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Ci vediamo un giorno di questi, legame senza fine
La narrazione di Federica Bosco, proposta nel romanzo Ci vediamo un giorno di questi, è un susseguirsi di emozioni familiari e riconoscibili: un’amicizia intensa tra due bambine che, divenute ragazze e donne, si cercano costantemente nel frastuono della quotidianità che scandisce le loro vite, distanti ma perfettamente sincroniche.
Caterina e Ludovica sono due donne con caratteri molto diversi: la prima è un vulcano di energia, le sue giornate sono dominate dal caos e dall’assenza totale di pianificazione, tutto è vissuto al massimo, imprevedibile, magmatico e improvvisato; Ludovica è esattamente il suo opposto, precisa, metodica, allergica a qualsiasi tipo di responsabilità e concretizzazione nonostante la sua esistenza sembri rappresentare la quintessenza del concreto e del tangibile. La loro amicizia è iniziata quando erano bambine, da una merenda condivisa nel cortile della scuola e, da quel momento, nessun evento della vita ha finito per dividerle.
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Insieme rappresentano un’equazione perfetta e inspiegabilmente funzionante, si cercano e si trovano al di là dei silenzi, delle invidie, della rabbia e degli allontanamenti, possiedono la certezza incrollabile di potersi riconoscere nelle turbolenze che, al di là dell’ordine apparente, entrambe sentono di possedere. La dimostrazione compiuta della forza del loro rapporto arriva quando Ludovica sarà costretta, per supportare l’amica, a dover rinunciare a quell’ordine caro al suo animo e alla sua mente che, su richiesta di Caterina, finirà per mettere da parte.
Lo stile narrativo di questo racconto coniuga perfettamente la leggerezza alla trattazione di un tema importante e profondo, a perfetta dimostrazione del fatto che la semplicità delle parole che scorrono rappresenta un punto di forza e un talento che pochi narratori sono in grado di gestire e amministrare con maestria e naturalezza: Federica Bosco possiede questo talento e lo mette a frutto in un romanzo che, pagina dopo pagina, non vorresti fare a meno di leggere. La descrizione di un’affinità elettiva, come direbbe Goethe, simboleggia perfettamente le continue sorprese della vita e l’assoluta centralità di quei rapporti umani che colorano la nostra quotidianità e finiscono per stravolgere le certezze più assolute e incrollabili che non solo noi abbiamo su noi stessi, ma che, soprattutto chi ci conosce e ci sceglie è portato a ritrovare.
Il duomo, il pozzo di San Patrizio, la cappella di San Brizio: tutti luoghi che sicuramente non passano inosservati visitando Orvieto, abbarbicata su una rupe di tufo. Tuttavia, camminando per le vie molti non sanno che c’era una volta una città sotto a un’altra città. Quello che sembra essere l’inizio di una fiaba, è il preambolo di una storia antica in cui protagonista è l’avventura di alcuni speleologi che dentro alla grande rupe incline all’instabilità, hanno scoperto un mondo sotterraneo scavato, utilizzato e poi abbandonato. Nel sottosuolo di Orvieto, altrimenti detto Orvieto Underground, si articola un tetro labirinto ospitante un cospicuo numero di grotte, cisterne, cuniculi, pozzi creati dall’uomo in quasi tre millenni di ostinato lavoro. L’attenzione degli speleologi locali venne catturata a partire dalla fine degli anni ’70, quando una frana di grandi proporzioni assestò un bel morso nella rupe orvietana, a poche centinaia di metri dal celeberrimo duomo. La frana allarmò tutti, con la preoccupazione