volume 6
CIAOPRAGA
arte, cultura e lifestyle
Ciao Praga Magazine
Rivista bimestrale di arte, cultura e lifestyle
Volume 6 /// luglio - agosto 2017
Redazione
Direttore Responsabile Stefania Del Monte Art Director Francesco Caponera Vice Direttore Laura Di Nitto Coordinamento Redazione Sabrina Perrucci Collaboratori
Paola Caronni Marco Ciabatti Laura Di Nitto Roberto Folleri Giuseppe Gatta Mauro Lovecchio Marisa Milella Alessia Moretti Lorenzo Pelliconi Emanuele Ruggiero Silvia Succi Samantha Venuta Roberto Vinci
Contatti ciaopraga.magazine@gmail.com Crediti fotografici
Immagini per gentile concessione di: Fabio Barilari Copertina, 89, 91, 92-93, 95 Danilo De Rossi p. 3 Pio Baldi p. 7 Laura Di Nitto p. 10 Giuseppe Gatta p. 22 Ahrcos p. 25, 26-27 IIC Praga p. 29, 150 Ruggero Martines p. 31 Lorenzo Pelliconi p. 37 Marisa Milella p. 42 Mattia Sbragia p. 45 Ivano De Matteo p. 51 Johnny CY Lam p. 57 Giovanni Capriotti p. 61, 63, 65 Tommaso Avati p. 67, 73 Umberto Di Pietro p. 75 Samantha Venuta p. 80 Roberto Vinci p. 104 Alessia Moretti p. 110 Mauro Lovecchio p. 115, 119 Marco Werba p. 121 Emanuele Ruggiero p. 127 Roberto Folleri p. 133 Lara Tassan Zanin p. 135 Paola Caronni p. 141 Marco Ciabatti p. 147 Dal Web pp. 8-9, 15, 17, 18-19, 20-21, 23, 32-33, 35, 39, 43, 48-49, 53, 55, 68-69, 77, 81, 83, 84-85, 87, 97, 98-99, 101, 102-103, 107, 109, 111, 112, 123, 129, 131, 133, 136-137, 139, 141, 143, 148-149
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LETTERA DEL DIRETTORE
Gentili Lettori, nel nostro viaggio alla scoperta dei legami tra Praga ed il Bel Paese, non poteva mancare la meravigliosa capitale d’Italia. Dalla Roma “caput mundi” alla Praga “caput regni”, infatti, il passo è davvero breve. La città eterna ci viene raccontata, attraverso un insolito giro in bicicletta, da Giuseppe Gatta che, dopo aver pedalato per gran parte del centro storico, prosegue il tragitto a piedi, facendoci respirare secoli di arte e di storia. Marisa Milella ci illumina sulla cultura architettonica romana a Praga nel 17° secolo, mentre Roberto Vinci e Alessia Moretti ci accompagnano alla scoperta delle tradizioni enogastronomiche romane. Ad impreziosire questo omaggio a Roma, le interviste a due grandi esperti di beni culturali: Pio Baldi e Ruggero Martines. Segue una carrellata di incontri con personaggi romani protagonisti dei più svariati settori: dal vincitore del World Press Photo, Giovanni Capriotti, ad attori di fama internazionale come Mattia Sbragia ed Ivano De Matteo; dal poeta Umberto Donato Di Pietro allo scrittore Tommaso Avati ed all’architetto Fabio Barilari. Ma non solo: non potevamo parlare di Roma senza menzionare figli illustri come Alberto Sordi o Francesco Totti. Tornando a Praga, la storica Cappella della Congregazione degli italiani ha riaperto le sue porte al pubblico, con una cerimonia in grande stile. Come sempre, inoltre, non manchiamo di volgere uno sguardo alle eccellenze italiane, sia a Praga che nel mondo, con le storie ispiratrici di Mauro Lovecchio e Lara Tassan Zanin, oltre che del compositore di fama mondiale Marco Werba. Questo numero presenta, però, anche una novità interessante ed è la rubrica Salute e Benessere, curata da Roberto Folleri. Infine, Marco Ciabatti ci rivela, con il suo inconfondibile stile, i segreti del simbolo di Praga per antonomasia: l’orologio astronomico. Buona lettura! Stefania Del Monte
CONTEN UTI Pio Baldi
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Presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon
Roma: la cittĂ degli echi, delle illusioni e del desiderio
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In giro in bicicletta per la capitale
Riaperta la Cappella della Congregazione degli Italiani
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Inaugurata anche la mostra sui 400 anni della congregazione
Ruggero Martines
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Esperto di beni culturali e Assessore al Comune di Tivoli
Il Barocco da Roma a Praga
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Echi della cultura architettonica romana a Praga nel Seicento
Mattia Sbragia
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Attore, doppiatore e regista
Ivano De Matteo
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Attore e regista
Giovanni Capriotti
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Fotografo, vincitore del World Press Photo 2017
Tommaso Avati Scrittore e sceneggiatore
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Umberto Donato Di Pietro Poeta e scrittore
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Francesco Totti Una favola eterna come Roma
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Fabio Barilari Architetto, pittore, illustratore, grafico… e grande viaggiatore
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C’era una volta l’osteria romana Dagli enopolium alle fraschette, per quattro chiacchiere e un bicchiere di vino
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Il maritozzo con la panna Il dolce romano per eccellenza
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Mauro Lovecchio Giornalista, fotografo, esperto di comunicazione e pubbliche relazioni
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Marco Werba Compositore e direttore d’orchestra
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Osteopatia attiva Un approccio alternativo alle disfunzioni muscolo scheletriche
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Lara Tassan Zanin Responsabile BEI per la Repubblica Ceca e la Slovacchia
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L’orologio astronomico Oltre le statue
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L’INTERVISTA
Pio Baldi
Presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon
A cura di Laura Di Nitto
Dirigente
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Pio Baldi ha ricoperto numerosi importanti incarichi. Già Direttore vicario dell’Istituto Centrale per il Restauro, poi Soprintendente del Lazio e di Siena, Direttore generale per i Beni ambientali e paesaggistici, è stato Direttore generale per l’architettura e l’arte contemporanea (DARC) e Presidente della Fondazione MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo). Ha curato numerosi interventi di restauro di monumenti in Italia e all’estero. È stato membro del Consiglio nazionale dei Beni culturali. È autore di saggi, volumi e pubblicazioni specialistiche sui beni culturali e sull’arte e l’architettura contemporanee. Dal 2003 è Accademico Amministratore dell’Accademia Nazionale di San Luca e dal 2016 è Presidente dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, nominato direttamente da Papa Francesco. per molti anni presso il
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Ci racconti della sua esperienza a Roma A Roma mi sono occupato della costruzione del Museo delle Arti del XXI secolo, il MAXXI. Ho seguito la vicenda sin dal 1999, cioè da quando è stato indetto il concorso internazionale per trovare il progettista che lo realizzasse, che ci ha poi portati alla scelta di Zaha Hadid. Con la mia gestione siamo arrivati ad autofinanziare il 50% del budget annuale, cioè 5 milioni di euro su 10, provenienti dagli ingressi, dalle concessioni della libreria e del ristorante e, in parte, anche da alleanze con varie imprese. È stata un’esperienza che mi ha dato molte soddisfazioni; ho realizzato mostre interessanti e il MAXXI ha raggiunto una buona notorietà, quindi l’esperienza è stata davvero positiva. Vedere che il MAXXI continua ad andare bene anche con la nuova governance, è come vedere un pezzo della mia vita che continua in quella direzione. A cosa si dedica adesso? Lavoro ad alcuni restauri come libero professionista e poi sono un accademico. A Roma c’è l’Accademia di San Luca – di cui sono sia accademico che amministratore – che ha l’obiettivo di promuovere l’arte e la cultura. Sono inoltre direttore, insieme ad altre due persone, del laboratorio di restauro dei beni culturali dell’Umbria, con sede a Spoleto. E poi sono presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon: nomina ricevuta direttamente da Papa Francesco. L’obiettivo, anche qui, è la promozione della cultura e dell’arte ma non dell’arte sacra, attenzione, dell’arte contemporanea. Infatti la Chiesa ha fatto sempre molto per l’arte contemporanea, anche in modo innovativo e coraggioso. Basti ricordare che ha finanziato le opere di Caravaggio, che era un “ragazzaccio” e, quando doveva dipingere una Madonna, a volte prendeva una donna di strada. Caravaggio ha dissacrato molte icone ecclesiastiche, eppure la Chiesa lo ha accolto in edifici importanti come San Giovanni dei Fiorentini o Santa Maria del Popolo. La Chiesa, relativamente all’arte, è capace di portare grande innovazione e, se ci pensiamo, gran parte dell’arte in Italia ha come committenza la Chiesa cattolica. Insomma, questa accademia promuove l’arte contemporanea per conto della Chiesa; era ferma da anni e mi hanno chiesto di rimetterla in vita. Ora ci vorrà un po’ di tempo, per avere dei risultati. Lei come attinge alle novità del panorama dell’arte contemporanea? Come entra a contatto con il nuovo? Sin dai tempi del MAXXI ho contatti con galleristi, fondazioni, artisti; diciamo che non mi mancano le occasioni di scoprire cose interessanti. Come ha visto evolversi la scena dell’arte contemporanea in Italia, negli ultimi dieci anni? La scena è dominata da alcuni artisti più noti di altri: per esempio Maurizio Cattelan e Francesco Vezzoli. Quella italiana è una scena non molto forte a livello mondiale, a parte poche figure. Ma direi che, in Italia, è da poco che sta nascendo una consapevolezza del valore dell’arte contemporanea. Una città come Firenze, per esempio,
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che fino a pochi anni fa non voleva sentir parlare di arte contemporanea e per la quale esisteva solo ed esclusivamente il Rinascimento, adesso si è aperta anche ad eventi importanti. Ricordo la mostra di Ai Weiwei a Palazzo Strozzi: dirompente. È solo in questi ultimi anni che in Italia si sta sviluppando l’idea che l’arte contemporanea debba avere vita, naturalmente con tutte le attenzioni e le riserve, perché dentro l’arte contemporanea c’è molto scarto, molta presunzione, non tutte le cose sono valide: qualcosa che sembra valido, scompare poco dopo; insomma, non siamo in un campo il cui il giudizio si può esprimere con sicurezza. Anche i parametri sono cambiati? Fino all’800, l’arte aveva come parametro l’imitazione della natura e questo è scomparso già con gli Impressionisti: è scomparsa l’imitazione della natura e infatti l’Impressionismo fu considerato all’inizio un’arte “sbagliata”. Poi con Picasso siamo usciti dal campo: anche Picasso, all’inizio, non lo capiva nessuno. Adesso l’arte non imita più la natura, l’arte è riflessione, l’arte è concetto. Ho notato che i bambini capiscono subito l’arte contemporanea, perché hanno uno spirito intuitivo innato e una freschezza che deriva loro dall’età. Per gli adulti è un po’ più difficile; serve una coscienza critica che derivi dall’aver visto molte cose. Insomma, è più difficile oggi dare un giudizio sull’arte, di quanto non fosse nei secoli scorsi – sebbene anche nei secoli scorsi non fosse facile. Basti pensare a Borromini, un artista che oggi riconosciamo come un genio e che alla sua epoca era considerato poco meno che un furfante, un impostore che metteva riccioli inutili e decorazioni fastose su edifici che non ne avevano bisogno. Tant’è vero che il termine “barocco”, che rappresenta Borromini, Bernini e Pietro da Cortona, è usato come aggettivo con valenza negativa: se ad esempio io dico di un mobile che mi piace, ma è un po’ barocco, ho espresso un giudizio negativo, perché per barocco intendo dire iper-decorato e iper-lavorato. Invece Borromini, considerato un pazzo per un secolo e mezzo, è stato scoperto solo negli anni Trenta del secolo scorso; Bernini lo stesso. Questo, per dire che l’arte è sempre difficile da accettare, specialmente quando è innovativa, e bisogna avere l’umiltà e la pazienza di aspettare e vedere che succederà dopo. Sembra essere, attraverso i tempi, la condanna degli artisti essere incompresi per lungo tempo e vivere queste vite al limite della sopravvivenza. Secondo Lei questo contribuisce a nutrire in qualche modo la necessità dell’artista di esprimere se stesso e il disagio della non comprensione? Se fosse tutto facile, un artista avrebbe comunque qualcosa da dire? È nella ricerca di un linguaggio e nel bisogno di esprimere prepotentemente la propria arte, nonostante le circostanze sfavorevoli, che l’artista alimenta la propria creatività? Sì, l’arte è ricerca di nuovi linguaggi e di nuovi modi di esprimersi, adatti al tempo in cui si vive e, per i lungimiranti, adatti anche ai tempi futuri. Però si rischia – proprio essendo difficile esprimere giudizi obiettivi – di essere giudicati, come accadde al
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Borromini, con l’accusa di fare un’arte “depravata”! Come gli Impressionisti… Ma questo perché rarefacevano l’immagine, squagliandola dentro poche pennellate che evocavano immediatamente l’effetto del paesaggio e della natura, senza imitare in modo meticoloso, come facevano invece altri artisti dello stesso periodo. In questo mondo in cui i social network dominano le relazioni, Lei è mai stato “ingannato” da ciò che aveva visto di un artista prima di incontrarlo? Certo è molto facile finire in trappola, però io sono anche convinto che l’arte di oggi si debba esprimere con gli strumenti di oggi. Il pennello più importante, oggi, è il pennello “informatico”. Alla stregua di quello che è accaduto in architettura alla fine dell’800 e all’inizio del 900, il ferro e il cemento armato sono diventati materiali di costruzione degli edifici, dei ponti e lì, chi è stato abile ad usarli e a sfruttarli, è diventato un grande architetto: ad esempio, Le Corbusier. Quindi, quando la tecnologia mette a disposizione materiali e strumenti innovativi che possono magari anche essere più vantaggiosi, economici, facili da usare, allora chi sa utilizzare questi strumenti, vince. Quindi, oggi, certamente l’attenzione all’arte digitale deve essere molto forte: l’arte digitale è comunque solo un aspetto delle espressioni artistiche, non è l’unico e neanche il più utilizzato ma, secondo me, va molto seguito, perché può diventare molto importante nell’arte di oggi e del futuro. Secondo Lei, le politiche italiane relative all’arte e alla sua promozione sono adeguate ad un paese ricco come il nostro? Parto da una considerazione semplice: chi ha troppo, a volte, non è spronato a fare molto, perché comunque possiede in abbondanza. Basti vedere Venezia, dove non c’è una politica turistica significativa, dove i negozi sono più bottegucce che vendono souvenir per un turismo di “accatto”, delle canottiere, dei panini mangiati sulle opere d’arte…. Ci vorrebbe una politica capace di incentivare il turismo di qualità, quello che ha servizi migliori e che rispetta anche di più i monumenti, le strade, il decoro. Anche a Roma, nelle zone percorse dai turisti, è pieno di negozi orrendi che vendono ricordini balordi, magneti da frigorifero, colossei di plastica… Non c’è mai stata una politica, a Roma, di limitazione di questo tipo di vendita “sottocosto”. Ma non vorrei fare solo una lamentazione, perché non sarebbe giusto. Ad esempio, l’ultimo ministro dei beni culturali ha fatto cose molto positive. Innanzitutto l’art bonus, un dispositivo di legge per cui chi investe per restaurare un’opera d’arte pubblica può detrarre dalle tasse fino a più del 70% di quello che ha speso; questo sta incoraggiando parecchio i privati nel restauro delle opere d’arte pubbliche, attività che peraltro ha, di per sé, dei grandi riscontri in termini d’immagine. L’altro cambiamento positivo introdotto di recente, nei beni culturali, è stato quello di rendere autonomi alcuni musei. Prima i musei facevano parte delle soprintendenze ed erano diretti da funzionari di basso rango, non da dirigenti, quindi non potevano assumere decisioni o iniziative e avere riscontri sulle loro attività. Adesso, avere dei direttori che sono dei dirigenti e che, a fronte di buoni
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risultati, costruiscono la propria carriera professionale, significa incentivare una gestione virtuosa dei musei. Con questo non intendo dire che il museo che va meglio è quello che fa più ingressi, però anche il numero di ingressi indica che il museo va bene, ed aver messo dirigenti a capo di alcuni musei (ad esempio, Brera, Uffizi, Capodimonte a Napoli, la Reggia di Caserta, la Galleria Borghese, Palazzo Barberini, etc.), permette di avere dei direttori responsabili con incarichi di cinque anni, che devono sviluppare e far crescere il museo in quell’arco di tempo e, se lo fanno bene, questo diventa un loro successo professionale. Certo non è una cosa per tutti i tremila musei italiani, poiché molti di questi non hanno neanche la capacità di autogovernarsi, ma per alcuni credo sia stato importante dare un’autonomia. A quali paesi europei guarda con interesse per quanto attiene all’attenzione all’arte e alla cultura? La Francia, secondo me, è un paese interessante, perché una cospicua parte del PIL (più grande di quella che vi dedica l’Italia) viene investita nella valorizzazione del patrimonio culturale e possiede un buon sistema di gestione. Cosa pensa di tutti gli italiani che sono andati via negli ultimi anni? Tutte queste persone porterebbero arricchimento al paese, se tornassero dopo le esperienze all’estero e trovassero una collocazione giusta in Italia. Se rimangono fuori, non è un arricchimento ma un depauperamento. Tuttavia mi rendo conto che altri paesi sono in grado di offrire opportunità eccezionali a giovani che in Italia, specialmente nel campo della ricerca, non avrebbero mai neppure un’occasione paragonabile… Quindi, per noi, questa è una perdita secca ma non si può chiedere di tornare a fronte di nulla. Certo che le opportunità capitano anche a chi azzarda. A me le cose più belle sono accadute quando ho azzardato scelte che in tanti mi sconsigliavano, una fra tutte l’incarico del MAXXI. Mi dicevano che era una sfida persa in partenza: un museo di arte contemporanea a Roma…ci credevano in pochi. Ma io ero convinto che un paese come l’Italia, che è stato all’avanguardia nell’arte per 7/8 secoli, da Cimabue, Giotto, poi avanti con Masaccio, Donatello, Brunelleschi, Alberti, e poi Michelangelo, Raffaello, e così via…, cioè un paese che ha inventato l’arte e l’ha esportata in tutto il mondo, non potesse essere solo retroflesso sull’arte del passato, senza guardare a quella del futuro. Il mio pensiero era ed è che la creatività italiana non si è spenta, non è morta. Quando dovevo convincere i miei interlocutori della bontà del progetto MAXXI, parlavo proprio dell’importanza di guardare ai beni culturali affacciandoli nel futuro e non tenendoli retroflessi nella protezione del passato. Certo, la tutela è comunque importantissima, perché in Italia non ci sarebbero così tanti monumenti se non ci fossero state le sovrintendenze, a tutelarli, sin dal 1909 – nonostante i troppi no che hanno detto nel tempo, perché spesso è più facile dire no per evitare di dover esaminare a fondo un problema, oppure semplicemente per acquisire potere.
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Cosa consiglierebbe ad un giovane che voglia “fare arte” come professione? Gli direi di trovarsi un lavoro e di fare arte nel tempo libero, o anche di colorare di arte il proprio lavoro e farlo diventare un’espressione artistica… Perché fare arte e basta può essere molto faticoso e difficile da gestire. Fare arte è cosa da pochi: l’arte è intuizione, è capacità… non ce l’hanno tutti… I geni sono pochi. Quanto conta per un artista la capacità di sapersi vendere? È reale l’immaginario dell’artista solitario e rinchiuso in se stesso, sincero e incapace di autopromuoversi? Ma no! Gli artisti di successo sono dei gran marpioni! Sono campioni del marketing, grandissimi professionisti della comunicazione. In realtà, io credo che la comunicazione abbia invaso anche un po’ troppo il territorio della produzione, della vita, della realizzazione delle cose. Non è un caso che oggi i politici investano tanto sull’ufficio stampa. La comunicazione è diventata, in molti casi, fine a se stessa. Per un artista, tuttavia, la comunicazione è fondamentale: deve avere dei galleristi, esser conosciuto dai potenziali compratori, deve avere la capacità di fare networking e di creare partnership. L’artista isolato nel suo studio, con il soffitto trasparente, che crea l’opera immortale, non c’è e in realtà non c’è mai stato; forse Van Gogh, che infatti è morto povero e disperato ed è stato valorizzato dopo, chissà perché. Ma anche Raffaello era un furfantone, dal marketing pazzesco, che andava in giro per le corti a proporre le sue cose. Anche Bernini, quando Innocenzo X Pamphilj lo mise da parte, con grande scaltrezza partecipò al concorso per la fontana di Piazza Navona, pur senza essere invitato; e venne fuori con una fontana così innovativa che alla fine, Innocenzo X, si lasciò convincere e lo fece vincere. Questo per dire che bisogna sapersi autoproporre, bisogna chiedere. Non si può pensare di essere un genio che prima o poi verrà scoperto: non ti scoprirà nessuno! Conosce Praga? Ci sono stato otto anni fa ed è una città che mi piace molto. Spero di tornarci presto.
Laura Di Nitto: Scrittrice, produttrice e regista di documentari, con una lunga esperienza in Rai, vive tra Nuova Delhi, Praga e Roma, realizzando video e laboratori di media educativi e collaborando alla produzione e distribuzione di film. https://www.linkedin.com/in/lauradinitto 14
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IL BEL PAESE
Roma: la città degli echi, delle illusioni e del desiderio
In giro in bicicletta per la capitale
A cura di Giuseppe Gatta
Oltraggiata, umiliata e offesa ma sempre bellissima. Eterna eleganza di Roma, “la città degli echi, delle illusioni e del desiderio”, così come la definì Giotto. Nel tardo pomeriggio di un giorno qualunque di primavera, il traffico scompare tra le vie del centro e si dilata in periferia; il sole tramonta e dipinge di avorio striato e rosa pesca le facciate delle abitazioni. Percorriamo in bici le rive del Tevere: Roma sembra innalzarsi ed emergere in tutto il suo splendore millenario. La città, capitale d’Italia e patrimonio dell’umanità, nonostante le immense difficoltà resta uno dei simboli del vecchio continente. All’inizio del terzo millennio la sua imponenza resta intatta, indelebile e allo stesso tempo fragile ma sempre con la forza della vecchia “Roma caput mundi”.
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Cento volti, mille monumenti, immense piazze e fontane maestose, capaci di stregare e far innamorare. Come dimenticare la celebre scena del film “La dolce vita” in cui Anita Ekberg, alias Silvia, entra nella Fontana di Trevi e invita il suo Marcello (Marcello Mastroianni) a raggiungerla? “Marcello, come here!”. Come resistere a tanta bellezza e maestosità? Non si può. Non si deve resistere a un museo a cielo aperto, ad un salotto della bellezza. Erano gli anni Sessanta, Roma diventa il simbolo della Dolce Vita, del lusso e della stravaganza. Gregory Peck e Audrey Hepburn, a bordo della loro Vespa in “Vacanze Romane”, scrivono la storia facendo emergere una straordinaria città in bianco e nero. Palazzi e alberghi che custodiscono tradimenti e misteri. Una città divisa in tanti volti diversi. Un’importanza raccontata in tutti i libri di storia dell’arte, dipinta, scolpita da artisti e raccontata da poeti, viandanti e mercanti. La Roma delle leggende e dei sette Re, delle terrazze mozzafiato del Pincio e del Gianicolo, dei Musei Vaticani. Roma è capace di far convivere, in pochi metri, i palazzi severi dello Stato con i mercati storici e pittoreschi di Campo de’ Fiori, il barocco di Piazza San Pietro e l’eleganza del Rione Monti, su cui domina una
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straordinaria Chiesa della Santissima Trinità dei Monti, recentemente restaurata. Ma non solo. Improvvisamente, percorrendo in bici a testa bassa le rive dell’enorme serpentone d’acqua che taglia la città, ci accorgiamo che le persone aumentano. Residenti, turisti, curiosi? Chissà! Ciò che conta è solo una cosa: godersi Roma, baciata dal sole. Il tratto più bello per ammirare i monumenti è quello che dal Ponte Sublicio arriva a Ponte Milvio, lungo circa otto chilometri. Intanto le panchine un po’ trascurate si riempiono, forse per una tregua, forse per un po’ d’aria fresca, o forse, semplicemente, un motivo non c’è. Ed ecco che si vedono i tetti in cotto di Trastevere e, più in là, il campanile della chiesa di Santa Maria in Cosmedin, con la famosa Bocca della Verità. Giunti nei pressi di Ponte Garibaldi, bastano altri due passi per arrivare a Campo de’ Fiori, piazza della statua di Giordano Bruno (arso vivo in questo luogo nel ‘600), della movida notturna e del mercato del mattino. Un open space variegato e pittoresco che non ha tregua, che fermenta in qualsiasi ora del giorno e
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della notte. Ancora avanti, decisi e mirati, e si arriva al ponte Vittorio Emanuele II e poi a ponte Sant’Angelo. Fu voluto dall’imperatore Adriano per collegare il suo mausoleo con la riva sinistra del Tevere. Solo nel 1669 venne, però, arricchito con statue di angeli ideate dal Bernini. Abbandoniamo la bici: lo spettacolo, adesso, deve essere visto a piedi. Camminiamo e ci appare una sorprendente Piazza del Popolo, dominata dalla sua Fontana dei Leoni. Villa Borghese ed il Pincio ci osservano dall’alto. Improvvisamente, arrivando da via del Corso e via dei Condotti, fulcro dell’alta moda e del lusso romano, la visuale si dipinge di rosa e fucsia in ogni loro variante. Le azalee dominano piazza di Spagna e creano uno scenario da cartolina. Turisti da ogni dove e ogni come che domandano, perché? Perché tanta bellezza? Migliaia di foto scattate ogni minuto: non si può non immortalare un momento di pura poesia. A destra, una delle figlie del Bernini: la Fontana della Barcaccia, sfregiata, restaurata e poi ferita ancora, ma sempre riemersa con grande dignità al suo antico splendore. Ci perdiamo tra vicoli e ponti, fino ad arrivare a Fontana di Trevi ed ad immergerci nella leggenda: se si vuole tornare a Roma, obbligatorio lanciare una monetina nella fontana. Sulla nostra strada ancora viuzze e vicoli che respirano arte e storia e poi, di colpo, Piazza Navona, che culla serena la sua Fontana dei Quattro Fiumi. Continuiamo, instancabili, la nostra passeggiata, fino ad arrivare al Re: l’imponente Colosseo ci appare, come un miraggio, da Via dei Fori Imperiali. Dopo tanta maestosità e poesia ci accorgiamo che è scesa la sera. Il buio travolge Roma, la avvolge, sembra quasi che la protegga come una madre gelosa fa con il proprio pargolo. Ancora più magia: le luci si accendono, le trattorie si affollano, il profumo di carbonara, di carciofi e pecorino sale e rapisce i nostri sensi. Improvvisamente, da un’osteria del centro il volume si alza e Antonella Ruggiero canta .. “Roma bella tu, le muse tue…”; un’auto interrompe l’atmosfera, suonando a un pedone distratto … “asfalto lucido... Arrivederci Roma…”.
Giuseppe Gatta: Giornalista freelance e consulente legale, specializzato nella tutela dei consumatori, ha una grande passione per i viaggi e per l’arte, in particolare per la pittura, alla quale si dedica durante il suo tempo libero. gattag86@libero.it 22
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ATTUALITĂ€
Riaperta la Cappella della Congregazione degli Italiani Inaugurata anche la mostra sui 400 anni della congregazione
A cura di Stefania Del Monte
Il 22 giugno scorso, nel corso di un intenso programma di ristrutturazione fortemente voluto dall’Ambasciatore Aldo Amati, la storica Cappella della Congregazione degli Italiani a Praga è tornata ad aprire le sue porte.
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L’opera di restauro sarà completata fra agosto e settembre dagli esperti della Ahrcos, un’azienda italiana specializzata nel restauro di edifici storici e diretta da Alessandro Battaglia. Si tratta, lo ricordiamo, di una delle più belle iniziative intraprese di recente dalla nostra rappresentanza a Praga e realizzata grazie alla cooperazione tra istituzioni ceche e italiane, oltre che per merito di diversi sponsor privati, tra i quali: SIAD, Ahrcos, PSN, Univerzálni Stavební, Generali e Brembo. Tra le autorità presenti alla celebrazione Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, il suo omologo ceco Daniel Herman, il cardinale Dominik Duka, arcivescovo di Praga, il sindaco di Praga 1, Holdrich Lomecky, ed altre autorità tra cui l’esarca della Chiesa uniate cattolica, Ladislav Hucko, e il direttore generale del ministero degli Esteri, Edoardo Brunetti. La Vlasska kaple, nota anche come “Cappella degli Italiani”, è un bene di proprietà dello stato italiano la cui costruzione risale agli ultimi anni del XVI secolo per le esigenze della comunità italiana a Praga, che già al tempo era molto numerosa. La cappella, infatti, è una importante testimonianza della presenza italiana in Cechia. Durante la seconda metà del ‘500 molti italiani emigrarono verso il nord Europa e tanti di loro si fermarono proprio a Praga, formando una numerosa colonia composta soprattutto da architetti, artigiani e mercanti. Praga era, all’epoca, la città dell’imperatore Rodolfo II, destinata a diventare la capitale del Sacro Romano Impero e le maestranze italiane, nonché i beni di lusso provenienti dall’Italia, erano molto apprezzati alla corte imperiale. A quei tempi la Boemia era prevalentemente protestante e, in quel contesto, la comunità italiana rappresentava una minoranza cattolica sul territorio. Questo le consentì di ottenere i favori di Papa Gregorio XIII, trasformandosi in una congregazione che, nel 1590, raggiunse un numero tale da aver bisogno di costruire un nuovo oratorio. L’edificio occupa tuttora un posto di rilievo nella storia dell’architettura ceca ed europea, essendo il primo esempio di cappella italiana a pianta ovale del nord Europa disegnato e realizzato, a partire dalla fine del 16° secolo, da architetti ed artigiani italiani: congiunta al complesso del Klementinum, l’antico collegio dei gesuiti oggi sede della Biblioteca nazionale, si trova in via Karlova, nella Città vecchia, esattamente di fronte alla porta del ponte Carlo. “Con il recupero dell’agibilità dopo decenni di abbandono, la Cappella degli Italiani riprende vita, recupera l’antico splendore e a breve tornerà ad ospitare nuove attività – ha dichiarato l’ambasciatore italiano Aldo Amati –
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Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a ridare prestigio e vitalità a un gioiello del manierismo rinascimentale, espressione tangibile dei secolari rapporti di amicizia che legano il popolo italiano a quello ceco”, ha concluso. La presentazione dello stato di avanzamento dei lavori di restauro della Vlasska kaple si è tenuta in concomitanza con il 400° anniversario della consacrazione della chiesa barocca di San Carlo Borromeo, altro luogo simbolo della presenza italiana a Praga, situata sulla riva sinistra della Moldava, nel quartiere di Mala Strana, nel complesso architettonico dove oggi ha sede l’Istituto Italiano di Cultura. Lo staff coadiuvato dal direttore Giovanni Sciola, in collaborazione con Padre Evermod Gejza Šidlovský del Monastero di Strahov, ha dato vita alla mostra “La Congregazione Italiana di Praga. Una storia secolare”, che potrà essere visitata fino al 31 agosto 2017 nei locali dell’Istituto e che presenta opere d’arte, preziosi documenti e materiali d’archivio appartenenti alla Congregazione Italiana di Praga, esposti al pubblico per la prima volta. Per informazioni sulla mostra: http://www.iicpraga.esteri.it
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CULTURA
Ruggero Martines
Esperto di beni culturali e Assessore al Comune di Tivoli
A cura di Lorenzo Pelliconi
Entrato nei Beni culturali nel ‘74, Ruggero Martines prende servizio presso la Soprintendenza ai Monumenti ed alle Gallerie di Arezzo nel 1977. Cura successivamente la programmazione e l’attuazione del programma di ricostruzione post sismica del patrimonio culturale di Campania e Basilicata, colpite dal terremoto dell’Irpinia del novembre 1980. Nel 1995 diventa Soprintendente presso la Soprintendeza ai Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici delle province di Salerno ed Avellino. Nel biennio 2000-2001 ricoprirà una carica analoga a Roma. Sarà in seguito nominato Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise (2004) e della Puglia (2005). Fino al 2011 Vicepresidente del Comitato Tecnico per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Consiglio Superiore del MiBACT, già Docente di Museografia e Museotecnica presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, oggi insegna presso l’Università Gregoriana ed è Assessore per la redazione del piano regolatore al Comune di Tivoli, città storica e unica al mondo ad avere due siti Unesco. Parleremo con lui di Roma, della costante lotta di potere fra arte e cemento che contraddistingue da sempre il nostro paese e del dilemma che affligge i musei, sospesi a mezza via fra modernità e passato.
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Entriamo nel vivo analizzando l’eterna questione dicotomica che vede protagonisti i beni culturali e gli interventi urbanistici, che in un paese come l’Italia è inevitabilmente all’ordine del giorno. Qual è l’ostacolo maggiore per trovare un compromesso tra le parti? Io non parlerei di compromesso, quanto di omologazione di congruenza. L’Italia ha una storia complicata. Fino all’anteguerra vi era un’evidente prevalenza delle Antichità e Belle Arti, mentre a partire dagli anni Sessanta la cosa si è invertita. L’Italia ha scelto l’edilizia come spazio industriale privilegiato, anche perché l’edilizia ha il vantaggio di costare pochissimo d’investimento, a fronte di un’ottima rendita di capitale, che però consuma territorio. L’altro aspetto del problema è che l’edilizia ha il vantaggio di essere parcellizzabile. A monte è mancato un momento di confronto ed equilibrio, facendo sì che l’Italia diventasse quello che è diventata. Questo è stato l’ostacolo principale in passato. Oggi, con la crisi dell’edilizia e dell’economia in generale, è diventato un ostacolo molto ridotto. Spostando la nostra attenzione sulla capitale, uno degli esempi più recenti riguarda il progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle, che ha
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generato numerose polemiche. Qual è la sua opinione in merito? Lo vedo come un problema di consumo di suolo. Il progetto prevede la costruzione di un quartiere nuovo, che includerebbe lo stadio e andrebbe a demolire un manufatto dalla grande qualità architettonica come il velodromo. Nella fattispecie, il progetto prevede una forte dose d’edilizia e, pertanto, la ritengo un’ipotesi strana in un momento in cui non c’è mercato. Tuttavia, potrebbe essere una strategia per rilanciare un’area degradata ed abbandonata. Ha progettato, nel biennio 2000-2001, il restauro del Vittoriano a Roma, uno dei monumenti, a mio personalissimo parere, più affascinanti e sottovalutati della capitale. Possiamo considerare l’intervento fatto sul Vittoriano, con ascensori che facilitano la movimentazione dei turisti nella struttura, come una best practice della sana valorizzazione del nostro patrimonio? Sì e no. Io sono autore del progetto, ma non ne ho seguito l’esecuzione, avendo nel frattempo assunto la carica di Soprintendente regionale ai Beni Culturali di Puglia e Molise. Gli ascensori previsti dal mio progetto originale erano ubicati all’interno del monumento, in vani corsa preesistenti. Si sarebbe po-
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tuti arrivare alla Terrazza delle Quadrighe e a Piazza del Campidoglio, perché c’è una galleria che collega il Vittoriano con Palazzo dei Conservatori, senza quell’ascensore esterno che io sinceramente non condivido. Dopodiché, il progetto prevedeva la conservazione del monumento e la messa a regime dei percorsi per visitatori, che sono stati eseguiti. Parlando, invece, dei musei contemporanei, la tendenza è di focalizzarsi su mostre spot piuttosto che permanenti (in declino ormai dagli anni Settanta), al fine di attirare grandi quantità di visitatori. Cosa ne pensa? È una tendenza che fa parte di una società che vive una sorta d’iperconsumo dell’informazione. La diffusione della cultura attraverso l’immagine fatta dalla televisione toglie il valore della didattica museale, che funziona come una sorta di libro illustrato. La presenza di un mezzo così potente, rende più debole quello sperimentato dalla storia fino a questo momento: il museo, appunto. La mostra vista come spot è quindi diventata un elemento importante, e non credo che questo processo sia reversibile. Bisognerà ripensare il museo non solo come luogo didattico, ma anche d’intrattenimento. Questa è una tendenza in atto, che però ne sminuisce il livello formativo. Lo spettacolo, come tutte le comunicazioni visuali, ha infatti il vantaggio di essere assimilato all’istante, mentre le forme scritte/parlate o complesse richiedono uno sforzo cerebrale più significativo. Questo è però un aspetto della mente umana, non un handicap dei musei. Cosa ne pensa della scelta del governo, di cui molto si è dibattuto recentemente per via della sentenza negativa del Tar del Lazio, di affidare la direzione di alcuni dei musei più importanti del Belpaese a professionisti stranieri? Non tutti condividono la figura del direttore manager e il museo-azienda. Il nostro sistema di gestione del patrimonio è stato copiato da più di 120 Stati nel mondo, quindi la sua validità è evidente. Il cercare modelli alternativi non è, invece, un’idea saggia. La Francia, o la Spagna, hanno Louvre e Museo del Prado in qualità di principali musei identitari, mentre le altre realtà museali sono più modeste. L’Italia, invece, che è un vero museo a cielo aperto, ha adottato nei secoli una strategia molto diversa. L’idea di azienda applicata al museo è sbagliata. Il museo deve sopravvivere con la vendita dei biglietti e generare indotto per le strutture parallele, non tenere per sé gli introiti. Un lago produce energia attraverso una centrale idroelettrica, però l’energia poi si trasforma. È la centrale a produrre utile, gli introiti, ma senza l’acqua del lago questo non sarebbe possibile.
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Ha realizzato, riscontrando un enorme successo di pubblico, alcuni progetti in Cina, tra cui la mostra conclusiva del padiglione Italia a Shangai, in occasione di Expo 2010. Mi racconti di questa esperienza a stretto contatto con una cultura così diversa dalla nostra. Abbiamo portato gli ori di Taranto, insieme alla collezione della Fondazione Bulgari. In Oriente, bisogna riuscire a parlare una lingua congruente. L’oreficeria fa parte del loro gusto, della loro cultura. Come a noi l’arte cinese sembra una cosa modesta e strana, così loro, probabilmente, vedono la Gioconda come un’opera che non fa parte del loro mondo visuale. Ho avuto questa intuizione, ho pensato che il tema dell‘oreficeria potesse essere un punto di contatto agevole ed efficace. Sempre più si sta facendo strada la cultura del riuso anche in ambito urbanistico, dove si adeguano determinati spazi e li si riconverte, dandogli nuova vita. Così si evita di costruire e cementificare ulteriormente. A che punto siamo in Italia? Una città leader in Italia è certamente Torino, pensiamo al Lingotto o ai Mercati Generali. Il suo modello consiste in una riconversione virtuosa delle singole realtà, votato al mantenimento parziale o totale della struttura, ma dotandola di un nuovo scopo, di una nuova funzione. A Milano, per esempio, si adotta un approccio diverso, più improntato alla riconversione di intere aree, non di particolare interesse storico o architettonico, che vengono demolite e poi ricostruite. Si tratta di due schemi che rispondono a valori diversi. Spesso questo riutilizzo è dedicato ad attività culturali. Ex-spazi industriali, per esempio, ospitano oggi atelier, mostre, concerti. Penso all’Emscher Park nella Ruhr, ma ci sono anche significativi esempi nostrani: Torino, Milano, il Museo Macro Testaccio a Roma. Può essere questo un vettore per la ripartenza culturale di un paese, che, per usare un eufemismo, non sta di certo vivendo la sua golden age? Potrebbe, ma dovremmo ripensare completamente la politica dei Beni Culturali. Siamo sicuramente leader nell’organizzare la più importante manifestazione mondiale di arte contemporanea, la Biennale. Al contrario, non ne sosteniamo la produzione. Il Rinascimento fiorentino esisteva perchè c’erano i grandi mercanti fiorentini che investivano sugli artisti. Forse abbiamo paura dei pregressi investimenti dell’Arte di Stato fatti ai tempi di Mussolini. Abbiamo chiuso una pagina di cui abbiamo avuto paura. Ora, sarebbe il caso di scriverne una nuova.
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Mi chiedevo, infine, che ruolo potesse svolgere l’urbanismo per le generazioni future. Ogni giorno percorriamo le strade dei nostri centri città senza realizzare che la pianta, gli edifici e le piazze sono il frutto di scelte ben precise che si concatenano nel tempo. In futuro, la prevista crescita della popolazione mondiale, il riscaldamento globale, la multiculturalità saranno sfide dalle quali le città non potranno sottrarsi. In che modo le scelte urbanistiche influiranno sul corso della storia? L’argomento fu trattato da Agostino d’Ippona, riconosciuto santo. Agostino ha sintetizzato il problema della città in poche parole: “urbs non mura sed gentes”. È la collettività che esprime l’ipotesi urbanistica, non lo specialista. Quest’ultimo la attua e la traduce in termini formali, visuali e funzionali, ma è la collettività che la pensa. Gli architetti ne hanno pensate tante ma la collettività non ne ha pensata ancora nessuna. Si stanno affrontando gli ambiti squisitamente tecnici del problema: consumo di suolo ed effetto serra, per esempio, sono solo misure, mentre l’ecologia come idea non è ancora stata declinata compiutamente nei termini della città. Avverrà.
Lorenzo Pelliconi: laureato al MIREES (Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe) presso l’Università di Bologna, ha lavorato nel campo della cooperazione e della progettazione europea per LDA Subotica (Serbia) e per Unione Italiana, organizzazione che rappresenta la minoranza autoctona italiana in Croazia e Slovenia. Da poco atterrato a Praga, si interessa di storia, urbanismo e sport. lorenzo.pelliconi22@gmail.com 37
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ARTE
Il Barocco da Roma a Praga
Echi della cultura architettonica romana a Praga nel Seicento
A cura di Marisa Milella
“Talvolta i luoghi parlano, talvolta tacciono, hanno le loro epifanie e le loro chiusure. (…) Alcuni luoghi, Venezia o Praga, parlano anche al viaggiatore più distratto e ignaro con l’evidenza stessa del loro apparire” (Magris, p. XXI). Oltre all’immediatezza dell’immagine urbana Praga ha anche la peculiarità di appartenere alla seconda categorizzazione, definita da Claudio Magris, quella che ci parla di una necessità di conoscenza. Nell’accostarsi a Praga scatta il “ri-conoscere”, un sentimento sottile che sussurra “sei a casa”! Più che un accostarsi, si tratta, allora, di un muoversi e di ritrovare le tracce di una cultura che mischia le sue carte, scompaginando le barriere. Ed ecco che Roma fa l’occhiolino nelle sue modalità “più discrete” del classicismo seicentesco.
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Praga – Palazzo Cernin (facciata posteriore)
Roma – Villa Medici al Pincio (prospetto sul giardino)
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Come ha sottolineato Tomáš Valeš in un suo recente saggio, il funerale di Rodolfo II “chiuse, in maniera simbolica, un’epoca della cultura europea” che aveva visto Praga divenire uno degli epicentri del manierismo europeo. Il primo ottobre del 1612 la salma di Rodolfo venne portata dalla cappella di Ognissanti alla cattedrale di san Vito. La bara venne collocata in un castrum doloris costruito per l’occasione da Giovanni Maria Filippi, “costruttore di corte” dal 1602. Filippi si ispirò per la sua architettura effimera, documentata da un’incisione, a quella costruita in occasione della morte di Enrico IV nella Basilica Lateranense a Roma nel 1610, servendosi dei lavori campionari di Sebastiano Serlio. Alcune fonti, facendo intendere la partecipazione di un architetto cattolico nella progettazione della chiesa praghese della Santissima Trinità, e alcuni elementi di affinità con la collegiate di Santa Maria dell’Arco, fanno propendere per la possibilità di partecipazione di Filippi al progetto. La chiesa luterana, costruita nel 1611, mostra evidenti contatti con la chiesa di Giacomo della Porta di Trinità dei Monti a Roma (anni Ottanta del ‘500), soprattutto nell’alta facciata, divisa marcatamente in orizzontale, con finestre terminali, finestra a semicerchio e le due torri. Sicuramente, uno dei periodi più interessanti in cui è dato scorgere luminosi riflessi della cultura architettonica italiana del tempo, è rappresentato dal primo trentennio del XVII secolo, collegato all’intensa attività edilizia promossa dal duca Albrecht di Wallenstein (1583–1634), generalissimo dell’esercito imperiale e uno dei più noti condottieri della Guerra dei Trent’anni. Una attività studiata e pubblicata nel lavoro corale coordinato da Petr Uličný, recentemente presentato a Praga: Architektura Albrechta z Valdštejna: Italská stavební kultura v Čechách v letech 1600-1635. La qualità e la quantità della produzione dell’architettura italiana raggiunse il suo culmine durante il periodo di Albrecht di Wallenstein, ad un livello confrontabile con quanto di meglio caratterizzava l’architettura nella stessa Italia. Si veda, ad esempio, il palazzo del duca Venceslao Michna (1634/44), opera di un anonimo architetto, che utilizzò motivi tratti da Villa Giulia, Villa Aldobrandini a Frascati, Palazzo Farnese e dal contemporaneo Palazzo Barberini. Gli architetti italiani, impegnati in questa straordinaria stagione di rinnovamento, di origine e formazione eterogenea, resero possibile la realizzazione di elementi innovativi. Si veda, ad esempio, la forma ovale di balconi nella chiesa di San Salvatore, opera di Carlo Lurago (1638-1640), per la quale è possibile trovare un parallelo nella contemporanea chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, del Borromini. Nell’architettura civile gli elementi romani sembrano essere legati a modelli di classicismo seicentesco: è il caso del maestoso Palazzo Černin, costruito tra il 1668 e il 1677 da Francesco Caratti. L’architetto ticinese, se nel
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prospetto principale sembra attingere a modelli palladiani, nella facciata posteriore utilizza una doppia loggia organizzata secondo uno schema che replica il prospetto sul giardino di Villa Medici al Pincio, di Bartolomeo Ammannati. Una delle modalità di trasmissione del linguaggio architettonico romano è legato alla “emigrazione degli artisti”, fenomeno dovuto, soprattutto alla fine del Seicento, al contrarsi dell’attività edilizia e conseguente ridursi delle possibilità lavorative nella città pontificia. L’influenza dell’architettura romana in Europa centrale avviene anche attraverso la presenza di una serie di architetti stranieri, giunti nella capitale pontificia per aggiornare la loro formazione. Le ricerche di questi ultimi decenni hanno individuato in Carlo Fontana, e nella sua scuola, un importante canale di diffusione dell’architettura romana in centro Europa. Poco dopo la fine della Guerra dei Trent’anni (1648), si intensifica la presenza di artisti di provenienza dall’Europa centrale. Tra il 1655 e il 1675 è menzionata, anche se genericamente e in rapporto alla cerchia pittorica di Claude Lorrain, la presenza a Roma del borgognone Jean Baptiste Mathey. Mathey è conosciuto soprattutto per la sua attività praghese dopo il 1675, dove dimostra la sua maturità e la profonda conoscenza dei modelli dell’architettura seicentesca romana, evidente nella residenza extraurbana di Troja (1679/97), esemplata inequivocabilmente sul modello di Villa Altieri all’Esquilino (1667/71), uno degli edifici più rappresentativi di Giovanni Antonio De Rossi. Anche nella chiesa di San Francesco Serafino dei Crociati (nei pressi di Ponte Carlo), costruita a partire dal 1679, Mathey denuncia una compromissione con il linguaggio romano, con le chiese gemelle di Piazza del Popolo. All’esterno, per la soluzione nella facciata delle stondature concave delle parti laterali; all’interno, nella zona presbiteriale, letta in rapporto alle realizzazioni di Carlo Rainaldi per la chiesa di Santa Maria in Campitelli. Il ruolo avuto dall’architetto borgognone nella diffusione della cultura seicentesca romana a Praga, e il richiamo a modelli di stampo “moderato”, sono evidenti nel palazzo Toskansky (1689/90). Qui, la commistione fra verticalismo e orizzontalità del fronte, l’utilizzo delle torri-altane, le membrature architettoniche, rimandano al prospetto di palazzo Pamphili (1645), di Girolamo Rainaldi, a Piazza Navona. I modelli di palazzi “alla romana” diventarono un punto fermo nella produzione europea, entusiasticamente richiesti dall’aristocrazia. Tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento spetta a Carlo Fontana il contributo più sostanzioso sotto questo punto di vista. Il progetto per il palazzo Liechtenstein a Landskron, in Boemia (1696), quello per il palazzo Sternberg a Praga (1696 circa-1700), i disegni per il palazzo Martinitz, sempre a Praga (1700), sono la testimonianza dei numerosi contatti che Carlo Fontana ebbe con committenti mitteleuropei e rientrano nel fenomeno definito dalla storiografia con il termine di «Korrespon-
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denz-Architekturen», architettura per corrispondenza. In sostanza, gli architetti romani erano invitati a ideare sontuosi edifici e palazzi che successivamente sarebbero stati realizzati in loco da maestranze del posto. Si è cercato, in queste poche righe, di evidenziare alcuni riferimenti con la contemporanea cultura romana, ma per il viaggiatore che visita Praga, per non perderne il suo genius loci, tutti i possibili approfondimenti vanno mantenuti in una dimensione correlata all’ambiente in cui si è immersi, per non rischiare di incorrere nella situazione descritta da Stendhal nel suo Voyage en Italie: “Benedico il cielo di non essere uno scienziato (…) Se avessi la più piccola cultura metereologica, non proverei tanto piacere, in certe giornate, a veder correre le nubi e a godere dei palazzi magnifici o dei mostri smisurati che esse fingono alla mia immaginazione.” Bibliografia T. Valeš, Giovanni Maria Filippi nei paesi boemi, in AA.VV., La fabbrica della Collegiata. Vicende e personaggi legati alla costruzione della Collegiata di Arco a 400 anni dalla posa della prima pietra (7 novembre 1613 – 7 novembre 2013), Arco (TN) 2013, pp. 111-24. A. Valeriani, Alcune riflessioni sull’influenza dell’architettura romana del Seicento in Europa centrale, in Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, 62-63, III s., XXX-XXXI (2007-2008), pp.227/52 A. Valeriani, Modelli barocchi romani per palazzo mitteleuropei tra fine Seicento e primi anni del Settecento, in Miti Antichi e Moderni, a cura di D. Gavrilovich, C. Occhipinti, D. Orecchia, P. Parenti, Roma 2013, pp. 177/191 P. Uličný, B. Klipcová, Albrecht di Wallenstein e gli architetti italiani in Boemia, in Bollettino dell’Istituto Storico Ceco di Roma, n. 9, 2014, pp. 273/84 C. Magris, L’infinito viaggiare, 2014.
Marisa Milella: Dal 1979 al 2016 Storico dell’Arte Direttore Coordinatore del Ministero per i Beni e le attività Culturali ed il Turismo, ha ricoperto diversi incarichi fra i quali Direttore del Castello di Copertino (LE), responsabile del settore Mostre ed eventi. Docente in master post universitari di management dei beni culturali, ha curato mostre a livello nazionale ed internazionale. Dal 2016 vive a Praga. marisa.milella@gmail.com 42
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Praga - San Francesco Serafino dei Crociati
Roma – Chiese gemelle di Piazza del Popolo
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CINEMA E TEATRO
Mattia Sbragia
Attore, doppiatore e regista
A cura di Stefania Del Monte
Mattia Sbragia, nato a Roma il 17 aprile 1952, è un attore italiano conosciuto ed apprezzato a livello mondiale. Figlio di Giancarlo Sbragia ed Esmeralda Ruspoli, inizia a lavorare in teatro nella prima metà degli anni Settanta, collaborando con direttori di fama mondiale quali Giorgio Strehler e Sergio Rubini. Debutta come attore cinematografico nel 1974, nel film Nipoti miei diletti, di Franco Rossetti. Successivamente interpreta, fra gli altri, Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, Storie di ragazzi e ragazze (1989) di Pupi Avati e L’avaro (1990), diretto da Tonino Cervi, con Alberto Sordi e Laura Antonelli. A partire dagli anni Ottanta inizia a lavorare anche per la televisione, interpretando ruoli in diversi sceneggiati quali Vita di Antonio Gramsci (1981) e Delitto e castigo (1983). Negli anni Novanta partecipa a diverse serie televisive quali Il maresciallo Rocca (1996) ed Il conte di Montecristo (1998). Nel 2009 interpreta il ruolo di Luciano Moggi nel film tv Operazione offside, che narra le vicende di Calciopoli. Si è imposto a livello internazionale, ottenendo ruoli in importanti produzioni cinematografiche quali: L’anno del terrore (1991), di John Frankenheimer, interpretato da Andrew McCarthy, Valeria Golino e Sharon Stone; Canone inverso (2000), diretto da Ricky Tognazzi ed ambientato a Praga; La passione di Cristo (2004), di Mel Gibson ed Ocean’s Twelve (2004), di Steven Soderbergh.
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Nel 2014 debutta come regista, presentando in anteprima all’Ischia Film Festival il documentario Grano Salis. Nel 2016 interpreta il Vescovo di Belluno in The Young Pope, la serie televisiva diretta da Paolo Sorrentino, che ha riscosso un notevole successo a livello mondiale. È attivo anche nel doppiaggio. Ha esordito nel teatro giovanissimo, per poi debuttare anche nel cinema e nella televisione. Cosa ricorda di quei primi passi della sua carriera? Ricordo, di quegli inizi, l’inarrestabile entusiasmo dovuto al panorama culturale di quegli anni. Vivido, pulsante, facente parte del tessuto sociale del paese, pieno di opportunità da conquistare, di prodotti dalla eccelsa qualità. Professionisti umili e straordinari. Ogni occasione buona per imparare e crescere. Centinaia di teatri aperti ed operativi, pubblico entusiasta e capace di “intendere e di volere”. Aveva più che un senso occuparsi di arte, aveva e dava dignità. Questo, ricordo. Ma oggi potrei dire che mi rammenta “La vita è sogno”, famoso testo teatrale. A distanza di oltre quarant’anni, dopo un percorso professionale in cui si è fatto conoscere ed apprezzare a livello mondiale, riesce a provare ancora le stesse emozioni, ogni volta che s’immedesima in un nuovo personaggio? Ancora oggi penso che i personaggi siano una opportunità per viaggiare nel pianeta “uomo”. Nella psiche, nel carattere, nella cultura, esponendo ogni volta una storia umana ad uomini affamati di ascoltare e di capire. Sì. È un viaggio affascinante, che ancora mi tiene incatenato al mio mestiere. Lei è figlio d’arte. Suo padre, Giancarlo Sbragia, è stato uno degli attori più importanti della sua generazione, nonché regista teatrale e drammaturgo, mentre sua madre, Esmeralda Ruspoli, si è distinta a partire dagli anni Cinquanta come attrice teatrale e cinematografica. Ritiene che le sue scelte professionali siano state influenzate, in qualche modo, dai suoi genitori? Certamente, penso di essere stato influenzato nelle mie scelte ma non in forma diretta. Indirettamente. Ero un bimbo e vedevo la magia del palcoscenico, vedevo dietro le quinte, vedevo persone che “giocavano” sul serio e tutti li applaudivano, vedevo papà in televisione e mamma al cinema e poi me li stringevo a casa ed erano tutti miei! Chi non si sarebbe fatto influenzare? Tra gli innumerevoli ruoli interpretati, quale le ha dato maggiore soddisfazione?
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Arlecchino ne “L’isola degli schiavi”, per la regia di Strehler. Lo spettacolo più fisicamente impegnativo, attorialmente complesso, figurativamente raffinato che abbia mai avuto l’onore di interpretare. Mi ha portato per più di cinque anni in giro per tutti i più importanti teatri d’Europa e non solo. Ho recitato in città come Mosca, in cui ancora si ricordano di quello spettacolo. Mosca, dove ho incontrato mia moglie, madre dei miei figli. Mi pare ce ne sia abbastanza. Ha lavorato con moltissimi attori e registi di fama mondiale. C’è qualcuno, tra questi, che ricorda con maggiore affetto e con cui le è piaciuto particolarmente lavorare? Lavorare con i “grandi” aiuta a crescere e rapportarsi con chi è in “cima” insegna molte cose. Ognuno dei grandi con cui ho avuto l’onore ed il piacere di lavorare lo ricordo per qualcosa: Mel Gibson per la passione che metteva in ciò che faceva, Soderbergh per la semplicità con cui realizzava le cose, Frankenheimer per la forza travolgente con cui trascinava tutto e tutti, Strehler per la poesia e la meticolosità. Ma se dovessi dire con chi ho più amato lavorare in assoluto, risponderei senza paura: con mio padre. Nel 2000 ha lavorato a “Canone Inverso”, un bellissimo film di Ricky Tognazzi ambientato a Praga. Cosa le ha lasciato quell’esperienza? Quali impressioni le ha lasciato questa città? Praga è una delle più belle città in cui abbia provato il grande piacere di sostare. Prima ci arrivai con il teatro (Arlecchino) e poi con Ricky. Il suo fascino era tale e tanto che girammo la città (io e la mia non ancora moglie) in ogni modo e in qualsiasi minuto libero. Tanto che conservo più il ricordo della città che del teatro e degli spettacoli che ci feci. Tanto che ricordo più i paesaggi sul set che le scene che recitavo. Mi piacerebbe molto poterci tornare. E in che misura, invece, si sente ispirato dalla “sua” Roma? Roma, Roma mia. Ci abito, ci vivo, mi ci addanno. È come un vestito senza cui avrei freddo, una casa senza cui non saprei come vivere. Il mio calderone, la mia cuccia calda. Non ho bisogno di recitare Roma. Ci nuoto. Basta stare attenti ai pescicani… Nuovi progetti in cantiere? Ho un progetto meraviglioso che a fine maggio ha compiuto un anno! L’ultima figliola della mia amata, grande famiglia!
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Affresco di Pegaso, Palazzo Massimo alle Terme 49
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CINEMA
Ivano De Matteo
Attore e regista
A cura di Laura Di Nitto
Ivano Di Matteo inizia la sua carriera artistica nel 1990, frequentando il laboratorio teatrale “Il Mulino di Fiora”. Nel 1992 recita per la prima volta nel film “Le amiche del cuore”, di Michele Placido. Nel 1993 fonda la compagnia “Il Cantiere”. Nel 2002 esordisce come regista con il film “Ultimo stadio”, di cui è anche interprete. Una produzione televisiva gli regala grande notorietà: interpreta, infatti la parte di “Er Puma” in “Romanzo criminale – la serie” (2008-2010). Tra i film realizzati come regista ricordiamo “Gli Equilibristi”, interpretato da Valerio Mastandrea e Barbara Bobulova (2012) e “I nostri ragazzi” (2014), interpretato da Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassmann, Giovanna Mezzogiorno e Barbara Bobulova, con il quale partecipa alla 71° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il prossimo 22 settembre uscirà, inoltre, nelle sale il film “La vita possibile”, realizzato con il contributo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e interpretato, tra gli altri, da Margherita Buy, Valeria Golino, Andrea Pittorino e Bruno Todeschini.
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Ivano De Matteo, regista romano tra i più interessanti del panorama cinematografico degli ultimi anni, viene dalla strada, dai vicoli di Trastevere, dove si incontrano da sempre gli artisti e i registi, romani e non, dal baretto dove si va un po’ per farsi vedere e un po’ perché sembra ancora un posto vero e la birra costa poco, se si paragona ai bar e caffè di lusso che hanno aperto ultimamente in zona. Ci si siede così, tutti appiccicati lì fuori e si sta bene: si spiegano trame di film da realizzare, ruoli da interpretare, copioni da imparare, scene da girare... In un’atmosfera tipicamente romana, in cui ci si prende sul serio, ma non troppo, si fa quelli che se la tirano ma alla fine non è neanche tanto vero… Insomma, in questa cornice già di per sé cinematografica, ricordo di aver incontrato Ivano De Matteo proprio al bar di San Calisto per una birretta, anni fa, quando stava preparando uno dei suoi film più belli e struggenti: “Gli Equilibristi”, con gli straordinari Valerio Mastandrea e Barbora Bobulova. E da allora, quando si parla di Roma e di cinema oggi, mi viene naturale figurarmi lui: un romano verace e, tuttavia, raffinato nei gusti e nel racconto per immagini, sempre capace di affrontare temi molto delicati, eppure con una sensibilità eccezionale e una sottile ironia che caratterizza il suo linguaggio, con il sapore dolceamaro della romanità. Come e quando hai cominciato a fare film? Io vengo dal teatro, poi ho realizzato alcuni cortometraggi e documentari e, infine, l’evoluzione verso il cinema è stata naturale. Deve essere stato difficile all’inizio, come per tutti. Quali criticità hai incontrato? In realtà, mettendo insieme tutti i pezzi, il primo film si fa. È il dopo la parte preoccupante, il secondo film, il terzo… Ti domandi se sarai all’altezza, se poi avrai altre opportunità. Diciamo che, crescendo nel lavoro, cambiano le preoccupazioni: prima vuoi fare un film a tutti i costi e quella è la priorità, poi cominciano altri pensieri e ansie. Non è mai facile, ogni film ha la sua storia di realizzazione, di distribuzione e tu non senti mai che sia più facile di quello precedente. Che rapporto hai con gli attori dei tuoi film? Scegli sempre dei professionisti eccezionali e, anche quelli meno noti, li rendi credibili e veri nell’interpretazione. Come hai imparato a dirigere gli attori sul set? Per il lavoro con gli attori, ho applicato la modalità teatrale: faccio un mese di prove prima del film. Per me è importante anche perché si crea lo spirito di squadra, abbiamo tutti tempo di capirci e io posso spiegare quello che voglio.
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Comunque spesso decido l’attore prima del personaggio e poi il personaggio lo ritaglio sull’attore o l’attrice; il personaggio lo cucio addosso all’attore, in qualche modo. Tu lavori con tua moglie che scrive le sceneggiature dei tuoi film. Qual è il segreto per lavorare bene insieme in coppia? Sì, io e mia moglie ci conosciamo da 25 anni e abbiamo imparato a rispettarci nei tempi e negli spazi. Lei scrive, ovviamente ci confrontiamo spesso, ma poi mi lascia libero al momento di girare, non si intromette nelle scelte e io, allo stesso modo, rispetto le sue. Si può fare, se ci si rispetta e ci si lascia spazio a vicenda, allora si può lavorare insieme anche essendo sposati. Il bello è che ci conosciamo benissimo, quindi ci capiamo al volo su tutto. Credi che Roma sia una città che favorisce l’espressione creativa? Non lo so, a dire la verità. Roma è bella, bellissima, ma ci si perde un po’… e ultimamente purtroppo sembra un po’ soffocata, affaticata. È bella, una bella signora, ma sembra e interagisce come una vecchia signora acida… non è molto accogliente, non è più dolce e morbida, è scontrosa… Roma è un posto difficile per la musica, per il cinema, per l’arte in generale. Hai mai pensato di lasciare la capitale o addirittura l’Italia? Sì, ho pensato spesso alla Francia, un paese che mi ha dato e continua a darmi grandi soddisfazioni con i miei film: sono sempre molto ben accolti e ho sempre dei grandi riscontri. Magari non mi trasferisco in Francia, ma sicuramente voglio andare a girare lì e sto lavorando perché accada. A quale dei tuoi film ti senti particolarmente legato? Ovviamente tutti significano molto, ma se dovessi dire quelli a cui sono più emotivamente attaccato e che hanno avuto una grande importanza per ragioni diverse, direi “Gli Equilibristi” e “La Bella Gente”. Quali sono i tuoi progetti in cantiere? Il tuo sogno da realizzare? Come dicevo, vorrei andare a girare in Francia. Sei mai stato a Praga? No, mai, sebbene le abbia girato intorno, essendo stato ospitato in vari festival attorno alla Repubblica Ceca per i miei film. Spero di poter venire presto anche a Praga!
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FOTOGRAFIA
Giovanni Capriotti
Fotografo, vincitore del World Press Photo 2017
A cura di Stefania Del Monte
Romano verace classe 1972, Giovanni Capriotti è il trionfatore assoluto del World Press Photo 2017, nella categoria Sport Stories, con “Boys Will be Boys”, un reportage sulla prima squadra “gay friendly” di rugby a Toronto. L’amore di Capriotti per la fotografia nasce fin da bambino, quando sua nonna – che lavorava in una pensione – un giorno gli portò a casa una vecchia Yashica dimenticata da qualche turista. Insieme ad una Polaroid regalatagli per la prima comunione, diventeranno i suoi primi sguardi fotografici sul mondo. Dopo essersi trasferito in Canada, nel 2015 si laurea in Photojournalism al Loyalist College. Come freelance scatta per le principali testate e riviste canadesi e diverse pubblicazioni internazionali. Spesso collabora con le nazioni unite (UNHCR) e ONG di vario tipo. Inoltre è un multimedia image/video producer per l’Università di Guelph-Humber.
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Un romano a Toronto. Come ci è finito? Mi sono trasferito in Canada nel 2009. In quell’anno la mia vita cambiò radicalmente. Avevo lavorato per molto tempo presso una nota compagnia italiana che però, proprio in quell’anno, mise alla porta 4mila dipendenti. A quel punto decisi di reinventarmi trasformando la fotografia, da sempre una grande passione, nel mio lavoro a tempo pieno. Una rivista mi commissionò un incarico in Asia: avrei dovuto realizzare un reportage fotografico sulla discarica di Steung Meanchey a Phnom Pen, in Cambogia: un luogo infernale, dove la popolazione vive letteralmente sommersa dall’immondizia e sopravvive lavorando per meno di due dollari al giorno, o riciclando materiale di scarto. Con l’occasione decisi di prolungare il mio soggiorno nel continente asiatico, includendo nel programma alcuni progetti personali, così intrapresi un lungo viaggio che partiva da Bangkok fino ad arrivare a Pechino, passando attraverso Tailandia, Vietnam, Laos, Cambogia e Cina e soffermandomi in particolare nel Tibet orientale, che avevo già visitato. Qui potei completare la mia storia “Lords of the Grasslands”, un servizio sulla popolazione Khampa, e fu proprio in quel periodo che incontrai Meredith, la mia futura moglie. Anche lei, dopo aver vissuto per diversi anni in Australia, aveva optato per un lungo giro attraverso l’Asia e l’Europa prima di rientrare in Canada, il suo Paese d’origine. Decidemmo di continuare a viaggiare insieme in Cina e poi – dopo un mio breve rientro a Roma – in Bulgaria, in Turchia ed, infine, a Parigi. In autunno la raggiunsi a Toronto e il 12 dicembre di quell’anno ci sposammo. Il mio primo periodo in Canada non fu facile. All’inizio lavoravo soprattutto grazie ai vecchi contatti creati in Italia. Nel 2010 però, ricevetti il mio permesso di soggiorno e da lì le cose iniziarono a migliorare, pur non avendo ancora un’occupazione stabile: lavoravo soprattutto fuori dall’ambito giornalistico. Nel frattempo, nel 2012, nacque mia figlia Lulu. Alla fine di quell’anno trascorremmo tutti insieme un lungo periodo in Europa, prima a Roma e successivamente a Istanbul, dove mi dedicai ad un progetto sulle diverse etnie che da secoli vivono gomito a gomito in questa incredibile città: 18 milioni di persone, un vero e proprio crogiuolo di razze che divide la città in micro-stati ma dove riescono a convivere secolarismo e modernismo, valori tradizionali e valori moderni. Quel progetto contribuì, in qualche modo, a rendermi più consapevole del mio ruolo e della direzione che volevo prendere come fotografo, così al rientro in Canada mi iscrissi all’Università. Dopo un primo tentativo di seguire un corso di “Fine Art Photography” mi accorsi che in realtà, ciò
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che mi interessava davvero, era specializzarmi in “Photojournalism”, quindi approdai al Loyalist College, dove mi laureai nel 2015. Dopo l’Università ottenni una collaborazione con la Montreal Gazette e mi trasferii. Allo stesso tempo iniziai a lavorare come freelance anche per il Toronto Star: una collaborazione che nel tempo si è intensificata e che mi ha riportato, oggi, a rientrare a Toronto. Oggi, quindi, vive in Canada e la sua vita l’ha portata a fare moltissime esperienze intorno al mondo, ma Roma è il luogo dove tutto è cominciato: che rapporto ha con la sua città? Amo la mia città. Con l’Italia ho un rapporto di amore-odio ma per Roma provo solo amore. Ebbi l’opportunità di riscoprirla nel periodo in cui rimasi senza lavoro, subito prima del mio viaggio in Asia. Quando si vive in un posto si tende a darlo per scontato, quasi ad ignorarlo. In quel periodo, invece, avendo tanto tempo a disposizione iniziai a camminare tantissimo, ad osservare: ripresi possesso della mia città. Roma è una città unica e irripetibile. È inevitabile che ancora oggi, dopo tanti anni che vivo lontano, mi manchi tantissimo. Per fortuna, però, ogni volta che torno ho la possibilità di godermela appieno, in massima libertà: mia figlia, infatti, viene letteralmente sequestrata dai miei genitori, che approfittano di quelle poche settimane all’anno per trascorrere ogni singolo istante con la loro nipotina; quindi io posso approfittarne per rivedere i miei amici d’infanzia senza, per questo, sentirmi in colpa. Ovviamente non sono più la persona che lasciò Roma otto anni fa. Alla mia creatività italiana ho aggiunto una buona dose di pragmatismo nordamericano. Questo si riflette anche nei rapporti con le amicizie di sempre, che nel tempo si sono evolute, sono maturate, ma nel profondo sento di essere sempre lo stesso: romano e italiano. Anche se ho trovato la mia strada all’estero, la mia città ed il mio Paese sono la mia essenza. Il mio legame con Roma, però, è sempre stato più viscerale che fotografico. Fino a poco tempo fa non avevo mai scattato nulla che la riguardasse ma da qualche tempo ho avviato anche lì un progetto personale, dal titolo “The winter of my youth”. Si tratta di una riflessione sul concetto di mobilità degli esseri umani: da coloro che per cercare opportunità si trasferiscono all’estero, a quelli che per mille motivi si spostano all’interno della città stessa, fino agli individui che per abitudine, o semplicemente per mancanza di coraggio, rimangono fermi, quasi prigionieri dei loro limiti. È un progetto che mi stimola molto, perché contiene molti elementi autobiografici e, in un certo senso, così come spesso accade con il mio lavoro,
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è un percorso che mi costringe a guardarmi dentro, aiutandomi a crescere e a diventare una persona migliore. Com’è nata l’idea di Boys Will be Boys, la storia che le è valsa la vittoria al World Press Photo 2017? La genesi del progetto è nata nel 2010, mentre partecipavo con mia moglie alla “Pride and remembrance run”. Dei ragazzi mi diedero un volantino della “Toronto Muddy York”, una squadra di rugby canadese “gay friendly”, o “inclusive”, come dicono in Canada. Mi venne subito in mente di realizzare un servizio su di loro ma, tra le tante cose da fare, il volantino finì in naftalina. Qualche anno dopo lo ripresi per presentarlo come progetto all’università ma, ancora una volta, non ebbi tempo di portarlo avanti. Subito dopo la laurea, in occasione del “Gay Pride” di giugno, mi resi conto che quello era il momento giusto per proporre la storia: la pubblicò il “Globe and Mail”, il principale quotidiano nazionale canadese, ma dopo un po’ di tempo venne dimenticata. A dicembre del 2015, mentre ero in Italia per le vacanze di Natale, fui contattato dalla squadra, che mi proponeva di continuare a documentare la storia durante la loro partecipazione alla Bingham Cup. Mark Kendall Bingham era un rugbista statunitense che fu tra le vittime del volo United Airlines 93, dirottato durante gli attentati dell’11 settembre. Il volo era diretto sulla Casa Bianca ed alcuni passeggeri, nella colluttazione con i dirottatori, lo fecero precipitare in un campo della Pennsylvania. Bingham era uno di quei passeggeri. Il suo atto di coraggio è considerato una risposta agli stereotipi comunemente diffusi sulle persone gay ed al suo nome è oggi intitolato il più importante torneo rugbistico internazionale: appunto, la Bingham Cup. Accettai l’incarico e a maggio partii con la squadra per Nashville. In quel periodo ebbi accesso totale alla vita dei giocatori e diventai parte integrante del team. Questo mi permise di conoscere a fondo i soggetti delle mie fotografie e di comprendere sempre meglio quale fosse il mio obiettivo: alla fine, la storia che ho poi sottoposto – a dicembre del 2016 – al World Press Photo, si è evoluta destrutturando e ridescrivendo il concetto di mascolinità all’interno della performance sportiva. A fine gennaio ricevetti una email dagli organizzatori del concorso, in cui mi venivano chiesti i file originali: a quel punto capii di essere tra i finalisti e per me cominciarono due settimane di passione, fino a quella mattina del 13 febbraio quando, dopo una notte insonne, alle 5 del mattino scoprii, da un articolo di “Time”, di aver vinto. All’inizio, quando lessi il mio nome,
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non riuscivo a crederci. Poi, lentamente, realizzai. La mia seconda reazione è paragonabile a Daniele De Rossi che corre sotto la curva sud, dopo il gol al derby: non vedevo l’ora di condividere la notizia con Meredith e Lulu. Un risultato del genere, per qualsiasi fotografo, significa il riconoscimento di anni di sacrifici. Quale pensa sia stato l’elemento vincente del suo reportage? Credo che alla storia sia stato riconosciuto il fatto di essere “non convenzionale”. Il World Press Photo è uno dei pochi concorsi nei quali il materiale presentato viene giudicato nell’arco di un mese, anziché in poche ore, e questo ha permesso a chi doveva esprimere una valutazione di riflettere sulle implicazioni profonde di ogni storia presentata. Il mondo in cui viviamo è decisamente “maschiocentrico” e perfino io, che avevo sempre pensato di essere lontano dalla mentalità omofobica, mentre lavoravo a questo reportage mi sono accorto che, di default, la società ci abitua a considerare il concetto di femminilità come inferiore, o comunque più debole rispetto a quello di mascolinità. Sono quindi grato a questo progetto perché il suo processo creativo mi ha permesso di superare anche certi pregiudizi personali che erano radicati in me, mio malgrado, e diventare una persona migliore: per me questo è l’aspetto più importante della mia professione. Credo che “Boys will be boys”, alla fine, abbia fatto emergere la propria matrice prettamente femminista, pur avendo atleti maschi come attori principali. Non sono stati in molti, ad accorgersene. Tanti si sono limitati a considerare il reportage come una semplice storia di sport ma, qui, sono racchiuse tante sfumature di una società moderna che tende ad allontanarsi sempre più da schemi e pregiudizi, e sono davvero grato alla giuria del WPP per averle sapute cogliere e premiare. Quale messaggio vuole trasmettere, con il suo lavoro? Non intendo trasmettere messaggi ma semplicemente soddisfare la mia curiosità. Sono generalmente attratto da soggetti che ricevono poca copertura a livello mediatico. Mi piace investigare e raccontare le cause dietro una storia: è un po’ una sfida con me stesso ed ogni storia, in qualche modo, mi permette di conoscermi meglio. Non sempre, però, quello che racconto con i miei scatti arriva a destinazione: purtroppo ogni lavoro deve passare attraverso gli editor dei giornali i quali, si sa, sono i più grossi censori. È sempre chi pubblica a decidere quale storia raccontare.
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La fotografia, oggi, si può considerare una professione oppure una sfida? Oggi siamo sommersi da milioni di singole, ma una singola immagine può essere scattata da chiunque. Un professionista si riconosce, invece, dalla capacità di raccontare con consistenza e perseveranza delle storie valide. Non credo, però, che in passato il lavoro del fotografo fosse più semplice, anzi…Forse la differenza risiede nel fatto che una volta poteva essere più facile entrare a far parte di una redazione mentre, nel panorama attuale, l’elemento essenziale per fare della fotografia una professione è la diversificazione. Un fotografo deve avere la possibilità di scattare ciò che desidera ma spesso, per fare questo, anche un professionista ha necessità di accettare incarichi commerciali sapendo che, in fin dei conti, sono quelli che gli danno la tranquillità economica per poter poi finanziare i propri progetti personali. La diversificazione, quindi, si può considerare l’anima della fotografia moderna. Ha altri interessi, oltre alla fotografia? In che modo influenzano i suoi scatti? Ho moltissimi interessi dai quali traggo continua ispirazione. Posso dire di essere influenzato da tutto, a partire dalla musica, all’ambiente circostante, alle relazioni umane, ai viaggi. Tutte le mie esperienze sono state importanti, sia quelle positive che quelle negative, perché mi hanno trasformato nella persona che sono oggi. Prossimi obiettivi? Al momento sto lavorando ad alcuni progetti commerciali, ma anche a varie storie personali. Tra queste ultime, sono nel mezzo di un progetto che investiga le condizioni socio-economiche di Manitoulin Island, l’isola d’acqua dolce più grande al mondo, situata sul lago Huron. Si tratta di un’analisi sulle dinamiche culturali e sociali che ruotano intorno all’isola, come ad esempio la cultura aborigena e quella bianca che, pur convivendo, qualche volta finiscono, inevitabilmente, per scontrarsi, oppure la mancanza di lavoro che spinge, da una parte, i giovani ad abbandonare l’isola per andare a cercare opportunità fuori e, dall’altra, i pensionati a tornare nei loro luoghi d’origine. Nel cassetto, poi, ci sono una miriade di altri progetti. Il mio lavoro è in continua evoluzione!
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LETTERATURA
Tommaso Avati Scrittore e sceneggiatore
A cura di Laura Di Nitto
Quando hai cominciato a scrivere e qual è stato il tuo primo racconto? Una mia amica, che frequentò insieme a me le elementari, sostiene di ricordare uno dei miei primi temi, letti in classe dalla maestra, in cui descrissi un immaginario dialogo tra un bambino e un alieno. Onestamente non ho nessun ricordo di quel tema, né dei miei primissimi racconti. Ricordo però di essere sempre stato stregato e innamorato del rumore che producevano i tasti della macchina da scrivere di mio padre, quando lavorava fino a tardi chiuso dentro al suo studio. Volevo sapere maneggiare quello strumento anche io, volevo saperlo “suonare”, sapere far correre le dita sulla tastiera, veloci come fulmini, per produrre qualcosa di bello. Non ricordo cosa scrivessi da ragazzino, ma ricordo la sensazione bella, emozionante ed elettrizzante che mi dava toccare la macchina da scrivere e l’idea, un po’ destabilizzante e vertiginosa, che da quell’oggetto potesse uscire fuori qualunque cosa, qualunque idea, qualunque storia…
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C’è stato un momento preciso della tua vita in cui hai deciso di fare dello scrivere il tuo lavoro? Subito dopo essermi laureato iniziai a frequentare una nota agenzia di pubblicità per apprendere il mestiere di copy writer. Mi era insomma chiaro che il mio lavoro avrebbe avuto a che fare con la scrittura. Poi però successero delle cose, presi vie diverse, e mi trovai a dover scrivere, insieme ad altre persone, un soggetto per un film. Capii subito quanto quel tipo di scrittura, quella cinematografica, fosse infinitamente più creativa di quella pubblicitaria. Tu, quindi, scrivi anche per il cinema e la televisione. Ti appassiona di più scrivere sceneggiature o romanzi e racconti? Se potessi decidere cosa scrivere per il resto dei miei giorni non avrei dubbi: romanzi, tutta la vita. Inizialmente ero spaventato, lo devo ammettere, dall’idea della quantità, della lunghezza che un romanzo, rispetto ad un soggetto o ad una sceneggiatura deve sostenere. Scrivere una sceneggiatura, poi, è molto più facile che scrivere un romanzo, perché nella sceneggiatura si delega molto
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alle immagini, non si scrive tutto, lo script insomma dice solo l’essenziale: brevi accenni sull’ambientazione, sul personaggio, e poi i dialoghi. È insomma un testo per definizione provvisorio, incompleto, che necessita di altri strumenti per potere essere compiuto. Un romanzo invece è finito, basta a se stesso. Un romanzo ti fa calare letteralmente in un mondo, che è il mondo del narratore, il suo unico, speciale, peculiare, e personalissimo mondo. Cosa che nella sceneggiatura non accade. Ecco allora che uno sceneggiatore alle prese con un romanzo rinasce, si sente volare, si sente libero, si sente finalmente padrone del suo mezzo creativo. Le sceneggiature sono lavori provvisori, per definizione incompiuti, sempre in progress, che cambiano mille volte, e che poi l’autore non realizza mai da solo. Spesso i film si scrivono insieme ad altri: col regista, con il produttore, con l’attore, e così via. E le riunioni di sceneggiatura sono tavolate goliardiche in cui si dicono tante di quelle stronzate, ci si diverte, si perde tempo, si scherza e si ride, e ogni tanto qualcuno tira fuori un’idea, che qualcun altro decide di inserire nel film… Il romanziere invece crea davvero, e da solo, davanti al suo computer; solo lui e la pagina bianca, che è un’immagi-
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ne terribile e insieme meravigliosa del reale potenziale della creatività, di tutto quello che, se sei bravo, puoi riuscire a tirare fuori dal cappello a cilindro. In un romanzo, poi, il tessuto narrativo ha spesso maglie più larghe di quelle di una sceneggiatura, dove non puoi inserire quel che vuoi, ma solo quel che serve davvero alla storia. Nel romanzo le maglie narrative sono più larghe: è come un grande calderone in cui puoi mettere un po’ di tutto. La marcia in più che ha poi un romanzo su un film, e soprattutto un certo tipo di romanzo (come quello di formazione), è la vocazione a saper essere davvero soggettivo, a poter dire davvero fino in fondo il punto di vista dell’autore. I romanzi più belli, infatti, secondo me, sono quelli scritti in prima persona, dove il protagonista si racconta, si mette davvero in gioco, e a nudo. Nel cinema questa possibilità non esiste. Non si può prescindere mai dalla macchina da presa e dal suo punto di vista che è per definizione asettico, impersonale. Anche quando il regista ricorre ad una voce narrante fuori campo, il punto di vista è comunque sempre quello esterno della macchina da presa. Solo nel romanzo si ha la possibilità di entrare davvero nella mente dell’autore. Insomma, mi piace pensare che se il cinema è, come diceva Hitchcock, “la vita senza le parti noiose”, la letteratura allora è la vita in cui le parti noiose diventano interessanti, in cui quel che accade ogni giorno ad ognuno di noi viene visto sotto una luce o una lente di ingrandimento che rende quegli eventi diversi, personalissimi, originali. La letteratura è allora davvero, come diceva Pound, “la cronaca di notizie sempre attuali”. Quali sono, secondo te, le caratteristiche personali importanti di uno scrittore? Mi ha sempre colpito una dichiarazione di John Fante in cui, in una lettera alla moglie, sostiene che i peggiori nemici di uno scrittore siano rancore ed amarezza. Credo sia vero, e che per poter scrivere, creare qualcosa, si debba saper superare molta parte dei sentimenti negativi che ci dominano e che strozzano la creatività, la soffocano. È strano, e in parte contraddittorio, perché si dice che uno scrittore per poter scrivere bene, per saperlo fare, e per avere voglia di farlo, debba aver sofferto molto più di una persona qualunque. Eppure, per poter scrivere, deve essere stato in grado di superare questa sofferenza, di metterla in quarantena, di isolarla, di saperla osservare con un certo distacco, di saperla analizzare, di rigirarsela tra le mani ammirandola senza restarne più sopraffatto. Si potrebbe argomentare che la scrittura, di per sé, aiuti col suo potere terapeutico, a fare ciò. Ed è vero. Ma è anche vero che se siamo sopraffatti dal dolore non riusciremo mai a trovare la forza per scriverne.
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Pensi che uno scrittore debba isolarsi e osservare da fuori o che, piuttosto, debba “sporcarsi le mani” e fare esperienza di ciò che intende raccontare? Penso che non esista gioia maggiore, per uno scrittore, che scrivere di sé, parlare del suo vissuto, e che quindi sia necessario, per fare ciò, vivere. Anzi, a volte mi piacerebbe vivere di più, fare esperienze diverse, anche particolari, un po’ estreme, per poterle solo raccontare, per poterne fornire il mio punto di vista. Tutto insomma, secondo me, passa attraverso la soggettività, il proprio punto di vista, che è poi la sola cosa di cui davvero disponiamo. Le storie più belle sono quelle in cui l’autore inserisce una buona dose di elementi autobiografici e che poi, però, si distaccano dal vissuto reale dell’autore, e assumono una esistenza propria, autonoma, prendono vita indipendente per tornare, nel finale, ad essere perfettamente coerenti con quel che l’autore avrebbe fatto, detto o pensato se fosse stato il protagonista di quella sua storia. Questo per dire che è difficile scrivere solo e unicamente in modo autobiografico, almeno per me, e che ci vuole una sorta di piccolo inganno, di distacco, per dimenticare che quei personaggi di cui stai scrivendo rappresentano in realtà te stesso. Quali sono le letture che ti hanno ispirato come scrittore? Il primo romanzo che abbia mai letto è stato forse quello che mi ha segnato di più; non il più bello, ma quello più determinante. Avevo sui 14 anni e mio padre possedeva una libreria immensa. Ogni giorno mi diceva: leggi questo! Ed erano le mille e duecento pagine di “Guerra e Pace”. Oppure: leggi questo! Ed erano le mille e passa pagine de “I Fratelli Karamazov”. Ma io non leggevo per dispetto, per contestazione, mi rifiutavo di fare quel che mi chiedeva perché in quel periodo ero fatto così, non volevo dargli soddisfazione. Un giorno però vidi un libro gettato nello scatolone tra le cose da mandare via, alla casa in campagna forse, e aveva una copertina che mi incuriosiva: con una finestra e un balconcino, come se fosse un invito ad entrare, a vedere cosa ci fosse dentro a quella casa. Allora lo presi di nascosto, e lo lessi tutto in due giorni. E alla fine piansi. Per la prima volta leggendo qualcosa piansi, e mentre piangevo pensavo: come si fa? Come è riuscito a farmi questo? Insomma, era “La Casa Degli Spiriti” di Allende, e mi fece capire, per la prima volta, quali fossero le immense potenzialità della scrittura. Poi ho continuato a leggere e sono cresciuto imbevuto di letteratura americana. Non ho la presunzione di dire che gli scrittori americani che amo mi abbiano ispirato perché temo di non essere riuscito ad imparare granché da loro. Ma quel che in questi lunghi anni da lettore ho ammirato di più, se posso riassumerlo in due parole, è: la semplicità di Raymond Carver, il ritmo di Jack Kerouac,
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l’ironia di John Fante, e il genio assoluto di David Foster Wallace, che forse riunisce in un unico autore tutti questi meravigliosi talenti. Se potessi tornare indietro nella vita e fare e/o non fare qualcosa, cosa sarebbe? Andrei sicuramente a frequentare una scuola di scrittura negli Stati Uniti, dove la scrittura creativa viene insegnata, e dove ad insegnarla sono validissimi professionisti. Ho sempre rimpianto di non averlo fatto, non avere avuto il coraggio (e i soldi) per potermi permettere un’esperienza di questo tipo. Ho invece studiato scienze della comunicazione a Roma, che è stato anche interessante, ma dove non ho appreso nulla in termini di scrittura. Il tuo romanzo d’esordio “Ogni città ha le sue nuvole” racconta del trasferimento di un adolescente da Bologna a Roma negli anni Ottanta. Come ricordi la capitale in quel periodo e come mai hai voluto raccontare proprio quei tempi? Roma allora era molto simile a come ho cercato di descriverla nel romanzo. Era una città “selvaggia”, per certi versi. La ricordo sporca, caotica, maleducata, disordinata. La ricordo poi molto violenta. A scuola scoppiava una rissa al giorno, e si alternavano ragioni calcistiche a quelle politiche. Ma erano violente anche le strade: io stesso, proprio come il mio protagonista, sono stato rapinato almeno un paio di volte. Insomma era così, una città particolare, dove un ragazzo di 14 anni proveniente dalla provincia emiliana poteva trovarsi, diciamo, un po’ spaesato. Ho ambientato il racconto negli anni ’80 perché sono gli anni in cui sono stato adolescente. Perché l’adolescenza è l’epoca in cui gettiamo le basi vere, autentiche e concrete, non inconsce, del nostro essere, di quel che saremo poi. Ho poi avuto una pretesa un po’ ambiziosa: di riuscire a cogliere l’attimo, il momento esatto in cui diventiamo grandi, che è una fase di passaggio delicatissima, in cui non siamo più bambini e nemmeno ancora adulti. È un momento magico, prodigioso nella vita di ognuno di noi, perché non siamo ancora sostanzialmente nulla, e possiamo proprio per questo essere tutto. È una magia, una fase della nostra esistenza in cui si possono compiere piccoli miracoli. E Alessandro, il protagonista di “Ogni Città Ha Le Sue Nuvole”, alla fine compie davvero un piccolo miracolo. Stai lavorando ad un nuovo romanzo? Sì, è a buon punto ormai. È ambientato ai giorni nostri e parla sostanzialmente di come si diventi genitore oggi.
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POESIA
Umberto Donato Di Pietro Poeta e scrittore
A cura di Samantha Venuta
Innamorato delle donne, della poesia ma soprattutto della sua Roma, Umberto Donato Di Pietro regala a chi lo segue, sui social e non solo, pensieri e parole che ‘sentono’ romano oltre il tempo e lo spazio. Controllore del Traffico Aereo presso l’Aeroporto di Ciampino per molti anni, dopo aver abbandonato e intrapreso l’attività di commercialista scrive alcuni trattati fiscali, trampolino di lancio verso generi meno tecnici e più umanistici. Autore di romanzi quali “Il mistero della spilla”, “Il velo bianco” e “Il senso della vita” (ambientato proprio a Praga), Di Pietro è però soprattutto un poeta: tra le sue numerose raccolte ricordiamo infatti “La Valle”, “Parlo alla Luna”, “Gocce di pensieri” e ultima, in ordine di tempo, “Fiori di campo”. La sua intensità lo porta ad essere vincitore di molti concorsi in versi a vari livelli, incluso il Festival Internazionale di Poesia Estemporanea “Il Federiciano” che, nel 2016, arriva ad insignirlo del titolo di «custode» del “Paese della Poesia”, attualmente associato al piccolo borgo calabrese di Rocca Imperiale.
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Quando è iniziato il suo rapporto con la scrittura? Un tutt’uno tra prosa e poesia o due avventure differenti? Di sicuro sono due avventure differenti. Il primo rapporto con la poesia è iniziato circa nove anni fa, dopo la scomparsa della compagna di tutta la mia vita. Mi sono ritrovato come perduto e ho cominciato a trovare consolazione scrivendo poesie, quasi tutte dedicate a lei. Era come se potessi parlarle di nuovo. Prima di allora non avevo mai scritto nulla: esercitavo una professione razionale, non creativa, e l’idea di comporre in versi era di sicura l’ultima nella scala delle possibilità. Ma quando si è concretizzata ha dato il via anche ad altre esperienze. Dopo la pubblicazione di quindici raccolte poetiche, infatti, ho voluto cimentarmi anche nella narrativa, scoprendo una bellissima esperienza che ha prodotto, ad oggi, ben quattro romanzi. Scrivere una storia è come ritrovarmi fianco a fianco ad un amico, vivere due vite -la sua e la mia- e sentire, quando ci si ‘separa’, come se stessi perdendo per sempre una parte di lui, della nostra vita insieme. In ogni caso, anche nei momenti dedicati alla narrativa la poesia rimane un momento fisso, quotidiano: la sua composizione è per me inarrestabile come un fiume in piena. Finalista con menzione di merito in diverse competizioni poetiche nazionali e internazionali, nonché collaboratore ad antologie e “Custode” del Paese della Poesia: si aspettava tutto questo riscontro da parte degli “addetti ai lavori”? No, sinceramente non me lo sarei mai aspettato. Ottenere questi riconoscimenti si è rivelato un grande stimolo nel continuare a scrivere e a sperimentare. Proprio a Rocca Imperiale, Paese della Poesia, ho avuto la fortuna di aggiudicarmi qualche estemporanea, genere di competizione che prediligo e dove è giunto inaspettato il riconoscimento di “Custode”. Che senso ha, secondo lei, scrivere e parlare di poesia oggi, e soprattutto in Italia? Mala tempora currunt, direbbero i latini. Stiamo vivendo momenti di ansia e di terrore e le menti sono rivolte agli atroci accadimenti che, ormai con una certa frequenza, si verificano. Sono comunque del parere che una poesia, uno scritto o una riflessione, possano regalare un colore nuovo alle cose ed ai sentimenti, cambiandone prospettiva o facendone riscoprire delle nuove.
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Come definirebbe il suo rapporto coi lettori? Ottimo, un rapporto di assoluta fiducia. Loro percepiscono, attraverso i miei scritti, le emozioni, i sentimenti, le passioni e le ansie che fluiscono dal profondo attraverso la penna, senza pudore e senza schermi. I riscontri arrivano anche direttamente sui social, dove sono presente ed attivo attraverso un’interazione familiare quotidiana. A quale dei suoi lavori è più legato? Perché? Logicamente, sono legato a tutti: è come chiedere ad un padre quale dei suoi figli prediliga. Il romanzo in cui mi identifico di più è sicuramente il primo che ho prodotto, “Il mistero della spilla”, uno spaccato di vita vissuta, dove narro il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 che, sfortunatamente, ho visto con i miei occhi. Avevo solo sei anni ed ancora oggi, sebbene a distanza di tanti anni, mi capita di commuovermi al solo ricordo. Come può vedere mi sto commuovendo anche adesso parlandone con lei. Rifuggo dall’assistere a spettacoli pirotecnici, mi sconvolgono i forti temporali estivi: sono accadimenti che mi fanno rivivere quei terribili momenti. La rinascita sembra essere il filo conduttore della storie della sua narrativa. Rinascita come trasformazione o come rinnovamento? Entrambe: come trasformazione ma anche come rinnovamento. A esempio, nel romanzo che ho appena citato il personaggio, attraverso le vicende vissute durante la guerra, si trasforma dal ragazzo semplice, spensierato e un po’ sprovveduto che era in un uomo forte e responsabile, che la guerra non è riuscita ad inaridire ma, al contrario, ha fatto crescere e riflettere sul vero significato della vita. Un uomo che è ancora – e qui il rinnovamento – in grado d’amare e di essere di conforto al prossimo, mantenendo sempre la genuinità e semplicità propria del laborioso e onesto mondo contadino. Nel racconto si succedono poi una serie di personaggi che dimostrano, pur in diverse vesti, che anche durante l’orrore di un conflitto mondiale è possibile conservare quell’umanità che gli individui non dovrebbero perdere mai, in nessun momento e a nessun prezzo. A dimostrazione che, nonostante la disperazione che una guerra porta con sé, c’è sempre una possibilità di ritrovare la speranza di rinnovamento per una vita migliore. Le sue origini, e la città di Roma in particolare, in che piega del suo scrivere si nascondono o prendono vita? La città che ho amato non esiste più. Intendo nei caratteri umani, dal momento che sono totalmente cambiati, mentre la sua bellezza rimane indiscutibil-
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A Romolè te vorebbe dì ‘na cosa! ma noi stamo tanto a parlà de ‘sti beduini che martratteno ‘e donne, ma tu ce lo sai che puro oggi noi popolo de civili penzamo che ‘a donna deve da esse sottomessa a l’omo? No nun m’enterompe che me fai perde er filo, e piantella de ciancicà ste fusaje stamme a sentì quanno parlo Io penzo che er Creatore a la donna nun j’abbi messo ‘na costola ma la mejo parte der cervello nostro perché si ce fai caso è più mejo de noi ner fa raggionamenti! Ma che me stai a dì che so ruffiano? Guarda che io da quanno so sortito dar ventre de mi matre che vedo ‘a donna come ‘n fiore portatrice de senno e tanto ammore e de ‘a donna ce so nato ‘nnammorato.
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mente meravigliosa, come la sua lingua. Ho composto diverse poesie in dialetto romanesco: in alcune ne ho esaltato la maestosità, altre invece suonano come un lugubre lamento per tutte quelle cose e per quei contatti umani che, ahimè, non ci sono più. Invece Praga e la sua scrittura dove si incontrano e come convivono? Praga è una città che ricorre spesso nei miei sogni. Alcuni capitoli del mio romanzo sono ambientati proprio in questa città, ma sono solo frutto di fantasia, non avendo mai avuto modo di poterla visitare davvero: la conosco soltanto attraverso il web. Ricordo che qualche anno fa, avendo io l’hobby della videografia, creai un video in omaggio alla città, tanto era ed è il mio vivo desiderio di poterla vedere. Chissà, forse un giorno appagherò questo mio sogno e potrò percorrere quelle strade, quelle piazze, così come le ha percorse fantasticamente il protagonista della mia storia. Riportando il titolo di un suo romanzo, qual è per lei il senso della vita? Il senso della vita è sempre qualcosa di soggettivo. Lo si esprime innanzitutto nel modo in cui la si vive, cosa da essa ci si aspetti. Il suo significato lo troviamo in tutte le cose che ci circondano, alle quali diamo il giusto valore, componenti senza le quali il creato stesso non sarebbe che un vuoto nulla. Credo comunque che il vero senso della vita sia semplicemente l’amore, quell’amore che riusciamo a trasmettere in ciò che ci circonda; esso può avere un nome o essere semplicemente una traccia sulla neve, oppure lo sguardo di una donna innamorata o quello di uno sconosciuto che ti dà la risposta che cercavi. Penso si possa ricondurre semplicemente a questo. Sito: http://www.youcanprint.it/autori/5865/umberto-di-pietro.html
Samantha Venuta è nata a Catania nel 1980. A Gela ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza fino alla maturità, trasferendosi poi per dieci anni a Palermo, dove si è laureata in Lettere Classiche ed ha collaborato con l’ambiente universitario per alcuni anni. Abbandonata la Sicilia nel 2011, attualmente vive e lavora in provincia di Roma, insegnando materie letterarie nei licei. venuta.sam@gmail.com 80
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LIFESTYLE
Francesco Totti Una favola eterna come Roma
A cura di Stefania Del Monte
Il 28 maggio 2017 Francesco Totti, capitano dell’AS Roma e simbolo della capitale, ha indossato per l’ultima volta in campo quell’unica maglia che oramai per lui, dopo 28 anni di carriera, è come un tatuaggio sulla pelle. E quel giorno, non solo Roma ma il mondo intero si è alzato in piedi ad applaudirlo. Spiegare cosa rappresenta Totti per Roma e per i romani rimanendo obiettivi e professionali è un compito al limite dell’impossibile, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di vivere la sua bellissima favola da vicino. Una favola destinata a rimanere nel cuore di molte generazioni di tifosi, degli appassionati di calcio, o semplicemente di tutti quei romantici che amano le belle storie d’amore. Sì, perché nel raccontare questo amatissimo figlio di Roma le parole si trasformano, inevitabilmente, in una lettera d’amore per un mito il cui nome è legato per sempre a quello della città eterna.
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Il ragazzino partito da Via Vetulonia e approdato alla Serie A nel marzo 1993 ha saputo trasformarsi, grazie ad estro, fantasia ed un talento incredibile, nell’ultimo, indiscusso re di Roma, oltre che in una stella del firmamento calcistico mondiale. Dopo aver conquistato uno scudetto con la sua Roma, nel 2001, ed un campionato del mondo a Berlino, nel 2006, il 28 maggio il Capitano ha indossato per l’ultima volta la sua fascia: quella fascia che aveva ereditato dal compagno Aldair il 31 ottobre 1998, quando a guidare la Roma era il tecnico boemo Zdenek Zeman. A fine partita, di fronte a 70mila spettatori in lacrime, l’ha tolta per consegnarla a Mattia Almaviva, classe 2006 ed il più giovane capitano del settore giovanile giallorosso. Un passaggio di consegne che rimarrà scolpito nel cuore dei tifosi, così come quella data che nessuno avrebbe voluto arrivasse mai. Dire addio al Totti calciatore non è facile, non solo per i romanisti. Da sempre abituati a risultati altalenanti, per i tifosi giallorossi la presenza in campo del più grande fenomeno della loro storia era un costante raggio di sole, a volte l’unica ragione per cui valesse la pena andare allo stadio. Ma il congedo di questo immenso fuoriclasse va ben al di là dei confini della squadra, della capitale, o dell’Italia stessa. Totti è l’ultimo numero 10 di un calcio sempre più commerciale, che non conosce bandiere. La sua storia straordinaria, però, non è solo quella scritta in campo a suon di colpi di genio e raccontata in ogni forma possibile, ma quella costruita ogni giorno con costanza, lealtà ed un amore incondizionato per la sua squadra, la sua città e la sua gente. Tra le migliaia di tributi riservati al campione Andrea Scanzi, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, ha saputo interpretare i sentimenti di almeno tre generazioni: “Quando uno come Francesco Totti si ritira, non è che gli appassionati piangano solo perché un campione smette. (…) Si piange anche perché un campione, quando smette, porta via con sé tutti gli anni che gli altri hanno vissuto con lui. (…) Non è mai solo calcio: è memoria, è condivisione, è appartenenza. Ed è tempo che passa, il peggiore degli avversari”. E come non menzionare, anche in questa occasione, la solita voce fuori dal coro di Zdenek Zeman? “Quella di domenica prossima non è una festa ma una tragedia”, aveva dichiarato qualche giorno prima dell’incontro il boemo, il quale una volta, in passato, aveva anche confessato: “Io sono malato di Totti. È il più forte giocatore che abbia mai allenato”. La favola calcistica di Francesco Totti si è conclusa con quel “vi amo” strozzato, da lui pronunciato alla fine di uno struggente discorso d’addio.
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Chiuso il sipario sull’ultima poesia del calcio italiano, però, noi che quel ragazzino lo abbiamo visto diventare uomo, vogliamo puntare i riflettori su un’altra favola, forse ancora più bella della precedente, di cui il campione è protagonista. Una favola che ci rende raggianti di gioia, perché potrebbe essere solo all’inizio. Da sempre, infatti, Totti sostiene una serie di bellissime cause e ci conforta il pensiero che forse, da oggi, vi potrà dedicare ancora più tempo. Impossibile elencare tutte le azioni benefiche compiute dal Capitano nel corso della sua carriera, perché si tratta di gesti riservati e di cui lui non ama parlare: ogni volta che qualcosa è emerso, è accaduto perché è stato qualcun altro a raccontarlo. Non è, però, un mistero che il ricavato della sua apparizione all’ultima edizione del Festival di Sanremo sia stato donato a varie associazioni benefiche, e così i cachet di tutte le sue comparse televisive, gli incassi dei suoi libri e perfino i diritti televisivi del suo matrimonio. Dal 2003, inoltre, Francesco Totti è ambasciatore Unicef e si batte per i diritti dei bambini in difficoltà. Ed a proposito di bambini: nel 2009 ne ha adottati 11 da una baraccopoli in Nigeria. Ma non è tutto. Dal 2006 la sua scuola calcio, la “Totti Soccer School”, porta avanti con successo un progetto dal titolo “Diamo un calcio alla disabilità”, nato con l’obiettivo di accogliere il desiderio di ragazzi con disabilità intellettiva che vogliono giocare a calcio. In proposito, qualche anno fa, Totti dichiarò: “Grazie a questa esperienza ho capito che concetti banali per tutti possono essere incomprensibili per qualcuno. Come, per esempio, sapere in quale porta bisogna tirare. Chi è l’avversario. E che, per vincere, si deve fare gol. Ma anche quello di “vincere” può essere un concetto molto relativo. Ed è questo il bello di un progetto così. Cominci pensando che devi insegnare ai ragazzi qualcosa, che devi aiutarli a capire, a integrarsi e poi, all’improvviso, scopri che sono stati loro ad aver insegnato qualcosa a te”. Da anni, infine, l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma beneficia del sostegno di Totti, non solo economicamente ma attraverso campagne di sensibilizzazione, o frequenti visite ai bambini ricoverati. Non è poi così utopico, quindi, auspicare che un personaggio umile e generoso, da sempre abituato a mettere la propria popolarità al servizio di chi ne ha più bisogno, possa decidere di continuare a farlo. E allora, forse, può sembrare quasi un segno del destino che in una calda serata di tarda primavera, in uno Stadio Olimpico a due passi dal Vaticano, Roma abbia sentito riecheggiare quelle parole dolcemente familiari: “Chiamatemi Francesco”.
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ARCHITETTURA
Fabio Barilari
Architetto, pittore, illustratore, grafico… e grande viaggiatore
A cura di Stefania Del Monte
Noto architetto romano, dal 1989 Fabio Barilari ha collaborato con numerosi studi di architettura ed ingegneria tra i quali lo studio Fuksas (Nuovo Centro Congressi di Roma), specializzandosi nella progettazione di organismi architettonici ed urbani complessi. Nel 1996 ha fondato a Roma lo studio “Barilari Architetti” che, negli anni, ha ricevuto numerosi riconoscimenti e pubblicazioni nazionali ed internazionali. Ha ottenuto il 1° premio Inarch nel 2000 e nel 2010. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2000 e alla Biennale dei Giovani Artisti Europei del Mediterraneo (Roma, 1999). Nel 2012 ha rappresentato l’Ordine degli Architetti di Roma alla 13° Triennale di Architettura a Sofia. Nello stesso anno il progetto Picture House è stato selezionato per la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana - Triennale di Milano. Dal 2008 ha sviluppato la sua attività professionale estendendo la sua ricerca, oltre all’architettura, agli ambiti dell’illustrazione, pittura e grafica. La ricerca sviluppata in questi settori è stata presentata nell’agosto 2011 su Abitare. Ha tenuto mostre personali in Italia, Germania, Spagna, Francia e Cina. Nel 2013 ha presentato il progetto “Il Senso delle Cose” in una mostra personale al Chiostro del Bramante di Roma. Dal 2013 collabora con il Goethe-Institut. Nel gennaio 2015 ha presentato le sue opere alla Galleria INTERNO14 di Roma.
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Da quanto tempo si occupa di architettura? Ho cominciato a lavorare negli studi (di ingegneria, inizialmente) durante il mio secondo anno di università, per cui direi trent’anni: mi impressiona un po’ fare questo calcolo! Fin dall’antichità, Roma è sinonimo di architettura. Che cosa le ha insegnato, e cosa vuol dire essere architetto in un luogo come questo? Sì, ha detto bene: “Roma è sinonimo di Architettura”. Questo vuol dire che Roma ha il potenziale di insegnare letteralmente tutto, in questo ambito. E il termine “tutto” lo intendo in un senso un po’ più esteso rispetto ai confini di questa disciplina: l’architettura dà forma e funzione alle necessità concrete e psicologiche della persona, per cui Roma diventa anche sinonimo di questa lettura più ampia. Qual è il suo rapporto con la città? “Struggente” forse è il termine più corretto. Rubo dalla Treccani: “Struggente: Detto di sentimento, passione e sim., che è intenso, tormentoso e dolce nello stesso tempo: una s. nostalgia; rimpianto, desiderio struggente”. Dentro questo termine c’è contemporaneamente amore, rabbia, odio, dolcezza ed una quantità enorme di altre sfumature. È uno di quei rapporti nei quali non puoi mai stare tranquillo, mai sereno; c’è sempre da discutere, sempre da riappacificarsi, sempre da andare controcorrente senza raggiungere mai la riva. Professionalmente è insopportabile, ma poi ti fai un giro in moto per il centro, alla Nanni Moretti, e ti rimetti in pace con il mondo. C’è però da specificare un aspetto molto importante in questo discorso: sto parlando solo del centro di Roma. Perché si parla di Roma e nell’immaginario collettivo ci si associa a Piazza Navona, o al Pantheon, mentre tutto quel magma informe esterno al centro si fa finta di non vederlo. Si preferisce non considerare il fatto che la Roma “immaginata” ha un’estensione di 15 chilometri quadrati circa, a fronte dei quasi 1300 della Roma reale. Tutto, o quasi tutto ciò che esiste al di fuori di quei 15 kmq, è letteralmente da buttare: non credo ci sia nessuno al mondo che verrebbe a visitare questa città se non ci fossero quei 15 kmq. È lì che dovrebbero intervenire gli architetti e sanare questa condizione così estesa e compromessa. Anzi, meglio: è lì che gli architetti dovrebbero essere messi in grado di lavorare.
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Nel suo processo creativo da chi, o da che cosa, trae ispirazione? Il processo creativo si muove su percorsi sempre difficili da riconoscere ed imparare a gestire, per chi si muove in questi ambiti. È difficile spiegare, a chi lavora in altri settori, questo mondo così astratto. Una volta lessi che è come muoversi in una stanza al buio cercando la chiave per aprire la porta. È difficile, ad esempio, spiegare che si può trovare ispirazione indifferentemente da un brano musicale, dalla forma di un sasso, da un testo scritto o da un’opera di Tiziano. Quello che cambia è poi l’analisi, l’approfondimento, l’insegnamento che se ne può trarre: questi aspetti hanno tempi di sviluppo chiaramente molto differenti. Naturalmente ho poi una serie di riferimenti personali che per me sono tutti imprescindibili ma che non necessariamente appartengono al mondo dell’architettura, né appaiono coerenti tra loro in termini di ricerca ed esiti creativi. Per citarne alcuni: Carlo Scarpa, Tadao Ando, Lou Reed, Samuel Mockbee, Steve McCurry, Basquiat, Rothko, Keith Richards, Enric Miralles, Antonello da Messina, Paul Klee. E poi ci sono opere singole. Dovrei spiegarne le singole ragioni ma sarebbe un discorso un po’ lungo... In generale, personalmente reputo la musica una matrice comune a qualunque ambito creativo e mi rendo conto di non poter tradurre questo aspetto in modo razionale. Di fatto si usano gli stessi termini (composizione, ritmo, armonia, pause, e così via) nel trattare ambiti estremamente diversi tra loro
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ma, forse, sarebbe più corretto parlare di frequenza: la creatività è una specie di frequenza interiore, da sintonizzare con il mondo esterno. Per Le Corbusier “l’architettura deve suscitare emozione, far commuovere”, mentre Victor Hugo definì l’architettura come “il grande libro dell’umanità”. È d’accordo? Intanto una specifica: c’è una differenza determinante tra architettura ed edilizia. Non sempre è chiaro questo aspetto. Sì, non posso che essere profondamente d’accordo. L’architettura esiste nel momento in cui genera emozioni ed è anche il testo sul quale l’umanità ha scritto, scrive la propria storia. Di fatto, piaccia o meno, non esiste opera più complessa creata dall’uomo, di un organismo urbano, una città. Per questo motivo la progettazione in ambito urbano mi interessa in modo particolare. Tra i progetti da lei realizzati, qual è quello che, a suo avviso, si rispecchia meglio in queste affermazioni? Nella Picture House ho potuto sviluppare in modo approfondito alcuni temi legati al rapporto psicologico tra architettura e persona ed al rapporto tra architettura e contesto: si tratta di un progetto “intimo”, potrei dire. Il progetto di concorso, più recente, per l’ampliamento del Wien Museum
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Neu mi ha invece appassionato durante tutta la fase di studio, per la ricerca di un rapporto con la città consolidata, fatto di storia, di geometrie, ma anche di fruizione fisica. I suoi interessi spaziano dall’architettura all’illustrazione, alla pittura, alla grafica e ad un’altra sua grande passione: i viaggi. C’è un filo conduttore che unisce tutti questi elementi? La ricerca, suppongo. La curiosità. Dimentica la musica: è realmente molto importante. In questo continuo viaggio alla ricerca di nuovi “ingredienti” da aggiungere alle sue ricette, quale sarà la prossima destinazione? Sto lavorando ad un progetto su un campo di profughi siriani in Giordania, insieme ad una fotografa e documentarista francese, Agnes Montanari. Questo progetto, ora, mi appassiona e coinvolge moltissimo perché porta con sé un grande numero di implicazioni: la narrazione, l’immagine, l’architettura, la progettazione urbana, l’impatto sociale, i rapporti umani e quelli tra contesto e comunità. Anche l’incontro tra differenti culture, e non mi riferisco solo a quella siriana o giordana: c’è una quantità di organizzazioni internazionali, governative e non, coinvolte sul campo, che è impressionante. Per anni ho progettato aree portuali e i contesti urbani in cui sono inserite: si tratta sempre di progetti complessi, che nascono dal coordinamento di un grande numero di professionalità ed altri attori e parti in causa. Ecco, la complessità di questi processi mi interessa sempre molto: stimola la creatività e per me si trasforma immediatamente in una sfida nel portare a termine il risultato.
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VINI
C’era una volta l’osteria romana
Dagli enopolium alle fraschette, per quattro chiacchiere e un bicchiere di vino
A cura di Roberto Vinci
“C’era una volta l’osteria romana”. L’incipit è quello delle vecchie favole ma, a differenza di queste ultime, nel nostro caso non c’è il lieto fine. Parliamo, infatti, di qualcosa che non esiste più, che abbiamo fatalmente perso ma che, nonostante ciò, ha lasciato un’impronta profonda nella tradizione popolare romana e laziale. Il termine osteria (arcaico: hostaria) deriva dal latino hospes, ad indicare colui che riceveva in casa i forestieri. Locali simili alle osterie erano presenti già nell’antica Roma: erano chiamati enopolium, mentre nei thermopolium venivano servite, oltre alle bevande, anche vivande calde, mantenute alla giusta temperatura in vasi di terracotta incassati nel bancone.
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Alexander Laurens, Osteria Romana, 1820
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Ditlev Blunck, Artisti danesi all’Osteria La Gensola di Roma, 1837 99
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Le osterie, nate all’inizio come punto di ristoro lungo i tragitti che conducevano alle città o nei luoghi di maggior scambio commerciale e utilizzate, agli albori, dagli strati più poveri della popolazione, rappresentavano anche il luogo ove gli uomini trascorrevano un po’ di tempo in compagnia, scambiando quattro chiacchiere accompagnate da un bicchiere di vino e, sovente, dalla presenza di qualche signora disponibile. Luoghi d’incontro ormai scomparsi, fagocitati da tempi mutati radicalmente e votati ad una ristorazione rapida, poco attenta, al “mordi e fuggi” più esasperato e pazzo, le osterie romane ci riconducono ad una Roma che fu, quando non era raro imbattersi nelle capate, branchi di animali che venivano condotti al macello. Perfino la Roma degli anni successivi alla breccia di Porta Pia era ancora un fiorire di campi di fave, broccoli e carciofi. Un esempio ne era Via del Carciofolo, scomparsa a causa dell’apertura di Corso Vittorio Emanuele. E sempre a Roma in quegli stessi anni, la stessa Villa Borghese comprendeva diverse vigne, la più antica delle quali risalente al 1580. Ed è proprio il vino, l’alimento (in quell’epoca proprio di alimento si deve parlare) intorno al quale è nata e si è sviluppata l’osteria. L’insegna era solitamente composta da una corona o frasca (da cui le famose fraschette per indicare le antiche osterie) fatta di edera, quercia o ulivo. Il vino ne era il cuore e rappresentava spesso un elemento non sottovalutato dagli stessi potenti, regnanti e papi. Con il pretesto di evitare truffe ai clienti sulla quantità e qualità, ad esempio, Papa Sisto V nel 1588 impose che il vino (già tassato dai Papi) fosse servito in brocche di vetro prodotte esclusivamente dall’ebreo Meier Maggino di Gabriello e sigillate dalla Camera apostolica. Un doppio guadagno, quindi, sia sulla mescita che sul consumo, giustificando l’aumento del prezzo con le tasse per limitarne il consumo ed evitare così risse e baruffe e tutelando, allo stesso tempo, gli avventori che, utilizzando le brocche di vetro, potevano così controllare che il vino stesso non fosse annacquato. Per la salita al trono pontificio di Innocenzo X, della nobile famiglia Pamphilj, fu concepito un meccanismo idraulico grazie al quale i due leoni egizi alla base della scalinata del Campidoglio furono in grado di versare, per un’intera giornata, rispettivamente vino bianco e vino rosso. È facile immaginare che gran parte del vino consumato nelle osterie romane
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Wilhelm Marstrand, Osteria Romana, 1847
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provenisse dai vicini Castelli ma sulla sua qualità è legittimo nutrire seri dubbi. È interessante, a tal proposito, ricordare quale sia l’etimologia del verbo infinocchiare. Quando l’oste, infatti, aveva intenzione di servire ai commensali un vino di scarsa qualità o inacidito, era solito servire antipasti a base di finocchio. Il finocchio consumato crudo, con la sua aromaticità, ha infatti la peculiarità di alterare i sapori quasi anestetizzando il cavo orale. In questo modo, i commensali, con il gusto alterato dal finocchio, non erano in grado di accorgersi della truffa attuata dall’oste e bevevano senza lamentarsi. Venivano, perciò, infinocchiati. L’oste aveva solitamente fama di persona astuta, poiché sapeva sapientemente conciliare le necessità ed i bisogni dei suoi avventori con il proprio tornaconto personale. Sempre ben informato, grazie alle parole confidate in libertà da persone spesso “alticce”, tentava spesso di trarne un utile profitto. Si pensi al detto “fare i conti senza l’oste”. Lo stesso Renzo di manzoniana memoria, dopo le negative esperienze vissute nelle osterie nelle quali aveva soggiornato, esclama “Maledetti gli osti, più ne conosco, peggio li trovo”. Da ricordare poi l’oste dell’Osteria del Gambero Rosso nel Pinocchio di Collodi
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che, quasi complice del raggiro attuato dal Gatto e dalla Volpe a danno del burattino, strizzò l’occhio come per dire “Ho mangiato la foglia e ci siamo intesi!...” Il vino arrivava a Roma via terra, su carri capaci di portare 500 litri in barili da 50 litri, o per via fluviale, direttamente al porto di Ripa Grande. Si è persa invece totalmente memoria delle vecchie misure di vino: il tubo (1 litro), la foglietta (½ litro), il quartino (1/4 di litro), il chierichetto (1/5 di litro) ed il sospiro (1/10 di litro). Era una Roma molto diversa da quella di oggi, nella quale le osterie, prosecuzione degli ostelli per i pellegrini, costituivano luogo d’incontro anche di poeti, scrittori, artisti. In via della Maddalena l’Osteria del Moro fu teatro di una delle innumerevoli risse di Caravaggio; Goethe racconta di un amore letterario consumato con la bella Faustina all’Osteria della Campana, a Vicolo di Monte Savello; all’Orso, Dante si affacciò per assistere al Giubileo del 1300. Di alcune osterie, specie dei primi anni del ‘900, c’è ancora qualche testimonianza. Ad esempio Marietta, in Piazza Spada, era famosa per la qualità del vino che arrivava da Marino; Madonna Bona, così detta per l’avvenente titolare, era famosa per la trippa ed il baccalà in guazzetto. C’era poi l’osteria Agli uccelli
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Carl Bloch, In un’osteria romana, 1866
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in gabbia, nei pressi del Carcere di Regina Coeli, a via Della Lungara. I suoi avventori erano i carcerati più abbienti che, beneficiando del particolare regime carcerario dell’epoca, ne frequentavano i locali per gustare le sue famose costolette di abbacchio. Si pensi poi al Sor Antonio, frequentato da Boccioni per gli spaghetti con le rigaglie (frattaglie) e al Paterellaro a Trastevere, famoso per gli spaghetti e per le minestre, che vedeva il poeta Trilussa tra i suoi avventori. All’osteria ci riporta la stessa maschera romana di Meo Patacca, luogo dove amava mangiare e scambiare chiacchiere con i suoi compari, o Rugantino che, proprio all’osteria di Mastro Titta, lanciò la scommessa che Rosetta sarebbe stata sua. Come non ricordare poi, venendo a tempi più prossimi, il legame dell’osteria con personaggi quali Pier Paolo Pasolini, Aldo Fabrizi, Giancarlo Fusco. E chi potrà mai dimenticare come l’osteria fosse il luogo prediletto, per bere e giocare a carte, dal Marchese del Grillo, interpretato in modo mirabile da Alberto Sordi? Ed ancora… chi ricorda Gassman, Manfredi e Satta Flores in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, riuniti in osteria a mangiare un piatto di lesso alla picchiapò? L’osteria ha scandito la vita dei romani, nel bene e nel male, strizzando l’occhio per secoli a nobili e popolani, ad artisti ed artigiani, a truffatori e poeti, creando un’atmosfera viva, reale, conviviale, soprattutto ospitale. Ed era proprio il senso profondo ed originario di luogo di ospitalità a rendere l’antica hostaria sede unica di condivisione di esperienze, tragedie, drammi, pianti, urla, sberleffi, stornelli. L’osteria era semplicemente la vita, magari odiata e maleodorante come un vino inacidito o sfrontata come l’espressione di una prostituta, ma era pur sempre la vita: reale, concreta, pulsante.
Roberto Vinci è sommelier professionista, fotografo e comunicatore ASA (Associazione Stampa Agroalimentare). Nato a Roma e residente a Praga, nel 2015 ha curato “Dalla vigna al bicchiere”, un corso introduttivo alla degustazione del vino, in 10 lezioni, tenutosi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Praga. http://www.robertovinci.viewbook.com 104
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Chiudo con un tributo al poeta Trilussa, che delle osterie romane fu assiduo frequentatore e geniale cantore:
Mentre bevo mezzo litro, de Frascati abboccatello, guardo er muro der tinello co’ le macchie de salnitro. Guardo e penso quant’è buffa certe vorte la natura che combina una figura cor salnitro e co’ la muffa. Scopro infatti in una macchia una specie d’animale: pare un’aquila reale co’ la coda de cornacchia. Là c’è un orso, qui c’è un gallo, lupi, pecore, montoni, e su un mucchio de cannoni passa un diavolo a cavallo! Ma ner fonno s’intravede una donna ne la posa de chi aspetta quarche cosa da l’Amore e da la Fede… Bevo er vino e guardo er muro con un bon presentimento: sarò sbronzo, ma me sento più tranquillo e più sicuro.
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DOLCI
Il maritozzo con la panna
Il dolce romano per eccellenza
A cura di Alessia Moretti
Quando mi chiedono cosa ne penso della pasticceria romana io, romana di nascita ma con un albero genealogico esteso fino ad un paesino toscano “incastrato” tra Lucca e Prato, tendo a tergiversare, a prendere tempo, perché è molto complicato dare una risposta esaustiva. Ebbene sì, se la memoria non m’inganna, Roma non può essere annoverata tra le città che vantano capolavori dolciari come Milano con il suo “Panetún”, Torino con il suo “Gianduiotto” o Napoli con i suoi babà; nel food romano, infatti, sono noti i bucatini all’amatriciana, i rigatoni alla “pajata” o gli spaghetti alla “gricia”, ma sicuramente non i nostri dolci. Eppure, volendo essere pignoli, a Roma si contano oltre 600 attività tra pasticcerie e “cornetterie”, dislocate in tutti i quartieri, dal centro storico alla periferia, aperte sette giorni su sette, a volte anche per quasi 24 ore al giorno; quindi, sebbene non ci sia un dolce “storicamente” riconosciuto come romano, non si può pensare che non ci sia un forte legame tra questa città, il suo tessuto sociale, le sue tradizioni e la pasticceria.
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Da che ho memoria invero, ogni domenica mattina, dopo la messa di mezzogiorno, intere famiglie sciamavano dalle numerosissime chiese che si contano nella Capitale verso le tante pasticcerie di quartiere, per comprare le cosiddette “pastarelle”; una moltitudine di piccoli e grandi consumatori, assidui frequentatori di queste magiche “botteghe” profumate di vaniglia e cacao, che non potevano non finire il pranzo domenicale senza un bignè alla cioccolata o un cannolo alla crema. Non solo…tanti di questi stessi fruitori, tra cui la sottoscritta, si trovavano spesso a chiudere una serata, magari un “post discoteca”, quindi a tardissima notte o quasi all’alba, mangiando cornetti caldi ripieni di crema e gianduia, oppure il famigerato “maritozzo con la panna”, accompagnando il tutto, quasi sempre, con un cappuccino caldo, senza disdegnare a volte anche un buon moijto. Ed è forse proprio “il maritozzo” che realmente merita il titolo di dolce romano per eccellenza; non un cornetto, non una pastarella, ma neanche una brioche siciliana. Essenzialmente un panino dolce di forma oblunga, questa bontà è un semplice impasto lievitato al sapore di burro, miele e uova, racchiuso in una crosta sottile e lucida che ne mantiene la fragranza e la morbidezza interna; ripieno di panna montata rigorosamente poco zuccherata, “il maritozzo” detiene il record della miglior colazione che si possa fare a Roma. La tradizione romana racconta che questo dolce, definito per l’occasione “er santo maritozzo”, veniva anticamente preparato con pinoli, uva e scorzette di arancia ed era usanza, il primo venerdì del mese di Marzo – festività paragonabile al nostro odierno San Valentino – donarlo all’amata o alla futura sposa, nascondendo al suo interno un gioiello o dei preziosi; proprio da questa tradizione deriva il suo nome, maritozzo, ovvero un vezzeggiativo burlesco della parola “marito”; in definitiva un simbolo di amore su cui venivano anche disegnati mani o cuori intrecciati, oppure un cuore trafitto da una freccia – «dù cori intrecciati, o ddù mane che sse strignéveno; oppuramente un core trapassato da una frezza». Anche nel Medioevo troviamo note storiche su questo panino dolce; durante la Quaresima infatti la Chiesa, in segno di penitenza, imponeva dei digiuni severissimi ad un popolo di per sé già molto indigente; solo il maritozzo, preparato come “dolce d’emergenza”, era ammesso come eccezione concessa al digiuno quaresimale; una popolare canzone romana lo descriveva così: “pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero e talvolta canditure o anaci o uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno”; lo stesso poeta romano Gioacchino Belli ne parla nel suo sonetto “Er padre de li santi”.
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Inutile dire che oggi, sebbene abbia perso la sua funzione di utilità prevista nel Medioevo, il maritozzo ha un ruolo preminente nella vita sociale romana, sia diurna che notturna; che tua sia romano – e quindi certe nozioni le hai “per nascita” – o che tu sia un turista in visita – e quindi ti sei munito di tutte le informazioni che il Web ti può aver fornito – non puoi non esserti imbattuto in uno degli innumerevoli locali, bar, pasticcerie, laboratori artigianali e cornetterie varie che quotidianamente sfornano e farciscono questi “panini dolci e pannosi”. I locali storici di Roma, posti in quartieri quali Il Ghetto, l’Esquilino, Trastevere, Testaccio, Monti, vantano una vera e propria rivalità nella produzione quotidiana del maritozzo: la pasticceria Regoli a via dello Statuto, il Forno Panella dietro Santa Maria Maggiore, Romoli nel quartiere Trieste, fino ad arrivare alle numerosissime attività di pasticceria gestite delle varie famiglie toscane - Duranti, Cristiani, Marinari - trapiantate a Roma nel dopo guerra; ognuna di loro, con la propria ricetta di famiglia, il proprio dosaggio o l’aggiunta di un ingrediente segreto, non solo ha tramandato una tradizione quasi unica nel suo genere ma ha accompagnato la colazione dei romani attraverso tutti gli innumerevoli contesti storici, politici, religiosi e culturali in cui la città eterna è stata da sempre coinvolta. Varie sono le vicende che capitano ogni giorno a Roma ed altrettanto numerosissime e ben note sono le attività “da fare” e le cose “da vedere” quando vieni a visitarla: la monetina nella Fontana di Trevi, il cannone di mezzogiorno al “Gianicolo”, la mano nella “Bocca della verità”, i Musei Vaticani, Villa Borghese, Trinità dei Monti e potrei continuare all’infinito; ma ci sono alcune tipicità che solo una “romana” può consigliarti, come mangiare un filetto di baccalà alla friggitoria a Largo dei Librari, dare un’occhiata dal buco della serratura del Giardino degli Aranci, all’Aventino, e consigliarti tra le tante pasticcerie per far colazione con un “maritozzo alla panna” e cappuccino.
Alessia Moretti è una Pastry Chef di quarta generazione. Dopo una parentesi, a Roma, nel settore immobiliare, si è trasferita a Praga quattro anni fa, tornando alla sua vecchia passione e fondando Favole di Dolci. http://www.favoledidolci.eu 110
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CURIOSITÀ
Quel viaggio di Sordi a Praga Il curioso rapporto dell’attore romano con la capitale ceca
Quando si parla di Roma non si può evitare di menzionare un vero e proprio pilastro del cinema romano ed italiano: Alberto Sordi. Notoriamente un grande viaggiatore, nel corso della sua vita l’Albertone nazionale visitò Praga in numerose occasioni. Non tutti sanno, però, del curioso episodio che si verificò nel 1996, durante un viaggio di ritorno dell’attore romano da Praga a Roma. Nella mattinata del 17 aprile, infatti, si diffuse una notizia che dava Sordi gravemente malato. Anzi, addirittura in fin di vita. Al suo arrivo a Fiumicino, nelle prime ore del pomeriggio, il grande attore si trovò di fronte una folla di giornalisti e, meravigliato, smentì personalmente la notizia del suo “grave malore”.
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Da un articolo de La Repubblica, pubblicato il 18 aprile 1996, si apprende che la notizia era nata da una serie di telefonate anonime giunte nelle redazioni di agenzie e giornali. Le telefonate, fatte con voce calma e preoccupata, annunciavano che “nel giro” si era appreso che Sordi, a Praga per presentare “Storia di un italiano”, era stato colto da un ictus e che, rientrando a Roma, aveva chiesto ai neurologi dell’Ospedale San Giovanni di poter essere immediatamente visitato. Da una verifica subito effettuata all’Ospedale romano risultava che una telefonata (a detta di alcuni operatori dell’ospedale) era stata fatta e che l’accettazione era pronta a ricevere l’attore. Ciò dava un senso alla notizia e dava anche il via ad una sorta di inseguimento della “verità”. Mentre l’attesa al San Giovanni risultava vana, la verifica continuava negli uffici dell’Aeroporto di Fiumicino. Anche qui la notizia del malore di Sordi era arrivata, ma solo come “voce di corridoio”. Nessuna richiesta, da parte del comandante dell’aereo sul quale Sordi viaggiava, di particolari misure d’accoglienza. Nessuna richiesta particolare da parte dell’attore agli steward che avevano viaggiato con lui. Nel giro di poche ore, come accade nelle leggende metropolitane, la voce della presunta malattia dell’attore aveva fatto il giro d’Italia. A questo punto, per verificarne l’autenticità, ai giornalisti non restava che andare a Fiumicino ad attenderlo. Una piccola dimostrazione che la pratica delle “notizie false” non è poi un fenomeno così recente. Il bizzarro legame tra l’attore e la città boema, però, non finisce qui. Un altro aneddoto lega infatti il nome di Alberto Sordi a Praga, e si può trovare nel libro “I cloni di Mr. Bond”, di Dante Marianacci. Qui il protagonista del romanzo, Federico, ricorda una lunga intervista da lui fatta all’attore proprio a Praga – una sorta di confessione – finita subito dopo, con il registratore nel quale era la cassetta e con la borsa che li conteneva, nelle mani di un ladro il quale, deluso di non aver trovato in quella borsa nulla di valore, forse se ne era poi disfatto, gettandola nelle gelide acque della Moldava.
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ITALIANI A PRAGA
Mauro Lovecchio
Giornalista, fotografo, esperto di comunicazione e pubbliche relazioni
<<Ho lasciato la città dove sono nato, Bari, a 18 anni, per studiare Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Orientale di Napoli. Da lì ho continuato a viaggiare per studio e per lavoro e, dalle Relazioni Internazionali, con la S.I.O.I di Roma e uno stage alla NATO a Bruxelles, sono poi passato al giornalismo, con un MA in International Journalism alla Cardiff University (UK) e collaborazioni con testate giornalistiche italiane e internazionali, tra cui il quotidiano cinese Global Times. Negli ultimi anni a incarichi di PR e comunicazione, per enti pubblici e privati, ho affiancato un’attività di gestione e consulenza con base a Praga. Sono partito occupandomi di gestione immobiliare a breve termine – affitti per turisti su Airbnb, per intenderci – ma nel corso degli anni ho notevolmente incrementato il pacchetto clienti e, di conseguenza, di competenze. Con la società Studio Lovecchio s.r.o. (studiolovecchio.com), che ho costituito a gennaio del 2016, in un solo anno ho esteso l’offerta, creando dei pacchetti di gestione completa, aziendale e immobiliare. In poco più di 12 mesi ho più che raddoppiato l’organico e stretto collaborazioni con professionisti esterni, per assistenza legale e fiscale. Alla mia clientela, prevalentemente italiana ma non solo, sono in grado di offrire servizi completi che vanno dall’amministrazione societaria alla gestione contabile alla consulenza immobiliare. Questo in “orario d’ufficio”.
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Nella vita mi occupo di mio figlio Yang, di 5 anni, e cerco di coltivare la mia passione per i viaggi e la fotografia e, di recente, quella mai sopita per la vela. Certo, la Repubblica Ceca non è il posto ideale per veleggiare, ma è un Paese che è comunque in grado di offrire bellezze incredibili. Ho viaggiato molto. Sin dall’età di 11 anni sono stato mandato a studiare l’inglese in Irlanda e Gran Bretagna. Da lì non ho mai smesso e, prima di approdare a Praga, ho vissuto ad Amburgo, Bruxelles, Cardiff, Sana’a (Yemen), oltre ad aver visitato più volte la Cina, l’Uzbekistan e gli Emirati Arabi. Praga, però, è sempre stato il luogo che, per me, offre un perfetto equilibrio. È una città viva, ricca di stimoli, senza tuttavia essere dispersiva e caotica come le megalopoli asiatiche. I due motivi decisivi sono stati, però, uno di carattere personale e l’altro prettamente professionale. Nel momento in cui è nato mio figlio, con la mia ex moglie si è posta la scelta di dove farlo crescere. Le opzioni erano tre. La Cina, patria materna, troppo caotica, inquinata e non esattamente “child friendly”; l’Italia, esclusa perché ormai da tempo non la sentivo più il Paese dove progettare il mio futuro – e tanto meno quello di mio figlio – e la Repubblica Ceca, dove dal 2006 avevo già una base e alcuni investimenti immobiliari. La scelta è stata facile. Praga è una città che ha un’attenzione di primissimo livello nei confronti dei suoi piccoli cittadini. Questo, insieme ad un costo della vita proporzionalmente più basso, a servizi ottimi e ad una semplicità di fare impresa incomparabile con l’Italia, hanno fatto pendere la bilancia nettamente in favore di questo Paese. Il mio approccio con Praga è stato abbastanza graduale. Sono arrivato qui per la prima volta nel 2006, quasi 11 anni fa, seguendo la mia compagna di allora. Nel tempo ho consolidato i miei rapporti con questa città, investendo nel settore immobiliare e trascorrendovi periodi sempre più lunghi. È dal 2013, però, che ho definitivamente spostato qui la mia base operativa. Praga è sicuramente una tappa importante nel mio percorso di crescita, personale e professionale. Ritengo, tuttavia, che qualunque luogo o qualunque esperienza abbia in sé il potenziale per “cambiare la vita”. Bisogna saper cogliere le opportunità che ci vengono offerte, da qualunque parte esse arrivino. Sicuramente l’aver vissuto in Repubblica Ceca ha influenzato il mio modo di pensare e ampliato le mie vedute, ma allo stesso modo è stato importante per me lo Yemen, la Cina e l’Irlanda da bambino. Trovo che il confronto culturale sia uno strumento di crescita prezioso, in grado di cambiare la vita... ogni giorno.
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La Repubblica Ceca, per alcuni versi, non è un Paese facilissimo. Dal punto di vista professionale, soprattutto nel settore immobiliare, mi sono a volte trovato a pagare per la reputazione che gli italiani si sono creati nei decenni scorsi. Gli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino sono stati caratterizzati da una sorta di Far West. L’incertezza dovuta al periodo di transizione ha attirato faccendieri di ogni tipo, pronti a cogliere l’occasione per grandi speculazioni immobiliari, in alcuni casi vicine alla truffa. Naturalmente non tutti gli italiani della prima ora erano persone disoneste. Molti sono stati genuinamente attratti dal fermento culturale e intellettuale derivato dalla liberazione, dopo decenni di oppressione comunista. Ma si sa, il lavoro virtuoso di molti è spesso rovinato dalle azioni spregiudicate di quei pochi che hanno guardato a questo Paese come una facile preda per far soldi in fretta. Purtroppo questo ha lasciato il segno nella percezione degli italiani da parte di molti cechi. Credo però che la situazione stia cambiando. Negli ultimi anni sono aumentate le iniziative commerciali di giovani italiani, arrivati con una gran voglia di lavorare e promuovere quanto di buono il nostro Paese ha da offrire. Un cambio di mentalità e di modo di fare impresa che, a mio avviso, non potrà che migliorare la percezione della comunità italiana. Naturalmente, uno degli aspetti più ostici di questo Paese è la sua lingua. Bellissima e ricchissima, ma altrettanto complessa nei suoni e nella grammatica. D’altro canto però, dopo essere sopravvissuto a cinque anni di Latino e Greco, a diversi anni di Arabo e dopo aver sposato una cinese, non sarà certo uno “zmrzlina” (gelato) e qualche diacritico a spaventarmi. Sono da sempre un “Prague Fiver”. “Smíchov mojě čtvrt’, můj hood”, come canta il rapper – un po’ trash – Hugo Toxxx. Vedo il fiume quando mi alzo la mattina e dalla finestra del mio studio. Mi aiuta a mantenere il mio, vitale, rapporto con l’acqua. Certo, non è il mare, forse l’unica cosa che realmente mi manca, ma è una vista che regala ogni giorno, all’alba, con la nebbia, con la neve, emozioni imperdibili. Smíchov è un quartiere interessante e incredibilmente vivo con le passeggiate serali (negli ultimi anni forse un po’ affollate) su Smíchovská náplavka, il suggestivo ponte ferroviario e il battello che, durante la bella stagione, collega le due sponde del fiume. Quando ho tempo poi, prendo il kajak e risalgo il fiume passando tra isolotti e houseboats, verso la periferia verde della città. L’Italia, purtroppo, è da troppo tempo che fa di tutto per far passare la voglia di viverci. Ci torno diverse volte l’anno, anche per periodi abbastanza lunghi,
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quindi non ho il tempo per averne realmente nostalgia. Spesso, però, ho tempo a sufficienza per ricordarmi i motivi per cui ho scelto di andare via. Ho passato ormai quasi metà della mia vita fuori dall’Italia e, per quanto indubbiamente una buona parte delle mie radici siano lì, ho forse più nostalgia dei luoghi che per un periodo ho chiamato “casa” e dove non ho avuto altrettante occasioni di tornare. Cosa consiglierei ad un italiano che desidera trasferirsi qui? Questa non è una domanda semplice a cui rispondere. Naturalmente ci sarebbe una valanga di consigli “pratici” per chi intende trasferirsi qui, ma non mi sembra questa la sede per fare una lista di cosa mettere in valigia. Al senso più generale della domanda non è facile dare una risposta, perché ciascuno, quando decide di vivere in un Paese nuovo, ha un approccio differente, estremamente personale, oltre che motivazioni e aspettative individuali. Chi si trasferisce a Praga fa una scelta diversa da chi sceglie Londra o la Spagna, e ne deve essere consapevole. D’altro canto non è però neanche una scelta drastica come potrebbe essere l’Asia o il Medio Oriente. Come ho già detto alcune righe più su, Praga secondo me offre un ottimo punto di equilibrio, ma non è detto che tutti lo percepiscano allo stesso modo. Esistono gruppi sui social network dove rivolgere domande specifiche e avere un’idea di cosa aspettarsi. Forse un buon consiglio potrebbe essere quello di leggere le esperienze dirette di chi è qui da un po’ di tempo. A 35 anni i progetti per il futuro sono naturalmente tanti e non mi sento di escludere nessuna ipotesi. Per il momento un ritorno in Italia mi sembra abbastanza improbabile, mentre sicuramente intendo consolidare quanto già costruito a Praga e, nel frattempo, portare avanti alcuni progetti che ho avviato in altri Paesi, tra cui l’Uzbekistan, luogo dall’architettura e profumi incantevoli, e l’Estonia. Non sono mai stato fermo a lungo in un posto e, per quanto credo di voler mantenere qui la mia base ancora per un po’ di tempo, non è escluso che prima o poi abbia la curiosità di provare qualcosa di nuovo. L’incontro con culture diverse mi ha sempre stimolato e, in questo, sembra che mio figlio abbia preso da me. Tra qualche anno potrebbe essere formativo anche per lui imparare a dire “gelato” in un’altra lingua e decidere dove far crescere le sue radici>>. http://www.maurolovecchio.eu/
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Reportage Yemen
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MUSICA
Marco Werba
Compositore e direttore d’orchestra
A cura di Emanuele Ruggiero
Nato a Madrid (Spagna) nel 1963, ha compiuto gli studi umanistici e musicali in Italia (pianoforte con Ignes Salvucci, armonia principale con Claudio Perugini e David Keberlè) e all’estero (corsi di composizione, orchestrazione e musica per film al “Mannes College of Music” di New York, e corsi di direzione d’orchestra sotto la guida di Jean Jacques Werner presso l’Academie de Musique de Guerande e dei Paesi della Loira, in Francia). Werba è stato a stretto contatto con alcuni dei compositori cinematografici più importanti come Jerry Goldsmith, Philip Vetro, Michael Nyman, John Scott, Georges Delerue, Gabriel Yared e Francis Lai. Nel 1989 ha vinto il premio Colonna Sonora (Opera Prima) dell’Ente dello Spettacolo per le musiche del film Zoo di Cristina Comencini. Ha inoltre fatto parte della Giuria di premiazione della Mostra Internazionale del Cinema d’autore di Sanremo e, nel 1993, ne è stato il Vice Presidente. Nel 1996 è stato ospite del governo della Bielorussia e alcune sue composizioni sono state eseguite dall’Orchestra Sinfonica della città di Gomel e dal gruppo Minuet Ensemble di Svetlogorsk. Nel 2002 è stato creato, insieme alla Scuola superiore di musica “Musicarte”, il primo Concorso Internazionale di musica per film (Premio Mario Nascimbene) e Werba ha fatto parte della Giuria insieme a Nicola Piovani, Carlo Rustichelli, Renzo Rossellini e Ermanno Comuzio. È stato inoltre corrispondente estero della rivista belga “Soundtrack”, dedicata alle colonne sonore, e creatore dello stage Internazionale “Musiche per immagini”.
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Ha collaborato con i corsi dell’Accademia Filarmonica Romana e della Cappella Giulia in Vaticano diretti da Mons. Pablo Colino, partecipando ad eventi commemorativi alla presenza del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi e del Premio Nobel Mikhail Gorbaciov, a funzioni sacre alla presenza di Papa Giovanni Paolo II ed a concerti con solisti di fama mondiale come Josè Carreras, Monserrat Caballè, Cecilia Gasdia e Claudio Scimone (Solisti Veneti). Werba è inoltre autore di svariate composizioni sinfoniche e da camera come la Cantata per i Sopravvissuti, il Misterium, il Concerto per chitarra ed orchestra d’archi, La Sinfonia del deserto, l’Adagio per le vittime di Auschwitz, la Messa Solenne in La maggiore, il Tango sinfonico. Tra gli altri lavori per il cinema sono da menzionare: Amore e Libertà, Masaniello, di Angelo Antonucci con Sergio Assisi, Franco Nero e Anna Galiena; Anita di Aurelio Grimaldi, con Maurizio Aiello e Milena Toscano e Native di John Real, con Giovanna Mandalari e Andrea Galatà. Werba ha, infine, composto, orchestrato e diretto le musiche del film di Dario Argento, Giallo, con Adrien Brody, Emmanuelle Seigner ed Elsa Pataky, la cui colonna sonora ha vinto il Fantasy & Horror Award, il premio Fantafestival 2010 ed il Fantasy Horror Cine Festival 2011. Marco, tu sposi sempre con entusiasmo i progetti che ti vengono proposti ed hai spesso una critica positiva e costruttiva verso i progetti degli altri. Come compositore, quando hai iniziato a comporre colonne sonore, e perché? La passione per le musiche da film è nata dopo aver visto il film di fantascienza Logan’s Run di Michael Anderson, un film poco conosciuto in Italia. La musica, del premio Oscar Jerry Goldsmith, mi aveva colpito perché alternava suoni elettronici molto moderni, per le scene ambientate nella città del futuro, con un commento musicale tradizionale sinfonico, per le scene all’esterno della città. Dopo aver visto tre volte il film mi resi conto, all’improvviso, della presenza di questa musica straordinaria. Trovai poi l’LP di Logan’s Run in un negozio di dischi a New York. Abbandonai l’idea di diventare regista (avevo girato alcuni film amatoriali in Super 8) e capii che volevo studiare musica per dedicarmi al mondo delle colonne sonore. Il primo film è stato quello di Cristina Comencini, “Zoo”. In quel periodo avevo inciso una composizione per archi che si chiamava “Atomica: I sopravvissuti”, un adagio. Lessi di questo lungometraggio su una rivista che annunciava i film in preparazione e mandai un nastro con il mio pezzo. Di solito in quei casi la cassetta viene messa nel cestino, senza nemmeno essere ascoltata. Invece la Comencini la ascoltò e mi chiamò. Pur essendo agli esordi, era già stata sceneggiatrice e aveva scritto un romanzo, quindi senza difficoltà avrebbe potuto avere compositori
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già affermati. Invece, poiché in quel caso voleva usare musica classica, ebbi la possibilità di entrare nel progetto. Cristina scelse due brani: “Jeux” di Debussy e “Ma Mère” di Ravel. Il primo lo rieseguii con l’orchestra da camera, il secondo lo prendemmo dal repertorio RAI e lo utilizzammo così com’era: sembrava scritto apposta per l’ultima sequenza del film, nella quale i due giovani protagonisti fuggono dallo zoo in groppa ad un grosso elefante. Ho poi lavorato con Aurelio Grimaldi, collaborando a tre film, ed a Mr Hush, un film indipendente statunitense ed il mio primo film interamente americano (regia e produzione). Anche Native, di John Real è stato un lavoro interessante, che mi ha portato a vincere il Globo d’Oro. In questo film collaborai con il cantautore Franco Simone, con il quale scrissi la canzone “Accanto”, anch’essa premiata con il Globo d’Oro. Altri film ai quali ho collaborato sono “Calibro 10”, una pellicola sulla mafia interpretata dal grande Franco Nero, e “Seguimi”, film diretto da Claudio Sestieri ed interpretato da Angelique Cavallari, Maya Murofushi, Piergiorgio Bellocchio ed Antonia Liskova, in cui ho avuto l’occasione di sperimentare nuove sonorità, mescolando suoni elettronici con l’orchestra d’archi e strumenti etnici orientali, oltre che con il violoncello solista della celebre Tina Guo, molto conosciuta negli Stati Uniti e che lavora abitualmente con Hans Zimmer. Dei tantissimi artisti con cui hai collaborato, chi ti ha lasciato di più? Ci sono altri compositori che ti hanno ispirato? Una collaborazione musicale importante è stata quella con il Premio Oscar Francis Lai (Love Story). Lo avevo conosciuto durante il Premio Colonna Sonora: lui aveva ricevuto il premio alla carriera, io il premio Opera prima per Zoo. Quando il regista Angelo Antonucci mi chiese di coinvolgere un compositore premio Oscar nella scrittura di un tema d’amore per il film “Amore e Libertà. Masaniello”, pensai subito a Lai. Lo andammo a trovare e lui accettò. Dopo un mese mi inviò due temi musicali e ne scegliemmo uno, che orchestrai ed incisi, insieme ai miei, con la Bulgarian Symphony Orchestra; questa fu anche la mia prima collaborazione con il fonico Marco Streccioni. Il compositore che considero il mio modello di riferimento, però, è Jerry Goldsmith. Insieme a John Williams, è stato uno dei compositori più importanti nel settore delle colonne sonore. Bernard Herrmann è, invece, il mio modello di riferimento più importante per il genere thriller. Le musiche che ha scritto per Hitchcock, in particolare per “Psycho” e “Vertigo”, sono dei capolavori. Anche Pino Donaggio ha scritto cose interessanti, ad esempio per i film di Brian De Palma, mantenendo uno stile melodico ma ispirandosi, su richiesta del regista, proprio ad Herrmann. Per il genere drammatico, invece,
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mi ispiro al compositore Georges Delerue. Purtroppo la maggior parte dei giovani compositori che iniziano a lavorare per il cinema non lo conoscono. Dovrebbero invece studiare le sue musiche, composte per i film di François Truffaut, in particolare quella de “La Signora della Porta Accanto”, che è un gioiello. E poi, naturalmente, Ennio Morricone, un compositore importante sia in Italia che all’estero, che ha dimostrato di muoversi bene sia nella scrittura di musiche tradizionali e tonali, sia in quelle più sperimentali e atonali. Personalmente preferisco i suoi lavori meno conosciuti. Infine, Nicola Piovani, con cui ho fatto parte della giuria di premiazione della prima edizione del Premio Mario Nascimbene e di cui preferisco le prime musiche, scritte per Bellocchio e Mingozzi. Il fatto di scrivere secondo le specifiche di un regista, seguendo un percorso narrativo creato da altri, ti fa sentire legato? Riesci ad entrare in sintonia? Quanto spazio è lasciato alla tua creatività musicale? Buona domanda. Alcuni compositori “classici” non sono riusciti a lavorare per il cinema perché erano abituati ad avere molto tempo a disposizione nella scrittura e perché non avevano lo spazio voluto per sviluppare le proprie idee musicali. Io sono abituato a lavorare velocemente e a scrivere composizioni brevi. Ho scelto questo mestiere perché ho una passione per le colonne sonore e non mi sento a disagio. L’unica questione che a volte va risolta è quella della convivenza tra musica ed effetti sonori. Gli americani spesso tendono a mettere la musica sotto gli effetti sonori e questo può generare problemi, soprattutto se quella musica è stata eseguita da un’orchestra sinfonica che ha suonato forte. Per me non ha senso mettere in sottofondo una musica importante, nata per essere ascoltata a volume alto, perché perde la sua forza, la sua essenza. Tanto vale toglierla. Cosa ti ha lasciato la tua collaborazione con il maestro del brivido Dario Argento, per “Giallo”? “Giallo” è stata la collaborazione più importante che ho avuto finora. In tre settimane scrissi, orchestrai, sincronizzai ed incisi tutte le musiche del film, cercando di accontentare sia i gusti del regista, sia quelli della produzione statunitense. Diciamo che fu un “tour de force” che alla fine mi ha dato molte soddisfazioni. In “Giallo” c’è molto materiale tematico, a differenza di alcuni horror/thriller in cui c’è sempre lo stesso tema musicale, ripetuto in maniera ossessiva. Per questa colonna sonora ho vinto tre premi e sono usciti articoli in italiano, inglese e francese. Dario mi diede fiducia e gliene sono riconoscente. Spero che ci siano altre occasioni per tornare a lavorare insieme.
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Film e colonne sonore sono strettamente correlati ma cosa può dare la musica al cinema e cos’ha, il cinema, di cui la musica non può fare a meno? Quanto entra narrativamente la musica nella costruzione di un film? Una domanda interessante. La musica è un’arte astratta uditiva, il cinema è un’arte visuale. Entrambe, però, comunicano emozioni. L’unione di una bella sequenza cinematografica con una bella musica raddoppia questa emozione. Nella nostra vita quotidiana gli eventi che viviamo non sono accompagnati da un commento musicale. Perché allora è giustificata la presenza della musica in un film? Perché viene vissuta dallo spettatore in maniera inconscia, come “emozione”, e non come musica. La musica ha anche un potere evocativo e può fungere da contrasto con le immagini. Trovi differenze tra gli autori e registi stranieri e quelli italiani? Non nascondo che il mio obiettivo è quello di lavorare con produzioni statunitensi, che permettono di essere coinvolti in film di varie tipologie. Capisco che riuscire a lavorare a Hollywood vivendo in Italia è quasi impossibile, ma con molto impegno ed un lungo lavoro di pubbliche relazioni le possibilità aumentano. Ho già collaborato con alcuni registi indipendenti statunitensi e, per il 2018, ho alcuni progetti in America. Diciamo che i registi stranieri hanno più rispetto per il lavoro svolto ma, comunque, con alcuni registi italiani, mi sono trovato in sintonia. Spesso usi le orchestre sinfoniche del centro Europa per registrare i tuoi lavori. Come ti trovi? Come è il rapporto con queste realtà, spesso poco conosciute? Sì, finora sono stato a Sofia, Skopje e Budapest. I motivi sono legati a fattori economici ma, a volte, queste orchestre sono migliori di quelle italiane (pare che anche l’orchestra di Praga sia di ottimo livello). Ho avuto spesso problemi di intonazione con i turnisti italiani. L’unica volta in cui ho avuto archi di qualità è stata quando ho lavorato con musicisti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Purtroppo non è un’orchestra che incide abitualmente musiche per film e i costi sono comunque abbastanza alti. In questo periodo sto lavorando ad un concerto per pianoforte e orchestra in due movimenti. La pianista italiana Cristiana Pegoraro è disponibile per eseguire la parte pianistica. Sto cercando un’orchestra di qualità che voglia inserire la composizione in un loro prossimo concerto di musica classica e sarei onorato se la “Prague Symphony Orchestra” fosse interessata. Inoltre, insieme alla cantante Valentina D’Antoni, ho un repertorio per voce e pianoforte di celebri colonne sonore di vari autori e mi piacerebbe tenere un concerto a Praga.
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Negli ultimi anni stai facendo diversi Masterclass sulla musica per il cinema. Di cosa si tratta esattamente? Quando ero allievo del Mannes College of Music di New York, frequentai una masterclass sulla musica per film, tenuta da Jacob Stern. Durante le lezioni il docente ci descriveva la scena di un film (senza farcela vedere), ci chiedeva di scrivere una musica e il giorno dopo avevamo a disposizione un’orchestra Jazz per eseguire le nostre composizioni. Mi sono ispirato a questo corso e ho tenuto a Roma delle masterclass simili. Negli ultimi due anni ne ho anche tenuta una specifica per i film di genere. Credo sia stata la prima in assoluto dedicata alle colonne sonore per film thriller, horror e fantascienza. Ho tenuto i corsi, organizzati da Silvio Relandini, presso gli studi di registrazione “Forum” e presso la scuola di Cinema “Griffith”, a Roma. Stai lavorando ad altri progetti? Attualmente sto lavorando alle musiche della commedia napoletana “Made in China Napoletano”, di Simone Schettino. Un lavoro, così come per “Seguimi”, che realizzerò con l’editore Franco Bixio. Questa è la mia prima commedia napoletana, e la seconda commedia in assoluto. Il film è molto curioso, perché parla di un commerciante napoletano sommerso dalla concorrenza cinese. Nella musica, quindi, ci saranno elementi napoletani e cinesi mescolati insieme. Per ciò che riguarda “Seguimi”, infine, attendiamo di sapere a quali festival sarà invitato e quando uscirà nelle sale. Il film è davvero particolare ed ho lavorato a lungo sulle musiche.
Emanuele Ruggiero è regista freelance, produttore, direttore della fotografia e giornalista. Lavora nel mondo dello spettacolo da oltre 25 anni. http://www.kinovision.it/
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SALUTE E BENESSERE
Osteopatia attiva
Un approccio alternativo alle disfunzioni muscolo scheletriche
A cura di Roberto Folleri (Osteopata D.O.)
Viviamo in una società così tanto frenetica e sempre più proiettata verso il futuro e lo sviluppo che abbiamo dimenticato da dove veniamo. Per arrivare a soluzioni efficaci, di fronte a qualsiasi tipo di disfunzione problematica del nostro organismo, è fondamentale capire la storia e il contesto della persona che abbiamo di fronte, ma anche la storia e lo sviluppo dell’uomo inteso come razza, a partire da quando, appena nati, si giace di schiena sul pavimento, fino al raggiungimento della stazione eretta.
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Queste due chiavi di lettura ci fanno capire meglio come funziona il corpo umano e, soprattutto, come siamo arrivati a sviluppare quegli schemi motori di base che ci consentono di svolgere le nostre azioni quotidiane nella maniera più efficace possibile: respirare, camminare, correre, saltare, chinarsi verso il pavimento, sollevarsi de terra, ecc. Questi schemi motori rappresentano il modo in cui il nostro centro di controllo motorio organizza e dirige l’attività dei muscoli, dei tendini e delle articolazioni per raggiungere un obiettivo come, ad esempio, effettuare uno scatto per raggiungere il tram alla fermata. Il centro di controllo motorio è un po’ come un direttore d’orchestra che dirige i vari musicisti, ovvero i nostri muscoli, in maniera coordinata e sincrona, al fine di ottenere una melodia perfetta. Fin qui tutto bene, ma cosa succede quando il messaggio tra chi dirige e chi suona non è del tutto chiaro? E per quale motivo questa comunicazione smette di essere chiara? Partiamo dal secondo quesito ovvero quali sono le cause più frequenti che portano questa incomprensione tra centro di controllo motorio e sistema mio-fasciale. Per prima cosa bisogna tenere ben a mente che il cervello umano ha una affinità con le abitudini e, queste abitudini, col tempo a livello motorio si trasformano in schemi motori. Abitudini e posture cattive portano a schemi motori disfunzionali: in pratica il nostro centro di controllo motorio va in corto circuito e fa sì che alcuni muscoli rimangano “neurologicamente iperattivi” ed altri, invece, “neurologicamente ipoattivi”. Per darvi un esempio molto intuitivo, immaginate il gioco del tiro alla corda: immaginate di avere, da una parte, un atleta professionista ovvero un muscolo iperattivo mentre, dalla parte opposta, un totale principiante ovvero un muscolo ipoattivo; il centro della corda, in questo esempio, rappresenta il centro della vostra articolazione. Con buona probabilità succederà che il muscolo professionista, ovvero quello iperattivo, sposti il centro dell’articolazione verso il suo lato, mentre il muscolo ipoattivo, dal lato opposto, si trovi in una condizione di eccessivo stress determinando, in tal modo, un decentramento dell’articolazione situata tra i due muscoli antagonisti. Considerando che i nostri muscoli, i nostri tendini e le nostre strutture articolari sono ricche di recettori sensibili allo stiramento, il messaggio che questi recettori invieranno al nostro cervello sarà più o meno di questo tipo: “HOUSTON, ABBIAMO UN PROBLEMA!”. Tra le più comuni cause che portano a questo stato di asincronia neuromuscolare ci sono i traumi a seguito di incidenti stradali come il colpo di frusta, ca-
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dute con la moto, traumi sportivi, atteggiamenti posturali unilaterali derivanti da determinate attività come la danza, il golf, il tennis. Un capitolo a parte dovrebbe, invece, essere dedicato al parto ed alle cicatrici. Capire come il nostro cervello organizza il movimento e come è arrivato a sviluppare tali strategie posturali, è fondamentale per effettuare scelte terapeutiche specifiche e mirate. La mancanza di un’adeguata quantità e qualità di movimento porta il nostro cervello a propendere per scelte posturali povere, le quali ci predispongono ad infortuni ed acciacchi. Parte fondamentale del processo terapeutico è dunque un allenamento neuromuscolare, successivo alla fase di riprogrammazione motoria, il quale sia mirato a rinforzare degli schemi motori funzionali. Purtroppo, ai tempi d’oggi, si sta sperimentando sempre più la cosiddetta “sindrome da inutilizzo”: in pratica, è la descrizione di cosa accade al corpo e al cervello quando una persona è sedentaria. La sindrome da inutilizzo è causata da uno stile di vita sedentario e trova terreno fertile nella nostra società, profondamente sedentaria. L’inutilizzo e soprattutto il mal utilizzo del nostro corpo porta ad un deterioramento di molte funzioni dell’organismo ed all’invecchiamento precoce del sistema muscolo scheletrico. L’invecchiamento del corpo umano non dipende soltanto dal passare del tempo ma, soprattutto, da come facciamo le cose di ogni giorno, da come e quanto ci muoviamo. In questo contesto probabilmente la schiena, le articolazioni delle anche, le ginocchia, i gomiti e la cervicale non sono utilizzate nella maniera corretta e non stanno facendo la quantità di movimento di cui avrebbero bisogno per mantenersi efficienti. Per fare un altro esempio immaginate una persona che passa tante ora davanti al computer: più tempo questa persona trascorrerà in quella posizione e più il suo centro di controllo motorio registrerà quella posizione come uno schema predominante. Questo a livello muscolare si traduce con la porzione superiore del muscolo trapezio in ipertono, mentre il suo antagonista, il trapezio inferiore, in ipotono. Ricordate il tiro alla corda? Qualsiasi altro movimento o sport quella persona andrà a fare, il suo centro di controllo motorio utilizzerà preferenzialmente questo schema disfunzionale. L’approccio terapeutico più indicato è quindi quello di identificare quali sono gli schemi motori disfunzionali e problematici e, successivamente, ristabilire una ottimale qualità di movimento nei gesti motori deficitari, tramite una ri-
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programmazione che non interessi solamente i muscoli ma, soprattutto, i centri direzionali del sistema nervoso. Per fare questo è importante, innanzitutto, ristabilire una corretta comunicazione tra centro di controllo motorio e sistema muscolo scheletrico e, successivamente, reimpossessarsi di quelle buone abitudini e, quindi, di quegli stessi schemi motori di base che ogni bambino impara nei suoi primi anni di vita e che l’uomo ha ereditato da secoli di evoluzione. L’essere umano è il risultato di anni di adattamento all’ambiente; le capacità motorie sono la prima forma di comunicazione che abbiamo sviluppato e ci hanno consentito di muoverci ed esplorare l’ambiente circostante: bisogna, dunque, essere consapevoli che siamo fatti per muoverci e che dobbiamo prenderci cura di come e quanto ci muoviamo.
Roberto Folleri: Osteopata e personal trainer, laureato in Scienze dello Sport presso l’Università di Cagliari, ha una grande esperienza internazionale, maturata in Italia, in Gran Bretagna e in Repubblica Ceca. robertofolleri@yahoo.it Facebook: activeosteopathy www.active-osteopathy.com
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ITALIANI NEL MONDO
Lara Tassan Zanin
Responsabile BEI per la Repubblica Ceca e la Slovacchia
A cura di Paola Caronni
Lara, lei è una vera italiana nel mondo. Ha vissuto ed ha fatto carriera in Italia, Lussemburgo, Inghilterra e Turchia. Ci racconti com’è cominciata la sua avventura all’estero. Con una porta in faccia. Lavoravo in una struttura internazionale a Trieste da otto anni e avevo avviato con successo un’attività innovativa: un giorno incontro il mio capo, avevo in mano il business plan dei successivi cinque anni. Lui, austriaco, diretto, asciutto, mi ha fatto capire che con la mia visione dovevo probabilmente andare in una struttura più grande, che potesse assorbire la mia energia. Un anno dopo lavoravo nella più grande banca multilaterale al mondo con sede in Lussemburgo. L’avevo preso in parola. Certo non avevo idea dell’incredibile viaggio di vita che avrei intrapreso.
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Ha studiato Ingegneria dei Trasporti per poi approdare alla Banca Europea per gli Investimenti, dove è attualmente responsabile per la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Com’è avvenuto questo passaggio e qual è l’aspetto che più la entusiasma di questo lavoro? Con una visione. I miei compagni di università erano interessati a progettare la struttura più avveniristica, il ponte più lungo. Anch’io avevo una passione per le grandi opere ma non volevo che i miei progetti rimanessero su uno scaffale polveroso per mancanza di fondi. Io volevo realizzarli. Mi sono avvicinata all’ingegneria finanziaria e ho fatto una tesi di laurea che ha combinato ingegneria e finanza di progetto, di cui nel 1998 non parlava quasi nessuno. Quando cercavano un “ingegnere che ne capisse di economia” e che fosse interessato a un lavoro internazionale, mi sono fatta avanti. Grazie a questo profilo professionale abbastanza unico sono approdata alla BEI, dove ho lavorato su progetti di strade, aeroporti, ferrovie e porti in giro per il mondo. La BEI è una banca a capitale pubblico, i cui soci sono i paesi membri dell’Unione Europea. Offre prestiti a governi e imprese con agevolazioni considerevoli, che devono essere erogati a fronte di progetti tecnicamente validi ed economicamente sostenibili. Per valutare questi due aspetti, la BEI si avvale di propri ingegneri, esperti in diversi settori, trasporti, sanità, enti di ricerca, manifatturiero. Con il mio lavoro ho la pos-
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sibilità di aiutare a spendere le risorse pubbliche in modo più sostenibile: per esempio avallando con la mia opinione un progetto piuttosto che un altro, perché ha un impatto ambientale minore o un beneficio sociale maggiore. Questo è il motore del mio entusiasmo ancora oggi, quando discuto con le imprese ceche i loro progetti industriali: l’impresa che vuole riammodernare la propria linea di produzione per renderla energeticamente più efficiente è il nostro campione! Turchia, crocevia tra Oriente e Occidente, e Lussemburgo, con la sua posizione strategica nel cuore dell’Europa. Ci descriva quanto queste realtà divergono e cosa ha significato per lei viverci. La Turchia è un paese complesso che risponde a logiche per lo più a noi sconosciute. È una controparte strategica per l’Europa, con cui bisogna cercare il dialogo a tutti i costi: non dobbiamo però commettere l’errore di leggere questo Paese con la nostra metrica, perché altrimenti saremmo destinati a perdere in partenza. Sono arrivata ad Ankara all’inizio del 2014 per aprire il nuovo ufficio della BEI e occuparmi di prestiti al settore pubblico. Avevo scelto la Turchia perché era un Paese emergente con immense potenzialità, di grandi dimensioni, con una posizione strategica, una popolazione giovane (età media 29 anni) e di buona istruzione (circa il 50% dei turchi ha una laurea). La
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Ankara, Anitkabir
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diversità culturale e religiosa era per me uno stimolo ulteriore. Alle prime interazioni, ho trovato i turchi molto simili a noi italiani, certamente più dei cugini greci o spagnoli: gentili, disponibili, pronti ad accoglierti in casa e alla loro tavola, amanti dei bambini e degli animali, grandi lavoratori, imprenditoriali. Ben presto ho capito che non appena si esce dal piano personale e si entra in quello codificato sociale o lavorativo, le cose cambiano: la società turca ha origini nomadiche (gli ottomani sono arrivati dopo) ed ha un’organizzazione non scritta di clan multifamiliari che frequentano certe università, hanno accesso a certi posti di lavoro e i cui figli in genere si sposano all’interno dello stesso clan. I nomadi hanno delle regole tutte loro, soprattutto di grande dipendenza dal capo, che ha potere praticamente di vita o di morte. Nella politica, come nella famiglia e nel lavoro, si portano dietro questa matrice genetica: individualismo e indipendenza di pensiero non riescono a farsi strada nemmeno tra le nuove generazioni, anche le più istruite. A mio avviso, questo impedisce attualmente alla Turchia di realizzare a pieno il proprio potenziale economico e democratico. Se ho potuto far fronte a una Ankara falcidiata dagli attentati terroristici (tre in meno di cinque mesi) e vivere in una città dove non ti puoi muovere liberamente perché alcune zone sono off-limits, lo devo al Lussemburgo. Trasferirmi qui dieci anni fa mi ha reso internazionale, flessibile e aperta mentalmente. Il fatto di essere italiana l’ha facilitata in qualche modo in campo lavorativo? È riuscita a mantenere contatti significativi con le varie comunità italiane presenti nei diversi paesi esteri nei quali ha vissuto? L’essere italiano aiuta sempre. Siamo benvoluti ovunque, perché preceduti dalla fama della nostra cucina, del nostro stile, della nostra affabilità. Siamo naturalmente abituati a leggere tra le righe, e a tenere conto del famoso body language. Siamo flessibili e portati al compromesso. Sappiamo lavorare all’ultimo minuto, di fronte a imprevisti ed emergenze. Siamo aperti alle altre culture: saranno stati secoli di navigazione, di mercanti e il fatto che siamo una penisola! Posso dire con certezza che tutto questo ha contato quando sono stata selezionata per i ruoli di Londra e Ankara. Quando chiesi al mio capo belga se non ci fossero problemi ad avere due italiani in Turchia (anche il responsabile dell’ufficio di Istanbul è italiano), lui mi disse ‘Lara, vuoi che metta uno svedese a fare business con i turchi?’. Con tutto il rispetto per gli amici svedesi…ecco, credo che la spiegazione sia tutta qui! L’Ambasciata d’Italia ad Ankara mi ha adottato e con me tutti gli italiani
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Lussemburgo, paesaggio
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presenti in Turchia. È stata la mia famiglia. Tanto più ostico è il contesto, tanto più la comunità italiana e i nostri diplomatici sul posto diventano importanti punti di riferimento. Dopo tutti questi anni, tornerebbe a lavorare o vivere in Italia? Qual è il suo rapporto con il nostro Paese? Ho casa a Trieste, città che considero il mio porto sicuro, da dove sono salpata più di dieci anni fa per questo lungo viaggio, dove ho ancora molti amici e dove posso respirare allo stesso tempo mare e internazionalità. Trieste ospita sette comunità religiose diverse ed è sede di molti istituiti di ricerca internazionali. In questi anni ho continuato a girare l’Italia in lungo e in largo, ho amici da Nord a Sud, ma rientrarci per lavorare era fuori discussione, fino a qualche tempo fa. Oggi sono più possibilista, guardo Milano, a come sta rinascendo e mi dico che forse è una delle città italiane in cui potrei vivere e lavorare. Mi piace definirmi una cittadina del mondo con radici italiane. L’Italia è la mia identità primaria, che ho poi volutamente contaminato con influssi di varie altre culture: ad ogni tappa della mia vita modifico (un po’) il mio abbigliamento, il mio pensiero, la mia cucina. E quando faccio i bagagli porto tutto con me, anche le contaminazioni! Se le chiedessero di scegliere la sua prossima destinazione lavorativa, o magari anche il suo prossimo lavoro, quali sarebbero e perché? Ho appena iniziato a occuparmi di Repubblica Ceca e Slovacchia. Ora mi voglio dedicare a questi giovani mercati e culture europei. In futuro, vorrei fare un’esperienza negli Stati Uniti. Sono nata e cresciuta ad Aviano, nella zona pedemontana a confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, dove c’è una base NATO. Ho avuto modo di frequentare alti ufficiali militari che non appena dismettevano la divisa diventavano semplicemente John o Peter. Da noi in Italia se sei Presidente per cinque minuti, rimani ‘Sig. Presidente’ per la vita, anche se non hai fatto nulla per meritarti il titolo. Mi piace il loro concetto di meritocrazia, mi piace che se vuoi cambiare lavoro a cinquant’anni in America è ancora possibile, perché non conta cosa hai studiato e chi conosci, ma cosa hai fatto, sai fare, vuoi fare. Nella cultura americana, e più generalmente anglosassone, fallire è sinonimo stesso del provarci, fa parte del gioco: you try, you fail, you try again, you fail again. Rialzarsi dopo una caduta è molto più importante della caduta stessa. Sono fiera della nostra storia, della nostra tradizione e della nostra profondità
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ma sono sempre alla ricerca di una nuova contaminazione! Professionalmente, con la base negli States avrei l’occasione di lavorare con l’America meridionale, una nuova regione per me, e perfezionare il mio spagnolo. Lei ha partecipato anche a diversi progetti di volontariato. Ci parli di questa esperienza che sicuramente evidenzia un altro aspetto della sua personalità. La mia famiglia è sempre stata impegnata nel sociale. È stato per me naturale dedicarmi a varie attività a favore della collettività, che si trattasse di raccogliere fondi per un asilo d’infanzia che fatica a sostenersi solamente con le rette, o di recuperare una vecchia malga di montagna. Tradizioni, montagna, infanzia sono temi a me molto cari: mi piace fare qualcosa di concreto affinché i nostri figli e nipoti possano ancora vedere e toccare con mano le nostre radici. Ha un sogno nel cassetto o un progetto che desidererebbe tanto attuare? Spesso dico ai miei amici che ho più progetti che anni da vivere. Sceglierne uno è davvero difficile. Ho ballato, suonato e dipinto per molti anni fino all’adolescenza. Poi ho abbandonato il lato artistico e umanistico per dedicarmi completamente a quello scientifico-finanziario. Nei miei secondi quarant’anni vorrei riprendere in mano quello che ho lasciato in sospeso: dipingere, cantare, scrivere un libro. Magari riesco a combinare tutte e tre le cose insieme!
Paola Caronni: insegnante, interprete, traduttrice, poetessa e scrittrice, è originaria di Milano e si è trasferita a Hong Kong nel 1995. Qui si è distinta per l’intensa attività filantropica svolta nell’ambito dell’Associazione Donne Italiane, di cui è stata Presidente dal 2008 al 2011: ruolo per il quale le è stata conferita, il 16 gennaio 2013, l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine della Stella d’Italia. https://paolacaronni.wordpress.com 141
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BIGHELLONANDO A PRAGA
L’orologio astronomico
Oltre le statue
A cura di Marco Ciabatti
1410: questo è l’anno a partire dal quale l’Orologio astronomico di Praga, dalla torre del municipio edificata circa settant’anni prima, osserva la piazza sottostante, testimone passivo e inconsapevole di ben sei secoli di storia. Chiariamo prima di tutto un concetto: quando scrivo “Orologio astronomico” mi riferisco unicamente al quadrante principale; non al calendario, aggiunto solamente ottant’anni dopo, né alle statuette animate, introdotte solo dopo due secoli abbondanti, né tantomeno alla celebre “sfilata degli apostoli”, che è in realtà una delle aggiunte più recenti a tutto il meccanismo, risalente addirittura alla fine del Settecento o all’inizio dell’Ottocento (a seconda delle fonti). Osservato da molti e purtroppo compreso da pochi, meriterebbe invece di essere lui il protagonista assoluto di tutto l’insieme: l’Orologio astronomico reso possibile dalla mente geniale del mastro orologiaio Mikuláš di Kadaň coadiuvato dall’allora rettore dell’Università Carolina di Praga, ovvero il matematico e astronomo Jan Ondřejův (più noto come Jan Šindel), poi perfezionato nel 1490 dal mastro orologiaio Jan di Růže (meglio conosciuto come Hanuš, che fino agli anni ‘60 ne era considerato erroneamente l’inventore) e, circa un secolo dopo, da Jan Táborský di Klokotská Hora.
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Immagine 1, inizio aprile
Immagine 2, inizio luglio
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L’Orologio astronomico di Praga è il più antico ancora oggi perfettamente funzionante, il più imitato al mondo e l’unico in grado di misurare il tempo in ben quattro sistemi di riferimento differenti, dandoci nel contempo una lunga serie di informazioni sugli astri e sulle costellazioni. Comprenderne appieno il funzionamento da un breve articolo non è facile, ma cercherò di essere il più possibile sintetico e chiaro, invitandovi a fare riferimento durante la lettura alle due fotografie riportate in queste pagine, che rappresentano un particolare del quadrante ripreso dalla medesima prospettiva in due diversi periodi dell’anno (l’immagine 1 a inizio aprile e l’immagine 2 a inizio luglio). Osservando le due immagini, si nota prima di tutto la ghiera esterna di colore blu molto scuro, che riporta lungo la circonferenza una serie di numeri arabi dorati in formato 24 ore, scritti in carattere gotico: questa ghiera si riferisce all’antica ora boema, chiamata anche antico tempo di Praga o, più semplicemente, “ora italica”. In questo antichissimo metodo di misurazione del tempo, il conteggio delle ore inizia esattamente al tramonto del sole, quindi le ore 24 si riferiscono in questo caso non alla mezzanotte, ma al momento del tramonto, che scandiva di fatto il passaggio al giorno successivo. Occorre a questo punto chiarire che l’orologio ha solo la lancetta delle ore (i minuti vanno quindi dedotti ad occhio) e questa lancetta è, per la precisione, quella che presenta all’estremità una manina dorata. Come si può facilmente vedere, in entrambe le immagini la manina dorata si trova in corrispondenza delle ore 20 sulla ghiera esterna, possiamo quindi dedurne che, al momento in cui entrambe le foto sono state scattate, fossero passate esattamente venti ore dal tramonto del sole del giorno precedente e ne mancassero solamente quattro al tramonto successivo. Mettendo in relazione le due foto, però, si scopre che la ghiera esterna non è fissa come potrebbe sembrare osservando l’orologio per un breve periodo dal vivo, ma ruota lentissimamente sei mesi in una direzione e sei mesi nell’altra, in modo da compensare il fatto che andando verso il solstizio d’estate il tramonto del sole avviene ogni giorno più tardi, mentre da quel momento in poi si anticipa gradualmente fino al solstizio d’inverno. All’interno della ghiera esterna troviamo una serie di numeri romani disposti lungo la circonferenza, che indicano invece il nostro orario abituale, detto anche “tempo civile” o “ora alla francese”. La metà sinistra del quadrante riporta le ore antimeridiane, dalla mezzanotte (posta in basso) fino al mezzogiorno (posto in alto), mentre la metà destra riporta le ore pomeridiane, ovvero dal mezzogiorno fino alla mezzanotte.
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Nella prima immagine, scattata in aprile, la lancetta delle ore (sempre quella con la manina dorata) si trova esattamente tra le due e le tre del pomeriggio, mentre nella seconda immagine, scattata in luglio, la manina si trova (anche se in questo caso non è di facile lettura) più o meno in corrispondenza delle quattro del pomeriggio. Va comunque detto che in questo secondo caso l’orologio è indietro di un’ora, perché non si può rimettere con l’ora legale, che ai tempi della sua costruzione ovviamente non esisteva ancora, quindi all’orologio di un eventuale osservatore sarebbero in realtà le cinque. Fino a questo momento siamo a due tipologie di orario differenti, ma l’orologio, come ho già detto, è in grado di mostrarne addirittura quattro: mancano infatti l’ora siderale e l’ora planetaria. L’ora siderale è un sistema di misurazione del tempo molto più preciso di quello che utilizziamo comunemente ogni giorno, e per questo è sovente usato in astronomia per calcolare con estrema esattezza lunghissimi lassi di tempo. In questo sistema non si prende come riferimento la rotazione della terra rispetto al proprio asse, ma la rotazione del nostro pianeta rispetto alle costellazioni. Nell’Orologio astronomico di Praga l’ora siderale è indicata dalla piccola stellina dorata che nella prima immagine si trova vicino alla lancetta delle ore, in corrispondenza delle tre del pomeriggio, mentre nella seconda immagine si trova tra le dieci e le undici di sera. Tra il nostro orario abituale e l’ora siderale c’è la differenza di un giorno circa all’anno. Infine, l’ora planetaria (che solo l’Orologio di Praga è in grado di indicare e che viene comunemente utilizzata in astrologia) è forse quella più affascinante tra tutte. In questo sistema di riferimento, infatti, l’arco della giornata che va dall’alba fino al tramonto (indicato dall’area colorata in azzurro del quadrante dell’orologio) viene suddiviso, come visibile nelle immagini, in dodici parti uguali, contraddistinte da altrettanti spicchi numerati dall’uno al dodici con dei piccoli numeri dipinti in colore blu scuro. È interessante quindi notare che le ore planetarie avranno una durata più breve nei mesi invernali, dove le giornate sono più corte, e una durata più lunga in quelli estivi, quando anche l’arco delle giornate si allunga. Ad ognuna delle dodici ore planetarie corrisponde un diverso pianeta a seconda del periodo dell’anno, e, anticamente, era presente accanto all’orologio una targa appositamente creata che permetteva di stabilire a quale pianeta corrispondesse ogni ora planetaria in quel dato momento.
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Ma chi ci indica di fatto in quale ora planetaria ci troviamo esattamente? L’ora planetaria ci viene indicata dal disco del sole, che si trova in corrispondenza della lancetta delle ore e che, insieme ad essa, percorre il quadrante dell’orologio, che funge anche da grande astrolabio. Come traspare benissimo dalle immagini, il quadrante nel suo complesso riporta infatti in diversi colori una rappresentazione delle varie fasi della giornata: il sole sorge a sinistra, dove è riportato il settore arancione con la scritta “Aurora”, attraversa poi l’arco azzurro del cielo spostandosi in senso orario e tramonta sulla destra, dove è presente un’altra fascia arancione con la scritta “Crepusculum”, per poi percorrere la zona nera della notte astronomica, che si verifica solamente quando il sole scende di almeno 18 gradi sotto la linea dell’orizzonte, cosa che, alle nostre latitudini, non avviene nei giorni immediatamente precedenti e successivi al solstizio d’estate. Ma non basta! Il disco del sole non si sposta solo da sinistra a destra durante l’arco della giornata: a mano a mano che le giornate si allungano, infatti, il disco del sole lentamente, con il passare dei giorni, sale dalla zona centrale fino al perimetro esterno dell’orologio, dove si trova idealmente il tropico del cancro, disegnando quindi nel cielo un arco sempre più ampio e più duraturo, mentre quando le giornate iniziano ad accorciarsi scende di nuovo lentamente verso l’anello più piccolo del quadrante, dove si trova il tropico del capricorno, accorciando di fatto il tempo che trascorre nella zona azzurra e, di conseguenza, anche la durata delle ore planetarie. Il cerchio dorato posto a metà di questo percorso (quello che per intendersi attraversa la “O” di “Aurora”) rappresenta invece l’equatore terrestre. Al centro di questa complessa rotazione è rappresentato il pianeta terra, e il fulcro delle lancette cade esattamente sulla Boemia, posizione rispetto alla quale sono stati svolti tutti i calcoli necessari. Sovrapposto al quadrante dell’Orologio spicca decisamente l’anello dei segni zodiacali, che riporta lungo la sua superficie i simboli convenzionali delle dodici costellazioni dello zodiaco, ognuno racchiuso all’interno del proprio settore. Il disco del sole trova qui la sua ulteriore funzione, quella cioè di indicarci (esattamente come accade in astrologia) in quale segno dello zodiaco ci troviamo al momento. Nell’immagine 1, quella scattata ad aprile, il sole si è appena spostato nella costellazione dell’ariete (il passaggio da un segno all’altro avviene infatti verso sinistra), mentre nell’immagine 2 il sole si trova nella costellazione del cancro. L’anello dei segni zodiacali non è fisso, ma ruota intorno ad un asse non concentrico (e quindi percorre anch’esso il quadrante dell’orologio) seguendo il disco del sole, ma procedendo leggermente più veloce di quest’ultimo per
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consentire di mese in mese il passaggio alla costellazione successiva: infatti, proprio come nello zodiaco, il sole impiega un anno esatto a percorrere tutto l’anello, restando su ogni segno un mese intero, a prescindere dalla grandezza del settore. Il disco più piccolo e di colore scuro, che si trova anch’esso sull’anello dei segni zodiacali, rappresenta infine la luna, ed è dotato di un meccanismo di rotazione indipendente unico nel suo genere, che gli permette di compiere il giro completo delle dodici costellazioni in un solo mese (la durata effettiva di un ciclo lunare), spostandosi quindi da un segno all’altro molto più velocemente del sole. Ma la genialità di questo meccanismo fa oltretutto sì che la luna si trovi sovrapposta al sole esattamente nel giorno del novilunio (altrimenti detto luna nuova) e si trovi invece all’opposto esatto del sole quando c’è in cielo la luna piena. Di conseguenza nel periodo in cui il disco della luna si avvicina a quello del sole, la luna stessa sarà in fase calante, mentre nel periodo in cui i due dischi si allontanano nuovamente la luna sarà in fase crescente: questo, come se non bastasse già tutto quello che abbiamo scritto finora, rende di fatto l’Orologio astronomico di Praga anche un precisissimo calendario lunare! Dopo aver appreso tutto questo, pensate ancora che lo spettacolo di animazione che si ripete ad ogni cambio dell’ora, per quanto piacevole, sia la cosa più sbalorditiva di questo particolarissimo orologio?
Marco Ciabatti: Guida turistica, fondatore e curatore del Blog “Bighellonando in Cechia”, è un grande esperto del suo paese adottivo e ce ne svela i segreti. http://www.bighellonando.eu
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PROGRAMMA EVENTI LUGLIO - AGOSTO 2017
Fino al 31 agosto
Evento speciale
La Congregazione Italiana di Praga. Una storia secolare
In occasione del IV centenario della consacrazione da parte dell’arcivescovo di Praga Jan Lohelius della Cappella barocca dedicata alla Vergine Maria Assunta e a San Carlo Borromeo, esposizione di opere d’arte, documenti e materiali d’archivio appartenenti alla Congregazione Italiana di Praga. Cappella barocca dell’Istituto (Vlašská 34, Praga 1) Orario di apertura: lunedì - giovedì, ore 10.00-13.00/15.00-17.00; venerdì, ore 10.00-13.00 Ingresso libero
Venerdì 21 luglio
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Progetto “ZEFIRO TORNA”. Omaggio a Monteverdi (a 450 anni dalla nascita)
Concerto di musica antica a cura dell’Ensemble “Cenacolo Musicale” e serata di gala al Castello di Ploskovice. Organizzano il Festival Opera Barocca e l’Associazione Barocco Europeo (fondata dalla cembalista Donatella Busetto), con la collaborazione della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e dell’Istituto. I biglietti (prezzi compresi tra le 250 e le 1200 CZK) si possono acquistare alla cassa del Castello. Venerdì 21 luglio, ore 20.00, Castello di Ploskovice
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22 – 29 luglio
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Concerto e masterclass del violinista italiano Maurizio Sciarretta e della violista ceca Jitka Hosprová
Il violinista italiano Maurizio Sciarretta e la violista ceca Jitka Hosprová eseguiranno insieme musiche di Johann Sebastian Bach, Jiří Gemrot, Alessandro Rolla e Bohuslav Martinů. L’evento è organizzato dall’orchestra Západočeský symfonický orchestr Mariánské Lázně e si svolge sotto il patrocinio del Sindaco della città di Mariánské Lázně ing. Petr Třesňák e dell‘Istituto Italiano di Cultura di Praga. Info: www.zso.cz, www.mauriziosciarretta.com, www.jitkahosprova.com 22 luglio, ore 19.30, centro culturale Společenský dům Casino a Mariánské Lázně (Reitenbergerova 53) I due artisti terranno masterclass dal 23 al 29 luglio presso la Scuola di Musica Fryderyk Chopin (Lužická 412, Mariánské Lázně). Lunedì 31 luglio
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XVIII edizione del Festival Internazionale “Festività estive della musica antica” (11. 7. – 7. 8.) – Concerto: Musica per la principessa reale Cantate italiane per Maria Giuseppina di Sassonia di J. A. Hasse, A. Vivaldi, L. Leo, J.-Ph. Rameau, nell’interpretazione della soprano Raffaella Milanesi Accompagna l’Ensemble Odyssee. Collaborazione dell’Istituto
Biglietti: 650 e 900 CZK - Lunedì 31 luglio, ore 20.00, Castello di Troja (U Trojského zámku 1, Praga 7) - info: http://www.letnislavnosti.cz/ Martedì 8 agosto
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XVIII edizione del Festival internazionale musicale estivo TT Loučeň 2017 Recital pianistico di Lorenzo Di Bella
Lorenzo Di Bella, pianista, è vincitore di numerosi prestigiosi concorsi internazionali, docente di pianoforte presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “C. Monteverdi” di Cremona, direttore artistico dell’Accademia Pianistica delle Marche di Recanati ed ideatore e direttore artistico della stagione concertistica Civitanova Classica Piano Festival. Il Festival di Loučeň, organizzato dal Comune di Loučeň, si svolge sotto la direzione artistica del M° Radomír Melmuka. Il recital pianistico di Lorenzo Di Bella si svolge sotto il Patrocinio dell ́Istituto Italiano di Cultura di Praga. Martedì 8 agosto, ore 18.30 - Kulturní dům Loučeň, Městys Loučeň, Nymburská 345 Costo biglietti: 80 CZK - Info: www.kdloucen.cz, www.lorenzodibella.com
Il programma può essere soggetto a variazioni e integrazioni Per informazioni e programma completo: Istituto Italiano di Cultura a Praga Šporkova 14, 118 00 Praga 1 CZ Tel.+420 257 090 681 - Fax +420 257 531 284 www.iicpraga.esteri.it – iicpraga@esteri.it
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