Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna (1963), Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale (1971), Danubio (1986), Un altro mare (1991), Microcosmi (1997), La mostra (2001), Alla cieca (2005), Lei dunque capirà (2006), Alfabeti (2008), Non luogo a procedere (2015), Istantanee (2016).

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LETTERATURA

Franz Kafka

Un vero gentiluomo

A cura di Laura Di Nitto

“Franz Kafka, un vero gentiluomo”. Così apre la deliziosa animazione di benvenuto realizzata da Jan Trakal per il Franz Kafka Museum. Avvocato ed esponente fondamentale della letteratura di lingua tedesca, Kafka ha vissuto una vita breve e tormentata; intensa nelle emozioni e ammantata da un profondo senso di inadeguatezza, sia dal punto di vista personale che artistico: bizzarro, se visto da oggi, in questo futuro di popolarità da lui non immaginato, in cui sarebbe stato ed è uno dei più alti esponenti della letteratura europea del ventesimo secolo. Franz Kafka fu così caparbio nella sua autocritica come autore, che fece promettere al suo caro amico Max Brod di distruggere tutti i suoi scritti, una volta che fosse morto. Per nostra fortuna Brod, pur essendo il suo più caro amico (o meglio, proprio essendo il suo più caro amico), non mantenne la promessa e, dopo la sua morte, pubblicò tutti gli splendidi lavori di cui oggi noi ancora godiamo.

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Nato nel 1883 a Praga, capitale del regno di Boemia, allora parte dell’Impero Austro-Ungarico, Kafka appartiene ad una famiglia ebraica piuttosto opprimente, dalla quale il giovane desidera affrancarsi per cercare autonomia e indipendenza. Tuttavia il padre, uomo con cui Franz fatica ad avere una relazione armoniosa, lo ostacola e lo soffoca in maniera tanto intollerabile da rendergli la vita asfissiante. Non a caso, il nostro si riferisce alla città di Praga, teatro per lui di una vita familiare cui non riesce a sottrarsi, come ad una ‘camicia di forza’; metafora che spiega con un’immagine molto efficace, quale fosse il livello di impedimento all’agire creato dal rapporto con i genitori. Nonostante la sua brillante carriera nel settore assicurativo (lavorò anche per le triestine Assicurazioni Generali), e il tempo libero dedicato alla scrittura, Franz Kafka vive un costante conflitto interiore ed è succube di una autostima così scarsa da impedirgli di mettere in atto anche le scelte più semplici e comuni ai più, come sposarsi, fare famiglia e avere dei figli. Tuttavia, la sua eccezionale capacità analitica si trasforma in talento quando, messa a servizio dello scrivere, gli permette di inscenare poderosi drammi esistenziali, traendoli dalle situazioni più comuni della vita quotidiana. Tormentato nell’animo dalla paura e dal continuo senso di colpa e nel corpo da costanti emicranie, spossatezza e insonnia, Kafka cerca conforto nei rimedi naturali, essendo radicalmente avverso alla medicina e ai medicinali tradizionali. Conduce una dieta vegetariana, confida nel contatto con la natura, nelle passeggiate nei boschi e nelle terme fin quando, malauguratamente, la sua ipocondria si rivela profetica e cade vittima di una grave malattia respiratoria, poi riconosciuta come tubercolosi. Quella malattia accompagnata da un profondo disagio, che per anni aveva anticipato nei suoi testi, si traspone realmente nel suo quotidiano. La vita e la letteratura di Kafka sono legati alla città di Praga in modo determinante. Un rapporto di amore-odio esplicitato in giovanissima età con una famosa, impietosa e sarcastica metafora che lo racchiude: Praga non ti lascia andar via… la vecchia strega ha artigli affilati. Praga, la città in cui Kafka si sentiva isolato ed estraneo perché ebreo e perché appartenente alla borghesia di lingua tedesca, è tuttora intrisa della sua presenza e ha di certo dato un contributo essenziale alle storie immaginate dello scrittore. Ancora oggi, ogni angolo della città ricorda la sua persona e la sua opera, accrescendo il genius loci della narrativa e dei personaggi creati sullo sfondo di essa: Náměstí Franze Kafky, la piazza in cui egli nacque, vicino al ghetto ebraico, nel luglio 1883; Dušní ulice, dove è stata eretta la statua realizzata da Jaroslav

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Il Pensatore, disegno di Frank Kafka (1913)

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Rona in suo onore, che tutt’oggi viene conferita in forma di miniatura per il Premio Franz Kafka –peraltro attribuito, nel 2016, al celeberrimo scrittore italiano Claudio Magris; la Piazza della Città Vecchia, dove Kafka frequentò la scuola tedesca e successivamente (al civico n.17) le riunioni filosofiche ospitate presso la Casa dell’Unicorno Bianco e dove il padre possedeva un negozio; la casa di Pařížská 36, dove videro la luce opere come La Metamorfosi e Il Processo; il Cafè Louvre, accanto al Teatro Nazionale (Narodnì Divadlo), teatro di incontri con l’amico Max Brod e gli altri intellettuali di lingua tedesca. Tuttavia, a destare stupore e meraviglia in un’ideale passeggiata dedicata a Kafka nell’affascinante città di Praga, campeggia la modernissima opera dedicata allo scrittore dall’artista ceco David Cerny, installata nel 2014 alle spalle di Národní Třída e, ironicamente, proprio di fronte ad alcuni edifici sede di uffici statali: una testa di 11 metri di altezza, costituita da 42 strati roteanti che riflettono come uno specchio in movimento tutto ciò che c’è intorno; un’immagine che rappresenta alla perfezione l’irrequietezza di Kafka e il suo senso di inadeguatezza all’ambiente circostante. Il grande talento di Kafka si riconosce ancora oggi proprio nella sua capacità ineguagliabile di tradurre esperienze dolorose e desolanti in letteratura raffinata, in storie di vita individuali con enormi echi e riflessioni sulla collettività, raccontate con meticolosità iper-reale. Kafka <<grazie all’amore che aveva per la parola ci regalò qualcosa di stupendo, un’opera che sì, senz’altro è piena di dolore e angoscia, e senz’altro fa della condanna il proprio asse portante: ma è anche piena di coraggio e di una strana forma di consolazione — come se tutta la bellezza espressa dimostri che ci sia sempre spazio per la luce, e il buio cui inevitabilmente siamo destinati non è una giustificazione per negarla: “se sono condannato a morire”, scrive nei Diari, “lo sono anche a difendermi fino alla fine”>>.

Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. https://www.linkedin.com/in/lauradinitto

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La testa di Franz Kafka, opera di David ÄŒerny 25


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IL BEL PAESE

Trieste, la perla del golfo La città ed i suoi dintorni, raccontati da una triestina

A cura di Lisa Luchita

Trieste è racchiusa in un golfo che abbraccia il suo territorio e accoglie i visitatori come una mamma d’altri tempi. Non importa se non hai avvisato per dire che avevi amici a pranzo, la città sarà sempre all’altezza delle tue aspettative e troverai sempre un luogo accogliente dove riposare dopo un viaggio. Difficile non restarne affascinati. Il territorio è famoso per la sua struggente varietà: l’altopiano carsico sorveglia e protegge dall’alto pendii scoscesi, che nascondono case ormai in declino e decine di torrenti, che arrivando in città trovano riparo sotto terra e che regalano il nome a molte vie (Via di Roiano, Via Rio Martesin, Rio Spinoleto, Corgnoleto, Farneto e molti altri, che aspettano pazienti qualche avventuroso, indigeno o turista che sia, che decida di inoltrarsi tra i querceti per scoprirli e fotografarli).

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La storica regata della Barcolana 27


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Piazza Unità d’Italia


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Restando nel sottosuolo, se amate le cavità ipogee potete prenotare una visita alla Kleine Berlin, un complesso di gallerie antiaeree costruito dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale e oggi diventato un originale museo. Trieste regala agli appassionati di speleologia urbana molte altre cavità artificiali e tunnel da visitare, che si diramano sotto tutta la città e che vi aspettano per svelarvi i loro segreti, a volte condivisi con grotte naturali molto particolari ed apprezzate. La grotta naturale più conosciuta è, senza dubbio, la Grotta Gigante in località Borgo Grotta. Il percorso turistico prevede 850 metri di camminata (scarpe comode e antiscivolo, mi raccomando!) in un ambiente incredibile e che non ha eguali al mondo. Degna di nota è certamente la Grotta delle Torri di Slivia, che attualmente ospita “Silent Spaces”, una mostra organizzata dall’associazione culturale Typos: a 70 metri di profondità, la personale di Roberto Duse, di cui hanno parlato tutte le testate nazionali. Uscendo, se siete arrivati sul finire dell’estate, non ritornate subito in centro città ma indugiate nei paraggi e fate una passeggiata. I colori dell’autunno sono un’autentica palette indescrivibile: protagonista assoluto è il sommacco che, con il suo rosso intenso, insanguina i prati e il sottobosco carsico, regalando note di stupefacenti cromie, specie quando si accoppia coi muretti a secco del Carso, o quando circonda i resti dei 280 castellieri dell’età del bronzo (famoso e ben conservato quello di Rupinpiccolo, solo per citarne uno). Restando ‘su per le alte’ (in Carso, appunto) fermatevi a pranzo in una delle tante osmize, sparse come semi da un contadino molto generoso su tutto l’altopiano. Non sono agriturismi, sono per noi qualcosa in più: luoghi intatti di socialità, dove si trova sempre qualcuno che ha con sé una chitarra o un’armonica, pronto ad intonare una canzone della nostra tradizione locale. Ci piace cantare e bere bene sì, ma accompagnando con formaggi e salumi della casa i vini, rinomati e non, che ci fanno scivolare in una leggera dissolutezza complice di tanti amori nati, cresciuti e finiti nell’arco di un pomeriggio. Noi triestini amiamo le osmize, anzi le veneriamo. Ci offrono riparo dalla calura e ristoro nei mesi estivi e, quando aprono in inverno, non ci facciamo mai mancare qualche fine settimana all’insegna della spensieratezza, al riparo dalla Bora.

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Osmiza nei pressi di Trieste

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Già… la Bora… Quando arriva, arriva dalla Russia con amore, apposta per noi. Non fatevi trovare impreparati: berretto, giubbotto con cappuccio e, per le signore, borsa a tracolla; se dovesse piovere lasciate pure a casa l’ombrello: non servirà a nient’altro che a farvi deridere dai passanti ‘se vedi che no i xe de qua’. Le raffiche (i refoli), che raggiungono punte di oltre 200km/h, vi faranno immancabilmente venire voglia di rifugiarvi in uno degli innumerevoli locali e bar. La zona che al momento va per la maggiore è quella compresa tra Piazza Cavana e Piazza Venezia: una sorta di percorso obbligato, sotto l’occhio vigile dei panduri, che soddisferà i palati più esigenti. Ci sono i cupcake e tutta la pasticceria anglosassone di Mug, un angolo di paradiso dolciario stile New York, che per un attimo vi farà dimenticare tutte le tribolazioni che dovrete patire per ordinare un caffè nella “città del caffè”. Nero, capo, goccia, nero in b, capo in b, macchiato e altre 20 diverse declinazioni per servire la magica tazzina, riescono a mettere in difficoltà il turista impreparato o l’universitario fuori sede... ma non fatevi prendere dallo sconforto, si impara presto. Accanto a Mug c’è L’ Altro Gelato, il più delizioso gelato che troverete nei paraggi (il mio abbinamento preferito è liquirizia e yogurt). E ancora ristoranti di pesce, di carne ed infinite trattorie tipiche, dove mangiare la carne di maiale cotta nella caldaia e tartine col baccalà; ma anche Draw, una particolarità per gli amanti delle crudité: non servono piatti caldi ma deliziose tartare e fantasiose insalate. Via Torino “is the place to be” per gli amanti degli aperitivi a oltranza e, a breve, è attesa l’apertura di Eataly, sulle rive accanto al Salone degli Incanti. Questo edificio ospitava il mercato ittico e, in anni recenti, è tornato a nuova vita, ospitando mostre di artisti di caratura internazionale, esposizioni fotografiche, retrospettive storiche e l’evento annuale più importante: ITS, l’International Talent Support, ottima vetrina per i talenti in erba della moda. Per le fashion victim, Trieste non offre molto ma, quel che c’è, vale. Da Bardot troverete linee essenziali e contemporanee, frutto dell’accurata selezione effettuata personalmente dalla titolare, Isabella, che propone brand emergenti e una edizione limitata di gioielli di produzione propria, che ha come soggetti i monumenti e i simboli della città: una valida alternativa al solito souvenir. Uscendo da Bardot, fiondatevi da Stranomavero, dove Antonella vi descriverà le sue collane e le sue spille con sinestesie irresistibili, le cui spirali mi hanno sempre ricordato il culto della Grande Madre. Entrare da Stranomavero è come assecondare il nostro io primitivo, che vuole raccogliere le morbide scarpe per sentirne il profumo e, attingere all’albero delle collane, è il

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Il Salone degli Incanti a Trieste

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ricordo di un gesto arcaico che non lascia scampo. Manila Grace, Lo Spaventapasseri e Bark, sono solo alcune delle collezioni, proposte in esclusiva in un allestimento curatissimo e ricercato, a cui manca solo la vostra presenza. Da zona Cavana, percorrete uno dei topoi letterari della città: la salita al colle tanto cara a Umberto Saba, ed avventuratevi alla scoperta della Trieste medievale e romana. Prendete via Donota, per ammirare dall’alto il teatro romano e le mura imperiali, incamminatevi su per via delle Monache e, se trovate aperta la porta del Monastero di Clausura, sbirciate dentro per vedere una delle ultime ruote degli esposti, probabilmente ancora in funzione. Arrivati a San Giusto, nel grande piazzale troverete i resti della basilica romana e quel che resta del propileo, nascosto all’interno del campanile della cattedrale, oltre che sotterranei misteriosi, che celano leggende di mummie egizie, cavalieri templari e messe nere. Su e giù, in un continuo saliscendi: è la città che ve lo impone! Da San Giusto, calatevi verso Piazzetta Barbacan, nuovo cuore pulsante del Vintage locale, grazie alla presenza di Boogaloo e altre bottegucce, tutte da scoprire. Stanchi dello shopping e vi prende la voglia matta di fare attività fisica? Non mancano i percorsi ciclopedonali. E poi, è appena stata inaugurata una pista ciclabile di tutto rispetto che, costeggiando per buona parte il mare, attraversa la città. La Val Rosandra e le pareti di roccia della Strada Napoleonica aspettano i climber più temerari, con placche calcaree e pareti ben attrezzate dove ci si può arrampicare tutto l’anno, complice la buona esposizione sottovento. Il Carso è perfetto per fare Nordic Walking, o Trekking, e le possibilità che offre il mare non sono un segreto per nessuno. Gl’impavidi possono provare il brivido della Rampigada Santa: una gara amatoriale che, quest’anno, ha visto 343 iscritti e che chiede di cimentarsi nella corsa a piedi, o in bicicletta, su un tracciato in pavé lungo 2 km, con dislivello di 300 metri e con un picco di pendenza del 22%. Il record da battere è 10’03’’, realizzato quest’anno. Cosa aspettate? Fatevi avanti! E quando, invece, è la cultura a richiedere la sua necessaria e dovuta attenzione? Dodici case editrici cittadine attive, con centinaia di titoli in catalogo; innumerevoli autori locali, che trattano i temi e i generi più vari, e una decina di scrittori coccolati dalle case editrici nazionali. Poesia, narrativa dialettale, storia locale di ogni periodo (ultimo arrivato la “Storia di Trieste”, di Nicolò Giraldi, nostra giovane promessa letteraria), storie di viaggio, archeologia, saggistica e molto altro ancora. E poi librerie, caffè storici e associazioni cul-

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La statua di James Joyce sul Ponterosso, in Via Roma 35


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turali, con un ampio ventaglio di offerte di ogni tipo. Il Caffè San Marco, Il Caffè Tommaseo, Il Caffè Stella Polare sono luoghi in cui è ancora possibile respirare l’aria asburgica, di cui il triestino non è mai pago, e che ospitano periodicamente convegni, presentazioni di libri e mostre di artisti locali e internazionali. Non è un segreto che Trieste sia una città culturalmente vivace: basta cercare nell’agenda locale e si scopriranno spettacoli teatrali ogni giorno della settimana, ospitati in teatri dialettali, presenti praticamente in ogni rione. Lo scrisse Umberto Saba: “la mia città che in ogni parte è viva”, ed a ragione. Ogni rione ha le sue caratteristiche peculiari e, se volete assaporare le diversità che la città vi offre, visitate il popolare e brulicante rione di San Giacomo, o raggiungete San Vito, che ospita il castello Basevi, dove ha sede l’osservatorio astronomico. Altrimenti arrivate fino a Barcola, antico paesino di pescatori inglobato, col tempo, dalla città ma che ancora mantiene certe caratteristiche proprie, come le stradine che si inerpicano fino a condurvi al Faro della Vittoria. Da là sopra, il panorama è impareggiabile e vi permetterà di intravvedere la varietà architettonica della città. In centro, nel Borgo Teresiano, una precisa scacchiera voluta dagli Asburgo al tempo in cui Trieste iniziava la sua espansione commerciale, accanto ad edifici dell’800 spicca la solida e compatta architettura del Ventennio, fanno capolino edifici in stile veneziano, liberty o puramente eclettici. Un paradiso per gli amanti dell’architettura. Last but not least: una menzione speciale merita sicuramente il roseto del Parco di San Giovanni che, nel 2015 ha vinto il prestigioso Award of Garden Excellence, figurando tra i venti roseti più stupefacenti del mondo. Noi vi aspettiamo! E voi? Avete già le valigie pronte?

Lisa Luchita, nata e cresciuta a Trieste, è un’esperta di Pubbliche Relazioni e Comunicazione, specializzata in Didattica e Psicopedagogia. Dal 2008 è Presidente ed insegnante d’inglese presso Easy English. https://www.linkedin.com/in/lisaluchita

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La nave scuola “Amerigo Vespucci” a Trieste 37


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ARTE

Francesco Giuseppe a Miramare

Immagini e parole, per commemorare il centenario dalla morte dell’Imperatore

In occasione del centenario della morte di Francesco Giuseppe I d’Austria (18 agosto 1830 - 21 novembre 1916), il Museo Storico del Castello di Miramare di Trieste ospita, dal 30 novembre al 5 marzo 2017, la mostra “Francesco Giuseppe a Miramare. Immagini e parole”, rigorosa ricostruzione dei viaggi a Trieste e a Miramare, luogo di residenza del fratello Massimiliano. Attraverso dipinti, rilievi marmorei, stampe, litografie e acquerelli, il percorso espositivo, curato da Rossella Fabiani e Davide Spagnoletto, costituisce una preziosa indagine dei rapporti della famiglia della Casa asburgica, in particolare della relazione tra Francesco Giuseppe e Massimiliano, attraverso il fil rouge di Trieste, una città moderna dell’impero, simbolo di civiltà e progresso. Accanto ai dipinti, tra cui i ritratti di Carl Haase (artista austriaco, 1820-1877) che rappresentano la coppia imperiale di Francesco Giuseppe e Sissi, e alle incisioni ufficiali di Josef Kriehuber, raffiguranti l’imperatore, in mostra anche le pagine dei quotidiani dell’epoca, come l’Osservatore Triestino e The Illustrated London News, aggiungono dettagli e particolari alle vicende narrate: vere e proprie “istantanee” della presenza di Francesco Giuseppe in diverse occasioni pubbliche e private.

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Un importante esempio è costituito dall’Altorilievo commemorativo della Caduta da calesse di Massimiliano (1856), di Luigi Ferrari, che adornava la mensa dell’altare di San Giusto a Trieste, in cui si racconta il commosso incontro tra l’imperatore e l’arciduca Massimiliano degente, nel novembre 1855, dopo l’incidente occorso in Campo Marzio. Non mancano poi momenti festosi, come l’arrivo dell’imperatrice Sissi, appena scesa da una scialuppa con Francesco Giuseppe e Massimiliano, sul porticciolo di Miramare nel 1861. A corredo del dipinto di Cesare Dell’Acqua, raffigurante l’arrivo di Elisabetta d’Austria a Miramare (1865), viene esposto anche il bozzetto preparatorio in cui l’artista fissa l’incontro con l’arciduchessa Carlotta alla presenza dei rispettivi coniugi. “Alle 10 precise – si legge sull’Osservatore triestino – la squadriglia passava dinanzi alla città, ed alle 10 e mezzo le loro Maestà scesero a terra a Miramar, dove per quanto udiamo, rimarranno tutta la giornata”. Al centro di questa narrazione viene esplicitata la funzione e l’importanza di Trieste, che nel luglio 1857 inaugura la Ferrovia Meridionale la quale, congiungendo la città a Vienna, intensifica i rapporti commerciali tra la capitale e il suo principale porto sull’Adriatico: “Egli si presenterà nuovamente a noi come largitore di benedizione, onde aprire in persona alla Sua fedelissima città la via che per essa diventerà una nuova fonte di benessere e prosperità”, riporta l’Osservatore triestino lunedì 27 luglio 1857. In questa occasione l’imperatore non incontrerà il fratello poiché Massimiliano è a Bruxelles per sposare Carlotta del Belgio, come documentato in mostra da un delicato acquerello di Dell’Acqua (Il matrimonio di Massimiliano e Carlotta, 1857). La centralità di Trieste emerge anche da ulteriori materiali a stampa, tra i quali una tavola topografica raffigurante lo sviluppo storico della città di Trieste, del 1856, a cura di Pietro Kandler, e una preghiera in lingua ebraica del 1857, come ricordato dalla stampa: “Anche le comunità cattoliche e la israelitica intonavano oggi nei rispettivi loro templi inni di lode e di preghiera per impetrare all’Altissimo benedizione sul capo dell’amatissimo Sovrano ...”, una dedica a Francesco Giuseppe ed Elisabetta. Viene così a delinearsi lo sviluppo della città e il suo carattere cosmopolita, aprendo ulteriori approfondimenti all’interno del contesto cittadino. A completamento del percorso espositivo, le altre opere che hanno segnato la storia della famiglia d’Asburgo e della città, presenti normalmente nel percorso di visita, saranno opportunamente messe in evidenza per proseguire il viaggio lungo le sale del Castello. Uno sguardo che, attraverso tracce diversificate dei rapporti tra Francesco Giuseppe e Massimiliano, permette di far rivivere un momento storico denso di avvenimenti per la città di Trieste. La mostra è promossa dal Polo Museale del Friuli Venezia Giulia, organizzata e realizzata dal Museo storico e il parco del castello di Miramare in collaborazione con il Comune di Trieste e Civita Tre Venezie. Fonte: www.arte.it

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Due opere di Cesare Dell’Acqua, in esposizione al Museo Storico del Castello di Miramare

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ITALIANI A PRAGA

Alice Raffa Dal Friuli all’Istituto Italiano di Cultura a Praga

<<All’Istituto mi occupo principalmente di comunicazione e collaboro assieme ad altri colleghi per l’organizzazione degli eventi. Inizialmente non ho riflettuto troppo sulla scelta di venire a vivere a Praga, è semplicemente successo. Al termine della specialistica ho iniziato a mandare il mio curriculum in diversi Paesi europei e la European Development Agency di Praga è stata la prima azienda a prendere in considerazione il mio profilo. Mi è sembrata una buona opportunità, ho fatto i bagagli e sono partita. Quella di restare, invece, è stata una scelta ponderata, non potevo fare altrimenti in una città così dinamica e stimolante! C’è sempre qualcosa da fare, soprattutto dal punto di vista culturale. Per non parlare del fatto che qui il tasso di disoccupazione è davvero basso, il che ti dà una certa sicurezza quando sei giovane e alla ricerca di un lavoro. 42


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Ho cercato sin da subito di sbrigare le questioni pratiche, mi premeva soprattutto la ricerca di una casa dato che avevo sentito di non poche persone in difficoltà per la scarsità di offerta. Dopodiché ho cercato di scoprire se esistesse una comunità italiana attraverso piattaforme e mezzi di comunicazione come il gruppo “Italiani in Repubblica Ceca”, “Italiani a Praga” su Facebook e la stessa rivista “CIAOPRAGA”, e devo dire che sono stata piacevolmente colpita dai risultati trovati. Se Praga ha cambiato la mia vita? Domanda difficile: sì, ma forse non ne sono ancora consapevole. Ovviamente sì, nel senso che se non avessi accettato il primo contratto di sei mesi, ora non sarei qui, grata ed entusiasta per questa nuova opportunità ed avventura. Alla sua conclusione, non so cosa mi aspetterà; lo deciderò o lo lascerò succedere nel corso di questi mesi. Sono piuttosto aperta riguardo al mio futuro. La mia difficoltà principale è la lingua. Amo studiare con impegno le lingue straniere e in passato ho già vissuto in altri Paesi europei, della cui lingua locale avevo una conoscenza approfondita. È la prima volta che mi ritrovo a vivere in un Paese in cui non comprendo gli altri e non sempre riesco a farmi comprendere. Ovviamente l’handicap è totalmente mio, poiché non ho ancora affrontato un corso di ceco, ma facendo anche un lavoro da traduttrice, oltre allo stage, non trovo davvero il tempo per impegnarmi anche in questo. La cosa che invece mi rende più contenta è l’essere riuscita ad ambientarmi nonostante questa barriera. Chiaramente Praga è una città così internazionale che la padronanza del ceco non è strettamente necessaria per la vita sociale e, anche grazie alla conoscenza di 4 lingue straniere oltre all’italiano, sono riuscita a costruire dei rapporti davvero autentici. Il mio posto preferito a Praga è Náměsti Míru. È lì che si trova il primo appartamento in cui ho vissuto e, pertanto, mi ricorda un momento peculiare della mia esperienza a Praga: quello iniziale, perciò il più difficile, ma anche il più entusiasmante, quello in cui stavo cominciando a scoprire tutto. Dell’Italia ho molta nostalgia, ma è una nostalgia positiva, nel senso che non mi porta a disprezzare il posto in cui vivo per idolatrare il mio paese d’origine, bensì mi spinge a valorizzare ed analizzare i pro e i contro di entrambi gli ambienti. E lo so che qui cado nei cliché, ma ogni volta non

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La Cappella Barocca dell’Istituto Italiano di Cultura a Praga

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posso fare a meno di aspettare con impazienza il weekend durante il quale mi è concesso di tornare a casa per riabbracciare la mia famiglia e i miei amici, assaggiare il nostro buon cibo e rifarmi gli occhi alla vista del mare. Agli italiani che desiderano trasferirsi qui, consiglierei di cercare di chiarirsi le idee prima di venire e di informarsi a dovere. Vedo molte persone che arrivano a Praga allo sbaraglio, seguendo la voce di chi ha detto loro che qui ci sono possibilità e lavoro, totalmente disorganizzate e confuse. È vero che Praga offre tutto questo, ma ritengo che ci si debba eventualmente trasferire con un po’ di cognizione di causa, con la minima idea dell’ambito lavorativo in cui ci si vorrebbe lanciare, ecc. Credo che di questi tempi le possibilità per informarsi e farsi un’idea più o meno nitida, anche a distanza, siano molte. Come dicevo in precedenza, il mio approccio verso il futuro è molto aperto ed elastico. Non so ancora dove sarò dopo questo stage, ma mi darò da fare per costruirmi un’altra buona opportunità, come ho sempre cercato di fare fino adesso. Ritengo improbabile un mio ritorno in Italia, anche se non impossibile, dato che il fulcro del mio percorso di studi sono le relazioni internazionali. Perciò, per la mia formazione, sarebbe particolarmente interessante vivere realtà diverse da quella in cui sono stata immersa per 20 anni della mia vita>>.

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Foto: Junko D Photography


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FOOD & WINE

Ricordi Friuliani

Passeggiata nel “vigneto Friuli”, parlando di vita e di vino

A cura di Roberto Vinci

Mi sveglio di buon’ora. Sarà una giornata lunga, quella di oggi. Ad accogliermi un sole caldissimo che mi coccola dolcemente, quasi volesse darmi il buongiorno. E questa sensazione è assai piacevole, visti i freschi respiri di un’aria che mi ricorda di essere ormai nel mese di novembre. Sono a Nimis, terra di Ramandolo, un vino che mi ha stregato e tenuto spesso compagnia in queste giornate. Salgo in auto, prendo la statale 356 in direzione di Cividale del Friuli. Lo scenario naturale che mi circonda è splendido. Alberi carichi di cachi, quasi antichi custodi vestiti d’arancio, tracciano il percorso lasciando presto il campo all’unica e sola protagonista di queste terre: la vite.

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Foto: Roberto Vinci


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Questa splendida creatura inizia a fare la sua comparsa con delicatezza, quasi a voler nascondere una presenza che di lì a poco diverrà totale. Poi, attraversato il paesetto di Attimis, vengo letteralmente ingoiato da filari di vite schierati come guerrieri, pronti alla battaglia. Sembrano osservarmi da ogni dove. Coprono tutto: ogni collinetta, ogni declivio, ogni spazio potenzialmente coltivabile. È il vero trionfo della viticultura friulana. Su queste colline è proprio lei, la vite, l’indiscussa signora. Padrona incontrastata del paesaggio, splendidamente pettinata dai raggi del sole, fa bella mostra di sé, immersa in un azzurro quasi irreale, protetta alle spalle dalle Alpi Giulie, che la tutelano dalle fredde correnti del nord. In questo microclima nasce, cresce e, grazie ad una cura quasi maniacale, che solo i vignaioli di queste meravigliose terre di frontiera sanno donarle, dà vita a prodotti di qualità assoluta. Arrivo a Togliano e poi è la volta di Cividale, l’antico Forum Iulii (da cui l’origine del nome Friuli), fondata tra il 56 e il 50 a.C., in onore di Giulio Cesare, proprio da quei legionari romani che scelsero di stabilirsi nei Colli Orientali, riconvertendosi in coltivatori e, in particolare, in vignaioli, continuando, quindi, una tradizione già viva ai tempi dei Celti. Oggi vado a far visita ad un mio amico di Prepotto, Marco, conosciuto qualche tempo fa in una degustazione di più di 300 etichette, svoltasi a Trieste. La prima volta, i suoi vini, furono per me una bellissima sorpresa. E non parlo degli internazionali, ma dei tradizionali, anche detti “autoctoni”, sebbene sulla parola siano state aperte infinite discussioni. Mi riferisco, in particolare, al Refosco dal Peduncolo Rosso, allo Schioppettino, alla Ribolla Gialla, al Tocai Friulano ed allo splendido Verduzzo Dorato. Una volta giunto, ecco arrivare Marco. Dapprima un po’ sulle sue, quasi timido e timoroso, si apre poi, dopo qualche battuta e scambio d’idee, ad un atteggiamento più caldo, divertito, partecipe, segnato da quel tipico calore friulano che viene fuori solo alla distanza, quando il vignaiolo di queste contrade si lascia alle spalle la ritrosia tipica del “furlan” e, accompagnando le parole con un bel tajut de vin, inizia a raccontare la vita del suo figlio più caro, la vigna. E allora, chiacchierando, decidiamo di fare visita a quel figlio. Ci arrampichiamo su per la collina, la sua collina, la collina di Marco, curata amorevolmente giorno e notte, sotto il bruciante sole come sotto la pioggia, nel freddo ed umido inverno che lacera le ossa come nelle risplendenti

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Foto: Roberto Vinci


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giornate estive. Non posso fare a meno di accarezzare le viti, scure, nervose, vissute. Esse sono l’inizio, esse generano il tutto. Tracciano una via che il bravo vignaiolo, stagione dopo stagione, deve seguire, interpretandone il significato senza mutarlo o, peggio ancora, stravolgerlo. Passo dopo passo, circondato dai vigneti, mi sembra quasi di coglierne i versi, le soffuse parole. Ho quasi l’impressione che si muovano, che si agitino, che mi accolgano per narrarmi la propria vita. Rientriamo dopo un’oretta. Ci sediamo e apriamo una bottiglia di quello Schioppettino che tanto aveva colpito il mio cuore, la prima volta, in quel di Trieste. Un bel vino, nulla da dire. Splendido nel colore, luminoso, contraddistinto all’olfatto da note ancora giovani che via via, con gli anni, lasceranno spazio a profumi decisamente più maturi, più definiti, più profondi. Nel bicchiere, ricche note di viola e di frutto rosso, seguite da gocce di pepe e spezie. E poi una grande freschezza, ad accompagnare un’evidente ed importante traccia minerale, che in bocca segna la sapidità di un assaggio che solo questo terreno può regalare: terreno di marne ed arenarie, terreno fatto di quella “ponca” che rende questi territori unici nel panorama vitivinicolo mondiale. E questa mineralità si ritrova costantemente, assaggio dopo assaggio sempre, immobile, presente, immutata, importante. È il vero scheletro di questo Schioppettino, che incarna pienamente un vino moderno, dalla lunga ed intensa persistenza ma al contempo agile, fresco, molto duttile anche nell’abbinamento. Poi si passa, di slancio, ad assaggiare l’altra mia passione, il Verduzzo Dorato. Un amore a prima vista, potrei definirlo. Lo incontri, ne gusti i profumi, le calde note liquide, e te ne innamori per sempre! Un vino che pochissimi conoscono e che, ogni volta, meraviglia, lasciando dietro di sé “morti e feriti”. Tutti si aspetterebbero il solito vino dolce ed invece, questo Verduzzo, ti spiazza lasciandoti a bocca aperta. Siamo di fronte, infatti, a qualcosa di diverso. Un vino ottenuto da uve Verduzzo, le stesse che danno vita al Ramandolo; un vino che non è mai dolcemente “ruffiano”, non è mai stucchevole, grazie ad una corredo acido che ne sostiene sempre la struttura. Il Verduzzo brilla nei suoi toni intensamente ed elegantemente dorati; sa di miele ma non stilla lacrime smielate, anzi, mostra una sottile nota tannica che lo rende unico, speciale, inconfondibile. In bocca è caldo, aprendosi con fierezza ed armonia. Cattura i sensi, regalandoti assaggi memorabili. Fantastico!

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Una giornata, quella con Marco, di infinite parole, di condivisione di emozioni e sensazioni, di vini osservati, percepiti, vissuti, compresi. Una giornata trascorsa alla ricerca di un benessere non solo gustativo ma più intimo, quasi spirituale. Riparto, lasciando lì a salutarmi il mio amico vignaiolo friulano con la tristezza in me dominante, carico di sapori, umori, colori mentre il sole si piega, quasi fosse triste e stanco, proprio dietro la collina di Marco, regalando al cielo le sue ultime calde sfumature. Riparto colmo di vino nella testa ma, soprattutto, nel cuore. Questo è il Friuli, il mio Friuli, quel Friuli che è in grado di emozionare toccando le intime corde dell’animo umano. Questo Friuli continuo a portarlo dentro di me, sempre. E, detto da un romano, potete assolutamente crederci.

Roberto Vinci è sommelier professionista e fotografo. Comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. http://www.robertovinci.viewbook.com

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Foto: Roberto Vinci


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CUCINA

Il prosciutto di Praga Sapori di Boemia a Trieste

Nato a Praga più di 150 anni fa da un’antica tradizione austroungarica, oggi il Prosciutto di Praga conserva, della capitale ceca, soltanto il nome e la ricetta. Nella bella città boema e nella regione di origine, infatti, non è sempre semplice trovare questa varietà di prosciutto che si è invece trasformata, nel tempo, in una vera e propria specialità della tradizione triestina. Nella provincia del capoluogo friulano i salumieri artigiani hanno mantenuto inalterate nel tempo la procedura di preparazione, seguendo regole omogenee che oggi permettono di identificare e differenziare questo prodotto rispetto a tutti gli altri prosciutti. Non è un caso, dunque, che si parli del Prosciutto di Praga già nelle guide turistiche locali dell’inizio del secolo scorso.

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A dimostrazione di come, ormai, la città di Trieste sia la vera “capitale” di questa prelibatezza, il Prosciutto di Praga è stato inserito nell’elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali, diventando a tutti gli effetti un prodotto tipico della gastronomia friulana. Questa varietà di prosciutto cotto è completamente diversa da quelle più comunemente conosciute. Già osservandone l’aspetto esteriore ci si rende conto che si tratta di un prodotto del tutto differente. Infatti, contrariamente a quanto di solito avviene per la maggior parte dei prosciutti cotti, quello di Praga mantiene l’osso e non viene, dunque, trattato in modo che assuma la consueta forma tondeggiante che caratterizza i prodotti dello stesso tipo. La cotenna si distingue per la doratura conferitale dall’affumicatura, mentre la carne è gradevolmente rosata ed ha una consistenza morbida e compatta, estremamente piacevole al palato, che ne assapora il gusto delicato dal lieve sentore affumicato. Nelle salumerie viene mantenuto intero, posizionato sul morsetto e tagliato a mano con il coltello solo al momento dell’acquisto da parte dei clienti. Le tecniche di produzione, ormai interiorizzate e fatte proprie dai salumieri triestini prevedono, innanzitutto, una rigorosa selezione della materia prima, rappresentata da sole cosce suine pesanti e fresche. Una volte scelti i pezzi da utilizzare, le carni vengono “siringate” con la salamoia addizionata di aromi naturali e, successivamente, affumicate a caldo con trucioli di abete. Mantenendo l’osso, si procede alla cottura dei prosciutti all’interno di apposite caldaie e alla loro distribuzione, ancora caldi, ai rivenditori. Consumato durante tutto l’anno, il Prosciutto di Praga ricopre un ruolo di particolare rilevanza durante le feste pasquali, quando viene servito, assieme alla Pinza, nei pasti tradizionali. Acquistato ancora tiepido e appena tagliato, rappresenta un ottimo spuntino o antipasto quando viene accompagnato con pane nero, senape e abbondante radice di rafano grattugiata. Nulla vieta, però, di utilizzarlo come ingrediente per preparare primi o secondi piatti gustosi e leggeri, come risotti, tagliatelle, prosciutto al forno oppure in crosta, o antipasti freschi, veloci e gradevoli, adatti anche a chi sta particolarmente attento alla linea. Fonte: www.turismo.it

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TEATRO

Ariella Reggio Da Giorgio Strehler a Woody Allen, l’attrice triestina ripercorre la sua carriera

A cura di Stefania Del Monte

Ariella Reggio è nata a Trieste il 6 settembre 1936. Dopo essersi diplomata al Liceo Classico, studia recitazione alla scuola Silvio D’Amico di Trieste. Entra poi a far parte della compagnia di prosa della RAI. Negli anni ’60 si trasferisce in Inghilterra, dove rimane per cinque anni e collabora con la BBC, conducendo trasmissioni culturali radiofoniche e televisive. Tornata in Italia, continua a lavorare come attrice teatrale in varie sedi, incluso il Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler ed il Teatro della Tosse di Genova.

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Inizia, inoltre, una lunga collaborazione col Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e partecipa a numerose operette al Teatro Verdi di Trieste. Nel 1976 è tra le fondatrici del “Teatro Popolare La Contrada”, che ora ha sede a Trieste presso il Teatro Orazio Bobbio. In seguito collabora attivamente nella produzione della Contrada, in testi sia comici che drammatici, oltre che con il Teatro Stabile di Firenze, in “Ti ho sposato per allegria” e “Il compleanno”. Nel 1988 recita in televisione ne La Coscienza di Zeno, miniserie in due puntate con Johnny Dorelli e Ottavia Piccolo, diretta da Sandro Bolchi. Nel 2006 lavora al film “Il giorno più bello”. Nel 2008 è nel cast del film “Si può fare” e della miniserie TV “Rebecca, la prima moglie”. Nello stesso anno è nel cast della serie televisiva “Tutti pazzi per amore”. Nel 2010 recita in un episodio di “Boris” e nel 2011 partecipa alla miniserie TV “Atelier Fontana – Le sorelle della moda”. Nel 2012 è nel cast del film “To Rome with love”, diretto da Woody Allen. Nel 2014 le viene conferito, dai cronisti del Friuli Venezia Giulia, il premio San Giusto d’Oro. Nel 2016 entra a far parte del cast di “Calendar Girls”, commedia teatrale con Angela Finocchiaro, che sarà in tour fino al febbraio 2017. Nata e cresciuta a Trieste, qui ha anche studiato recitazione. Pensa che questo contesto le sia stato d’aiuto nell’intraprendere la professione di attrice? Certamente! Trieste è, ma soprattutto è stata, una città di confine con grandi cambiamenti storici, e questo influenza sicuramente la vita delle persone e la loro cultura. Inoltre, è sempre stata una città molto “teatrale”, se così si può dire: probabilmente si tratta di un’eredità viennese! Ma credo che sia stato importante soprattutto il periodo storico, più che la città. Alla fine degli anni ‘50, quando finito il liceo mi sono iscritta alla scuola di recitazione, tutto era in “divenire” sì, ma tutto era fatto con grande serietà. I miei maestri erano davvero bravi (citerò fra tutti Francesco Macedonio), i colleghi capaci e generosi e, soprattutto, il lavoro dell’attore era rispettato. Aggiungerei anche un po’ di talento da parte mia, nonché il fatto che la TV non imperversava in modo così violento e invadente. Quanto, invece, le è stata utile l’esperienza maturata successivamente, in ambito internazionale? Se per esperienza internazionale si intende il mio lungo soggiorno londinese negli anni ‘60 (ripeto: anni 60! Anni speciali), bene..., anche questa è stata un’esperienza fondamentale per la mia vita, di allora e di oggi! E siccome il lavoro dell’attore si nutre soprattutto di vita, credo che mi abbia dato moltissimo. È vero che ho lavorato alla BBC, e ciò mi ha gratificata, ma la cosa più

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importante è stata conoscere e ammirare il teatro inglese, nutrirsi di quei talenti meravigliosi che continuo ad ammirare tantissimo. Quanto sono bravi! Sanno recitare con semplicità ed interiorità. Nel 1976 è stata tra le fondatrici del “Teatro Popolare La Contrada”. A distanza di quarant’anni, quanto è cambiato il teatro italiano? In questi quarant’anni il teatro è cambiato tantissimo. Quello italiano in peggio, e mi dispiace dirlo. Attori giovani e bravissimi non hanno lavoro, mentre dei “mostri” televisivi, che non sanno nemmeno parlare, riempiono palcoscenici e platee. Poi il pubblico capisce e giudica, ma prima accorre al nome televisivo. I teatri stabili pubblici non fanno il lavoro che dovrebbero, o almeno non tutti, cioè promuovere il nuovo e non solo “fare cassetta”, come i privati. Nel 2012 ha lavorato con Woody Allen in “To Rome with Love”. Com’è stata questa esperienza? Woody? (Lasciate che lo chiami così!): lavorare con lui è stata un’esperienza entusiasmante e inaspettata. Essere stata scelta, assieme ad altri, tra centinaia di provini fatti che, pare, lui abbia visionato personalmente, è stata già di per sé una grande soddisfazione...anzi, quasi svenivo! Pensi che l’avevo visto suonare in un pub di New York, più di quarant’anni fa, e mai nella vita avrei pensato di poter avere una simile fortuna. Insomma, tutto può accadere! Il film, dicono i critici, non era tra i suoi migliori, ma a me non importa. Sono stata diretta da un mito, per di più gentile, simpatico, ironico: proprio come ti aspetti che Woody Allen sia. Che meraviglia! Esperienza, purtroppo per me, unica, ma ne godo ancora e ne conservo gelosamente il ricordo. E Penelope Cruz, poi: anche lei deliziosa! Persone speciali, ma senza nessuna prosopopea, nessun accenno di spocchia. La sua è una carriera a 360 gradi. Preferisce il teatro, il cinema o la televisione? Preferisco, senza dubbio, il teatro, anche perché credo che da lì parta e sia partito tutto. Infatti gli attori cinematografici stranieri fanno tutti teatro. In Italia, invece, non è così. Al contrario, parecchi registi cinematografici non ci vanno neppure, a teatro! Non ne sanno nulla (quelli di oggi, perché se penso a Luchino Visconti o a De Sica, ovviamente il discorso cambia). Dicono che recitiamo troppo. Può darsi… Comunque mi piacerebbe poter conoscere meglio la macchina da presa. Grazie a Maremetraggio, ad esempio, e ad

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una telefonata di Maddalena Mayneri, che all’epoca conoscevo appena, ho girato da protagonista un corto: “Per Agnese”, diretto da Massimo Cappelli e con la partecipazione di Ricky Tognazzi: secondo me, un gioiellino! Dopodiché ho avuto pochissime altre occasioni di interpretare dei personaggi, piccoli o grandi che siano: perché per me l’importante sono i personaggi, non il numero di pose. In quanto alla televisione il lavoro è diverso, di solito più a “catena di montaggio”, ma ti da una popolarità tale che continuerei a farla volentieri! La fiction “Tutti pazzi per amore” mi ha fatto conoscere da moltissima gente, soprattutto giovani, quindi ben venga! Ogni mezzo per comunicare va bene, purché sia fatto con professionalità ed onestà. E riguardo ai ruoli: comici o drammatici? Anche per i ruoli posso dire la stessa cosa: l’importante è quello che dici e come lo dici. Certo, la risata del pubblico ti gratifica subito e far ridere davvero è difficile, ma nei ruoli impegnativi e drammatici gratifichi di più te stesso, però comunicare emozioni forti è come vincere una grande sfida. Penso, comunque, che un attore debba fare di tutto, possibilmente bene e soprattutto con serietà professionale. Basta vedere, ad esempio, come lavorano attrici inglesi come Maggie Smith, Vanessa Redgrave, Judy Dench: i miei miti! Sogni nel cassetto? Sogni? Da giovane ne avevo tanti. Alcuni sono riuscita ad esaudirli (avere un mio teatro, o lavorare con Strehler ad esempio), altri, invece, no (lavorare con Peter Brook), ma ora, alla mia età, chiedo solo alla vita di permettermi di lavorare a lungo, perché il teatro mi piace e mi rende felice. È uno dei pochi mestieri in cui puoi dare e ricevere fino alla fine dei tuoi giorni, senza sentirti vecchio, o meglio, senza farti pesare la vecchiaia che comunque, se sei fortunato, arriva.

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CINEMA

Maddalena Mayneri Da Trieste a Cortina, con la regina del cortometraggio

A cura di Stefania Del Monte

Triestina d’adozione, innamorata del mare e della barca a vela, “allergica” al caffè. Cos’altro ci racconta di Maddalena Mayneri? Innamorata del mare e della barca a vela, è vero! In primis ci sono loro, poi c’è il cinema, ovviamente, e l’odio per il caffè: mi piace questo ordine, perché mi fa sorridere. Del cinema sono innamorata da sempre, sin dalla mia prima tesi di laurea su Rodolfo Sonego. Per quanto riguarda, invece, il mondo dei corti, mi ci sono avvicinata nel 1997, quando ho iniziato a curare la prima edizione di Cortinametraggio, durata fino al 2000. In seguito ho chiuso con Cortina per dieci anni e mi sono trasferita a Trieste, dove ho curato Maremetraggio. Sono tornata a Cortina, nel 2010, per riprendere di nuovo in mano Cortinametraggio e portarlo fino ad oggi. Speriamo di arrivare sempre più in alto, perché stiamo crescendo davvero tantissimo!

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Trieste e Cortina: che rapporto ha con queste due città? Trieste la amo e la odio allo stesso tempo, perché è una città troppo ferma e, a volte, avrei voglia di darle una scossa positiva affinché si riattivi e si renda conto di tutto quello che può offrire. Con Cortina, invece, ho un rapporto di amore totale: per Cortina, mi butterei nel fuoco! Purtroppo il popolo cortinese non lo capisce, non si rende conto di che gioiello ha per le mani e, a volte, spreca delle belle possibilità. Nei confronti di Cortinametraggio, per esempio, è molto chiuso: non ha un’apertura mentale tale da capire che aiutare un festival del genere può fare solo del bene, quindi diventa un rapporto molto difficile. Mi manca la Cortina delle vacanze, di quando andavo a sciare, spensierata, e quella delle passeggiate d’estate. Oramai, quando sono a Cortina, la vivo solo come uno spazio di lavoro. Ogni occasione d’incontro diventa un’opportunità volta a migliorare ed arricchire il festival: Cortina piace agli sponsor ed interessa alle aziende che vogliono promuoversi, quindi prendo tutto il positivo che mi può offrire. Cortina e Trieste sono i due luoghi dove più amo vivere e, per questo, non posso che considerarmi una persona fortunatissima. Il mare d’estate e la neve d’inverno: chi può desiderare di più? Esperta di comunicazione ed eventi ma, soprattutto, di cinema, è ideatrice e Presidente di CORTINAMETRAGGIO. Com’è nata l’idea di questo festival? Cortinametraggio è nato quando, ancora giovanissima, mi sono ritrovata a parlare con personaggi del calibro di Vittorio Gassman, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo o Lina Wertmuller, per citarne alcuni, che fin dall’inizio mi hanno aiutata e supportata in questa avventura, consigliandomi e, in alcuni casi, partecipando in qualità di giudici, insegnandomi davvero tantissimo. Il mondo del corto, nel 1997, era quasi sconosciuto: allora vi erano pochissimi festival e, tra loro, c’era una bella coesione. Mi ricordo, ad esempio, il rapporto con il festival di Siena, con Arcipelago e con Capalbio, che erano quelli all’epoca più conosciuti, insieme a Cortinametraggio. Si tenevano quasi tutti d’estate. Si cercava, quindi, di non far coincidere le date e di darsi una mano a vicenda nella selezione dei corti. Era molto bello lavorare insieme e collaborare. Adesso non ho idea di quanti festival ci siano in Italia: credo oltre settecento, se non addirittura di più, e nascono e muoiono festival ogni giorno. Nascono perché tutti pensano che con i contributi si possano realizzare dei begli eventi ma, se non ci sono sponsor privati, è un disastro. Per questo molti di questi festival hanno durata

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breve. I contributi istituzionali, ormai, non esistono più o, se ci sono, sono molto pochi. Cortinametraggio, ad esempio, dalla Regione Veneto non riceve più alcun contributo, mentre dal Comune per fortuna l’aiuto c’è, ma ogni anno riceviamo sempre meno. Il Ministero dei Beni Culturali, invece, quest’anno ha creduto in noi ed ha raddoppiato il contributo rispetto agli anni precedenti. Questo vuol dire che hanno capito il valore della manifestazione e, per me, è davvero gratificante. Credo in questo mondo e credo, soprattutto, nella nascita di nuovi talenti che, spesso, iniziano proprio dal cortometraggio e da Cortinametraggio: a cominciare da Paolo Genovese, ma anche Luca Miniero, Max Croci, Massimo Cappelli, Cosimo Alemà. Sono tutti registi di grande calibro. Paolo Genovese ormai, è tra i numeri uno in Italia, così come Cosimo Alemà, per quanto riguarda i videoclip musicali. Tra l’altro, da quest’anno Alemà fa parte dello staff ufficiale di Cortinametraggio, in qualità di Direttore Artistico della sezione dedicata ai videoclip musicali: una novità importantissima di questa nuova edizione, perché il nostro festival è il primo in Italia a dedicare spazio ai registi dei videoclip musicali, al contrario di altre manifestazioni, che si concentrano solitamente sull’interprete. Si tratterà di un premio innovativo, che speriamo venga accolto in maniera positiva e che, certamente, attirerà un pubblico diverso e più giovane. Jean-Luc Godard ha definito il cortometraggio come l’anti-cinema, che forza i registi a provare il proprio valore. In un’epoca in cui tutto è sempre più immediato e veloce, quanto è importante questa forma filmica? Fare un cortometraggio è forse il modo migliore per imparare a fare cinema; è la vera scuola di cinema perché realizzare un corto, cioè una storia che emozioni e incuriosisca il pubblico, che crei suspense e, soprattutto, non faccia desiderare allo spettatore di arrivare velocemente alla fine, è difficilissimo. Specialmente perché bisogna saper trasmettere tutte queste emozioni in un tempo massimo di venti minuti. Cortinametraggio riceve, ogni anno, più di 500 corti, che visioniamo insieme a Vincenzo Scucimarra, il Direttore Artistico della sezione corti. Una volta effettuata la prima selezione, procediamo a scegliere i lavori che dovranno essere proiettati al festival (al massimo una ventina). Tuttavia, a volte tale scelta diventa difficile perché molti, attraverso il cortometraggio, tentano di fare cinema sperimentale, con il risultato che molte cose sono inguardabili. Al contrario, a me piace proprio il cortometraggio che suscita emozioni dall’inizio alla fine. Uno dei corti più importanti che ho avuto il piacere

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di selezionare, nel corso della mia carriera, è “Piccole cose di valore non quantificabile”, di Paolo Genovese, che vinse l’edizione 1999 di Cortinametraggio. Se avrete modo di guardarlo, capirete che cosa significa fare un corto: è un’opera che osserva tutte le regole per saper fare del buon cinema. Si può tranquillamente affermare, quindi, che Paolo Genovese sia cresciuto proprio grazie al cortometraggio. Per imparare è fondamentale farne tanti ed appoggiarsi ai registi più bravi e ad attori professionisti, che spesso danno il loro contributo e mettono a disposizione la loro esperienza, pur di aiutare giovani registi a crescere. Come si è evoluto CORTINAMETRAGGIO in questi anni? Nel corso degli anni, Cortinametraggio si è evoluto in maniera impressionante. Quando è nato, nel 1997, era un festival internazionale con opere inedite e, già allora, era davvero molto bello. Io sono cresciuta grazie a Maremetraggio, il festival che curavo a Trieste e che mi ha dato molta esperienza, insegnandomi come lavorare in questo mondo. Dal 2010 ho ripreso a curare Cortinametraggio; tuttavia, in quel momento ho ritenuto opportuno presentarlo esclusivamente come festival nazionale, perché volevo aiutare il cinema italiano e non i corti internazionali (che a volte, ahimè, sono superiori a quelli italiani). Da allora il festival si è evoluto in maniera costante, con l’aggiunta, ad ogni edizione, di nuove sezioni: ad esempio i book trailers, che sono durati fino allo scorso anno, o le web series, che continuano ad esserci anche quest’anno. Abbiamo sempre cercato qualcosa di innovativo e all’avanguardia: Cortinametraggio, ad esempio, è stato il primo festival in Italia ad occuparsi delle web series, una sezione trattata successivamente anche da altri festival e che, proprio perché ormai diventata molto popolare, stiamo un po’ abbandonando per favorire altre forme di corto. Quali novità ci riserva l’edizione 2017? La novità che lanciamo quest’anno è la sezione dei videoclip musicali. Sono convinta che sarà una sezione vincente. Ci sono videoclip meravigliosi, soprattutto tra quelli indipendenti. Faremo conoscere registi giovani ed emergenti ed anche gruppi musicali che non tutti hanno la possibilità di ascoltare, perché le loro produzioni non sempre passano per radio. È un mondo, per me, ancora in gran parte sconosciuto, però mi diverto a guardarlo perché è un mondo giovane ed io, da 54enne, mi ci tuffo e cerco di viverlo con le mie collaboratrici: un team di 5 persone (tutte tra i 25 ed i 30 anni) con cui è bello condividere le emozioni di un festival che

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cresce sempre di più. Tra le altre novità, stiamo organizzando alcuni eventi davvero speciali ed interessanti, di cui uno molto divertente con Gianni Ippoliti (questa è un’anteprima in esclusiva per CIAOPRAGA!), oltre che la presentazione di cortometraggi extra concorso, prodotti da Rai Cinema come per esempio il corto “Per Sempre” di Paolo Genovese che tratta un argomento molto attuale – l’affido dei minori – e sul palco, oltre ai protagonisti del cortometraggio, ci saranno i responsabili della Twin Set, la casa di moda che ha partecipato alla produzione. Inoltre questa edizione sarà davvero molto interessante, perché introdurremo anche delle tavole rotonde. In collaborazione con la Bayer ad esempio, organizzeremo incontri sulla “coltura e cultura” del cinema e, insieme all’azienda Bastianich (che offrirà vino per tutto il festival), cureremo “L’arte e il vino si incontrano”, presso la Galleria d’Arte Contini, dove verranno messi a confronto arte e buon vino! Cercheremo, inoltre, di organizzare delle Masterclass: stiamo decidendo chi saranno i registi che vorranno occuparsi delle lezioni; ci saranno infine, come ogni anno, delle gare di sci e porteremo i nostri ospiti a giocare a curling. Quindi ogni giorno ci saranno incontri a tema e, soprattutto, i nostri registi saranno ospiti del festival e avremo modo di conoscerli sul palco del cinema Eden, dove quotidianamente potranno confrontarsi con il pubblico. Cerchiamo, ad ogni edizione, di crescere sempre di più e di dare il massimo dell’ospitalità a questi ragazzi, facendo sì che il pubblico li possa apprezzare e conoscere meglio. La giuria del pubblico sarà di nuovo una parte essenziale del concorso: è, infatti, possibile scaricare direttamente dal sito web Cortinametraggio.it i moduli di adesione e gli accrediti stampa. La partecipazione al festival è importante per vedere e conoscere da vicino questi ragazzi, oltre che per trascorrere una piacevole settimana all’insegna dello sport, della cultura e del cinema. Esiste anche una settimana bianca organizzata dall’agenzia che segue il festival, “I viaggi di Roby”, con le convenzioni e gli accrediti inclusi per partecipare alla 12° edizione di Cortinametraggio. Le date, le ricordiamo, sono dal 20 al 26 marzo.

Per informazioni: http://www.cortinametraggio.it/

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Veduta di Cortina d’Ampezzo 77


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CINEMA

Il cinema ceco contemporaneo Breve panoramica dal 1989 al 2006

A cura di Emanuele Ruggiero

Il cinema ceco venne per la prima volta alla ribalta nel 1960, durante gli anni liberali antecedenti alla Primavera di Praga del ‘68, quando i cineasti si trovarono in una situazione unica: non c’era praticamente alcuna censura politica e tutta la produzione cinematografica era finanziata dallo Stato, in modo che i registi avessero libertĂ artistica quasi assoluta, senza essere sottoposti a pressioni commerciali.

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Jiri Menzel 79


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La maggior parte delle persone ricordano ancora oggi film come il vincitore dell’Oscar “Treni strettamente sorvegliati”, diretto da Jiří Menzel, ed “Al fuoco, pompieri!”, di Milos Forman. Dopo l’invasione sovietica del 1968 e la soppressione del regime liberale, tutti questi cineasti scomparirono dalla scena e, per i successivi vent’anni, l’industria del cinema ceco di proprietà dello Stato produsse film di propaganda politica a favore del governo, o di evasione, o favole per bambini. Dopo la caduta del comunismo, nel 1989, l’industria cinematografica ceca venne denazionalizzata in circostanze controverse e, negli anni successivi, molti registi si dedicarono a film commerciali e con un ampio richiamo popolare. I più grandi cineasti nati nel 1960 e censurati durante il regime sovietico, non riuscirono più a riacquistare importanza. La produzione ceca sembrava essersi esaurita ma, a partire dalla seconda metà degli anni 1990, una nuova generazione di registi trentenni iniziò ad apparire sulla scena. Nel complesso, la produzione filmica ha conosciuto un notevole risveglio: più di 400 lungometraggi sono stati realizzati nel corso degli ultimi 25 anni. Non tutti possono essere considerati di alta qualità ma almeno una cinquantina sopravvivranno come opere d’arte. Tuttavia, indipendentemente dalla qualità, l’intera produzione cinematografica può essere studiata in termini di cultura generale. Il cinema ceco contemporaneo è una fonte inesauribile di informazioni e miti sulla vita nel Paese e sulla sua società. Ma, citando James Monaco, “i film riflettono semplicemente la cultura nazionale esistente, o i registi hanno creato le proprie fantasie, che poi sono state gradualmente accettate come la cosa reale?”. È difficile dire fino a che punto questa mitologia rifletta la situazione reale; per farci un’idea più precisa, sarebbe necessario confrontarla con i vari studi sociologici condotti sulla vita nella Repubblica Ceca. I primi film, realizzati subito dopo la caduta del comunismo, tentarono di esorcizzare l’ansia di oppressione e di claustrofobia sentita dai cineasti e da tutti coloro che avevano vissuto sotto il regime totalitario. Paradossalmente, la nuova situazione sociale rese meno interessanti questi lavori: nel clima di diffuso ottimismo per la nuova democrazia, perché perdere tempo con l’antico regime e le sue ingiustizie? Non mancano, però, opere di grande rilievo che esaminano vari periodi traumatici della storia ceca. Davvero notevole, ad esempio, è Řád (l’Ordine, 1994), il primo lungometraggio del giovane regista Petr Hvižd, che morì poco dopo aver completato questo lavoro. Un’altra opera da menzionare è Poslední motýl (L’Ultima Farfalla),

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Milos Forman 81


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del 1990, diretto da Karel Kachyňa: si tratta di un omaggio all’arte, che è in grado di funzionare come consolazione nelle situazioni più disumane. Un certo numero di film post-comunisti vede anche i bambini come speranza per il futuro. I bambini in generale, così pieni di curiosità e libertà di pensiero, sono stati spesso utilizzati come metafora di apertura verso l’altro, in contrasto con la codardia e l’autoritaria ristrettezza mentale degli adulti corrotti. I grandi sono codardi, perché costretti a conformarsi quando vivevano sotto il sistema comunista ed autoritario, ma alcuni film successivi al 1989 hanno evidenziato una situazione, nel contesto democratico, ancora congelata e del tutto simile a quella presente durante il regime comunista. Tra i film realizzati nei primi anni 1990 va ricordato Království Za Kytaru (Il mio regno per chitarra, del 1989) in cui un adolescente, sostenuto da sua sorella, di dieci anni più grande, lavora molto duramente per acquistare una chitarra, in modo da poter continuare a suonare in un gruppo rock. Da menzionare anche Kolya, di Jan Sverák, vincitore nel 1997 dell’Oscar come miglior film straniero che narra, senza eccessi di sentimentalismo ma con molta ironia e tenerezza, l’incontro fra un musicista ceco ed un bambino russo, nella Praga del 1988, prima della “rivoluzione di velluto” e del crollo del comunismo: tra i due, dopo una iniziale diffidenza, nascerà un intenso legame che cambierà profondamente l’uomo, rendendolo più umano e consapevole. Dopo una prima fase di ottimismo il cinema ceco cominciò, tuttavia, a testimoniare le caratteristiche negative della nuova era. Nella prima metà degli anni 1990, furono realizzati film in cui personaggi benestanti disprezzavano apertamente l’uomo ordinario, senza un soldo: il ceco di classe inferiore. Molti film raffiguravano l’imprenditoria privata come un’associazione a delinquere, in una società in cui molti interpretavano l’arrivo delle nuove libertà orientate al mercato come una possibilità di approfittarsi dei propri concittadini. Gli elementi più rappresentati erano instabilità sociale, comportamento aggressivo e caos. In questo senso Městečko (La Cittadina, 2003) di Jan Kraus, è forse uno dei ritratti più deprimenti della situazione post-comunista. Il film mette a confronto la vita in una piccola città ceca durante il comunismo, quando la città era poco più di un feudo per alcuni funzionari comunisti, con il presente deludente. La cittadina è povera, come lo era prima della caduta del comunismo, ma i suoi abitanti sono consapevoli del fatto che la città non potrà mai sfuggire la privazione e nulla cambierà mai. Questo è il messaggio di diversi film cechi contemporanei. Mentre sotto l’oppressione comunista scrittori dissidenti, registi ed

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intellettuali avevano sempre sostenuto che un mondo diverso fosse possibile, i registi sono ora giunti alla conclusione terrificante che purtroppo nulla è cambiato. Non importa quanto insoddisfacente: questa è la nuova realtà. La vita che viviamo rimarrà così per sempre e non cambierà mai. Tale messaggio si ritrova in maniera prorompente nel film di Pavel Göbl e Roman Švejda, Ještě žiju s věšákem, plácačkou a čepicí” (Rail Yard Blues, 2006), che racconta la vita banale dei dipendenti di una stazione ferroviaria in una piccola città. Una tragicommedia che raffigura rapporti professionali e personali tra i dipendenti delle ferrovie, dove la combinazione di caricatura assurda e descrizione realistica della routine quotidiana rende il film una delle opere ceche più originali degli ultimi anni. Un altro motivo comune, nel cinema ceco contemporaneo, è il plebeismo. In Černí baroni (I baroni neri, 1992) di Zdenek Sirový, basato sulla vita nell’esercito comunista, il plebeismo è una salvezza, perché rompe l’opprimente ideologia stalinista. Il film implica che le ideologie vanno e vengono, mentre l’ordinario soldato ceco Svejik è immortale. I rapporti tra uomini e donne sono un ulteriore tema saliente del cinema ceco contemporaneo: tutti i film che si occupano di questo tema sono vere e proprie dichiarazioni in difesa delle donne, anche se ciò non sempre rispecchia l’intenzione iniziale dell’autore. Tali film mostrano che le donne, nella Repubblica Ceca, sono spesso soggiogate e gli uomini sono generalmente rappresentati in maniera poco lusinghiera. Non vi è, praticamente, alcuna figura che rappresenti il maschio come un eroe. Anzi, di gran lunga il motivo più frequente del cinema ceco contemporaneo è quello di uomini recalcitranti, antieroici, poco pratici e deboli, anche se con posizioni socialmente autorevoli. L’uomo ideale, fisicamente attraente, intelligente, sensibile e in grado di sfamare la propria famiglia, qui non esiste. Un esempio, tra le decine disponibili, è il popolare Pelíšky (1999), di Jan Hřebejk, in cui i padri delle famiglie protagoniste sono deboli, aggressivi, buffoni ed insensibili, e brutalmente impongono la propria ideologia su quelli attorno a loro. Uomini deboli e poco pratici, spesso inutilmente violenti. Un’ulteriore peculiarità del cinema ceco contemporaneo è la frequenza di scene in cui i bambini vengono sottoposti a punizioni fisiche dai genitori, anche per le infrazioni più banali. In Otesanek (2000), di Jan Švankmajer, un padre plebeo ed autorevole colpisce la figlia tredicenne ogni volta che, a tavola, lei fa un’osservazione intelligente. Inoltre, non è del tutto chiaro il motivo per cui donne giovani ed attraenti hanno rapporti con uomini attra-

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enti ma spesso di decenni più anziani; molti degli uomini sono dei falliti. Fino a quando le donne sono giovani ed hanno sex appeal, sono oggetto di interesse erotico ma, quando raggiungono l’età di mezzo, gli uomini le guardano con orrore: le donne di mezza età sono di solito rappresentate come polemiche, autoritarie ed aggressive. Gli uomini cercano il sesso, non una relazione. Più i maschi anti-eroi hanno incontri sessuali con varie donne, maggiore è la loro fiducia in se stessi. Le donne, d’altra parte, sono principalmente interessate a forgiare relazioni stabili e a malincuore tollerano il desiderio incessante degli uomini per il sesso. “Sai quante donne ho avuto?”, dice Gogo, il personaggio principale del film di Dušan Rapoš, Fontána pre Zuzanu 2 (Fontana per Susan 2, 1993). Zuzana risponde: “Ah, ma avete mai sperimentato l’amore?”. In generale, mettendo insieme tutti i film cechi realizzati a partire dal 1989, possiamo affermare come venga sempre rappresentata una profonda e coerente testimonianza dell’esistenza umana.

Emanuele Ruggiero è regista freelance, produttore, direttore della fotografia e giornalista. Ha lavorato nel mondo dello spettacolo per oltre 25 anni. http://www.kinovision.it/

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Il film Kolya, di Jan Sverák, vince l”oscar per il miglior film straniero (1997) 85


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CULTURA

La scuola italo-ceca di Praga

Un’educazione multiculturale per aprire la mente al mondo

A cura di Sabrina Perrucci

Repubblica Ceca ed Italia, Paesi distanti per storia, matrici culturali e persino aspetti geografici e meteorologici, condividono in realtà un terreno di scambio di natura culturale e sociale molto ricco. Questa particolare caratteristica si esprime bene nella città di Praga ed è una diretta conseguenza della combinazione di due fattori. Affinché si creino spazi di integrazione ampi è infatti necessaria, da un lato, una popolazione accogliente e disposta a rendere fertile il terreno della condivisione e, dall’altro, la capacità di un altro popolo di spostarsi nel mondo portando il meglio delle proprie origini pur scegliendo di integrarsi, nonostante le difficoltà, con umiltà ed intelligenza.

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Un esempio di integrazione è, senza dubbio, la scuola italo-ceca Základní škola Jiřího Gutha – Jarkovského. Nata nel 2015, con sede in Truhlářská 22, a Praga 1, è una scuola pubblica elementare e media inferiore, accreditata dal Ministero dell’Istruzione Ceco e riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca italiano. La scuola è stata realizzata anche grazie al sostegno dell’Ambasciata Italiana di Praga e del Ministero dell’Istruzione italiano. Dal settore privato, invece, giungono contributi annuali da parte delle Assicurazioni Generali. La scuola permette - ai bambini che la frequentano - di costruirsi un bagaglio culturale tale da proseguire i propri studi in entrambi i Paesi, grazie ad un ottimo livello di istruzione sia in italiano che in ceco. Ma non solo! Il “motto” di questo Istituto, infatti, è “due culture, tre lingue”. Quindi, c’è da domandarsi quale sia la terza. Ai ragazzi si insegna anche la lingua inglese, elemento essenziale per diventare, a pieno titolo, cittadini d’Europa e del Mondo. Il corpo docente della scuola attinge risorse sia in Repubblica Ceca che in Italia. Per gli indirizzi disciplinari, il programma prevede l’insegnamento della lingua e letteratura ceca ed italiana, oltre che della lingua inglese (con particolare attenzione al vocabolario scientifico e tecnico); trovano, inoltre, spazio materie come matematica, geografia, scienze, educazione fisica, informatica, educazione musicale ed educazione artistica. L’insegnamento avviene in ceco ed in italiano, sulla base del programma didattico ministeriale predisposto per i diversi livelli. Alcune materie vengono insegnate con il metodo CLIL (nato nel 1994) “Content and Language Integrated Learning”, sistema che prevede un approccio didattico di tipo “immersivo”, che punta alla costruzione di competenze linguistiche ed abilità comunicative in lingua straniera, insieme allo sviluppo ed all’acquisizione di conoscenze disciplinari. Ovviamente, la scuola organizza anche diverse attività extra scolastiche e sportive, così come gite ed escursioni. Chi frequenta questo Istituto proviene, in genere, da una famiglia “mista”, o da una famiglia di italiani espatriati per ragioni di lavoro; tuttavia, la scuola accoglie anche bambini con entrambi i genitori di nazionalità ceca, che la frequentano con l’obiettivo di ampliare il proprio orizzonte culturale. La “dolce lingua”, come qui a Praga viene definito l’italiano, non smette infatti di esercitare sui locali un fascino indiscusso, proprio come la nostra cucina e la nostra moda.

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Flavia Gramellini, 36 anni, si sente fiera di insegnare presso questo Istituto, dove si trova dal 2015. Intraprendente e coraggiosa, arriva da Forlì con un bagaglio culturale notevole ed è reduce da diverse esperienze di lavoro e studio all’estero, incluso uno stage a Lione ed uno a Providence, presso lo Stato di Rhode Island, negli Stati Uniti. “Un posto molto più freddo di Praga! – ci conferma – anche se devo dire che, al contrario delle esperienze passate, stavolta è stata Praga a trovare me. Vista la difficile situazione lavorativa, in Italia, nel marzo 2015 ho scelto di continuare la mia carriera all’estero, partecipando alla selezione indetta dalla scuola italo-ceca”. “Vincere quella selezione – prosegue – è stato come accettare una vera e propria sfida. Ho sempre lavorato per progetti multidisciplinari ed in team, così come accade in questo Istituto, pertanto da questo punto di vista mi sono trovata bene. Inoltre, ho studiato subito il ceco, per poter interagire in maniera fluida con amici e colleghi”. Flavia insegna con grande passione; qui, finalmente, ha la possibilità di seguire, anno dopo anno, i suoi alunni (senza subire le costanti interruzioni create dal precariato italiano) e vivere i progressi ed i traguardi da essi raggiunti, grazie anche alla sua dedizione ed al suo impegno. Esistono comunque diverse possibilità, alternative ad un percorso scolastico completo come quello descritto, per imparare ed approfondire lo studio della lingua e della cultura, sia italiana che ceca. Non mancano ad esempio, iniziative promosse da organizzazioni senza scopo di lucro che offrono corsi, eventi ed occasioni d’incontro e condivisione per bambini e adulti. Tra queste, l’Istituto Italiano di Cultura a Praga, l’Associazione Amici dell’Italia, il Comitato Dante Alighieri di Praga ed il Ministero italiano dell’Istruzione. In questo ambito, il sistema di istruzione della Repubblica Ceca mostra una maggiore lungimiranza rispetto a quello italiano, perché instrada i bambini al bilinguismo (o trilinguismo) in una fase della loro vita in cui sono in grado di apprendere con estrema naturalezza, aprendo così la loro mente al mondo esterno. Opportunità che, da adulti, si traduce in un elemento certo e solido per trovare con più facilità la propria strada.

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Sabrina Perrucci è un’esperta di pubbliche relazioni ed office management, con una grande passione per le lingue e le culture straniere. https://www.linkedin.com/in/sabrina-perrucci-40684a111

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CULTURA

Un popolo di “diversamente credenti” Lo strano rapporto dei cechi con la spiritualità

A cura di Andreas Pieralli

Finite le feste, mentre il polverone luccicante del Natale si posa lentamente sugli immancabili buoni propositi per l’anno nuovo, è tempo di riflessioni. Strano paese la Cechia: troppo civilizzato per confonderlo nella mischia dei levantini, ma nemmeno sviluppato abbastanza per annoverarlo a pieno titolo tra i ponentini. Insomma, un microcosmo tutto particolare sospeso tra Est ed Ovest, in una perenne crisi di identità che, al pari di un adolescente in ribellione contro i grandi, cerca di risolvere una volta affermandosi rispetto ai tedeschi, un’altra volta rispetto ai russi, nella tranquilla consapevolezza di giocare un gioco non pericoloso tra le frontiere sicure (per ora) Schengen e NATO.

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Non diversamente peculiare è il rapporto con la spiritualità. Come noto, i cechi passano per essere uno dei popoli più atei del mondo, primato di cui molti qui vanno fieri. Ma è davvero così? Se da una parte è vero che, soprattutto in Boemia, non è certo un problema trovare da sedersi a messa e che molti hanno storto il naso di fronte al recente accordo tra lo Stato e i vari culti religiosi per la restituzione di quanto loro maltolto in passato dal regime comunista, è anche vero che, se intendiamo la spiritualità in senso più lato, essa è molto presente. Per farsene un’idea è sufficiente entrare in una qualsiasi libreria maggiore (che fortunatamente non mancano in questo Paese di accaniti lettori) per trovare reparti appositi dedicati solo all’esoterismo, con scaffali interi zeppi di libri sui temi più disparati a partire dall’angiologia, il reiki, le tecniche di manipolazione energetica, l’occultismo, la magia nera, quella bianca, la stregoneria, la cartomanzia, la lettura del futuro, e così via. Ovviamente non mancano manuali accurati per mettersi in contatto con l’aldilà e per scoprire la verità che il sistema vi ha sempre nascosto sugli ufo e la vita extraterrestre, Atlantide e le altre civiltà scomparse, gli enigmi irrisolti, i templari, la vita dopo la morte, i complotti più assurdi e chi più ne ha più ne metta. Per non parlare dell’ultimo trend del cosiddetto channeling. Vittima come molti uomini di immagini del profilo accattivanti, sono finito sul profilo Facebook di una bella e giovane ragazza che, parlando con voce alterata e muovendo le dita, sostiene di fare da tramite con non meglio identificate entità superiori. Di spiritualità mi interesso da anni, parlo quindi con una certa nozione di causa. Quando nel 2014 arrivò a Praga la autoproclamatasi guida spirituale, nonché donna bellissima, Teal Swan, riempì lo Slovanský dům con oltre 700 persone, e il biglietto costava 100 dollari, non certo un prezzo alla portata di tutti. Similmente, qualche anno prima, Don Miguel Ruiz, celebre per il suo libro I quattro accordi, riuscì, complice anche il noto attore teatrale nonché anch’egli presunto guru Jaroslav Dušek, a fare il tutto esaurito al palacongressi di Vyšehrad, a occhio e croce direi quasi un migliaio di astanti. Questo bisogno di spiritualità in salsa fai-da-te alimenta un giro d’affari non indifferente che, oltre all’editoria, include una pletora di santoni, guaritori, sacerdotesse, cartomanti, veggenti e ciarlatani di ogni risma pronti a spennare chi, vuoi per creduloneria vuoi perché disperato per le cure fallite dei rimedi medici tradizionali ai dolori dell’anima o del corpo, si affida alle loro non meglio comprovate proprietà taumaturgiche sborsando fior fiore di corone per farsi riallineare i punti chakra con la sola imposizione delle mani o farsi dire dagli angeli custodi se lasciare o meno il proprio partner.

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Ma da dove nasce questa ritrosia verso l’ortodossia spirituale? Difficile dare una risposta univoca. Se lo chiedete ad un ceco, quasi certamente vi risponderà che è colpa del comunismo, che poi è la risposta universale ad ogni anche velata critica. È un dato storico innegabile, infatti, che i comunisti, pur non avendo mai proibito ufficialmente i culti religiosi, fecero di tutto per dissuadere le persone dal praticarli. Ho una cara amica cui fu impedito di studiare all’università perché proveniva da una famiglia molto devota. Di qui l’ostilità generalizzata dei cechi per qualsiasi forma di ideologia, inclusa quella religiosa. Un’insofferenza così forte da diventare, a volte, essa stessa una forma di ideologia al contrario, ma questo paradosso è un’altra storia. Ciò detto, però, credo che le radici di questo scetticismo siano più profonde e arrivino fino ai tempi della guerra dei trent’anni di cui le terre boeme furono uno dei focolai. Se i cugini polacchi, e in parte anche quelli slovacchi, hanno fatto della loro radicata cattolicità uno strumento identitario, politico e culturale, forte per resistere alle pressioni assimilative russo-ortodosse da una parte e tedesco-protestanti dall’altra, sembra che il fallito tentativo locale di una rivoluzione protestante abbia prodotto risultati diversi. Con la sconfitta della Montagna Bianca, l’8 novembre 1620, dove i seguaci del predicatore Jan Hus (un Savonarola boemo che, come il suo collega ferrarese, scelse le fiamme del rogo alla ritrattazione delle proprie tesi diversamente da, circa un secolo dopo, il più conciliante Lutero) si scontrarono con le forze della Lega cattolica di Ferdinando II, sfumò il sogno di un regno protestante libero da Roma e da Vienna. Allora ai boemi e moravi più progressisti, forse, non rimase altro che rifugiarsi in un non meglio specificato scetticismo ateisticizzante per difendere la propria identità nazionale dalla pesante opera di ricattolicizzazione commissionata ai gesuiti dagli Asburgo vittoriosi, che avrebbero dominato il paese fino alla fine della prima guerra mondiale. D’altra parte questo debole per l’esoterico fatto in casa, presenta anche i suoi vantaggi interessanti. Se siete credenti e praticanti, difficilmente vivrete la triste esperienza, così tipica dei paesi latini dove, per molti, la religione è soprattutto una convenzione sociale più o meno imposta, di trovare durante le feste comandate le chiese piene di gente annoiata, e spesso rumorosa, arrivata di malavoglia solo per far presenza. In assenza di questa convenzione sociale, che noi italiani conosciamo bene, qui di praticanti ne rimangono pochi, ma quei pochi di solito hanno una fede sincera e genuina e se vanno a messa, lo fanno per convinzione personale. Insomma, i cechi popolo davvero così ateo? Non direi. Semmai io li definirei come un popolo di “diversamente credenti”.

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Andreas Pieralli: nato nel 1977 da madre morava e padre toscano, dal 2005 vive a Praga dove lavora come traduttore, scrittore e pubblicista freelance. Si interessa di società, politica, economia e diritti umani. Commenta l’attualità italiana per la TV ceca e altre testate giornalistiche. Segue, tra gli altri, il progetto per un Giardino dei Giusti a Praga. http://www.andreaspieralli.eu/

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ITALIANI NEL MONDO

Maria Iacuzio

Presidente dell’Italian British Association

A cura di Stefania Del Monte

Maria Iacuzio è di Mercato San Severino, Campania. Laureata in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Salerno, si è trasferita in Inghilterra nel 1998. In seguito, si è occupata di ricerca economica, ha vissuto a New York nel 2004 ed ha lavorato come assistente Editor presso Il Sole 24Ore. Rientrata a Londra, ha studiato presso la Canterbury Christ Church University ottenendo il PGCE, l’abilitazione postlaurea all’insegnamento. Giornalista freelance, insegnante part-time e madre di due bambini, Maria non ha mai perso la voglia di promuovere e far conoscere meglio l’Italia. Questa forte passione l’ha portata a fondare, nel 2013, l’Italian British Association (IBA), un’associazione impegnata nella promozione della lingua, della cultura e dell’arte italiana.

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Foto: Milena Cull


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Perché ha deciso di trasferirsi in Inghilterra? Vinsi una borsa di studio post-laurea per l’Università di Reading, offerta dall’Università degli Studi di Salerno. Dopo due anni di ricerca sarei dovuta rientrare in Italia per tentare la prova di dottorato in Storia dei Partiti Politici, cattedra presso la quale collaboravo come assistente volontaria. Tuttavia, il piano originale mutò dopo aver conosciuto la disponibilità e “non arroganza” del mondo accademico inglese e dopo aver personalmente sperimentato la fluidità e meritocrazia lavorativa di questo paese. Giornalista e scrittrice, esperta di comunicazione e pubbliche relazioni, insegnante, rappresentante politica e mamma: un vero vulcano! Come riesce a conciliare tutti questi impegni? Ho sempre una “to do list” piuttosto lunga e spesso devo ritagliare e rimandare degli spazi che originariamente avevo dedicato a me. Devo darmi sempre delle priorità e provare ad eliminare le cose che non portano a nulla di costruttivo. In poche parole, per me il tempo è preziosissimo. Ho sempre avuto una visione utilitaristica del tempo, sin da ragazza. Anche nelle mie relazioni sociali mi piace avere incontri per parlare di idee o in funzione di qualche progetto comune, da organizzare per il futuro. Nel 2013 ha dato vita, insieme ad un gruppo di donne italiane, all’Italian British Association. Com’è nata questa idea? Ci siamo accorte che portavamo avanti già vari progetti, in particolare per i bambini, provando a creare occasioni per la promozione e la pratica del bilinguismo. Avevamo voglia di dare una maggiore forza e visibilità anche a progetti per le donne, oltre all’orgoglio di ben rappresentare il nostro paese in Inghilterra. Qual è l’aspetto più gratificante del progetto IBA? La possibilità di interagire e conoscere tante persone stupende accomunate dall’amore per l’Italia. Siamo seguite, infatti, sia da tanti entusiasti cittadini britannici, sia da italiani che cercano la possibilità di confrontarsi ed interagire con altri connazionali. Siamo conosciute dalle istituzioni locali, che apprezzano moltissimo il nostro lavoro volontario. Abbiamo creato un ponte tra le due culture e promuoviamo l’integrazione e l’immagine dell’Italia in quelle sedi. L’IBA, negli ultimi tre anni, si è occupata di numerosi progetti a promozione dell’immagine dell’Italia, spaziando dalla promozione dell’arte italiana, alla tradizione, alla lingua, alla socializzazione attraverso i nostri aperitivi e notti di gala, agli interscambi, alla promozione della letteratura italia-

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Il British Museum di Londra 101


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na, ai problemi degli italiani all’estero, offrendo consulenza e informazione anche su tematiche come harassment sul lavoro e a casa, a protezione dei nostri connazionali. E quello più frustrante? L’assenza di risorse, sia economiche che umane, per portare avanti iniziative di qualità con una frequenza maggiore. Nell’ultimo anno abbiamo infatti diminuito il numero di iniziative a causa dei problemi di salute di alcuni membri dello staff direttivo. A partire dal 2014 è stata eletta Vice Presidente dei Comites. Vuole raccontarci alcune sue impressioni su questi enti per gli italiani all’estero? Sarebbe auspicabile, dal mio punto di vista, un rinnovamento sia del Comites (Comitato degli italiani residenti all’estero), che ha funzioni meramente consultive, sia del CGIE (Consiglio Generale degli italiani all’estero). Sono enti che per molti versi si presentano farraginosi nell’era digitale; in particolare il meccanismo di funzionamento del CGIE, lo rende lento e lontano da una rapida risposta ai problemi reali degli italiani all’estero. Ritiene che l’attività da lei svolta in questo ambito abbia fatto una differenza per la comunità italiana in UK? Spero di sì. Ho partecipato ad una serie di iniziative specifiche per gli italiani all’estero, come ad esempio: l’organizzazione di eventi informativi per i pensionati italiani a Surbiton e Kingston in materia di IMU (Imposta Municipale Unica), nel maggio 2016; gli incontri informativi sull’avvio di richieste pensionistiche e di esenzione o riduzione del canone Rai per gli italiani all’estero, anche tramite social media; la presentazione di importanti mozioni, insieme a Luigi Reale e Mariapia Tropepe, come la richiesta di aumento di personale al consolato di Londra che, dopo Buenos Aires, è quello che segue il maggior numero di italiani all’estero. Qual è l’atmosfera che si respira, dopo la decisione a favore del Brexit? Delusione ed incertezza per il futuro. Purtroppo ci sono tutti i segnali di uno spostamento a destra del mondo politico ma il Regno Unito, in particolare, che è stato sempre identificato con la tolleranza e l’accettazione delle diversità, ha sorpreso con il risultato referendario. I nostri connazionali e i cittadini europei residenti in UK sono molto preoccupati per il futuro, non esistono certezze su cosa e come cambierà per noi. Per la prima volta, anche se residenti di lungo termine in questo Paese, ci sentiamo stranieri.

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Il Palazzo dei Lloyds nella City di Londra 103


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Attualmente, a quali progetti sta lavorando? Sto preparando una mostra intitolata “Italian Pows in England and a story of friendship”, che verrà allestita a partire dal 9 marzo, e resterà per un mese, presso il Museo di Kingston-Upon-Thames. Mi sto anche interessando di conservazione e salvaguardia di documenti storici: un’attività alla quale sono giunta in maniera casuale, ma che mi sta appassionando sempre di più, L’estate scorsa, infatti, l’IBA ha ricevuto in donazione un carteggio epistolare fra 3 militari italiani (soldati detenuti nel campo di prigionia di Hodnet, in Shropshire) e Ronald Harris, rappresentante degli NCC (Non Combatant Corps), responsabile del campo. Una storia d’amicizia molto bella, che continua quando i tre soldati rientrano in patria. Le lettere descrivono alcuni momenti difficili della vita nel campo, oltre alle difficoltà economiche incontrate dopo il rientro in patria. Sono molto orgogliosa che, grazie all’IBA, questo carteggio storico sia rientrato in Inghilterra dalla Danimarca, dove il figlio del signor Harris risiede. È importantissimo evitare la dispersione di materiale storico. Infatti, dopo la mostra, la documentazione verrà da noi depositata presso uno degli archivi di guerra inglesi.

Per informazioni sulle attività dell’Italian British Association: http://www.ibassociation.co.uk/ Email: italianbritishassociationw@gmail.com Tel: 0044 (0) 78954346661

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Lo Shard disegnato da Renzo Piano, a London Bridge 105


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LIFESTYLE

Massimo Pascotto

A Praga da 25 anni, per realizzare un sogno

A cura di Stefania Del Monte

Quella di Massimo Pascotto, originario di Napoli, è la storia di un sogno divenuto realtà. Giunto a Praga 25 anni fa, qui la sua vita cambia radicalmente. “Ero partito per una breve vacanza – ci racconta – ma la sera prima di rientrare in Italia ho conosciuto Radka, la donna che è poi divenuta mia moglie e la madre di mia figlia: è stato un vero e proprio colpo di fulmine!”. Ed aggiunge, ridendo: “Ho iniziato a rimandare il rientro prima di giorni, poi di settimane e, a forza di rimandare, ormai sono qui da 25 anni!>>. Insieme, i due si lanciano in una serie di avventure. Innanzitutto fondano

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Italoptic, un’azienda le cui radici risalgono, in realtà, al 1920, quando Giuseppe, il nonno di Massimo, decise di aprire in Italia il primo centro “Ottica Pascotto”. Oggi Italoptic è impegnata nella distribuzione all’ingrosso di montature da vista ed occhiali da sole in Cechia, Slovacchia, Spagna e Italia ed importa marchi quali Exess, No Logo ed Emporio Sport, rappresentando l’eccellenza per le montature da vista e da sole, in plastica e metallo. “Dei miei primi anni a Praga – afferma Massimo – ho un ricordo bellissimo. L’atmosfera era diversa, si poteva uscire tranquillamente e godersi la città senza ritrovarsi circondati da orde di turisti. In particolare ricordo il nostro matrimonio, celebrato al Municipio di Praga, e la bellezza mozzafiato della piazza dell’Orologio, in quel freddissimo 15 gennaio: ogni tanto, per rivivere quei ricordi, torno lì a fare una passeggiata”. Nel corso degli anni il suo fiuto imprenditoriale lo ha spinto a diversificare gli affari di famiglia, includendo – anche in ambito internazionale – attività di ristorazione, abbigliamento e, a partire dal 2013, Il Delicato, un centro enogastronomico situato nella centralissima Náměstí Republiky a Praga, che si distingue per la selezione e la qualità dei suoi prodotti. “Abbiamo deciso di intraprendere una strada nuova – precisa – per due motivi principali. Innanzitutto, pur essendo ancora fiorente, il mondo dell’ottica è inevitabilmente destinato a trasformarsi. Oggi, infatti, sempre più persone optano per interventi laser che diventano, ogni giorno, più affidabili ed economicamente accessibili. Di conseguenza, in futuro, gli ottici avranno sempre meno ragione di esistere. Il secondo motivo, invece, è puramente personale. Pur essendo nato e cresciuto nel mondo dell’ottica, infatti, la mia passione è sempre stata l’enogastronomia e, da anni, sognavo di avere un negozio tutto mio. Per fortuna anche Radka condivide questa passione e, insieme, tre anni fa abbiamo dato vita a questo bellissimo sogno”. “È un’esperienza davvero molto gratificante – rivela – ma richiede anche tantissimo impegno. Anche se, in Cechia, l’Italia ed i prodotti italiani sono molto amati, qui oramai si trova di tutto, quindi la differenza la fa la qualità: per questo il nostro obiettivo è di offrire i migliori prodotti reperibili sul mercato”. “Qui a Praga – aggiunge – è tutto molto più facile che in Italia: se si possiede spirito d’iniziativa e una certa preparazione di base, il sistema ceco ti

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permette di realizzarti. Se poi, come me, hai la fortuna di avere accanto una persona madrelingua ceca, che ti aiuta a risolvere tutti i problemi burocratici o logistici, allora è il massimo. Da solo sarebbe stato sicuramente tutto più complicato, perché qui le persone possono essere un po’ diffidenti nei confronti degli stranieri”. In questi anni – prosegue – a volte mi è successo di provare un po’ di nostalgia per l’Italia e, qualche anno fa, abbiamo anche tentato di aprire lì un’attività ma, purtroppo, è stata un’esperienza molto breve: dopo qualche tempo siamo stati costretti a chiudere, a causa delle spese proibitive”. “Mi sarebbe piaciuto molto tornare a vivere in Italia – conclude – ma qui la vita è più semplice. Chissà… forse un giorno, quando ci ritireremo in pensione, potremo goderci il mare e l’estate in Italia e, a Praga, i suoi bellissimi inverni. Ma questa, oramai, è la mia casa e quella della mia famiglia”.

Per informazioni: http://www.ildelicato.cz/ http://www.italoptic.cz/

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DESIGN

Da Thonet a Ton Il design si piega, ma non si spezza!

A cura di Ilaria Pacini

Non è possibile essere un appassionato di design e non conoscere la storia di Michael Thonet: nato alla fine del 1700 in Germania, dobbiamo a questo artigiano del legno l’antico processo che ha portato alla produzione di arredi in legno curvato. Prima di Thonet, per ottenere forme arrotondate, venivano accostati e levigati vari pezzi di legno o venivano sovrapposte lamine di legno che, nel tempo, tendevano a scollarsi. Un risultato non entusiasmante, insomma, né dal punto di vista estetico, né da quello strutturale. L’ambizioso ebanista rincorse il suo obiettivo con metodo e costanza, finché capì quale fosse la direzione da seguire: notò che listelli di legno umidi modellati e bloccati attraverso dei morsetti, se lasciati vicino ad una fonte di calore, mantenevano la forma.

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Questo risultato fu l’inizio di un nuovo succedersi di esperimenti, che portarono al perfezionamento del metodo: il vapore venne sostituito all’acqua e un apposito forno al camino usato per i primi esperimenti. Di lì a poco, conscio della portata dei risultati ottenuti, Thonet chiese ed ottenne il brevetto al Regio Ufficio Austriaco dei Brevetti d’Invenzione. Nel 1841 lo ottenne anche per la Francia, l’Inghilterra e il Belgio. Da quel momento in poi, Thonet non smise mai di lavorare: disegni, prototipi e modelli si succedevano senza sosta e non tardarono ad arrivare le prime importanti commissioni. La consacrazione, tuttavia, arrivò in occasione dell’Esposizione Universale del 1851 a Londra (quella del Crystal Palace) dove fu insignito della medaglia di bronzo per “innovazione, originalità ed eleganza delle forme”. Un titolo questo, che nessuno fino ad oggi è riuscito a strappargli. Vi chiederete, a questo punto, qual è il tassello che collega l’opera di Thonet alla Repubblica Ceca. Nel 1853, Thonet trasferì la proprietà dell’azienda ai suoi cinque figli e, insieme a loro, iniziò a studiare come rendere industriale la produzione degli arredi. Per far fronte alle esigenze di una sempre maggiore richiesta, questo lungimirante artista decise di aprire la sua fabbrica proprio qui in Cechia – precisamente a Bystřice pod Hostýnem – nel lontano 1861. Se nel 1859 il catalogo contava di soli 25 pezzi, nel 1873 diventeranno 110 e nel 1911 circa 1400. Oltre a sedie e sgabelli, venivano prodotti: appendiabiti, leggii, arredi per bambini, sedie da barbiere e persino racchette da tennis. Oggi, questa antica fabbrica è ancora attiva e, dopo svariate vicissitudini legate a passaggi di proprietà e diritti legati al marchio Thonet, dal 1953 produce gli arredi a marchio TON. L’antica lavorazione del legno segue ancora i dettami del fondatore e, nonostante alcune fasi produttive siano state delegate a macchinari moderni, altri fondamentali passaggi non possono che essere svolti da artigiani specializzati. È questo il segreto del successo di Ton: anche se le forme vengono reinterpretate attraverso nuove collezioni, la qualità del prodotto e l’artigianalità del metodo rimangono inalterati nel tempo. E qui in Repubblica Ceca si produce ancora senza sosta la famosa Sedia n°14, con lo schienale arrotondato e le gambe scampanate: si calcola che, fino ad oggi, sono oltre 80 milioni i pezzi venduti. Ma cosa è che rende speciale ed unico ogni arredo della Ton, a prescindere dallo specifico modello? Sicuramente la materia prima, il legno, che come qualsiasi materiale naturale rende ogni arredo un pezzo unico. A queste qualità intrinseche bisogna aggiungere che la qualità delle venature, la texture

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apprezzabile negli arredi Ton, è dovuta anche alle caratteristiche climatiche della Repubblica Ceca: l’albero, infatti, smette di crescere durante l’inverno per ricominciare nuovamente in primavera e, questa netta pausa temporale, fa sì che gli anelli concentrici siano fortemente riconoscibili. Insomma, dalla “paglia di Vienna”, alla pelle, fino ai più moderni modelli, che integrano l’uso dell’imbottito agli arredi della Ton, il legno e il trattamento a cui questo viene sottoposto rimangono sempre e comunque i segni distintivi di ogni collezione. Ogni anno, questa eccellenza “Made in CZ” presenta al Salone del mobile di Milano le sue nuove proposte e più di una volta l’azienda ha scelto di collaborare con designer italiani. Ad Eugenia Minerva si deve Petalo, l’omino appendiabiti prodotto nel 2011, che riprende il design della storica Sedia 14 piegandolo a tutt’altra funzione: il risultato ricorda proprio il petalo di un tulipano. Grazie al lavoro della Minerva, nel 2011, l’azienda ceca si aggiudica una menzione d’onore al prestigioso Red Dot Design Award. Allo studio E-gg di Firenze, si deve invece l’ultima collezione, “Leaf”, che comprende sedute, tavoli, sgabelli e poggiapiedi. La caratteristica principale dell’intera collezione è la leggerezza sia estetica che materiale di tutti gli arredi. Nonostante la struttura in legno massello curvato, i designer sono riusciti a realizzare dei modelli di grande eleganza nei quali si può apprezzare come non mai la capacità dell’azienda di piegare il legno come se fosse un materiale plastico. Non sarà difficile riconoscere gli arredi illustrati nelle immagini, a corredo di questo articolo, negli alberghi, ristoranti e caffè di Praga, ed è veramente sorprendente notare come, negli spazi conviviali, gli interior designer trovino in Ton un alleato stilistico puntuale. Poiché il significato ultimo della tanto abusata parola “design” è stretto a doppio nodo con quello della parola “funzionalità”, vi invitiamo ad approfittare di questa lista di locali e bar che hanno scelto il design di Ton: un percorso estetico-godereccio che, siamo sicuri, riuscirà a soddisfare tanto i design-addicted quanto i loro accompagnatori svogliati.

Ilaria Pacini è laureata in storia dell’arte e specializzata in brand communication. Oltre all’arte in ogni sua forma è un’appassionata di design e musica. Insieme al marito gestisce un’etichetta di musica elettronica. www.bncexpress.com

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Trovate gli arredi Ton a Praga a: Nespresso boutique – Poltroncina loung modelloMoritz Pařížská 1068/10, 110 00 Praha 1-Staré Město Vodafone Red Cafe II, Prague – Sedute modello Simple Nám. Junkových 2, 155 00 Praha 13 Yami Sushi - Sedute modello Bergamo Masná 1051/3, 110 00 Praha-Staré Město Moje Cukrarstvi – sedute modello n°14 Na Poříčí 1067/25, 110 00 Praha 1-Nové Město Cafe Záhorský | “Interior of the Year” nel 2015 - sedute e sgabelli modello Punton, Eliášova 279/1, 160 00 Praha 6 Perfect Canteen AVIATICA – sedute e sgabelli modello Merano U Trezorky 921/2 Jinonice 158 00, 150 00 Praha 5 Phill´s Twenty7 bistro – sedute modello Ironica Přístavní 339/27, 170 00 Praha 7 Čestr restaurant - sedute modello 30 Legerova 75/57, 110 00 Praha 1 U Bílé Kuželky – sedute modello Dejavu 054 Míšeňská 66/12, 118 00 Praha 1-Malá Strana Crompy – sgabelli modello Rioja 369 Bělehradská 568/92, 120 00 Praha 2

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ARCHITETTURA

Jan Kaplický in mostra alla casa danzante Praga ricorda l’iconico architetto ceco

L’esibizione, inaugurata a novembre e aperta fino al 12 marzo, si svolge in occasione dell’80° anniversario dalla nascita del distinto e visionario architetto ceco Jan Kaplický (1937-2009). La retrospettiva è caratterizzata dai suoi migliori lavori, oltre che da alcune opere mai esibite in precedenza, ed è divisa in tre parti tematiche. La prima mostra opere iconiche di Kaplický, o suoi progetti come ad esempio il modello della Biblioteca nazionale ceca, anche conosciuto come Blob, o come Octopus. La seconda parte sposta l’attenzione sui suoi genitori – entrambi artisti importanti – e serve a scoprire meglio chi e che cosa ha ispirato Kaplický.

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L’ultima parte si concentra, infine, sul processo creativo dell’architetto e presenta momenti visionari del lavoro di Kaplický. Le esposizioni comprendono i concetti di veicoli futuristici, tra i quali delle astronavi. La parte più attesa della mostra nella Casa Danzante è, però, quella relativa alle opere ancora non esibite: progetti e concetti presi in prestito dalla Fondazione Kaplický. La mostra è curata dall’architetto Eva Jiřičná, in collaborazione con lo studio di AI-DESIGN e la Fondazione Kaplický, e si svolge sotto gli auspici del Sindaco della Città di Praga, Adriana Krnáčová. Considerato uno dei maggiori rappresentanti dell’architettura radicale neofuturista, Jan Kaplický era figlio di uno scultore e illustratore botanico ed ha trascorso la sua carriera creando forme altamente scultoree ed organiche. Lavorando con partner quali Amanda Levete, Kaplický è stato catapultato alla fama dopo aver realizzato, nel 1999, una delle sue opere più sensazionali: il Lord Cricket Ground Media Center, ed è diventato un’icona dell’architettura d’avanguardia. Dopo aver studiato al College di Arti Applicate, Architettura e Design di Praga, ed aver iniziato la sua carriera in Cecoslovacchia, Kaplický fuggì a Londra sulla scia dell’invasione sovietica del Paese (avvenuta nel 1968) e, ben presto, si trovò a lavorare al progetto per il Centro Georges Pompidou di Parigi, sotto la guida sapiente di Richard Rogers e Renzo Piano. Nel 1979 fondò la sua compagnia, Future Systems, dedicandosi alla produzione di disegni complessi e bizzarri. Nel primo decennio di esistenza di Future Systems questi piani fantastici non attrassero commissioni per la realizzazione di edifici ma, a partire dagli anni Novanta, i suoi progetti registrarono un’attenzione sempre crescente. Al contrario di altri professionisti di alta tecnologia e architettura futuristica, accusati di moderare il loro radicalismo diventando sempre più commerciali, Kaplický ha catturato l’attenzione dei media realizzando una serie di edifici stravaganti o apparentemente impraticabili, come ad esempio la Casa Museo Enzo Ferrari di Modena. Purtroppo, la sua proposta per la Biblioteca nazionale ceca, nel 2007 (il primo grande progetto nel suo Paese) fu percepito come un passo troppo lungo, incontrando una forte opposizione della classe pubblica e politica, e l’artista morì senza vederlo commissionato. Per informazioni sull’esibizione: http://www.galerietancicidum.cz/

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CIAOPRAGA L’edificio di Selfridges, a Birmingham

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BIGHELLONANDO FUORI PRAGA

Pilsen

La città della birra, ma non solo

A cura di Marco Ciabatti

Pilsen (Plzeň in ceco), quarta città della Repubblica Ceca per numero di abitanti, per molti è unicamente sinonimo di birra. In particolare della famosissima birra Pilsner Urquell, nata proprio in questa cittadina, nel lontano 1842, grazie alla geniale intuizione di un mastro birraio bavarese di nome Josef Groll e oggi celebrata, in tutto il mondo, come capostipite delle birre a bassa fermentazione della numerosissima famiglia “Pils”, caratterizzate dal loro colore giallo paglierino, dal sapore amarognolo particolarmente fresco e da una bassa gradazione alcolica. Nessun tipo di birra, però, può essere prodotta senza un componente fondamentale: l’acqua. E, non a caso, “acqua” è proprio la seconda parola che mi viene in mente quando si parla di Pilsen; pochi sanno, infatti, che la città si trova alla confluenza di ben quattro fiumi: Úhlava, Úslava, Radbůza e Mže, che proprio qui, con grande fragore, si uniscono a formare il fiume Berounka, principale affluente della Moldava. Ma anche l’acqua dei numerosi laghi grandi e piccoli che circondano la città e, ultima ma non per importanza, l’acqua estratta dalle faglie che si trovano in profondità nel sottosuolo, quella che per la sua caratteristica purezza e la sua pressoché totale assenza di calcare viene utilizzata, da secoli, nella produzione della birra.

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CIAOPRAGA La torre della Cattedrale di San Bartolomeo e la fontana dell’Angelo, una delle tre fontane contemporanee il cui disegno semi-astratto evoca le parti principali dello stemma della cittĂ

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Proprio a questa incredibile abbondanza d’acqua (unita alla posizione strategica della zona, posta a metà strada tra Praga e la Baviera), si deve la fondazione vera e propria della città di Pilsen, avvenuta nel 1295 per volere del sovrano Venceslao II, anche se le prime testimonianze scritte di un insediamento preesistente si hanno già a partire dal 976 d.C. La storia di Pilsen è in gran parte contenuta all’interno del suo stemma, ovvero uno scudo sostenuto da un grande angelo e diviso in quattro settori di diverso colore, con al centro un altro piccolo scudo all’interno del quale sono disegnate delle mura. Ognuno dei quattro settori colorati racchiude uno dei simboli della città: le due chiavi incrociate su fondo argento (o bianco) e il soldato con l’aquila su fondo dorato (o giallo) furono concessi alla città da Papa Paolo II, nel 1466, quale riconoscimento per la fedeltà che i cittadini di Pilsen avevano dimostrato alla chiesa di Roma durante le sanguinose guerre Hussite, nelle quali Pilsen si era schierata dalla parte dei cattolici Il terzo simbolo, un cammello su fondo verde, è forse quello più curioso di tutti (vista l’area geografica nella quale ci troviamo): secondo testimonianze storiche che si fondono con la leggenda questo animale, mentre la città era sotto attacco, venne sottratto dagli abitanti di Pilsen agli Hussiti, che a loro volta lo avevano rubato ai polacchi. Come un cammello fosse arrivato nell’odierna Polonia non si sa per certo… si può solo ipotizzare che sia stato condotto fin lì al seguito delle crociate indette dal Papa contro la Boemia. Infine, anche il levriero argentato su fondo rosso è un simbolo di fedeltà della città, questa volta non al Papa, ma al Re di Boemia, sempre nel corso delle guerre Hussite. Le mura al centro dello stemma furono introdotte dagli stessi cittadini di Pilsen a partire dalla seconda metà del XV secolo: la porta della città aperta è un simbolo di accoglienza e, accanto ad essa, si trova Venceslao II, il fondatore della città. Sopra le mura c’è una giovane donna con due bandiere, una delle quali ornata dal leone, simbolo della Boemia, e l’altra dall’aquila di San Venceslao. Infine, il grande angelo che regge lo scudo fu aggiunto solamente nel 1578 per volere di Papa Gregorio XIII, circa vent’anni prima che la città divenisse per soli nove mesi capitale del Sacro Romano Impero: l’imperatore Rodolfo II, infatti, era dovuto fuggire temporaneamente da Praga, a seguito di un’epidemia di peste. Oggi i tre più importanti simboli della città, ovvero l’angelo, il cane ed il cammello, sono rappresentati da altrettante fontane stilizzate, che si trovano su tre dei vertici di Náměstí Republiky (Piazza della Repubblica), la principale piazza

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La fabbrica della birra Pilsner Urquell, a Pilsen

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del centro cittadino, dominata al centro dalla splendida cattedrale gotica di San Bartolomeo, che risale al 1292 e vanta il campanile più alto di tutta la Repubblica Ceca (102 metri). Una curiosità legata all’Italia: nel 1683 l’imperatore Leopoldo I fondò a Pilsen un esercito, che si chiamava: “35° Reggimento di Fanteria” e che, a partire dal 1923, prese il nome di “Foligno”, in onore dei combattenti che, proprio a Foligno, nel corso della prima guerra mondiale, erano accorsi in aiuto dei soldati italiani. Oggi Pilsen, oltre che per il suo birrificio storico, è famosa anche per la sua Sinagoga (che è la seconda più grande d’Europa, dopo quella di Budapest, e la terza più grande al mondo), per il suo magnifico municipio in stile rinascimentale, con la facciata riccamente decorata, realizzato nella metà del XV secolo dall’Arch. Giovanni Statia di Lugano, per la già citata cattedrale di San Bartolomeo, per il suo teatro e per la fabbrica della Škoda, che proprio a Pilsen venne fondata come semplice fonderia, nel 1859, dal conte Valdštejn e poi acquistata dall’ingegnere Emil Škoda, che la fece divenire in breve tempo la più grande e importante industria di tutto l’Impero austro-ungarico. I personaggi più famosi a livello internazionale, legati a Pilsen, sono il compositore Bedrich Smetana (che in questa città ha frequentato il conservatorio), i calciatori Pavel Nedvěd e Petr Čech ed il cantante di musica popolare Karel Gott. Particolarmente cari ai cechi sono, poi, Josef Skupa (artista delle marionette) e Jiří Trnka (illustratore, scrittore e produttore, uno dei fondatori del cinema d’animazione ceco).

Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. http://www.bighellonando.eu

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CIAOPRAGA La sinagoga

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EVENTI

Jan Palach Il 19 gennaio si ricorda l’eroe della resistenza anti-sovietica

A cura di Andrea Rampini

Di antichi fasti la piazza vestita grigia guardava la nuova sua vita, come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga, ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita quando la fiamma violenta ed atroce spezzò gridando ogni suono di voce. (Francesco Guccini, La Primavera di Praga)

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Il 19 gennaio si commemora l’anniversario della morte di Jan Palach, patriota cecoslovacco divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica. Prima del 16 gennaio 1969, la vita di Palach non era molto diversa da quella di molti suoi coetanei. Nacque nel 1948 e crebbe a Všetaty, nel distretto di Mělník, una cittadina a circa cinquanta chilometri da Praga. Nel 1962 il padre Josef morì d’infarto. Il fratello maggiore Jiří viveva ormai lontano da casa, perciò la madre si ritrovò da sola con Jan, appena adolescente. Dopo la maturità, il ragazzo avrebbe voluto studiare Storia alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Carolina. Tuttavia, pur avendo superato gli esami, non fu ammesso a causa dell’elevato numero di candidati. Si iscrisse, quindi, al corso di laurea in Economia Agraria, alla Vysoká škola ekonomická di Praga. Nonostante non fosse il campo di studi che aveva sempre sognato, in due anni riuscì a sostenere sedici esami e fu molto attivo nella vita studentesca. In quel periodo Jan visse la Primavera di Praga, che rappresentò un punto di svolta nella sua vita. È vero che già prima si interessava di politica ma, nel 1968, il suo interesse crebbe ulteriormente. Nell’ottobre 1968 iniziò a frequentare la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Carolina di Praga. Dalle fonti emerge che il giovane Palach da tempo pensava ad un atto radicale che servisse ad incitare l’opinione pubblica alla resistenza, prendendo in considerazione diverse forme di protesta come, ad esempio, l’idea di occupare la sede centrale della Radio Cecoslovacca per trasmettere un appello alla proclamazione dello sciopero generale. Nulla, però, faceva presagire ciò che accadde nella giornata del 16 gennaio 1969. Alla scioccante protesta messa in atto da Palach furono presenti numerosi testimoni, le cui deposizioni sono state conservate nel dossier d’inchiesta della Sicurezza Pubblica e consentono la dettagliata ricostruzione dei fatti. Il giovane si tolse il cappotto vicino al parapetto della fontana di Piazza Venceslao ed estrasse, dalla sua cartella, una bottiglia con l’etichetta “etere”. La aprì con un coltello, la portò al viso ed inspirò. Alla fontana si cosparse di benzina e si dette fuoco. Saltò il parapetto e poi corse tra le auto parcheggiate in direzione del monumento di San Venceslao. In seguito fu lievemente ferito da un tram in corsa. Probabilmente per questo motivo svoltò verso il negozio di alimentari “Dům potravin”, vicino al quale cadde sulla carreggiata e fu soccorso da alcuni passanti, che spensero le fiamme con i loro cappotti. Su richiesta di Palach, i soccorritori aprirono la cartella che aveva abbandonato vicino alla fontana e lessero uno lettera, in cui erano spiegate le motivazioni del gesto.

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Ricoverato in ospedale, la sua agonia durò tre giorni, durante i quali Palach rimase lucido. Ai medici disse d’aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam, rimarcando che l’intento del suo gesto era risvegliare la coscienza pubblica. Nei giorni successivi sia i media cecoslovacchi che quelli esteri furono invasi da centinaia di notizie, reportage e commenti sul clamoroso gesto. La popolazione, scioccata e scossa da quella protesta radicale, reagì con una serie di azioni a sostegno delle rivendicazioni di Palach, tra le quali uno sciopero della fame intrapreso da un gruppo di giovani ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Il giovane si spense il 19 gennaio 1969. Il giorno dopo si svolse, a Praga, una processione commemorativa, alla quale parteciparono alcune decine di migliaia di persone. Simili processioni ebbero luogo in molte altre città della Cecoslovacchia ed al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600 000 persone, provenienti da tutto il Paese. Tuttavia, nessuna delle cariche realmente importanti dello Stato e del partito fu presente. Grazie al suo gesto estremo Palach divenne, per gli antisovietici, un eroe ed un martire; in molte nazioni gli furono intitolate strade. Dopo il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la sua figura fu rivalutata. Nel 1989 gli venne dedicata la piazza nel centro di Praga, fino ad allora dedicata all’Armata Rossa e, nel 1990, il presidente Václav Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio, in nome della libertà. Il monumento si trova a pochi metri dalla fontana, davanti all’edificio del Museo Nazionale, in piazza San Venceslao ed ogni anno, il 19 gennaio, in occasione dell’anniversario della morte di Palach, vi vengono deposti fiori ed accese candele in memoria del suo sacrificio e di tutte le vittime del comunismo. Fonti: vendyatelier.cz

Andrea Rampini: Guida turistica e fondatore di “Andrea Tour Praga”, cerca di coniugare lavoro e divertimento organizzando tour nella città che ha conquistato il suo cuore. http://perpragatour.com/

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Disegno: © Miroslav Vomáčka


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PROGRAMMA EVENTI GENNAIO - FEBBRAIO 2017

Fino al 20 gennaio

ET CETERA: Italian Young Street Photography

Mostra d’arte contemporanea dedicata a 16 giovani fotografi italiani Il tema comune dei lavori esposti riguarda la “street photography”, la fotografia di strada con i soggetti ripresi in situazioni reali e spontanee per raccontare ed evidenziare alcuni aspetti della società. Organizza la Fondazione Eleutheria in collaborazione con l’Istituto. Orario di apertura: lunedì, martedì, mercoledì e giovedì, ore 9.00-13.00 / 14.00-16.00; venerdì, ore 9.00-14.00 Cappella barocca, Istituto Italiano di Cultura (Vlašská 34, Praga 1)

Dal 19 gennaio al 28 febbraio

Pavel Konečný: “Il mondo degli outsider“ Mostra fotografica

Le fotografie di Pavel Konečný (1949), un collezionista ceco di art brut, documentano l’unicità e l’originalità degli stati interiori individuali derivanti dalla creazione artistica. I soggetti rappresentati sono in massima parte autori spontanei italiani. Inaugurazione: giovedì 19 gennaio 2017, ore 18.00 Loggiato del 1° piano dell’Istituto Italiano di Cultura

Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it

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