IL CUBO - n.28 2020

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n. 28/2020 anno 30 terza serie

rivista trimestrale

INTERVISTE AL CUBO Nasce una nuova rubrica del cubo // Intervista al Magnifico Rettore Prof. Francesco Ubertini // Intervista a Carlo Nordio Ex Procuratore Aggiunto di Venezia TRENODIA Per un pugno di note addio ad Ennio Morricone VITA UNIVERSITARIA Storia sentimentale dell’amministrazione culla dell’archivio, museo, Biblioteca EVENTI It’s time to Bo // Così distanti, così vicini: cinema, cultura e socialità nell’estate bolognese 2020 // American Evil il Cinema Ritrovato 2020 SCIENZE Chi ha ucciso i Neanderthal? UniBo indaga SPORT Tra studio, Ultimate Frisbee e Gender Equity

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www.circolocubo.it IN COPERTINA Comincio ab ovo accarezzando  il piacere della memoria. Quando sono entrato all’Università, nel 1959 e fino al ’68, i professori erano assi pigliatutto. Ubiquo il loro potere ; presidi, direttori, ordinari e straordinari, assistenti e liberi docenti, riveriti ed ossequiati. Ispirati da volontà didattica, capeggiavano processi decisionali con potere persuasivo.    L’amministrazione era tubo di transito digerente;   funzionari   che sarebbero figure che “ espletano compiti di rappresentanza”, non espletavano un bel nulla;  la rappresentanza era solo accademica. Impiegati e tecnici evanescenti: definiti personale non docente. Un muro    separava amministrativi e docenti;   affabili  i rapporti,   segnati dalla pazienza degli uni, da balda impudenza degli altri.   La cuccagna autoritaria sparì nel ’68; in quegli anni    l’Università si sostentò con l’amministrazione: organi latitanti, dimissionari i rettori, intimoriti i docenti. Coloriamo la scena per chi non c’era.

n. 28/2020 trimestrale anno 30 terza serie Direttore Responsabile Fausto Desalvo Caporedattore Vito Contento Redazione Gaetano Baldi, Marco Bortolotti, Francesco Cattaneo, Fabio Colletta, Daniele Levorato, Elena Minissale Francesca Montuschi, Niki Pancaldi, Nelda Parisini Pio Enrico Ricci Bitti , Jonny Costantino, Francesca Sibilla Progetto grafico e impaginazione Vito Contento, Fabio Colletta Hanno collaborato a questo numero Sara Biagi, Antonio Lalli, Lorenzo Monaco, Alessandra Ricciardi, Cesare Saccani Editore CSA via Grotte, 37 70013 Castellana Grotte (BA) Prezzo per copia € 0,77 Abbonamento annuo (4 numeri) € 3,08 Sede CUBO / Circolo Dipendenti Università Via. S. Giacomo 9/2 Bologna Tel. 051251025 cubo.info@unibo.it

di Marco Bortolotti (continua a pag. 16)

Una realizzazione editoriale di

Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2 comma 20/B legge 662/96 Filiale di Bologna - Registrazione Trib. di Bologna n. 5682 del 26.1.1989 ISBN 9788893541404

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SOMMARIO TRENODIA 4. Nasce una nuova rubrica: I3 (Interviste al Cubo) di Cesare Saccani

5. Intervista al Magnifico Rettore dell’Università di Bologna Prof. Francesco Ubertini di Alessandra Ricciardi

9. Intervista a Carlo Nordio Ex Procuratore Aggiunto di Venezia di Alessandra Ricciardi

TRENODIA 12. Per un pugno di note, addio ad Ennio Morricone di Niki Pancaldi

VITA UNIVERSITARIA 16. Storia sentimentale dell’amministrazione culla dell’archivio, museo, biblioteca di Marco Bortolotti

EVENTI 25. It’s time to Bo di Elena Minissale

28. Così distanti, così vicini: cinema, cultura e socialità nell’estate bolognese 2020 di Sara Biagi

34. “American Evil” - il Cinema Ritrovato 2020 di Jonny Costantino

SCIENZE 39. Chi ha ucciso i Neanderthal? UniBo indaga di Lorenzo Monaco

SPORT 42. Tra studio, Ultimate Frisbee e Gender Equity - Conversazione con Anna Ceschi di Antonio Lalli

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INTERVISTE AL CUBO CESARE SACCANI

Nasce una nuova rubrica del CUBo

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(Interviste al CUBo)

di Cesare Saccani

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a pandemia ci ha costretti ad affrontare tematiche che, solo qualche anno fa, sarebbero state inimmaginabili. Lo scenario, che si è profilato in seguito al diffondersi del virus, ci impone di ripensare profondamente le logiche politiche, sociali e di governo, non solo nel contesto del nostro Paese. A fronte di un debito pubblico in partenza insostenibile e con poche o nessuna possibilità di essere governato, proprio perché affrontato con logiche conservatrici e anacronistiche (provenienti da ogni parte dell’arco parlamentare), ci troviamo ad avere bisogno della solidarietà europea che, a tratti, sembriamo pretendere e non chiedere. Abbiamo coniato il termine “Paesi frugali”, che suona ironico, per non prendere troppo sul serio la gratitudine che spetta a quei Paesi che, avendo i conti in ordine, sono nelle condizioni di aiutarci. E siamo molto perplessi ad accettare condizioni da parte di chi ci aiuta. Questo mette in luce in modo assai chiaro quelli che sono i driver di ragionamento dei rappresentanti del Popolo italiano: le risorse devono essere date, ma non necessitano di giustificazione. In altre parole si deve parlare di finanziamenti a fondo perduto (semplicemente perché spesso i danari vengono dissipati in mille rivoli e, quindi, fa comodo non dover rendicontare) e non di investimenti. Invece i Paesi frugali sono abituati ad investire e non a sperperare. Tutto ciò porta, inevitabilmente, ad uno schema nel quale chi ha più visibilità mediatica, più è legittimato ad esprimere opinioni e, più queste

opinioni vengono espresse, più pretendono di avvicinarsi alla verità. Da qui l’impero delle fake news, come prodotto inevitabile di sovraesposizione mediatica, incompetenza e, spesso, malafede. Chi ne fa le spese è la competenza basata sul duro lavoro quotidiano che la precorre. Ma cosa c’entra tutto ciò con questa nuova rubrica? È semplice: una eccellente giornalista intervisterà persone competenti in vari settori strategici per l’esistenza dignitosa di una società civile. E ad ognuno chiederà il suo. Per competenza. È una goccia nel mare, ma una goccia pulita, che, nel suo piccolo, ha l’ambizione di rendere un po’ più pulito il mare. Alessandra Ricciardi, giornalista parlamentare, caposervizio del quotidiano Italia Oggi (al cui direttore, Pierluigi Magnaschi, vanno i nostri ringraziamenti), responsabile del settimanale Scuola e Università, ci aiuterà ad iniziare questo percorso firmando queste prime due interviste, rispettivamente al Magnifico Rettore della più antica Università del mondo, Professore Francesco Ubertini, e al Dottore Carlo Nordio, già Magistrato ed oggi saggista ed editorialista. Il primo per la Cultura, il secondo per la Giustizia. Perché senza Cultura e senza Giustizia non si va da nessuna parte. Auspichiamo che altre firme di giornali nazionali possano aggiungersi a breve per arricchire il contributo di idee e di riflessioni a disposizione dei nostri lettori. Intanto, buona lettura.

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INTERVISTE AL CUBO ALESSANDRA NIKIRICCIARDI PANCALDI

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dell’Università di Bologna, Prof. Francesco Ubertini di Alessandra Ricciardi Giornalista Italia Oggi

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untare sull’autonomia «per liberare le energie delle università». Il Covid? «Ci ha indotto a investire nella nostra didattica, il ricorso alle tecnologie resterà, ma per supportare e potenziare le attività in presenza in una logica rinnovata». Francesco Ubertini, ingegnere, professore ordinario di scienza delle costruzioni dal 2007, è il rettore dell’Università di Bologna dal 1º novembre 2015. Le lezioni del nuovo anno? «Saranno in presenza, ma potranno essere fruite anche a distanza». E ai giovanissimi, alle matricole che iniziano quest’anno la loro avventura universitaria, Ubertini dice: «Abbiate coraggio, cioè abbiate cuore e non paura».

D. Rettore, come sta l’università italiana dopo il vendosi su un terreno sconosciuto e imprevedibile. Covid? Dal governo ci sono stati interventi tempestivi, e tutta la comunità si è mobilitata. L’emergenza non R. Il sistema universitario ha tenuto. E’ stato in gra- è però finita, ci attende un anno ricco di incognite do di dare risposte in un momento difficile, muo- nel quale alle insidie di carattere sanitario si som-

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meranno le difficoltà economiche di quanti stanno scontando gli effetti della crisi. D. Che misure avete messo in campo per aiutare gli studenti in difficoltà?

tà di scegliere se seguire in presenza o da remoto. In molti casi riusciamo a soddisfare tutte le richieste in presenza, nel caso in cui l’affluenza sia superiore allo spazio consentito alterniamo presenza e remoto per i ragazzi del corso.

R. Il nostro ateneo già da alcuni anni ha optato per l’esenzione totale per chi ha un Isee fino a 23 mila euro, adottando un sistema di contribuzione che posso dire essere all’avanguardia sul fronte del diritto allo studio. La scorsa primavera, nel pieno dell’emergenza, abbiamo subito fatto un bando per sostenere nell’immediatezza della crisi i nostri studenti. Poi un nuovo bando per dare 12mila sim da 100 giga ai ragazzi ai fini della connessione, un altro bando di supporto alla mobilità attraverso la riduzione dei costi dell’abbonamento ai trasporti e per fornire a chi ne avesse utilità anche una bici in comodato gratuito. Ci siamo mossi infine per definire accordi per calmierare gli affitti, anche quelli di breve durata. Tutte misure aggiuntive a quelle già previste come le borse di studio.

D. Tutte le lezioni sono fruibili anche da remoto?

R. Il processo di immatricolazione è ancora in corso, i dati si stabilizzano di solito a fine ottobre, ma posso dire in base ad alcuni indicatori che il trend per l’Alma Mater è positivo. Per esempio, se guardiamo i corsi a numero programmato: quello che registro ad oggi è che il numero delle domande di ammissione è cresciuto ed è cresciuta anche la domanda da parte degli studenti internazionali. Altro elemento confortante: non registro rinunce dei già iscritti. Noi veniamo da anni di crescita degli studenti, direi che oggi siamo in linea.

D. Lei è per la didattica a distanza o per quella in presenza?

R. Sì, tutte le lezioni di tutti i corsi. Abbiamo fatto uno sforzo enorme per l’informatizzazione delle aule per non lasciare indietro nessuno studente che sia in difficoltà quel giorno nel venire in università oppure perché magari è straniero ed è ancora in patria. Oggi ogni aula fisica ha una gemella virtuale. D. Sarà così anche in futuro?

R. Non so rispondere a questa domanda. L’università, cessata l’emergenza Covid, non sarà quella dello scorso anno e neppure quella di quest’anno, ma non tornerà più a quella pre Covid. Dobbiamo integrare le opportunità delle nuove tecnologie con la didattica in presenza in una formula che non è D. Molte università del Nord registrano un calo ancora definita. Quest’anno sarà importante anche degli iscritti. Lei che segnali ha? per capire come muoversi.

D. La didattica di questo nuovo anno come sarà? R. Abbiamo riaperto in presenza, ma abbiamo limiti di aule con una capienza dimezzata per rispettare tutti i parametri di sicurezza anti Covid. E così abbiamo rivisto gli orari e ampliato la settimana di studi fino a ricomprendere in alcuni casi anche il sabato, oltre ad utilizzare spazi nuovi in Fiera. Per evitare di avere troppi studenti in aula abbiamo realizzato anche un’app che consente ai ragazzi di prenotare il posto a lezione, lasciando loro la liber-

R. Io ritengo che l’interazione personale, il coinvolgimento, il dibattito, il potersi vedere, siano fondamentali. Detto questo però sono altrettanto convinto che la lezioni del prof che entra in aula e parla da solo per due ore sia finita per sempre. Aveva una sua logica in un’altra stagione, anche a causa dei numeri alti di partecipanti e all’assenza di alternative. Io ritengo che le tecnologie ci debbano aiutare a far sì che oggi l’esperienza in aula sia più efficace di prima. Immagino un percorso in aula dedicato all’interazione, alla rielaborazione critica, mentre le tecnologie ci possono dare un aiuto sulla parte più trasmissiva della lezione. D. Ce lo chiede l’Europa ma anche l’Italia che produce e che lavora: quest’autunno deve essere la stagione dell’avvio di grandi riforme. Quali priorità dal suo punto di vista? R. È indispensabile che università e scuola torni-

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INTERVISTE AL CUBO ALESSANDRA RICCIARDI

no al centro delle politiche di sviluppo e di investimento. E lo dico sulla base di un’osservazione semplice: il nostro Paese è penultimo in Europa per il numero dei laureati della fascia giovanile, bisogna intervenire su questo. In un mondo che sta cambiando così velocemente la competitività di un Paese richiede conoscenze e competenze. L’Europa ha superato il 40% di laureati nella fascia dei giovani, i paesi asiatici sono ancora più competitivi, l’Italia è fanalino di coda, se non corriamo ai ripari non potrà esserci crescita. L’investimento in ricerca è stato trascurato quanto quello in formazione, ed è sorprendente come i sistemi abbiano retto. Allora o università e ricerca sono infrastrutture strategiche o non lo sono. Se lo sono vanno fatti investimenti adeguati e costanti nel tempo. D. Il problema è solo finanziario? R. No. Sulla carta alle università è riconosciuto il principio di autonomia, ma nei fatti sono bloccate da lacci e lacciuoli, una marea di norme e codicilli che rendono impossibile fare molte cose. Le capacità innovative, le energie delle università restano ingabbiate. Io credo molto che con un’autonomia vera, e non sulla carta, coniugata a responsabilità, le università possano invece correre e diventare motore di sviluppo dei territori e del Paese. D. Che farebbe con maggiore autonomia? R. Interverrei per esempio sulla nostra capacità di reclutare docenti e ricercatori da tutto il mondo. L’Alma Mater sta lavorando molto sulla dimensione internazionale: siamo cresciuti tanto per il numero di studenti stranieri, ma siamo limitati nel reclutamento di docenti e ricercatori di altri paesi. Ci sono vincoli di basso livello che quotidianamente rendono difficilissimo fare assunzioni a livello internazionale. Mi piacerebbe che gli atenei potessero essere più attrattivi, reclutare bene da tutto il mondo e per i settori d’interesse, perché l’internazionalizzazione del sistema si realizza appieno solo attraverso l’internazionalizzazione del corpo docente. D. Cambierebbe il reclutamento anche per i docenti italiani? R. Il sistema di reclutamento in Italia è farraginoso

per molti aspetti, ma siamo riusciti a reclutare comunque bene, diciamo che ce la caviamo. E’ quando andiamo all’estero che non siamo competitivi, neppure capiscono le nostre regole… D. Mi fa un esempio? R. In Italia abbiamo una trasmissione del sapere per settori scientifico-disciplinari. Ma l’innovazione si sviluppa ai margini di più discipline, il nuovo sapere è trasversale. Se non è consentito assumere chi si muove sui margini, anche l’offerta formativa risulta ingessata. È l’opposto di quello che serve: è necessaria maggiore flessibilità per rispondere alle domande della società che sta cambiando, e noi rispondiamo con vincoli e ingessature anacronistiche. Quando uno straniero va a leggere i nostri settori non capisce neppure a quale possa appartenere… D. Lei guida una delle migliori università italiane secondo i ranking internazionali: che progetti avete in cantiere per accrescere il vostro appeal? Su cosa puntate? R. Per fare buona ricerca servono laboratori all’altezza. Stiamo portando avanti un piano di investimenti per riqualificare e innovare tutte le infrastrutture. E quindi, avremo il nuovo polo biomedico, un polo che darà una nuova casa ai docenti che operano nel campo preclinico nei settori della scienza della vita; un altro polo per l’area scientifica vicino alla sede del Cnr, e poi con la regione stiamo portando avanti la realizzazione del tecnopolo dove arriverà l’agenzia Italia meteo che si occuperà dell’analisi dei big data. Gli ambiti strategici di nuovo sviluppo saranno proprio i big data e l’intelligenza artificiale, la bioeconomia e le scienze della vita, la sostenibilità e i cambiamenti climatici. D. L’innovazione passa attraverso la formazione scientifica, ma anche morale delle persone. L’università può incidere sulla educazione dei giovani anche nel senso di una maggiore assunzione di responsabilità? R. Questo è uno dei ruoli principali dell’università: prima del Coronavirus l’università formava professionisti ma aveva anche il compito di formare ot-

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timi cittadini. Oggi più di ieri è questo un punto importante perché una delle trasformazioni a cui stiamo assistendo è l’ingresso prepotente delle nuove tecnologie nella società. Tecnologie che danno maggiori possibilità di condivisione, consentono di accorciare le catene di comando, ma richiedono partecipazione attiva, una cittadinanza consapevole. Credo che questo sia uno dei temi decisivi su cui l’università deve lavorare nei prossimi anni.

dinanza tutta, non solo dei singoli studenti. D. Che direbbe a un giovane che inizia quest’anno a studiare all’Università di Bologna?

R. Il primo consiglio è di venire alle lezioni in presenza. Il secondo consiglio è di tenere viva durante il percorso di formazione la curiosità, non guardare solo avanti ma anche ai lati. L’università non deve essere limitata al percorso di studi, bisogna D. Il prossimo anno a Bologna sarà celebrata la sfruttarla tutta per crescere non solo verticalmennuova Magna Charta Universitatum. te ma anche orizzontalmente, attraverso esperienze diverse e contatti nuovi. Direi contaminazioni. R. Uno dei punti fondamentali è l’enfasi che sarà Occorre avere coraggio, nel senso del termine, cioè posta sulla responsabilità sociale delle università. avere cuore, non avere paura. È vero che ci sono Per sottolineare che è decisivo il ruolo svolto nella tante incertezze e tanta confusione ma ci sono anformazione dei giovani, formazione scientifica ma che tante opportunità. Ecco, vorrei dire ai ragazzi anche personale, ma anche il ruolo nella società, al che devono avere la consapevolezza che qui cresceservizio della cittadinanza. ranno, impegnandosi avranno basi solide per avere coraggio nelle scelte del loro futuro. D. Un’università che diventa soggetto politico? R. Io direi un’università al servizio di scelte consapevoli dei cittadini. Oggi ci sono atteggiamenti negazionistici verso conquiste della scienza che non sono supportati da analisi del dato. Le università, come gli enti di ricerca, possono e devono fornire quelle analisi per consentire ai cittadini di formarsi poi liberamente, ma consapevolmente, un’opinione. Così come le politiche di sviluppo del territorio, possono essere favorite da analisi che il mondo universitario, i suoi professori e ricercatori, possono offrire. L’università è una risorsa del Paese che va sfruttata, messa a sistema per la crescita della citta-

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INTERVISTE AL CUBO ALESSANDRA NIKIRICCIARDI PANCALDI

3 Intervista a Carlo Nordio,

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ex procuratore aggiunto di Venezia di Alessandra Ricciardi Giornalista Italia Oggi

è rimasto lì fermo. Questo perché l’attuale politica non ha né la voglia né i mezzi per cambiare le cose». A un giovane studente di diritto che voglia diventare magistrato dice: «È la più bella professione esistente, perché è libera, ti fa conoscere la natura umana e ti permette di fare del bene». E dà alcuni consigli: «Aggiornarsi sempre, ma senza diventare un fanatico del diritto…farsi una buona cultura generale, perché si impara di più da una tragedia di Shakespeare che da un’intera biblioteca di pandette. E infine tener presente che le due doti più importanti, il buon senso e l’umiltà, non si imparano all’Università o nei corsi di specializzazione, ma solo dalla dotta ignoranza, dalla consapevolezza dei nostri limiti, e dalla comprensione di quelli altrui». D. Autunno: stagione di riforme, almeno da pianificare, per intercettare i fondi del Recovery fund. Consigliere, parliamo della giustizia. Perché riformare la giustizia è oggi una sfida importante per il ritardi nella giustizia civile e penale costano Paese? all’Italia 2 punti di Pil l’anno. Una Finanziaria”. Ecco perché riformare la giustizia è R. La corretta e rapida amministrazione della giuessenziale per il Paese ora che deve venire stizia è elemento essenziale di ogni democrazia. In fuori da una crisi, quella indotta dal Covid, che ha Italia lo è ancora più perché i ritardi dei nostri promesso a dura prova un sistema che non cresce da de- cessi, oltre a vulnerare le legittime aspettative del cenni. A dirlo è Carlo Nordio, ex procuratore aggiun- cittadino, costano al Paese circa due punti di PIL, to di Venezia, negli anni Ottanta protagonista delle allontanando gli investimenti e paralizzando buona indagini sulle Brigate rosse venete e poi negli anni parte dell’attività economica e produttiva. Non vi è Novanta sui reati di Tangentopoli, presidente agli dunque solo una ragione etico-politica, ma anche inizi del Duemila della Commissione per la riforma di convenienza, e direi di necessità. del codice penale. Nordio, oggi saggista ed editorialista, acuto osservatore dei fatti della cronaca e della D. Perché la riforma della prescrizione non aiuta? politica italiana, spiega perché non si fece niente della sua riforma così come del resto non andò in porto R. Perché rallenterà ancor di più il corso dei proquella proposta dal suo successore alla guida della cessi. Dopo la sentenza di primo grado i giudici se Commissione, Giuliano Pisapia: «Io e Giuliano ab- la prenderanno più comoda, perché non dovranno biamo pubblicato un libro, “In attesa di Giustizia”, più rispondere, come fanno ora, sulle cause della dove discutiamo delle molte analogie e delle pochis- prescrizione. Questo sarà svantaggioso per le vitsime differenze tra i due progetti, che pur avevano time dei reati, che dovranno attendere anni prima avuto come committenti un governo di centrodestra di ottenere, se dovuto, il risarcimento attraverso la e uno di centrosinistra. Ma anche il progetto Pisapia sentenza definitiva.

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R. Personalmente ho coordinato un lungo e meD. Da decenni, tutti i ministri che si sono succedu- todico lavoro organizzato dallo studio Ambrosetti, ti in via Arenula hanno cercato e spesso adottato presentato a Cernobbio, raccogliendo statistiche misure per accelerare lo svolgimento dei proces- e quant’altro serviva. I risultati sono quelli che ho si. Dalla legge Pinto, che prevede tempi stringenti detto sopra: ci costa 2 punti di PIL l’anno, una vera per la definizione delle liti e sanzioni in caso di e propria legge finanziaria. inadempimento, ai numerosi tentativi di degiurisdizionalizzazione, cioè di risoluzione delle con- D. Quali sono le responsabilità della politica e troversie fuori dal tribunale, all’aumento del costo quelle della magistratura? delle liti. Ma la situazione non è migliorata. Perché? R. La politica reca ovviamente le responsabilità maggiori, proprio perché non si è mai posta il problema del rapporto tra risorse e numero dei proR. Perché la lentezza dei processi non dipende cessi. La magistratura – che ripeto lavora molto, e dalla inerzia dei magistrati, che in Italia hanno un qualche volta anche troppo su inchieste inutili – ha indice di produttività più alto rispetto agli altri pa- la colpa di essere, nella sua organizzazione sindaesi europei. Dipende dalla sproporzione tra mez- cale dell’Anm, troppo conservatrice: ad esempio, zi disponibili e fini prefissi: nelle cause civili, tra opponendosi all’eliminazione della obbligatorietà il coefficiente di litigiosità e i magistrati addetti a dell’azione penale, che è sì scritta nella Costituziorisolvere i conflitti, e nei processi penali dal fatto ne, ma è incompatibile con il nuovo (del 1989) proche l’azione penale è obbligatoria e noi abbiamo cesso accusatorio. E poiché la Costituzione preveun’infinità di reati, compresi molti bagatellari, che de di poter esser riformata, com’è avvenuto per la sono incompatibili con il numero delle persone ad- riduzione dei parlamentari, questa dovrebbe essere dette alla loro gestione. Non parlo solo di giudici una priorità. Ma, ripeto, l’Anm non la vuole, come e procuratori, ma soprattutto di personale ammi- non vuole la separazione delle carriere, che pure è, nistrativo, che si riduce sempre di più e non viene anch’essa, consustanziale al processo accusatorio. sostituito. D. Lei è stato presidente della commissione per D. Ci sono tribunali che stanno rinviando le udien- la riforma del codice penale. Mi racconta come è ze, originariamente fissate a fine 2020, al 2021 o al andata? 2022 in funzione dell’anzianità di iscrizione a ruolo. Così chi aveva una causa pendente dal 2014 do- R. Il codice attuale è del 1930, è firmato da Mussolini vrà aspettare fino al 2021 per la precisazione delle e dal Re Vittorio Emanuele III, ed ha un’impronta conclusioni o semplicemente per la discussione: essenzialmente etico-hegeliana, frutto dell’epoca e sette anni per avviare la fase finale di un processo. dell’ideologia allora dominante. Insomma non è un Come si possono concretamente evitare situazioni codice liberale. Noi abbiamo, tra il 2002 e il 2004, di questo genere? elaborato un nuovo codice, sia nella parte generale che in quella speciale, più un consistente pacchetto R. Adeguando le risorse – umane e finanziarie – al di depenalizzazioni, che avrebbe aiutato a ridurre numero dei contenziosi. Questo non si è mai fatto, le cause e quindi ad accelerare i processi più imcome se le risorse fossero una variabile indipenden- portanti. Quando abbiamo consegnato il lavoro al te rispetto al numero di procedimenti. È il tradi- Ministro Castelli, il Parlamento aveva davanti a sé il zionale difetto del nostro Paese: arrangiatevi con tempo adeguato, circa due anni, per leggerlo, moquello che avete. Come fece Mussolini, mandando dificarlo se necessario, e magari approvarlo. Non in Russia i soldati con le scarpe di cartone. ne ha fatto nulla, l’ha tenuto nel cassetto. Il governo successivo ha nominato una nuova commissione, D. Quanto pesano i ritardi nella giustizia civile e presieduta da Giuliano Pisapia, che ha elaborato in quella penale nell’economia del nostro Paese? un progetto non dissimile dal nostro. Tanto che io e Giuliano abbiamo pubblicato un libro, “In attesa

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di Giustizia”, dove discutiamo delle molte analogie e delle pochissime differenze tra i due progetti, che pur avevano avuto come committenti un governo di centrodestra e uno di centrosinistra. Ma anche il progetto Pisapia è rimasto lì fermo. Questo perché l’attuale politica non ha né la voglia né i mezzi per cambiare le cose. Una simile riforma richiederebbe infatti un’accurata discussione parlamentare, e oggi si preferisce legiferare alla giornata. D. Delle tante inchieste di cui si è occupato, qual è stata per lei la più dura? R. La più dura, ma anche la più gratificante, è stata quella sulla colonna veneta delle Brigate Rosse tra il 1980 e il 1982. Rischiavamo la vita, io stesso ho ricevuto varie lettere con la stella a cinque punte, ma sapevamo di rendere un enorme servizio al Paese, sentivamo di averlo tutto con noi, e la magistratura – con un numero enorme di assassinati in percentuale rispetto alle altre categorie – godette di un rispetto e di un prestigio immenso. Anche la mia inchiesta sulla tangentopoli veneta e sulle Coop rosse dal 2002 al 2008 è stata importante, anche se è stata osannata o criticata a seconda delle idee politiche di chi si esprimeva sulla mia conduzione delle indagini. Infine quella sul Mose, che io non ho condotto di persona, ma che ho coordinato come Procuratore Aggiunto. Avendo incarcerato un governatore di centrodestra e il sindaco di Venezia del centrosinistra abbiamo dimostrato un’imparzialità che, unitamente alla rapidità e al buon esito dell’inchiesta, ci ha procurato generali consensi. Il mio orgoglio maggiore è comunque che su trecentomila e passa ore di intercettazioni telefoniche e ambientali non un solo pettegolezzo è finito sulla stampa.

con vari colleghi di tutte le correnti. È anche vero che nel ‘97 i probiviri dell’Anm cercarono di intimidirmi per le cose «eretiche» che scrivevo, e mi convocarono per dare spiegazioni. Ovviamente non li degnai di una risposta, e non successe nulla e continuai a lavorare serenamente. Ma le cose cambiano se un magistrato mira – legittimamente – a posti apicali. Lì la spartizione correntizia è ferrea. Non che scelgano persone impreparate o stupide: il Csm sceglie persone valide, ma sempre con una lottizzazione spartitoria implacabile. D. Cosa direbbe a un giovane appassionato di diritto che vuole diventare magistrato? R. Che per un laureato in giurisprudenza è la più bella professione esistente, perché è libera, ti fa conoscere la natura umana e ti permette di fare del bene. Gli consiglierei di studiare molto e di leggere tante sentenze della Cassazione, per assimilarne la logica e il linguaggio giuridico. Di prepararsi all’esame con fiducia, perché non ci sono trucchi né raccomandazioni. E una volta assunta la toga di aggiornarsi sempre, ma senza diventare un fanatico del diritto. Di farsi una buona cultura generale, perché si impara di più da una tragedia di Shakespeare che da un’intera biblioteca di pandette. E infine di tener presente che le due doti più importanti, il buon senso e l’umiltà, non si imparano all’Università o nei corsi di specializzazione, ma solo dalla dotta ignoranza, dalla consapevolezza dei nostri limiti, e dalla comprensione di quelli altrui. D. Cosa spinse il giovane Carlo Nordio ad appassionarsi al diritto e a diventare magistrato?

R. Il senso della libertà. È una delle poche profesD. Nella sua esperienza quanto pesa l’appartenen- sioni dove non hai padroni, tranne la legge e la coza alle correnti nella professione di un magistrato? scienza. R. Niente, se uno non ambisce a fare, come si dice, carriera. Fai il tuo lavoro e nessuno interferisce. Per quanto mi riguarda, ad esempio, non avendo mai fatto domande di incarichi direttivi (o sono stato nominato Procuratore aggiunto a 62 anni, spinto a forza dai miei sostituti, e sono andato in pensione per limiti di età con quella stessa funzione non proprio altissima) non ho mai avuto rapporti con l’Anm, salvo ovviamente l’amicizia personale

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TRENODIA NIKI PANCALDI

Per un pugno di note, addio ad Ennio Morricone di Niki Pancaldi

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al coro gracchiante delle cicale estive, nella calura sudaticcia del primo grande caldo dopo “lo grande morbo che tutti si piglia” si è alzato (non richiesto) un suono metallico ed argentino. Un suono sfacciato da ottone scoperto, solista, senza vergogna. “Tuba, mirum spargens sonum, per sepùlchra regiònum” recita il testo latino del requiem. Una tromba che spande il proprio suono sui sepolcri del mondo. Ed oggi sappiamo anche chi appartenga quella

tromba funesta. Ennio Morricone ci ha lasciato. E’ piuttosto ridicolo tentare di comporre un necrologio per un uomo che se l’era già scritto da solo negli ultimi giorni, con l’appunto preciso di “non voler disturbare”. Tocca ad altri, cercare di disturbare. Tocca ad altri coprire il suo silenzio con un suono qualsiasi, perché di fronte a certi abbandoni sarebbe disumano non fare rumore, specialmente in memoria di chi passò una vita intera nell’intento di riempirlo, quel

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silenzio. Ennio era dappertutto, come il prezzemolo in cucina, ma in campo musicale. Ennio era inconfondibile, era un compositore dal carattere perfettamente delineato, una certezza auricolare. Era Pop e sublimemente accademico al contempo. Era una star della musica in frak e papillon, un signore che si sarebbe potuto incontrare al supermercato al primo impatto visivo, quasi il fantomatico vecchietto con il cappello che guida alla velocità di un triciclo. Ma all’interno, quell’ometto, era un ribollente e palpitante forgiatore di musiche sbalorditive. La generazione cresciuta tra gli anni ’60 e ’70 ha consacrato un mito immortale fatto di praterie, cavalli, sceriffi e sparatorie sulle sue note. Perché quelle note nobilitavano anche il più puzzolente dei ronzini, anche il più sudicio dei banditi. E’ doveroso a questo punto puntualizzare il valore della colonna sonora in una qualsiasi pellicola cinematografica. Basterebbe provare a vedere i primi film della saga di “Guerre Stellari” o “Il Signore degli Anelli” senza musiche appositamente composte o, peggio, con una colonna sonora sbagliata, inadatta al prodotto. Unghie su lavagne. La colonna sonora, specialmente se originalmente composta per una pellicola, è sempre uno dei personaggi principali. Come dice il buon Baz Luhrmann (Ballroom, Moulin rouge) la musica si muove ad un livello emozionale differente da quello dei dialoghi o delle

immagini. La musica scava molto più in fondo, si muove in spazi incontrollati della nostra psiche. Un po’ come l’olfatto. A volte basta un solo respiro di fragranze dimenticate e si stappa un vaso di Pandora di rimembranze che si credevano ormai perdute. Senza il povero emisfero sinistro del cervello possa intervenire. E questo Ennio lo sapeva, come sapeva come dare la voce perfetta a quel personaggio per tutti invisibile ma indiscutibilmente essenziale. Lui stesso era come la colonna sonora! Era un personaggio invisibile (anche se molto fotografato) che ha invaso la musica di buona parte del secolo passato, fino ai nostri infetti giorni di quarantena. Alcuni tra i più conosciuti brani della musica italiana portano la sua impronta nell’arrangiamento. Le trombe di “Sapore di sale” sono le sue. Si, le sue trombe, perché nel suono di quel piccolo oggetto di ottone c’è tutto Morricone. Lui stesso iniziò la carriera come trombettista, quindi conosceva la voce dello strumento, perché in qualche modo era la sua stessa voce. E non era così scontato sdoganare uno strumento di quel tipo in ambiti non strettamente jazzistici per farne il suono quintessenziale dell’ “epicità”. La tromba morriconiana è un segnale stradale; quando entra nello spartito lo fa sempre senza vergogna, lo fa sempre senza chiedere il permesso. Sancisce senza mezzi termini che con il suo ingresso nel nostro universo uditivo succederà qualcosa di epico, che si è arrivati alla resa dei conti, ad un apice. E questo solo a livello superficiale, d’impatto.

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Perché sotto di essa c’è una trama complessa quanto un tappeto persiano. Un intricato arabesco di suoni dai timbri più disparati. Fischi umani, sospiri, sillabe latrate da impianti corali, percussioni di ogni tipo, scacciapensieri siculi, ticchettio di orologi, spari, grida e soprani aerei come nuvole atlantiche. Sotto l’orecchiabile c’è tutta la stridente complessità della musica contemporanea. La magica capacità di Morricone era riuscire a capire fino in fondo lo spirito di ciò che avrebbe dovuto illustrare con i suoni. E quello che faceva era proprio dipingere un quadro dove, ovviamente, le sue musiche sono quasi sempre legate a specifiche immagini, ma dipingerebbero comunque immagini molto simili. Basta ascoltarlo per percepire il respiro senza orizzonte di una sconfinata pianura americana, la cavalcata guerriera di un gruppo di pistoleri, la malinconia di mondi perduti di un’America scomparsa di inizio ‘900 o fine ‘800. Un respiro ampio e vivo ma mai sgarbato, sempre la servizio della narrazione, mai così pesante da voler rubare la scena.

Ed è questa, io credo, la sfida più difficile per un compositore di colonne sonore. Eppure nel cinema le sue musiche hanno sempre fatto la parte del Leone ( perdonatemi, davvero, dovevo farlo…). E’ vero che molti film da lui musicati sarebbero stati comunque dei bei film, ma non sarebbero diventati mai mitici, credo, senza quel suono limpido da ottone squillante. Ovviamente Ennio passerà molto probabilmente alla storia come compositore di colonne sonore, pur essendo un compositore di musica a trecentosessanta gradi. Come già detto non ci si aspetterebbe di trovare le sue impronte digitali sullo spartito di “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello, eppure ci sono. Come ci sono in composizione di musica contemporanea di altissimo livello. Forse sta proprio in questo la grandezza di un vero artigiano dell’arte. Il non essere affetto da manie di protagonismo dovute alla propria notorietà o presunta abilità, ma nel misurarsi seriamente in ogni situazione con il medesimo impegno e la medesima serietà professionale ed umana. Visto che il mondo sta virando brutalmente verso una deriva in cui orde di inabili a qualsiasi creazione vengono osannati come nuove Divinità pagane, sarebbe opportuno tenere a mente quanto potesse essere modesto un vero gigante. Quentin Tarantino più volte volle musiche di Ennio nei propri film (era di quella generazione di piccoli cowboy da cinema di seconda visone) per-

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ché anche lui aveva capito quanto grande fosse la potenza delle sue composizioni. E volle che Morricone scrivesse la colonna sonora per un suo film western, e lo portò volente o nolente al secondo premio Oscar. Il primo Oscar lo vinse nel 2007 direttamente alla carriera, come se fosse impossibile premiare un’opera specifica dopo quarant’anni di cinema sostenuto battuta dopo battuta: dal western alla fantascienza, dall’erotico al comico, dal thriller al drammatico. Prima ancora che il requiem suonasse per lui il mondo era già gremito di orchestre specializzate in tributi alla sua musica, di citazioni e richiami alla sua opera, band Metal che aprivano i concerti con i suoi temi più conosciuti, sperimentatori musicali che si divertivano a smontarlo e reinterpretarlo. Ma la cosa indiscutibile è che, esattamente come il suono di una tromba, la sua voce non poteva essere confusa o imitata. La sua personalità buca il pentagramma. La sua era un’idea di musica precisa, la quale può piacere o non piacere ma non potrà mai essere taciuta di mancanza di carattere.

Come la voce della soprano in “C’era una volta il West” o le volute morbide dell’oboe di “Gabriel’s Oboe” c’è una punta di trionfante malinconia in tutti gli amanti del cinema, della musica e dell’Italia, oggi. Perché io credo che ci sia un pianoforte celeste, con una tastiera infinita, alla quale sono già seduti da tempo Giuseppe, Gioacchino, Gaetano, Antonio, Vincenzo e tanti altri del nostro paese e di altri paesi. Credo che ci sia un posto libero, da tempo; un’ottava scoperta. Credo che qualcuno potrebbe aver semplicemente detto “Oh, ragazzi, è arrivato il cow boy!”. Mentre la sua stella brilla già da tempo nella Walk of Fame una schiera di personaggi onirici alzano un ultimo saluto corale per quell’uomo magro ed occhialuto che regalò a tutti loro un’anima epica. Sono pistoleri sudati, gangster di inizio ‘900, femmine divine, organismi alieni, missionari sudamericani, messicani rivoluzionari, poliziotti intoccabili, proiezionisti cinematografici, violinisti disperati, pianisti sull’oceano, battitori d’asta. Sono buoni, brutti e cattivi. Tutto per un pugno di note.

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Storia Sentimentale dell’amministrazione, culla dell’Archivio, Museo, Biblioteca di Marco Bortolotti

L’Ateneo tutela e innova il proprio patrimonio culturale rispondendo alle diverse esigenze espresse dalla società. Statuto di Ateneo, Principi costitutivi, art. 1, comma 3

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omincio ab ovo accarezzando  il piacere della memoria. Quando sono entrato all’Università, nel 1959 e fino al ’68, i professori erano assi pigliatutto. Ubiquo il loro potere ; presidi, direttori, ordinari e straordinari, assistenti e liberi docenti, riveriti ed ossequiati. Ispirati da volontà didattica, capeggiavano processi decisionali con potere persuasivo.   L’amministrazione era tubo di transito digerente;   funzionari   che sarebbero figure che “ espletano compiti di rappresentanza”, non espletavano un bel nulla;  la rappresentanza era solo accademica. Impiegati e tecnici evanescenti: definiti personale non docente. Un muro    separava amministrativi e docenti;   affabili  i rapporti,   segnati dalla pazienza degli uni, da balda impudenza degli altri.   La cuccagna autoritaria sparì nel ’68; in quegli anni    l’Università si sostentò con l’amministrazione: organi latitanti, dimissionari i rettori, intimoriti i docenti. Coloriamo la scena per chi non c’era. Dal ’68 in avanti, dal tragico ’77 con la morte di Francesco Lorusso e i blindati di Cossiga disegnati da Pazienza, l’Università abbandonò dignità e decoro; sparirono aula magna, toghe e cerimonie;   aula Carducci,    palazzo Poggi,   loggiati e monumenti vandalizzati; vilmente barattato l’accertamento del

sapere cedendo alla protesta   mutuata da baldoria goliardica. Bologna aveva smarrito la sua alma  mater. Marcello Ceccarelli, fisico genio,   ha descritto il ’68,   con l’epilogo protratto, in Diciamolo: Università anno oggi / Ci buttano fuori dalla nostre cucce calde / E usano i nostri libri per incartare il salame / Ma questo non ci interessa / Ci dicono che siamo megafoni al servizio dell’Antistoria / Che per pensare troppo non abbiamo capito un cazzo / Che è stupido avere il naso lungo se non ne vediamo neppure la punta / Che è da vili promettere quello che si pensa di mantenere / Ma questo non ci interessa / Poi torneranno zitti e verranno tranquilli a lezione / Obbediranno ai nostri consigli perché sanno che non sono nostri / Ci chiederanno la firma sul libretto perché bisogna pur farla registrare/ Apprezzeranno il nostro bagaglio di esperienza perché bisogna pur farsi promuovere / Compreranno le nostre dispense e ce le mostreranno rilegate in pelle / Ci porteranno i bambini a scuola e magari ci faranno anche la spesa / Così ci avranno rimessi in piedi come bambocci di un tiro a segno   / E questo ci interessa”. Esautorata l’accademia, l’amministrazione, congegnata per durare,  scoprì  che poteri non esercitati si distribuiscono nei ruoli subordinati. L’onesta routine degli uffici scarta passioni e fazioni politiche. Così l’amministrazione, non marchiata dagli eventi, reagì al ristagno con la risorsa della sua prudente natura: spirito di conservazione e persistenza normativa.  Risorsa rappresentata dalla fisica consistenza delle carte d’archivio. La passività nasce dalla sottomissione; l’amministrazione non più sottomessa, si impadronì    del sapere archivistico e, spronata ad una storia che la riguardava, unì la memoria  del    passato   alle opportunità   del presente, orientate da pulsioni organizzative individuali. Il premuroso sapere   invogliò al fare. Da una tesi del 1976; dalla ristampa di guida settecentesca dell’Istituto delle Scienze, retaggio universitario; da fervori bibliografici, uscirono l’Archivio storico decretato nel 1980 dal ministero dei beni culturali e le mostre del ’79 e del ’81, che svelarono il gran pregio delle raccolte museali. L’amministrazione aveva ricoverato nei sotterranei banchi e cattedra dell’aula Carducci disfatta nel ’68, e le suppellettili dismesse dagli istituti, che riabilitate da rigori classificatori, decretavano l’allean-

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za del sapere con le buone ragioni amministrative, in palazzo Poggi, oggi teatro di scienza ed arte grazie al terremoto Roversi.   Fabio Roversi Monaco, docente della scuola di amministrazione frequentata nel 1979-80, non mostrava   le virtù esplosive del poi, Rettore magnifico dal 1985 al 2000, regista impresario del   Centenario e Magna Charta. I creatori non si prevedono né si preparano. Conoscemmo il gentiluomo, deliziati  dall’ordine e chiarezza che riabilitava dignità istituzionali. Il giurista mise a fuoco la prestanza solidale dell’amministrazione: prestò, ricambiato, la sua allegra energia. Cronaca e grancassa del Centenario sono note; magnificati gli effetti intitolati a Roversi, simpatico asso pigliatutto.    Gesta  da legittimare. Il talento ristagna senza il motore.  I successi di Roversi e di ogni rettorato, vanno spartiti con il saper fare dell’amministrazione, con l’ingegnosa dottrina degli uffici. Altrettanta riguardosa considerazione spetta al museo degli Studenti, nato comunitario e cresciuto dentro e per volontà dell’amministrazione. Proponimenti, processi decisionali, progetti, guidati dall’Archivio storico dell’Università, presago e battagliero. Dal 1992 l’Archivio aveva incoraggiato eccentriche minoranze di autorevoli laureati, poi associazione di promotori, alla donazione di documenti studenteschi, ottenendo fondi straordinari per le prime acquisizioni sul mercato antiquario. Valore documentario di inedite testimonianze, un mondo di cultura studentesca ignoto agli studiosi e ripudiato, non avrebbero smosso un apparato restio ad iniziative nate dal basso. Potenti ragioni stavano nella perdita, dal ’68 in avanti, del consenso cittadino costruito dagli studenti. La figura dello studente si era fatta sfuggente, inquietante,    con identità solo anagrafica.  Il timore, quasi sgomento, che Università e Città si avviassero a perdere, con l’incomprensione, svilimento e decremento degli studenti, ragioni ed economia del vivere, trascinò l’istituzione a mettere in scena la comunità degli studenti in un museo che fosse asilo e cantiere per documenti in via di perdersi, augurabile scuola di comportamenti, e restauro di una somma di relazioni affettive e valori contestuali. Museo di smisurata ambizione, non solo luogo di esercizi storiografici, ma un modo di vedere e recuperare la vocazione universitaria di tenere insieme, di costruire e custodire, tramandare

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un bene comune.    Bene anche bibliotecario. Le   biblioteche sono energia radiante, agiscono come l’ormone della crescita. Nel    1976, dai sotterranei tenebrosi di palazzo Poggi, poi risanati, uscì la serie completa e in più copie, degli Annuari, destinati alle biblioteche universitarie e civiche; uscirono atti congressuali, saggi e biografie, commemorazioni, libri donati da università, accademie, e quelli, magnifici, pubblicati per l’ Ottavo Centenario (1888). I mille libri raccolti, vagiti della sognata biblioteca d’ Ateneo, si moltiplicarono con le esaudite richieste spedite alle università ed istituti, elencati nella Bibliografia per la storia dell’Università di Bologna di Gabriele Zanella. Bastava chiedere per ottenere. Le copie in più dei libri pubblicati dall’Università, formarono un cataloghetto: Opere disponibili – Available  Books, adoperato negli scambi. Partì una lettera inglese (confezionata dall’amico Giuliano Pancaldi), in franchigia per tutte le università del mondo. Ebbe esiti straordinari e risonanti, favorendo la nascita della biblioteca d’Ateneo annessa all’Archivio storico. Censita dalla Soprintendenza bibliografica dell’Istituto per i beni culturali, la biblioteca  divulgò talento laborioso con la mostra e catalogo trilingue Alma Mater librorum, così intitolata da Renzo Cremante; mostra inaugurata nel 1988  in Archiginnasio; in trasferta a Barcellona, Francoforte, Tokyo. La biblioteca  di Ateneo, uscita dall’amministrazione, aveva attitudini organizzative. Un fondo professionale per operatori universitari di ogni ordine e ruolo, fatto di guide, statuti, saggi di politica e sociologia dell’istituzione e della ricerca, libri per  gestire uffici, dipartimenti, archivi, biblioteche, per amministrare con tecniche di organizzazione e metodi, libri sull’edilizia universitaria, sul cerimoniale e organizzazione dei congressi: tutto il mondo universitario, venne descritto nel Saggio bibliografico per un servizio di documentazione dell’amministrazione

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l’interesse; immagino poi il suo stupore per il peana che magnifica amministrazione e burocrazia. Sono stato burocrate e i burocrati ligi si illudono di essere necessari.    Non aderisco al pregiudizio ancorato alla vita sociale, confortato dall’unanimità, consenso e costanza della pubblica opinione. Mi azzardo a dire che la burocrazia è capro espiatorio di ogni male per chi disprezza le mezze maniche e corre ad indossarle appena può. L’impresa di accreditare la burocrazia, pare disperata, paradossale. Il vilipendio protratto attira l’apologia non assolutoria: i torti veniali degli impiegati – pausa caffè, assenze malandrine – vegetano in quello capitale, nel patto: universitaria, edito nel 1986 e 1987. Saggio presun- “fate il comodo vostro che noi facciamo il nostro”. tuoso; l’amministrazione si impancava maestra. Sui comportamenti burocratici si emettono giudizi Quei libri non conquistarono la sede proposta: sala esigui, rappresentazioni di sintomi.    Abbiamo tutti attigua a quella delle sedute consiliari, con gli ele- la tendenza di dedurre le cause dalle conseguenganti scaffali già della Scuola superiore di econo- ze. Allora i comportamenti radicati in burocrazia mia e commercio di via Milazzo, sopravvissuti ai – accidia, formalismo, sussiego, fuga dalle responbombardamenti. Lo scacco non tramortì la biblio- sabilità -  vengono  dall’alto, mossi e provocati da teca che con I libri dell’ingegnere confezionato nel istanze superiori. La burocrazia è assenteista, le1990, contrastò il trasferimento della biblioteca di targica, puntigliosa, connivente, ritualizza le sue facoltà dalla sua sede storica, la torre disegnata da Vaccaro. Il buon esito di questa ed altre faccende, si spiega con  l’insediamento  della nuova struttura dentro l’amministrazione centrale di palazzo Poggi e suoi diretti rapporti con rettorato ed organismi collegiali. La struttura, ubbidiente e versatile organismo documentario, adoperava rete  ed informazioni del circuito universitario,  con l’integrazione e vantaggi insiti nell’aggregazione storica dei suoi materiali,    moltiplicandone efficacia e dinamismo. L’ ubbidiente, ma non serva amministrazione, non suscita le gelosie e rivalità che tormentano gli accademici. Imprese  contestate giungono in porto con universale contento se trattate dal “saper fare” amministrativo. Si aggiunsero così al bene archivistico, due ingenti capitali: estratti da un tramezzo che li nascondeva alla vista, emersero i materiali della scuola ottocentesca di architettura di Fortunato Lodi, che, uniti    ai disegni e piante raccolti dall’amico Giuliano Gresleri, formarono  l’ archivio degli architetti    bolognesi. Con Lino Marini, storico piemontese, alpinista e fotografo, l’Archivio ricuperò e riordinò lastre e fotografie antiche e recenti degli stabili e monumenti universitari. Ho abusato della pazienza del lettore che mi ha seguito fin qui; i lunghi discorsi annoiano, spengono

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funzioni anziché adempierle? Caratteri congeniti, immutabili? Quando durano non corretti, alimentano un luogo comune, incoraggiato e condiviso; comoda scappatoia    per sfuggire alle responsabilità dell’agire politico e addossare alla burocrazia la colpa delle cose che non vanno. Non si riflette che il burocrate è governato dalla necessità non dalle finalità; che l’ ufficio non assegna definite responsabilità per non incrinare la piramide gerarchica; che il contesto  sociale condiziona il comportamento della burocrazia. Ogni paese ha la burocrazia che si merita e che può permettersi. Neppure si riflette che nella nostra burocrazia, per raggiungere lo scopo, bisogna    oltrepassarlo; vincere diffidenze ed ostilità; trasgredire norme ed inventarsene. Eppure il mondo della burocrazia, con le sue pecche, pare più rassicurante del caos, indifferenza, egoismo, malaffare, propensioni parassitarie, privilegi, trattamenti nepotisti e clientelari che stanno fuori. Si ride della burocrazia, scienza dell’intercapedine, si conoscono gli effetti perversi; si ignorano invece le cause di quei vizi, i prodigi del lavoro sedentario, le piccole e grandi virtù, quali la coscienza del lavoro ben fatto e l’attenzione per il lavoro degli altri. L’Archivio insegna poi che  le storie cominciano, procedono, finiscono con atti amministrativi, prin-

cipio di altri fatti e vicende e che le fonti della storia nascono con il lavoro di impiegati che trasformano grandi e piccole tappe, in  traguardi e norme operative. Storia e cultura sono amministrazione. Riprendo il filo della parentela: l’idea poi circolante, del museo per gli Studenti, si affacciò con la mostra nel Bo’ padovano  (v. Bollettino dell’Università, nov.1992 alle pp.77-78) e con un appello urbi et orbi per il “censimento… di materiali per una mostra catalogo dell’antica goliardia” che intitolata Gaudeamus igitur. Studenti e goliardia 1888-1923, si inaugurò in aula magna il 13 maggio 1995. Alla p. 78 del catalogo il curatore scrive: “con le sue schede (il catalogo) è l’avvio di un lavoro in corso, un cantiere di ricerca per il costituendo museo degli Studenti e della goliardia”.   Da quel primo passo, fu tutto un correre, un concorso e fiorire di iniziative. L’amministrazione, sempre lei!, allestì mostra e catalogo del collegio Jacobs nel’Hotel de Ville di Bruxelles; seguirono quelle di Canterbury e per i mille anni della città di Trondheim esponendo cimeli studenteschi che sanzionavano il mordente europeo del museo, invocato ed accudito nelle premesse.   Per riscaldare e dilatare l’attrattiva, Paolo Poli, genio teatrale, fece sua l’idea di interpretare in Aldo, mi cali un filino?, la poesia  Goliardica di Palazzeschi; con il consenso  della nobile  famiglia astigiana de Rolandis,   con   gli autorevoli uffici di Roversi e di amici torinesi, giunse a Bologna con l’intesa, poi contraddetta, di rimanervi in comodato, la coccarda risonante  de Rolandis , antesignana del Tricolore ufficializzato a Reggio Emilia. Coccarda confezionata ed indossata    dagli studenti Giambattista de Rolandis e Luigi Zamboni, nel primo moto risorgimentale estinto da torture e sulla    forca. Dalla tragedia al Gaudeamus, che nella trascrizione . musicale di Liszt, riempì le pause del centralino telefonico; intonato nelle cerimonie accademiche e nelle conversazioni di storia studentesca aperte a tutti: studenti, cittadini, impiegati e docenti, svolte da professori di questa e altre Università, da rettori in carica e in fieri. Successi recepiti nel luglio 1998, dal Comitato per Bologna 2000 Città europea della cultura, che approvò il progetto del museo redatto dall’ Archivio, assegnando contributi finanziari al cantiere comunitario scortato da Gian Paolo Brizzi, allora a Sassari, eletto nostro capitano a sua insaputa. Con lui

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e per l’amico Rettore Pier Ugo Calzolari, confezionammo nel 2003 l’ Alma Mater degli Studenti, libro giovane, originale, imitato da altre università, illustrato con fotografie di nostri studenti, aperto dalle pagine di Roberto Roversi, che aiuta   a comprendere e a volere “ per gli studenti, una Università migliore di quella che abbiamo ricevuto”.   A Brizzi,   vanno la mia, nostra gratitudine, con le riserve di cui dirò, per un lavoro   “lucido, rapido, di prima classe”. Il costituendo museo cercava casa: trovata al piano terreno di palazzo Paleotti, già sede dell’Orub, del Magistratus, e prima ancora del Guf. Gli studenti avrebbero recuperato memoria  storica e topografica. Poi Roversi cambiò idea, destinando il museo nel solaio ristrutturato di palazzo Poggi, in subdola, impari concorrenza con le meraviglie settecentesche del piano nobile. Battagliammo invano: sebbene il museo, giocondo prodigio, unico nell’universo mondo, inaugurato da Pier Ugo Calzolari nel marzo 2009, sia di   variopinta   attrattiva, la sede non persuade. Entriamo nell’ennesimo museo   universitario,  non nel centro e tesoro   dell’universo studentesco. La creazione di un museo   è un fenomeno sociale e di qualsiasi fenomeno   vanno ricercate le cause occasionali per ricondurlo a comportamenti individuali che ne sono la causa. Brizzi, erede designato dal 1998, anno del mio pensionamento, della struttura e allestimento del museo, è l’artefice di quel fenomeno. Cordiale, bonario, portato a gesti generosi e spontanei, massimo esperto di collegi e sistemi educativi, ha trasferito nelle vetrine del museo, la solerzia scrupolosa della sua dotta professione. Ordinamento, assetti, gerarchie espositive, significati inscritti nella scelta dei reperti , disegnano un quadro storico-cultura-

le coincidente con la bibliografia dello studioso; quadro convincente perché “ ben di rado avviene che le parole affermative e sicure di una persona autorevole… non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta”. Osservando vetrine così ben congegnate, il visitatore compie un’esperienza estesa ad un perentorio giudizio d’insieme: persuaso che il mondo studentesco sia compreso e attingibile in quelle vetrine. Lo storico Brizzi conosce i rischi del mestiere: trasformare il passato in una gelida replica che lo eternizza privandolo della sua energia. Come diceva Raimondi, indimenticato maestro, ci sono  “musei che covano l’uovo senza rompere il guscio”; per romperlo ed infondere energia ad un luogo che resta fenomeno prodigioso e sapiente, l’archivista pensionato ricorre alla parodia, dicendo cose che in sé poco importano,    ma importano assai se lette come il segno di una disposizione  che vede nello studente, negli studenti, il principio e meta della storia universitaria. Gli studenti sono “il vero centro di ogni comunità universitaria e gli unici veri giudici di quanto accade dentro l’Ateneo”. All’inizio del percorso, che chiede qualche correzione di tiro,  il visitatore non ingenuo, al corrente

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cioè di fatti e fasti universitari, è sconcertato dal documento federiciano che fissa  l’origine dello Studio nel 1115, e poi da due mazze, insegne del potere rettorale studentesco; nelle cerimonie le mazze sono tre, adagiate su buffo tavolinetto come il tre di bastoni della briscola. Per inciso: le tre mazze, imbracciate da bidelli, dovrebbero precedere i cortei, collocate poi in piedi su di un supporto davanti al tavolo rettorale. Documento e due mazze solinghe, provano che Brizzi sposa la goliardia al serioso compito del museografo. La data del 1088, origine dello Studio, nato con e per gli studenti, è consolidata dalla tradizione e da    saggi eruditi; celebrata da due centenari; pubblicata nei repertori che stabiliscono la data di nascita degli atenei con l’ordine di precedenza cerimoniale; proclamata nel 1988 con le firme della Magna Charta  e qui mi fermo, supponendo che la scelta del documento del 1115 risponda a giudizio ponderato, lesivo però di  presidio  istituzionale.  Bizzarra poi l’esclusione della terza mazza che, sebbene coeva, ha perso statuto studentesco solo perché, ritrovata guasta nel 1887, fu restaurata per le celebrazioni del 1888 inserendovi lo stemma sabaudo, della città di Bologna, il nome del Rettore, del ministro dell’Istruzione. Assistiamo  ad un curioso ripiegamento della realtà  storica. L’esclusione bastona un reperto carico di storia ulteriore, sormontato poi dalla statuetta dorata cinquecentesca di S.Girolamo con gli attributi,   libro e leone accucciato. Il patrono degli studiosi ed eruditi, licenziato  da museo universitario, troverà chi lo riporti a casa ? Il museo, vispo e vivace, senza stravaganze né miracoli, documenta vicende scelte dallo storico che costringe l’identità studentesca nelle divise assegnate dall’istituzione; lavoro di utilità documentaria. L’identità degli studenti è però matrioska, agglomerato processo in divenire; nel museo, l’identità è subita, ricevuta, conferita. Lo storico adopera le forbici ed esclude dal percorso i reperti più vivi di quell’identità: genialità inventiva, letteraria, poetica; il processo creativo per cui negli anni della formazione, si diventa quello che vogliamo essere    negli anni maturi. Gli ardimenti della gioventù studiosa hanno determinato, condizionato l’evoluzione delle idee e del costume nelle lettere, arti, politica. Un esempio tra i mille: la formidabile burla di studenti livornesi che, nel luglio 1984, con

le “teste” Modigliani affondate e ripescate nel Fosso Reale, divulgarono fallacia e sicumera di critici e storici dell’arte : “ Ho visto quelle teste, sono di Modigliani”, così il saputo Brandi nel Corriere della Sera del 12 agosto 1984, beffato con Argan, Ragghianti ed  altri soloni; da allora cauti nei vaticini. Lo statuto della disciplina è stato riformato dall’impresa studentesca che dovrebbe figurare nel museo insieme alle poesie di Campana, Pasolini, Roversi,   tutti studenti bolognesi; alle prime prove, disegni e caricature di de Pisis, Galantara, Pazienza; alle tesi di    Giacomo Matteotti, Bissolati, Bonomi, ed altri, poi letterati, filosofi, giornalisti, politici di fama; piluccati nel pantheon degli studenti. Nelle prime opere giovanili, c’è  il germe  dell’attività adulta. Tutte o quasi, le case editrici universitarie sono nate da studenti che, per mantenersi agli studi, stenografavano e litografavano le lezioni, poi dispense, vendute ai compagni abbienti. Il museo dovrebbe proclamare che gli studenti, indicatori dello stato di salute dell’università e “veri giudici di quanto accade dentro l’Ateneo”, sono industria che ringiovanisce, professionalizza, arricchisce  e non inquina; che senza di loro Bologna è cronicario; che gli studenti migliori sono devoti e disinteressati e che le cose del mondo cambiano con la devozione e disinteresse delle loro idee e desideri: “un giovane quando vede un problema pretende che venga risolto invece di rassegnarsi”, così Tony Judt in Guasto è il mondo. E poi, e poi, le idee sono vive finché corrono con la fresca euforia dell’ “ardore giovanile (che) è la maggior forza, l’apice, la perfezione della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici nei quali l’ardore e la forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori dal calcolo”. Così Leopardi nello Zibaldone, 15 giugno 1821; il poeta, qui  filosofo della politica, prefigura  disoccupazione giovanile e  fuga dei cervelli.  Se al suo “sistema politico”, sostituiamo  “apparato museale”, si convenga che al museo manca l’ardore, solo suggerito dallo stupore visivo dell’allestimento, tributario di una concezione folklorica del mondo studentesco. Per figurare l’ardore, occorrono competenze letterarie, artistiche, economiche, di storia delle idee, filosofiche e politiche, scansate da un percorso che  esclude, con accademica pruderie, ogni accenno alla  “vista, favella, tatto e dopo i baci, il fatto”. E’ l’amore, “lieto

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disonore”, che meglio racconta vita, estro e fantasia degli studenti. Questo ed altro per un museo che voglia essere pensatoio esemplare, condiviso dagli studenti. Noterò infine, ma è principio, che un museo non mausoleo, non può immaginare il suo futuro separato dall’Archivio storico e biblioteca, allontanato dal contesto che l’ha generato. Giudizio fondato sulle conseguenze ed osservanza delle norme per gli archivi degli enti pubblici dichiarati di “particolare importanza”, dagli artt. 30-35 del dpr 30 settembre 1963, n° 1409 e dal decreto del Ministero per i beni culturali del 20 dicembre 1980, n° 3.9657 che istituiva l’ Archivio storico universitario bolognese, primo fra le università italiane, che ne hanno poi seguito l’esempio. Così congegnato, l’Archivio diretto da funzionario archivista dell’università, vivaio di memorie e repertorio culturale, aperto alla consultazione di ricercatori, permane struttura e servizio dell’amministrazione che vi ricorre per scopi e funzioni di autodocumentazione.  L’Archivio, mappa cognitiva, orienta  i rapporti con il contesto universitario; rispecchia, consolida e mette in scena la cultura dell’organizzazione con gli attrezzi  per prevedere il futuro inventandolo. Questo fino ad ieri.    Oggi l’Archivio storico  è accorpato alla Biblioteca universitaria, perdendo la propria, pertinente, esclusiva, fisionomia, nonché il pungolo ed incentivo, le  competenze, risorse e potenzialità, la vigilanza infine, dell’apparato tecnico-amministrativo di cui faceva parte. Imboccando una strada diversa da quella prescritta dalle norme istitutive, l’ Archivio ha perso      radici, nutrimento e fondatezza normativa,  barattandole con  “la gelida luce degli sguardi eruditi”. Come e perché è accaduto? Le nostre Università  hanno subito profondi cambiamenti; ogni nuovo ministro, e sono tanti!,  ha voluto legare il suo nome ad una qualche “riforma”, nella colpevole latitanza accademica. Il modello tradizionale, aggiornato da Paolo Prodi che raccomandava di non contrapporre l’università tradizionale a quella tecnologica, sopravvive solo nelle celebrazioni, felicemente sostituito da un modello sempre più legato al mondo  delle imprese e della tecnica, spinto fino agli assetti organizzativi. L’apparato amministrativo, leggibile nelle targhe degli uffici, si è trasformato; l’approccio normativo, notarile e burocratico, è transitato nel manageriale, imposto dall’esigenza di una più efficiente alloca-

zione delle risorse: il direttore amministrativo è diventato    generale. In questo quadro la tradizione archivistica, che si fonda sulla disciplina normativa e sulla carta, investita e scardinata dalla rivoluzione informatica e tecnologie digitali, ha perso peso e valore, subendo la graduale erosione della sua legittimità; la materia archivistica si è fatta virtuale; congedata dalle novità imposte dal riordino del sistema universitario. L’archivio digitale sembra escludere il rapporto con il passato; a Bologna, per l’Università millenaria, valore intangibile. Cosa fatta capo ha? L’accorpamento dell’Archivio alla Biblioteca potrebbe rivelarsi improvvido. Butto giù alla rinfusa un po’ di cose che l’Archivio storico  faceva e che, ristretto a serbatoio di notizie, non sarà tenuto a fare; debilitato da un assetto che subordina, nei fatti, l’Archivio alla Biblioteca, deprimendo motivazioni ed aspettative di carriera di archivisti non bibliotecari. Premesso che in Archivio, presidio e repertorio istituzionale, c’è tutto e per tutte le materie, e che la sua idoneità è limitata solo dagli interessi e professionalità di chi lo interroga, l’Archivio somministra servizievoli contributi di conoscenza non solo storiografica. Faccio un elenco: espone le ragioni dell’istituzione; fa risparmiare denaro e parole resuscitando quelle antiche e recenti, serve a predire esiti ricorrendo ai precedenti, suggerisce e stabilisce collegamenti imprevisti, estrae soluzioni dalle carte, risolve problemi e conflitti, fornisce esempi di condotta –  copiando il 1888, rettori e cancellieri delle antiche università europee, convenuti a Bologna per il nono Centenario, furono ospiti di nobili casate  bolognesi con reciproco gaudio. In Archivio non ci sono solo documenti di fatti accaduti e perenti, bensì e soprattutto, opzioni ed opportunità rinviate o scartate che, in mutate condizioni e contesti, si rivelano provvidenziali e risolutive. L’Archivio guida, confuta e spiega; sostanzia, in ognuna delle sue carte, “identità e reputazione” dell’istituzione; in ultimo, è forza associativa che rappresenta fisicamente e sostiene la verità documentaria e la    peculiare autonomia universitaria. Svelo un segreto di bottega: l’archivista istruito che appartenga all’amministrazione, arriva svelto ed ubbidiente dove il catafratto accademico che accende timori e gelosie, fatica ad avvicinarsi. Opinione stagionata e partigiana. Basta percorrere i loggiati universitari ed entrare in qual-

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che  ufficio ed istituto, per accorgersi che l’Università  ha dismesso la  boria stantia ed esitante; padroneggia la scena internazionale e ne scala le classifiche, è ringiovanita, cresciuta di statura e vuole crescere ancora: inventa ed incrementa settori di attività, identifica, cura e sviluppa i suoi obiettivi, valuta  efficienza, efficacia, valori e risultati attraverso questionari che attirano, misurano il consenso, perfezionandolo. Sbaglierò, ma mi piace pensare che la ventata intraprendente, sia attribuibile alla cultura volta al nuovo, pragmatica e d’impresa, dei Rettori ingegneri, Pier Ugo Calzolari, Francesco Ubertini, e giovani collaboratori. Il nuovo convive  in sinergia con l’antico; sfoggiato dall’Università di Bologna, dove storia, primati e tradizioni, con il prestigio-risorsa che ne deriva, sono unici, incomparabili. I dieci secoli dell’Università, strategica risorsa, vanno accuditi, sostanziati con gli obblighi quotidiani del servizio: “le tradizioni, chi non le aiuta, da sé dicon sempre troppo poco”.  Le mie chiacchiere beneauguranti cercano di accendere la curiosità di manager universitari che hanno eletto a modello le università anglosassoni; manager  che adoperano analisi di settore, risorse e competenze come basi strategiche, che studiano vantaggi competitivi e fattori critici    del sistema universitario bolognese. Come si comportano quelle università con gli archivi? L’ Harvard University dichiara: “The Archives serves administrative needs as the official repository for noncurrent University records, and also serves as a resource for scolarly research” ed ancora : “In the interest of both history and service, the Archives attempts to combine a scholarly concern for the past with the efficient management of  and the care for the University’s records”. Quelle Università riconoscono che “the role of the University archives as an indispensable tool of the University” e vi riservano particolare attenzione perché “the existence and effective functioning of an archive is the first place a prerequisite to sound management on all levels of the governance”.

Questa lunga, troppo lunga perorazione, partigiana e sentimentale, “segno manifesto di chi non può operare”, può essere riassunta in una formula: l’ Archivio, se maiuscolo, non è pura eredità o serbatoio, ma continua riconfigurazione di ciò che viene tramandato; memoria che si aggiorna e permane moderna. L’ Archivio “non riguarda il passato, riguarda l’ avvenire”. Per scrivere ho adoperato la memoria; le pubblicazioni citate; lo Statuto di Ateneo; le 27 pagine del Documento di sintesi.Linee guida di organizzazione.Modulo I:amministrazione generale, Bologna, Università, 2009; il 1°    Rapporto sugli Archivi delle università italiane, a cura del Gruppo di coordinamento del progetto nazionale Studium 2000,    Ministero per i beni e attività culturali, Direzione generale per gli archivi,    Padova,    Cleup, 2002; il    mio libretto La mia Università. Bologna Trieste e ritorno, Bologna , Clueb, 2013;    queste righe sono supplemento ed integrazione    dei saggi di Simona Negruzzo, “ Museo Europeo degli Studenti, Meus. Un esempio di Public History” e di Loretta De Franceschi, “ La Biblioteca dell’Archivio storico dell’Università di Bologna”, in Annali di Storia delle Università italiane, 1, gen.-giu.2018, pp. 183-194 e 203-212,    saggi che mostrano di ignorare l’opera dell’amministrazione, con il suo Archivio storico, all’ideazione del Museo e Biblioteca, protocollate imprese comunitarie. Alcune frasi virgolettate   sono citazioni dal discorso di inaugurazione dell’a.a. 2017-18 del Rettore Ubertini, che nel maggio 2016,    con un questionario    indirizzato agli studenti e a tutto il personale, ha avviato il progetto Identità e reputazione. Ovvie    citazioni    manzoniane; la penultima ed ultima sono, rispettivamente,    di Paolo Sarpi    e    Jacques    Derrida. Per la vignetta, ringrazio La Settimana enigmistica.

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EVENTI ELENA NIKIMINISSALE PANCALDI

It’s

Time

to

BO

di Elena Minissale

I

l lockdown ha arrestato improvvisamente la maggior parte delle attività a cui siamo abituati. La realtà culturale si è trovata particolarmente colpita: addetti ai lavori e fruitori sono stati privati dell’”incontro”, che è sacro. Tuttavia, i progetti e le idee che erano in corso, hanno

modificato la propria forma per adattarsi alle nuove circostanze. In un momento così difficile ci si è trovati con tantissima voglia di andare avanti e di praticare cultura, musica e aggregazione a distanza. Mi sono trovata coinvolta, sul finire del periodo di quarantena, nella realizzazione di un teaser per un

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EVENTI ELENA MINISSALE

ambizioso progetto culturale incentrato soprattutto sulla musica a Bologna. Il gruppo che ha messo su “It’s time to Bo” è composto da persone che vivono da molti anni il contesto musicale e culturale bolognese. Le riprese del teaser sono state effettuate in una Bolognina deserta, attrezzati con le mascherine e il dovuto distanziamento, in un pomeriggio primaverile e assolato. Si tratta di un progetto che tiene dentro la spinta incoraggiante di passioni che non si fermano e che coinvolgono la musica e la voglia di stare ancora insieme. Bologna ha adesso un riferimento importante per tutti coloro che si occupano di musica, arte e cultura.

della Cultura a fine aprile 2020; un centro culturale polifunzionale all’interno del quale It’s time to Bo sarebbe stato uno dei vari progetti. L’epidemia di Covid-19 ha cambiato il contesto e il collettivo è stato portato a rivedere i propri piani e a concretizzarsi dopo il periodo di quarantena, venendo fuori il 16 giugno 2020. L’obiettivo del collettivo è dare visibilità alle diverse realtà musicali presenti nel territorio, attraverso la documentazione della scena musicale locale sottoforma di censimento sonoro.

Portare alla luce i tesori nascosti di Bologna, fornendo una piattaforma virtuale attorno alla quale pubblico e artisti possano incontrarsi e riconoscerNella pratica, cos’è It’s time to Bo? Sono già stati si. La volontà e l’intenzione è quella di ricollocare pubblicati due videoclip su YouTube e la tabella Bologna sulla mappa nazionale ed europea come di marcia del gruppo è in corso e procede a pieno centro di avanguardia sociale e artistica, sperimenritmo. Il desiderio è di superare un momento stori- tando con metodi di produzione e distribuzione co importante e ritrovarsi finalmente in uno spazio alternativi alle dinamiche di mercato, basati sulla dove poter condividere dal vivo le emozioni che la qualità e originalità della proposta musicale, sulla musica e lo spettacolo sono in grado di trasmette- collaborazione e il supporto reciproco. re. It’s time to Bo è un progetto nato da 4GROO- It’s time to Bo produce video e registrazioni audio VES app, un collettivo di professionisti del mondo di alta qualità, ricercando e proponendo i migliori della musica (musicisti, tecnici, organizzatori, ma talenti musicali del territorio bolognese ed emiliaanche artisti e artigiani), in collaborazione con Ar- no-romagnolo. Le produzioni sono pensate per una distribuzione online e quindi sono caratterizzate da t&Sound, il Vecchio Son e ARCI Bologna. I suo una durata breve (15 minuti per le band, 25 minuti fondatori sono Jack Calico, Massimiliano Agostini, Gaia Tassinari e Giulio Brighenti; fanno parte del progetto anche Gaetano Alfonsi, Fabio Arcifa, Fabio Vassallo, Giovanni Frezza e Filippo Ippolito. It’s time to Bo è frutto di una lunga gestazione, che doveva inizialmente vedere la nascita di una Casa

Fabio Facci di Dueeventi (ph Filippo Ippolito)

Aldo Betto dei Savana Funk (ph Robin)

per i DJ set). It’s time to Bo condivide sui propri canali FB e IG novità e ultime release degli artisti locali, ed ogni due settimane rilascia su YouTube e IG TV un nuovo video con nuovi ospiti. È una realtà accessibile a distanza, ancora per qualche tempo, che si tradurrà in una condivisio-

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EVENTI NIKIMINISSALE PANCALDI ELENA

ne concreta e tangibile quando il contesto sanitario lo consentirà. In questa strana estate con penuria di eventi culturali e penuria di denaro nelle tasche dei cittadini, sapere che la musica va avanti, dietro le quinte, dà forza. It’s time to Bo permette una degustazione di prima scelta di artisti che lavorano e producono nel territorio bolognese con assaggi audiovideo di eccellente qualità, in modo che la musica arrivi forte e chiara alle orecchie di tutti. L’aggregazione culturale è ancora possibile ed è in lavorazione, partecipare come pubblico potrà contribuire a mappare le mete d’interesse post pandemia. “Se bruciasse la città”, cantava Massimo Ranieri, “da te io correrei”. Senza tirare in ballo l’amore serioso, il concetto è “avere un obiettivo” anche in uno stato d’emergenza. Sembra che la parte peggiore sia passata, ma passerà ancora qualche tempo prima di rivederci sereni e senza mascherine e disenfettanti a difesa di promiscuità prima sconosciute e potenzialmente dannose. Perciò, seguire adesso la musica attraverso piattaforme digitali è un modo per darsi un appuntamento “fuori” e interessarsi alla bellezza che non cessa di circondarci e di cui siamo artefici volontari e involontari. Ecco parte del manifesto del collettivo It’s time to Bo: “….Per venti anni Bologna è stata la meta più ambita per tutti gli appassionati di Jazz in Italia: qui hanno suonato, spesso per la prima volta nel Bel Paese, artisti del calibro di Louis Armstrong, Duke Ellington , Miles Davis, Ella Fitzgerald, Chet Baker, Thelonious Monk, Charlie Mingus ed Art Blakey; in tempi più recenti è stata la casa di Fran-

cesco Guccini, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Marco Tamburini, Ezio Bosso, Pier Paolo Pasolini, Pupi Avati e Andrea Pazienza, tra i tanti. A Bologna sono nati i movimenti studenteschi che hanno rivoluzionato il modo di concepire il lavoro, l’educazione, l’arte, il sociale. Ciò che ha reso famosa la città di Bologna, e che continua ad attirare migliaia di persone con il suo fascino storico, è la creatività che scorre nelle sue vene, nelle sue strade, il suo indomito desiderio di ricerca artistica e condivisione, che contribuiscono all’atmosfera di convivialità e apertura che la caratterizza. Purtroppo negli ultimi decenni questa storia, la Storia di Bologna, è stata negata, sminuita e svenduta per dare spazio ad uno sviluppo economico sterile e poco lungimirante, rivolto al turismo o allo sfruttamento degli studenti, che ha svuotato la città della sua linfa vitale, togliendo e poi negando gli spazi all’espressione sociale, culturale e artistica indipendente e dal basso che ha reso, negli anni, il gioiello unico che è Bologna. Chi dice che con la cultura non si mangia non è mai stato qui, dove con la cultura si mangia meglio. Il territorio bolognese è infatti ricco di iniziative culturali, sociali ed artistiche che compongono uno strato fondamentale del tessuto socio-economico cittadino, in quanto includono, nel loro processo di produzione, tutti e tre i settori economici: dall’agroalimentare alle infrastrutture, dalla produzione artigianale ed industriale all’offerta di servizi. Nonostante abbia sofferto dei colpi inferti dall’ostracismo amministrativo/capitalista, la città è tuttora ricca di artisti e tantissime persone che desiderano, sognano, supportano e lottano per mantenere vive queste realtà artistiche e sociali, che arricchiscono la città e le persone. Vogliamo promuovere una nuova cultura lavorativa e produttiva sostenibile nell’ambito dell’arte e dell’intrattenimento, per tutti gli operatori del settore, per il pubblico che ne è partecipe e per la città che amiamo…”.

Pasquale Mirra (ph Filippo Ippolito)

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EVENTI SARA BIAGI

Così distanti, così vicini:

cinema, cultura e socialità nell’estate bolognese

2020 di Sara Biagi

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entre i paesi iniziano ad allentare le misure di blocco messe in atto per appiattire la curva del Covid-19, in tutto il mondo c’è grande desiderio di ripartire con le attività culturali e di pubblico intrattenimento di cui si è tanto sentito il vuoto in questi mesi di sospensione. Non che siano mancate l’offerta e la fruizione domestica: l’utilizzo di piattaforme digitali e di streaming ha anzi favorito lo sviluppo di forme espressive che hanno trovato spunti ingegnosi in una fase di stasi dei contatti umani e della vita all’aperto. Senza nulla togliere ai vari Netflix, Sky e tutti i canali che ci hanno permesso di trascorrere ore piacevoli e stimolanti pur chiusi nelle nostre case, la fame del calore del pubblico, della partecipazione ad eventi di comunità non ha tardato a farsi sentire. Negli Stati Uniti, e a cascata anche in Italia, sono tornati di gran moda i drive-in. Le persone, qui e oltreoceano, che da marzo sono state in gran parte confinate nelle proprie abitazioni a guardare il

bilancio delle vittime del virus accumularsi sugli schermi televisivi, ora possono tranquillamente godersi i film fuori casa, pur obbedendo alle restrizioni in atto. L’esperienza del drive-in sembra tagliata su misura per la pandemia, visto che qualsiasi contatto con altri individui avviene all’aperto, dove è sensibilmente ridotto il rischio di infezione. Nel contempo vengono incentivate le attività di ristorazione, con eventi che uniscono gli spettacoli a cene e rinfreschi, esperienze in combinata di stimolo reciproco a entrambi i comparti. Discorso analogo vale per le arene all’aperto, luoghi dove la voglia di cinema, cultura e svago permette, con le dovute accortezze, di mantenere il distanziamento. Senza bisogno di volare negli States, la realtà locale rispecchia le tendenze in atto a livello globale, con tutte le peculiarità che il nostro territorio – e le sue fervidi menti – possono partorire. Si riaccendono infatti le stelle sui luoghi di spettacolo e cultura dell’estate bolognese.

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Ricco è il palinsesto delle proposte riunite sotto l’etichetta di Bologna Estate C’è. Alle iniziative già note e consolidate, la cui partenza era messa in dubbio dall’emergenza sanitaria, si affiancano quest’anno attività e spazi di assoluta novità, a conferma del grande desiderio di ripartenza nel segno

della socializzazione e della creatività. Riparte Sotto le stelle del cinema, con il maxischermo in Piazza Maggiore e alla BarcArena, allestita presso il Centro sportivo Barca; i lungometraggi saranno proiettati gratuitamente e in contemporanea nei due spazi dal 4 luglio al 21 agosto. Le misure di salvaguardia della salute prevedono che, delle 1600 sedute sul Crescentone, siano disponibili 1200 posti a serata; altri 750 spettatori ammessi alla BarcArena, in entrambi i casi previa prenotazione online del posto dai siti di Bologna Welcome e della Cineteca di Bologna o fisicamente all’ufficio di Bologna Welcome, per un massimo di quattro posti a serata. La programmazione, che prevede la presenza di apprezzabili ospiti e la riproduzione, insieme ai film, di cortometraggi a tema, si sviluppa su vari filoni: il Cinema al femminile, con pellicole dirette, interpretate o dedicate a grandi donne; figure leggendarie e carismatiche sono protagoniste dei film della sezione Più grandi della vita; la selezione di Polizieschi urbani si concentra su grandi titoli che hanno creato gli elementi fondativi di un genere di enorme successo. Vengono inoltre celebrati importanti anniversari: con Steve McQueen fa 90 si festeggiano i 90 anni che avrebbe compiuto una grande icona del cinema; Alberto Sordi 100 rientra tra le celebrazioni del centenario della nascita di uno strepitoso attore

che ha segnato con le sue interpretazioni la storia cinematografica italiana. Nato lo stesso anno di un grande pilastro del nostro cinema: la sezione Fellini 100 è un tributo al regista riminese, che tanto ha dato alla settima arte. Si allaccia a questi percorsi il filone Omaggio a Franca Valeri, dedicato ad una caratterista ironica e versatile, che nel 2020 taglierà il traguardo del secolo di vita. È dedicata alle produzioni felsinee la sezione Fare cinema a Bologna, mentre Estate italiana mette in scena pellicole che raccontano con maestria questa bizzarra stagione di frenesia e sospensione insieme, di luci calde e colori sgargianti che avvolgono contraddizioni, fermenti e nostalgia. Tra gli ospiti della rassegna, previsto per l’inaugurazione un maestro della parola funambolica quale Alessandro Bergonzoni, a seguire Liliana Cavani, Carlo Lucarelli, i Manetti Bros., Stefano Accorsi, Sergio Rubini, l’espertone cinematografico Gianni Canova e alcuni giocatori del Bologna Football Club, che introdurranno con una diretta video uno dei manifesti della protesta afroamericana, il film “Fa’ la cosa giusta” realizzato nel 1989 da Spike Lee. Parentesi fotografica il 17 luglio per un appuntamento ormai da tradizione, il World Press Photo, il più prestigioso concorso internazionale dedicato ai reportage. La fotografia è un’altra rilevante tendenza che ormai da tempo sta caratterizzando l’offerta culturale bolognese – si pensi alle mostre, di Steve McCurry, Elliott Erwitt e Dario Mitidieri all’Auditorium Enzo Biagi della biblioteca Salaborsa lo scorso inverno. E alla bellissima mostra Women ancora in corso nella chiesa di Santa Maria della Vita in via Clavature, dove sono esposti scatti emozionanti di fotografi del National Geographic dedicati al mondo femminile. Tornando al cinema, una menzione speciale è d’obbligo per la straordinaria opera della Cineteca di Bologna, cardine di tutte queste iniziative. Una realtà che non ha abbandonato il proprio pubblico anche durante il lockdown, mettendo a disposizione cortometraggi recuperati dagli archivi della Fondazione e raccolti sotto la denominazione Il Cinema ritrovato_ Fuori Sala. Si tratta di pellicole che vanno dai primi decenni del secolo scorso agli anni ’50-‘60 restaurate dal laboratorio L’immagine ritrovata, che raccontano una Bologna lontana (consigliato per i nostalgici il documentario “Guida per camminare all’ombra” sui portici della città) e un passato finito nel più pro-

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fondo dei cassetti della memoria. In totale saranno 55 gli appuntamenti che avranno Nei mesi di blocco la fondazione ha sostenuto il pro- luogo nelle due arene a cielo aperto durante l’estate getto #iorestoinsala, un circuito nazionale di cinema 2020 e si parla di una grande cena finale in Piazza Maggiore al termine della kermesse, un modo ghiotto per rilanciare la ristorazione e il turismo in città. L’intensa ed appassionata attività della Cineteca si rispecchia nel lavoro del suo direttore Gianluca Farinelli, tra gli ospiti della rassegna estiva dell’Alma Mater Zambè, che da cinque anni si svolge nel cuore dell’Università, nel cortile d’Ercole di Palazzo Poggi in via Zamboni 33. Quest’anno il pubblico potrà seguire le dirette online di Zambè sui social di Ateneo (Facebook, Instagram e YouTube), dove resteranno disponibili i contributi focalizzati sul tema “tra il passato e il presente dell’Ateneo”, scelto quest’anno anche in seguito alla situazione storica che stiamo vivendo. e distributori sul web, dove la rete diventa “la sala”. Il professor Marco Antonio Bazzocchi, direttore La Cineteca si è poi attivata per realizzare il progetto scientifico del progetto, intervista sotto la statua che di un drive-in, quando l’emergenza Covid-19 mette- campeggia nel cortile del palazzo alcuni noti espova a rischio gli spettacoli nel cuore della città. nenti del mondo cittadino, ospiti della serie Un quarChe invece ospiterà la 34° edizione del Cinema ri- to d’ora da Ercole, per raccogliere contributi a tutto trovato a partire dal 25 agosto fino al 1° settembre, tondo su quanto è accaduto, su come vedono il futucon proiezioni “ponte” tra la rassegna Sotto le stel- ro e il ruolo dell’Università dentro la città. le del cinema e il festival. Una manifestazione che è Le conversazioni si alternano a video sull’evoluzioconsiderata un vero paradiso per i cinefili di tutto ne dell’Alma Mater attraverso i propri luoghi e per il mondo, con classici restaurati con grande perizia voce di illustri personalità del passato dell’ateneo, e contraddistinta quest’anno dalla collaborazione che parlano allo spettatore come se conoscessero musicale con l’orchestra del Teatro Comunale per quali percorsi avrebbe poi intrapreso l’Università. l’esecuzione di due cineconcerti. Ne scaturisce una storia animata fatta di racconti e

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suggestioni per immagini rese con un utilizzo originale e contemporaneo delle tecnologie digitali, per avvicinare gli spettatori di oggi a temi e personaggi di ieri, geniali e coraggiosi pionieri nel loro campo e apripista per gli sviluppi futuri. È il caso di Laura Bassi, la prima donna al mondo che ottenne una cattedra universitaria e alla quale è dedicato un docufilm ideato dalla professoressa emerita dell’Alma Mater Raffaella Simili e Miriam Focaccia, con la regia di Alessandro Scillitani. Un estratto dell’opera verrà proiettato il 18 luglio in Piazza Maggiore, uno dei luoghi teatro della vita della donna, come anche l’Archiginnasio, l’Istituto delle Scienze, Palazzo d’Accursio e le vie della città a cui Laura Bassi ha donato lustro. Alessandro Scillitani (ph Paolo Tanze) Per chiudere il cerchio, nel quarto d’ora da Ercole di Gianluca Farinelli emerge come la televisione generalista, a sua opinione, non sia stata in grado di raccontare la realtà che stiamo vivendo, affidandosi a dati e informazioni slegate e mostrando una certa incapacità di trasferire il senso di profondità dei fatti. Mentre il cinema abbia enormemente aiutato tutti noi ad attraversare questa fase complicata nonostante le oggettive difficoltà, perché “l’arte attraversa tutte le modalità di fruizione nella sua grandezza”. Altri spazi della città saranno dedicati alle proiezioni estive: l’Arena Puccini nella tradizionale sede del Dopolavoro ferroviario, con un cartellone che raccoglie il meglio della produzione italiana e internazionale uscita nelle sale dallo scorso autunno a oggi. Curatore del programma è Andrea Morini

Alessandro Scillitani (ph Paolo Tanze)

della Cineteca di Bologna, il quale insieme al suo staff ha selezionato anche alcuni dei film più significativi distribuiti in streaming durante il lockdown, che arriveranno così per la prima volta in sala. Nel rispetto delle linee guida per “Cinema e spettacoli dal vivo” contenute nel Dpcm dell’11 giugno, le sedute saranno ridotte da mille a circa 400 per consentire il distanziamento fisico tra gli spettatori. I quali potranno consultare la programmazione anche dell’Arena Tivoli, presso lo storico cinema-teatro in via Massarenti, o dell’Arena FICO, dove ai lungometraggi della stagione in corso si avvicenderanno spettacoli di comici ed incontri con registi e autori. A braccetto con la gastronomia, vista la possibilità di cenare nei tavolini esterni dei ristoranti Eataly world. Un altro interessante fenomeno di intrattenimento caratterizza l’estate appena iniziata: il ritorno al teatro di prossimità, che prenderà corpo in cortili, giardini, strade pedonalizzate all’insegna della riconquista degli spazi pubblici da parte della comunità. Sono tantissime le iniziative previste nei vari quartieri della città; tra queste, un centinaio saranno finanziate dalle donazioni della cittadinanza raccolte col progetto 6000 Piantine, quale atto finale della fotosintesi culturale avviata a maggio scorso in una Piazza Maggiore all’epoca ancora semideserta. Per dare un piccolo assaggio delle tante proposte in calendario, in quanto a rilancio degli spettacoli di prossimità il Teatrino a due pollici presenta il progetto Cantastorie a domicilio, che vedrà il narratore arrivare nei cortili condominiali per raccontare con oggetti, pupazzi o piccole scenografie una storia animata, adatta ad un pubblico di ogni età. scoppierà anche sotto i portici di via Mascarella e nelle aree limitrofe, dove la vena artistica degli abitanti della zona si esprimerà attraverso letture, performance musicali e teatrali per il pubblico in strada e alle finestre. Musica, arti visive e performative, cinema e incontri letterari animeranno la terza edizione del festival estivo I Giardini del Baraccano. Gratuito l’ingresso alle serate nel complesso monumentale di via Santo Stefano, i cui 1.000 mq circa di giardino ospiteranno aperitivi, apericene a lume di candela e pic-nic dal 30 giugno al 4 agosto. Cinema e gastronomia anche in questa sede, con le proiezioni del Baraccano Drive-In alle quali assistere comodamente “parcheggiati” sulle stuoie nel prato e la possibili-

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tà di accompagnare la visione con degustazioni a tema. Perché cibo è convivialità e la qualità alza il livello esperienziale: il giovedì saranno i ristoratori più noti del quartiere a preparare menu e cestini in versione gourmet. Una location nuova e tematiche sociali di forte impatto caratterizzano l’estate di Villa Celestina, poco fuori dai viali di circonvallazione. Un edificio da ricostruire, che ha una particolarità: si tratta di un complesso confiscato alla mafia e affidato al Comune, il primo in città che si appresta ad essere riutilizzato a fini sociali. Gli spazi esterni, infatti, sono stati assegnati temporaneamente all’associazione Libera per incontri con gli studenti e durante questi mesi accoglieranno la rassegna Presi bene, che unisce la consueta parte di svago fatta di concerti ed eventi ad una serie di dibattiti su temi quali il recupero dei beni confiscati a scopo sociale, il diritto alla salute, la memoria e la ricerca di verità e giustizia – anche in vista dei 40 anni dalla strage di Bologna. La voglia di ripartire, insomma, è tanta; intensi sono gli sforzi per rilanciare comparti fondamentali per la vita sociale, gravemente colpiti dalle conseguenze della pandemia. In questo periodo, segnato dalla perdita di giganti contemporanei quali Luis Sepulveda, Ezio Bosso ed Ennio Morricone, grandi cuori che hanno ricordato a tutti noi l’immenso valore dell’arte e della cultura nelle nostre esistenze, soprattutto nei momenti più difficili. Mentre ci sono paesi, come la Norvegia, che scommettono strategicamente proprio su questo settore attraverso ingenti stanziamenti economici a sostegno della creatività, per una ripartenza in chiave sociale avanzata.

In Italia i lavoratori dello spettacolo, siano essi attori, musicisti e tutto il personale tecnico coinvolto nelle produzioni culturali, hanno gridato le proprie difficoltà e il forte senso di abbandono da parte di uno stato pronto a chiederne il supporto e poco disposto a ricompensarlo. La festa del primo maggio ed il tradizionale concerto sono stati dedicati proprio a loro, poco più di un mese dopo gli stessi operatori che lavorano davanti e dietro le quinte si ritrovavano a manifestare nelle piazze per chiedere maggiore considerazione. La cultura è linfa, non va solo succhiata ma difesa e nutrita. Ognuno di noi può fare qualcosa col proprio piccolo contributo, la partecipazione è il primo passo. Per partecipare alla rassegna cinematografica Sotto le stelle del Cinema (dal 4 luglio al 21 agosto 2020) e al festival Il Cinema ritrovato (dal 22 agosto al 1° settembre) Dove: Piazza Maggiore e BarcArena (Centro sportivo Barca) Prenotazione obbligatoria dei posti a sedere Online su www.cinetecadibologna.it e www.bolognawelcome.com, oppure presso gli sportelli di Bologna Welcome, aperti dal lunedì al sabato dalle 10 alle 19 e la domenica dalle 11 alle 17 Spettacolo prenotabile da sette giorni prima della proiezione, entro le ore 13 del giorno stesso. Possibile riservare fino a un massimo di quattro posti per ogni serata, fino ad esaurimento delle disponibilità. Inutilizzabili i gradini di San Petronio, non ammessi spettatori in piedi. La prenotazione indicherà il luogo da cui accedere (4 gli accessi in Piazza Maggiore, unico alla BarcArena) e il posto numerato assegnato; non sarà possibile disdire, per fare in modo che tutti fruiscano della programmazione. Accesso a partire dalle ore 20, gli spettatori sono invitata a presentarsi all’ingresso entro e non oltre le ore 21.10 muniti di prenotazione, stampata o digitale, e di mascherina – da indossare all’ingresso, all’uscita e durante gli spostamenti per raggiungere e lasciare il posto Il cinema ritrovato dvd awards La Cineteca di Bologna organizza, nell’ambito del festival Il Cinema Ritrovato, la 17° edizione del concorso dedicato a prodotti cinematografici realizzati in formato Dvd e Blu-ray.

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Un premio che intende dare visibilità e incentivare la realizzazione in tutto il mondo di prodotti di qualità dedicati all’home entertainment. Al concorso partecipano Dvd e Blu-ray pubblicati tra febbraio 2019 e febbraio 2020, relativi a film di acclamata importanza e di produzione anteriore al 1990 (trent’anni fa), rispettando così la vocazione più generale del festival. Giuria presieduta dal noto critico Paolo Mereghetti, attivo anche nella selezione dei titoli insieme a Gianluca Farinelli.

Qesti gli appuntamenti di Zambè, i video sono ancora disponibili sui canali social di Ateneo – Facebook, Instagram e YouTube

1 Luglio 2020 L’Alma Mater per immagini: Laura Bassi racconta l’Istituto delle Scienze

2 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Gianluca Farinelli

7 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Flavio Favelli

8 Luglio 2020 L’Alma Mater per immagini: Ulisse Aldrovandi racconta l’Orto botanico e la Palazzina della Viola

9 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Silvia Avallone

14 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Pierluigi Stefanini

16 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Vito Mancuso

21 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Rosi Braidotti

22 Luglio 2020 L’Alma Mater per immagini: Maria dalle Donne racconta il Policlinico Sant’Orsola

16 Giugno 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista al Rettore Francesco Ubertini

17 Giugno 2020 L’Alma Mater per immagini: Luigi Ferdinando Marsili racconta Palazzo Poggi

18 Giugno 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista al cardinale Matteo Zuppi

23 Giugno 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Romano Montroni

25 Giugno 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Nadia Urbinati

23 Luglio 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Margherita Pennacchia, studentessa Unibo

30 Giugno 2020 Un quarto d’ora da Ercole: intervista a Marcello Fois

28 Luglio 2020 L’Alma Mater per immagini: Giosuè Carducci racconta la Biblioteca Universitaria

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American Evil Il

CINEMA RITROVATO

2020

di Jonny Costantino

Le forze del male (1948) di Abraham Polonsky

I

l Covid-19 non ha intimidito IL CINEMA RITROVATO. Il festival, che di consueto ha luogo a giugno, quest’anno è slittato di due mesi e s’è svolto, in assetto antivirale, dal 25 al 31 agosto. Il livello della proposta cinematografica è rimasto vertiginoso. Fidatevi e, se non vi fidate, recuperate il programma online di questa 34esima edizione, senza volermene se non compio nemmeno lo sforzo di elencarvi le sezioni e i titoli, altrimenti non la finiamo più. Mi limiterò a qualche riflessione su una manciata di film che ho visto soltanto il primo dei sette giorni della manifestazione, il 25 agosto,

avendo un aereo per la Sardegna l’indomani, dove mi attendeva in veste di curatore un altro festival, stavolta letterario, Bookolica. La partenza, devo dirlo, è stata col botto, a cominciare dall’attesissima proiezione di Le forze del male, presentato in una magnifica versione nel cui restauro c’è lo zampino di Martin Scorsese, il quale ha introdotto in video la pellicola spendendo parole di grande encomio per il lavoro di Gian Luca Farinelli e dell’intero staff del Cinema Ritrovato. FORCE OF EVIL Esordio dietro la cinepresa dello sceneggiato-

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re Abraham Lincoln Polonsky, Le forze del male (Force of Evil, 1948) è un film teso e terso, cupo e vigoroso, regia al millimetro e dialoghi a orologeria. Ambientata in una New York pancriminale, l’opera trova un equilibrio formale tutto suo tra noir e gangster movie, sia in termini narrativi sia foto-scenografici. Il fuoco è sul racket delle lotterie clandestine (le cosiddette “banche”) ma il vero bersaglio critico è il sistema bancario e, a monte, la struttura capitalista. «È una favola nera uscita da Karl Marx, ma sembra girata da Fritz Lang in Germania», afferma su “The New Republic” (2012) il critico David Thompson, il quale precisa: «C’era stato un tempo in cui l’America era un paese di uomini pericolosi e di idee coraggiose, e Le forze del male (insieme a Sciacalli nell’ombra di Losey) è forse uno dei film migliori e più sconvolgenti realizzati da figure destinate all’esilio o alla clandestinità». Come sceneggiatore, il marxista Abraham Polonsky aveva raggiunto il successo l’anno precedente col film sulla boxe Anima e corpo (Body and Soul, 1947) di Robert Rossen. Il protagonista di ambedue le pellicole è John Garfield. Polonsky e Garfield: due artisti all’apice del rispettivo fulgore proprio nel biennio ’47-‘48, le cui carriere saranno stroncate da lì a breve, nei primi anni Cinquanta, quando la crociata anticomunista del senatore McCarthy raggiunge il suo culmine parossistico. La Caccia alle Streghe miete vittime su vittime, Hollywood è tutta un rogo, ed entrambi, Polonsky e Garfield, finiscono nella temutissima Lista Nera. Convocato nel 1951 dalla Commissione per le Attività Antiamericane (HUAC), Polonsky non collabora (quando collaborare significa fare i nomi di compagni e sovversivi), appellandosi al Quinto Emendamento (avvalendosi cioè della facoltà di non rispondere per non nuocere a se stesso). Ne consegue che il film successivo – Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, 1969) – lo dirige più di 20 anni dopo. Regista interrotto, pur tra mille difficoltà Polonsky campa continuando a sceneggiare sotto falso nome, grazie al sostegno e alla copertura di amici e professionisti che credono nel suo talento e lo rispettano per la sua integrità. Nel corso di quei buissimi anni, questo «very dangerous citizen» – con la definizione di un deputato dell’Illinois – scrive una dozzina di sceneggiature e collabora alla serie TV You Are There, una serie CBS che spicca per il nonconformismo degli affondi so-

cio-politici e che vanta, tra i suoi registi, figure del calibro di Sydney Lumet e John Frankenheimer. Più concentrata e tragica è la parabola di John Garfield. Finito nel mirino degli Acciuffacattivi, Garfield nega ogni coinvolgimento in passati e presenti intrighi sinistrorsi. La sua deposizione però non convince la Commissione, che manifesta l’intenzione di reinterrogarlo. È chiaro che la seconda volta non se la caverà facendo lo gnorri, delle due una: o spifferare o subire un’incriminazione. Concreto è dunque il rischio di farsi il carcere, cui non sono sfuggiti lo sceneggiatore/regista Dalton Trumbo e il romanziere/sceneggiatore Dashiell Hammett. Il 21 marzo 1952, rimasto senza ingaggi, allontanatosi dalla famiglia, il 39enne Garfield − che solo qualche anno prima era uno dei beniamini della Mecca del Cinema − viene trovato morto nell’appartamento dell’attrice Iris Whitney. In Le forze del male il divo interpreta la parte dell’avvocato della mala Joe Morse, mente senza scrupoli di un impero criminale, lupo tra i lupi famelico non meno di nessuno nella sbranatoria metropoli. Joe ha un solo punto debole: un fratello maggiore cardiopatico che infine ci lascia le penne per colpa delle pianificazioni criminose del fratello minore. Nella realtà, il cardiopatico che ci lascia le penne, appena cinque anni dopo, è proprio lui, John Garfield: il coroner stabilì che era morto d’infarto. L’attore aveva problemi di cuore che − come fu evidente a chiunque lo conoscesse − furono aggravati dallo stress provocato dall’accanimento di McCarthy & Co. Si vociferò che, negli ultimi giorni di vita, al colmo dell’avvilimento, l’attore fosse alle prese con la stesura di un articolo autobiografico per mezzo del quale avrebbe cercato di riabilitarsi agli occhi dell’opinione pubblica. Il titolo del pezzo è piuttosto eloquente: Ero uno stupido all’amo della Sinistra (I Was a Sucker for a Left Hook). Un paio d’incisi sul contegno dei citati Robert Rossen e Joseph Losey davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane. Additato come mangiabambini, il futuro regista dello Spaccone (The Hustler, 1961) in principio si rifiuta di collaborare: è il giugno ‘51 e la diretta conseguenza del suo silenzio è che la Columbia Pictures scioglie il suo contratto di produzione mentre il Dipartimento di Stato gli nega il rinnovo del passaporto. Logorato dall’inattività, nel maggio ‘53 Rossen si fa riascoltare, stavolta senza reticenze: fa il nome di 57

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Nei panni di una diva con tanto di Oscar che non accetta il proprio tramonto, la 44enne Bette Davis recita come una leonessa. Basterebbe questa prova per comprendere la devozione riservatale dalla coetanea Anna Magnani. Il 30 aprile 1953, dopo un incontro newyorkese, Anna – che si definiva una divoratrice dei film di Bette – le scrive di getto una lettera a mano dove leggiamo cose splendide quali: «Vi guardavo, vi ascoltavo parlare, ero diventata come un agnello, ero ipnotizzata. Cara grande Bette – siete così umana così tremendamente umana e io mi sento molto vicino a voi mi sento molto simile a voi, come donna. Come artista voi sapete cosa siete per me. Difendete sempre la Vostra arte – difendete sempre la vostra libertà artistica contro tutto e tutti». Da questa lettera traboccante di amore professionale e personale si capisce quanto la statunitense abbia rappresentato un modello per l’italiana. BONUS TRAKS All’epoca della missiva di Anna, l’ultimo film di Bette è proprio La diva. A dirigerlo è Stuart Heisler, ecletLa diva Tra coloro che infamarono Polonsky incalzati dagli tico moralista definito dal regista Bertrand Tavernier zelanti funzionari della HUAC ci fu Sterling Hay- (in veste critica): «talentuoso e misterioso». La diva den, il gangster iellato di Giungla d’asfalto (The contiene una profezia e un segnale premonitorio. Asphalt Jungle, 1950, di John Huston) e di Rapina La prima riguarda il personaggio di Jim Johanna mano armata (The Killing, 1956, di Stanley Kubri- sen, un attore che dà il benservito a Hollywood ck). In La diva (The Star, 1952) Sterling fa da spar- per mettersi a fare il meccanico di barche a vela. ring partner a Bette Davis come in Johnny Guitar A interpretarlo è Sterling Hayden, che era un lupo di mare ancora prima di sbarcare a Hollywood (a (1954, di Nicholas Ray) lo farà a Joan Crawford. 20 anni capitanava già navi da crociera). Ed è così che il preteso annunzio si avvera: circa un settennio dopo, nel 1959, Sterling molla il mestiere d’attore (seppure non definitivamente) e fugge alla volta di Tahiti con i quattro figli a bordo della goletta Wanderer, sbattendosene del tribunale che gli nega il permesso di farlo. La sostanza profetica è che entrambi gli attori, il virtuale e il reale, preferiscono, quando si tratta di scegliere, il mare al cinema. E qui non posso non suggerire, a chi volesse approfondire l’ineffabile figura di Sterling Hayden, la lettura mio recente libro edito da Lamantica, Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista. La premonizione, quanto mai sinistra, riguarda invece Natalie Wood, che recita nelle vesti di Greta, la figlia adolescente di Bette Davis alias Margaret Elliott. Ebbene, durante una gita sulla barca di Jim/ Sterling a largo di Los Angeles, la diva si preoccupa per la figlia e la prega di stare attenta, se non vuole finire in acqua. Natalie Wood morirà cadendo in La diva (1952) di Stuart Heisler comunisti. Compiuto il suo dovere di buon americano, nel ‘54 il cineasta torna sul grande schermo con la produzione italiana Mambo (dove recitano Silvana Mangano e Vittorio Gassman), ma la rentrée è avvelenata dal disprezzo accumulato verso se stesso per l’infame deposizione. Joseph Losey: nato in Wisconsin e di formazione marxista, blacklisted e disoccupato, per non morire di fame nel ‘53 si trasferisce a Londra e diventa un cineasta europeo. Nel Vecchio Continente questo film-maker intriso di Brecht e Ejzenstejn girerà capolavori come Il servo (The Servant, 1963) e Monsieur Klein (1976), godendo del prestigio guadagnato per non essersi piegato quando i più lo facevano, per non essere stato un “collaboratore amichevole”o − in maniera meno neutra − un rat.

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acqua nello stesso tratto di oceano, tra Los Angeles e l’isola di Santa Catalina per la precisione. La disgrazia, avvolta nel mistero, avvenne nell’81, durante una gita notturna in panfilo col marito Robert Wagner e il presunto amante Christopher Walken, dopo una lite col coniuge. La traversata di Parigi La Traversée de Paris (1956, uscito nel Regno Unito col buffo titolo A Pig across Paris) o della semplicità perduta. Il plot è presto detto: un maiale destinato al mercato nero viene scannato, macellato e distribuito in quattro valigie affidate a due uomini che le trasportano a mano attraversando nottetempo la capitale occupata dai Nazisti. Jean Gabin e Bourvil in stato di grazia fanno il film, un film magico dove l’unica stonatura è il brutto happy end. Ma non fu colpa del regista, Claude Autant-Lara, che avrebbe commentato: «Il vero finale è che il povero diavolo [Bourvil] viene fucilato mentre il ricco, il pittore famoso [Gabin], se la cava. Ho persino girato alcune scene di tasca mia per fargli capire [a

La traversata di Parigi (1956) di Claude Autant-Lara

Henry Deutschmeister, il produttore]… ma non ha voluto saperne. Insomma, facciamo i film che possiamo fare, con i produttori − non dico che siano imbecilli, ma c’è qualcosa che li rende stupidi, ovvero i soldi: persino i produttori più intelligenti, quando hanno paura di non incassare, diventano stupidi». Insomma, Nihil novi sub soli, come rimbomba in Qohelet 1:9. La Grèce pittoresque. Environs de Mégare e Corinthe In questo breve filmato in Chronochrome della Gaumont datato 1912 – tra le chicche della sezione “Ritrovati e restaurati” – c’è uno dei camera-train più belli che abbia mai visto: la “soggettiva” di una locomotiva che avanza in discesa costeggiando uno strapiombo e passando persino attraverso un varco aperto in un masso che le rotaie non potevano ag-

girare. Il nostro occhio incede su un binario che è stata una follia piazzare lassù e durante la visione persiste l’impressione che sarebbe sufficiente una piccola frana o un rovescio temporalesco per far rotolare il treno a valle. Follia chiama follia e questo camera-train greco mi fa sovvenire un camera-car caraibico: il camera-car che vediamo avanzare lungo una strada in discesa della zona a rischio dell’isola di Guadalupa, evacuata per la temuta imminente eruzione del vulcano La Grande Soufrière. Il documentario cui mi riferisco è La Soufrière. In attesa di una catastrofe inevitabile (La Soufrière. Warten auf eine unausweichliche Katastrophe, 1977): il regista è Werner Herzog e la «catastrofe inevitabile», grazie al cielo, non s’è verificata. Rivedendo la sequenza herzoghiana, mi rendo conto che il sonoro ha svolto un ruolo non secondario nel sollecitare la reminiscenza: il filmato di Corinto è finito su DCP con un accompagnamento al pianoforte che crea un’atmosfera audiovisiva affine a quella della ripresa di Guadalupa, la quale è contrappuntata dall’adagio sostenuto del Concerto per Pianoforte numero 2 (opera 18) di Rachmaninoff, conosciuto dagli appassionati come Rach 2. Tuttavia, in ultima analisi, a soddisfare il demone dell’analogia (come lo chiama il poeta Mallarmé) è qualcosa di più intimamente connaturato alla natura dei due adagi filmici: una sensazione epifanica provocata dal connubio tra la musica e il movimento discendente della cinepresa, un movimento esplorativo che oscilla tra il sostenuto e il fluttuante; una sensazione/sentimento che Herzog considera la più prestigiosa preda del cinema e che ha mirabilmente definito verità estatica. La signorina è curiosa Il principale pregio di La signorina è curiosa (Lady Should Listen, 1934) è il ritmo. Trattandosi di una commedia da appartamento a equivoci e incastri multipli, il rischio maggiore era che l’azione si spompasse in un meccanico entra ed esci di personaggi dall’appartamento di Julian De Lussac, il donnaiolo impenitente interpretato da Cary Grant. Il regista Frank Tuttle, da scafato artigiano qual è, trova però una soluzione: quando e quanto più può, non ci mostra i personaggi che varcano l’uscio, bensì fa in modo che noi e Julian/Cary ce li ritroviamo all’improvviso dentro casa. Si tratta di un espediente acceleratorio tanto elementare quanto brillante.

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La signorina è curiosa (1934) di Frank Tuttle

Isabelle Huppert in È simpatico, ma gli romperei il muso (1972) di Claude Sautet e in Elle (2016) di Paul Verhoeven

preso o, meglio, ho avuto l’ennesima conferma di qualcosa che sapevo: un viso come il suo non te lo dà Madre Natura né il chirurgo plastico, un viso così si crea attraverso un costante lavorio d’incisione spirituale. Siete scettici? Confrontate il volto della paffuta diciassettenne che esordisce con I primi turbamenti (Faustine et le bel été, 1971, di Nina Companéez) e quello della splendida ultra60enne diretta da Paul Verhoeven in Elle (2016). Chabrol Sautet Berry Robbe-Grillet Blier Tavernier Preminger Téchiné Godard Bolognini Pialat Jacquot Cimino Losey Ferreri Wajda Schroeter Hartley Kiarostami Taviani Assayas Ruiz Haneke Ozon Honoré Chéreau De Bernardi Denis Bellocchio Mendoza Sang-soo Breillat Verhoeven: i cineasti con cui ha lavorato – i bravi e i grandi – sono stati scalpelli abbandonandosi ai quali Isabelle s’è scolpita una delle fisionomie più taglienti del secondo secolo di cinema. A orientare il proprio auto-affilamento – e con esso la precisazione della propria caratura attoriale – c’è stata una precoce presa di coscienza: la cinepresa è più ricettiva all’infelicità che alla felicità che il suo volto è in grado di esprimere. Un rilievo, questo, che da solo ci dice qualcosa di essenziale del suo Isabelle Huppert, message personnel Guardando il neonato documentario di William sodalizio con Michael Haneke, l’intransigente maeKarel su questa magnifica attrice – probabilmente stro austriaco per cui raccontare la felicità significa la più vicina oggi al modello Bette Davis – ho com- oltraggiare chiunque soffra. Sempre a proposito della porta del covo dongiovannesco, quando la vicenda è già bella che complicata, l’adirato papà milionario di una fanciulla infatuata la sfonda a colpi di bastone da passeggio. Al momento della riparazione, ci accorgiamo che lo spessore della porta è all’incirca quello di un pannello di compensato. Lì per lì non ho potuto non chiedermi come fosse possibile una simile trascuratezza scenografica in un film che peraltro gioca anche sull’ingegnosità oggettuale (il maggiordomo di Julian è l’inventore, per dirne due, di uno specchio con tergicristallo incorporato e di un armadio con dentro un macchina che produce il suono di una bufera). Mi sono dato la seguente risposta: quella porta fasulla che si disfa come se niente fosse, più che un errore, è un’allegoria. Un’allegoria in linea con le idee di Frank Tuttle, comunista che qualche lustro dopo finirà nella morsa maccartista e, denunciato da diversi colleghi, a sua volta ne denuncerà. Venendo all’allegoria: le porte – intese quali diaframmi tra il fuori e il dentro, tra il mio e il tuo – sono le prime barriere da ignorare o sfondare nella società senza padroni.

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SCIENZE LORENZO MONACO

Chi ha ucciso i Neanderthal? UniBo indaga

di Lorenzo Monaco

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hissà se, attorno ad un fuoco, i Neanderth al si sono mai raccontati di quella scimmia brutale e intelligente che si dice arrivasse nella notte distruggendo i villaggi e sterminandone gli abitanti. Forse no. Forse Homo sapiens non è mai stato un pericolo per i Neanderthal e le due specie hanno convissuto pacificamente – magari come due gruppi diversamente umani, capaci di intessere relazioni e matrimoni misti – e l’estinzione dei nostri cugini è dovuta ad altro. Chissà: una coltre di nebbia copre tutte le storie prima della Storia. Eppure la scienza sta provando a diradarla, un frammento alla volta. Sappiamo, ad esempio, che Homo neanderthalen-

sis e Homo sapiens sono stati spesso intimi, scambiando i propri geni (il nostro genoma è circa per il 2% neanderthaliano); sappiamo che nei nostri mitocondri, organelli cellulati ereditati per linea materna, non c’è alcuna traccia genetica dei nostri cugini e che quindi, forse, i rapporti sono avvenuti soprattutto tra maschi neanderthaliani e femmine sapiens; sappiamo che i Neanderthal erano avanzati tecnologicamente (producevano strumenti litici e corde intrecciate), ma che forse non lo erano cognitivamente. Tanti sono i “forse”, ma quel che è certo è che circa 42mila anni fa, i Neanderthal sparirono dalla faccia della Terra, in concomitanza con l’avvento dell’ul-

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tima era glaciale. Da qui la conseguenza: il clima diventato più freddo e arido in una manciata di secoli ha sfavorito i nostri cugini rispetto ai nostri diretti antenati. Molti studiosi ne sono convinti. Un recentissimo studio guidato da un team di scienziati dell’Università di Bologna però ha voluto verificarlo nell’area del mediterraneo. Gli studiosi hanno approfittato di un’area eccezionale, l’altopiano delle Murge, in Puglia. Qui le due specie di uomo hanno convissuto per almeno 3mila anni, da 45mila a 42mila anni fa circa, proprio il periodo in cui i nostri cugini sembrano svanire. E nel sottosuolo delle Murge sono disponibili veri e propri giacimenti di dati climatici, risalenti a decine di migliaia di anni fa. Si tratta di stalagmiti, le punte di roccia che emergono dal fondo delle grotte carsiche così abbondanti nella zona. “Le stalagmiti sono degli eccellenti archivi paleoclimatici e paleoambientali – ha spiegato Jo De Waele, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna – La loro formazione necessita l’infiltrazione di acqua piovana dall’esterno e questo le rende quindi un’evidenza indiscutibile della presenza o assenza di pioggia; inoltre, gli isotopi del carbonio e dell’ossigeno della Jo De Waele, Scienze Biologiche UniBo calcite di cui sono composte danno indicazioni sullo stato del suolo e sulla quantità di pioggia durante tutto il loro periodo di formazione. Tutte queste in-

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SCIENZE LORENZO MONACO

formazioni possono poi essere intrecciate con datazioni radiometriche che permettono di ricostruire con precisione nel tempo le diverse fasi di crescita delle stalagmiti”. Tra questi coni calcarei che conservano la memoria del territorio, uno si è rivelato particolarmente loquace: una stalagmite di 50 centimetri situata nella grotta di Pozzo Cucù nei pressi di Castellana Grotte che, interrogata con 27 datazioni ad altissima risoluzione e circa 2.700 analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno, è riuscita a rispondere in merito al clima in cui è cresciuta (tra 106mila e 27mila anni fa: un vero e proprio record per un archivio paleoclimatico). Con una rivelazione piuttosto sorprendente: in quel periodo, non c’è stato nessun calo significativo delle precipitazioni e il suolo e la vegetazione sono rimasti sempre se non uguali, analoghi. In breve, il clima non è cambiato. “È dunque inverosimile che siano state drastiche variazioni del clima ad indurre la scomparsa dei neanderthaliani in Puglia e, per estensione, in

Le grotte di Castellana (Ba) aree climatiche mediterranee simili”, ha concluso il ricercatore Andrea Columbu, primo autore dello studio. La ricerca ha così intaccato pesantemente teoria climatica che altrove sembra spiegare bene l’estinzione dei Neanderthal. Questi risultati, pubblicati sulla rivista di Nature Ecology & Evolution, rimettono però sul tavolo del dibattito un’altra ipotesi, quella tecnologica. “Secondo questa teoria sarebbe stata in particolare la tecnologia di caccia, molto più avanzata per l’Homo sapiens rispetto al Neanderthal, ad aver contribuito in maniera primaria alla supremazia del primo rispetto al secondo – ha spiegato il paleoantropologo UniBo Stefano Benazzi, anch’egli autore dello studio – inducendo così la scomparsa dei neandertaliani dopo circa 3.000 anni di convivenza fra le due specie”. Una teoria che considera Sapiens e Neanderthal come due specie animali che hanno insistito sulla medesima nicchia ecologica, in un’accesa competizione per le risorse. La nebbia persiste ancora, ma qualcosa stiamo riuscendo a scorgere.

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Tra studio, Ultimate Frisbee e Gender Equity.

CONVERSAZIONE CON ANNA CESCHI, CAMPIONESSA EUROPEA E TRA I BRAVISSIMI DELL’ALMA MATER di Antonio Lalli

LE CUSB SHOUT SONO STATE CAMPIONESSE EUROPEE DI ULTIMATE FRISBEE PER DUE ANNI DI FILA, NEL 2018 E NEL 2019. ANNA CESCHI È UNA DELLE COMPONENTI DI QUESTA SQUADRA CHE HA RAGGIUNTO RISULTATI UNICI E SENZA PRECEDENTI NELLA STORIA ITALIANA DI QUESTO SPORT. NEL 2020 HA OTTENUTO LA BORSA DI STUDIO PER MERITI SPORTIVI. L’HO CONTATTATA E HA ACCETTATO DI DIALOGARE SULLA SUA ESPERIENZA. D. Il 2020 è stato un anno particolare un po’ per tutti. Per te è stato di sicuro un anno importante, che ti ha portato al raggiungimento di traguardi significativi, come la laurea magistrale e il riconoscimento della borsa di studio per meriti sportivi tra i Bravissimi dell’Alma Mater. Entrambi però li hai vissuti dal divano di casa a causa dell’emergenza sanitaria. Come hai vissuto tutto ciò? Cosa hanno significato per te?

che questa una bellissima soddisfazione perché ho provato per tre anni a fare domanda per la borsa di studio ma purtroppo l’Ultimate non è riconosciuto dal CONI, per cui a livello nazionale non abbiamo alcun riconoscimento e per questo non riuscivo a prendere abbastanza punti per l’assegnazione della borsa di studio. Credo che quest’anno l’Università abbia cambiato i requisiti in modo da poter considerare anche sport minori e non ancora istituzionalizzati come l’Ultimate e quindi è stata davvero una R. Allora, io sono tornata in Italia a dicembre, dopo bella sorpresa, non me l’aspettavo. quattro mesi di ricerca per la tesi alla Duke University in North Carolina negli Stati Uniti. D. Il Covid-19 come ha influito sugli allenamenti e Avendo finito gli studi non avevo più casa a Bo- sulla routine sportiva? logna dove ho studiato per l’università, quindi mi sono ritrovata a Padova a casa dei miei genitori R. Dal punto di vista mentale è stata una bella botdopo cinque anni senza aver vissuto insieme. Que- ta. Anche perché, come a tutti, è successo in pochi sto è stato abbastanza d’impatto (ride). Poi è scop- giorni e ti ritrovi ad avere una quotidianità anche piata la pandemia che è stata una bella fregatura scandita dallo sport che poi scompare improvvisaperché ho finito di scrivere la tesi, mi sono laure- mente. Devo dire che il nostro staff, i nostri alleata ma il contesto generale ha abbassato di molto natori e le nostre capitane hanno fatto un lavoro le mie aspettative emotive nei confronti di questo immenso durante la quarantena perché hanno lavotraguardo. È stato difficile godersi la laurea perché rato tantissimo per proporci dei contenuti a distanè stata una giornata non molto soddisfacente: ero za per concentrarci sulla tattica. Per cui ci siamo a casa con i miei che tra l’altro si sono anche di- trovate una volta a settimana a fare allenamenti virmenticati di fare una singola foto decente, quindi tuali dove analizzavamo le nostre partite vecchie, gli non c’è alcuna traccia di quel giorno (ride). Per il errori, abbiamo rivisto tutti gli schemi. Inoltre, due resto però è stato molto bello concludere questo nostre compagne: una con un background di studi ciclo anche con la tesi che mi ha dato molta soddi- in psicologia, l’altra con un’esperienza ad altissimo sfazione. Per quanto riguarda il premio, è stata an- livello nell’Ultimate perché ha fatto parte della na-

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zionale colombiana che è forse la terza più forte al mondo, giocando anche una finale del mondiale, ci hanno preparato un allenamento incentrato sull’aspetto mentale durante la performance fornendoci degli strumenti per riflettere individualmente sotto questo carattere. Insomma, mancava solo la pratica ma siamo riuscite a concentrarci su aspetti secondari che in realtà sono altrettanto importanti. D.Le Shout, la tua squadra, è affiliata al CUSB (Centro Universitario Sportivo Bologna). Quanto è importante la presenza e il supporto del CUSB e dell’Università di Bologna?

È un po’ difficile perché tutti i ragazzini hanno già il proprio sport preferito, se giocano ad alti livelli in altri sport è difficile che inizino ad avvicinarsi all’Ultimate. Inoltre, il disco non è un oggetto così immediato come la palla e anche dal punto di vista della manualità per un bambino delle elementari non credo sia così facile. Per quanto riguarda Bologna sì, l’Ultimate è assolutamente capillare, basta andare ai Giardini Margherita e trovi di sicuro qualcuno che lancia (ride).

D. A proposito di Bologna, che rapporto hai con R. Per noi è stato assolutamente fondamentale. Il la città e che ruolo ha avuto per te in questi anni? CUSB e l’Università di Bologna come istituzioni di supporto sono molto più potenti e importanti R. Per me è stata un’occasione per iniziare una della stessa federazione italiana (FIFD: Federazio- nuova vita. Mi sono iscritta a filosofia nonostante io ne Italiana Flying Disc ndr). Siamo molto fortunati abbia vissuto a Padova dove c’è un’ottima univerperché essendo affiliati al CUSB riceviamo un sup- sità, ma ero decisa nel voler affrontare l’esperienza porto senza precedenti in Italia nel mondo dell’Ul- di vivere fuori casa. Dal punto di vista della crescita timate. Il CUSB ha fatto di tutto per noi, ci ha aiu- è stata importantissima, mi ha dato l’opportunità tati a partecipare ad eventi veramente significativi, di aprirmi, di conoscere persone nuove ma anche come il mondiale per club in Ohio di due anni fa. di mettermi in discussione in ambienti che non maUn’esperienza unica in cui abbiamo avuto il pieno sticavo ancora. Anche iniziare a giocare a frisbee sostegno del CUSB, è sempre stato lì per noi sia a è stato un punto di riferimento fondamentale per me, al di là della routine che lo sport ti fornisce, livello monetario che nel sostegno emotivo. anche dal punto di vista umano e sociale ho avuto D. Dando un’occhiata alle squadre iscritte ai la possibilità di incontrare tantissime persone. Poi massimi campionati di Ultimate in Italia, balza Bologna è meravigliosa, quindi… (ride) all’occhio una grande presenza di società dell’Emilia-Romagna. Per esempio, nella Serie A femmi- D. Com’è il rapporto con le tue compagne? nile, su nove squadre cinque sono dell’Emilia-Romagna e quattro di queste proprio di Bologna. R. Siamo molto legate. Io sono molto convinta che Sembra esserci una vera e propria cultura sportiva condividere il campo crei dei legami emotivi molto molto forte e capillare per quanto riguarda l’Ulti- forti, anche un po’ bambineschi se vogliamo. Ma mate. È così anche con scuole e attività per i più giocare insieme e condividere l’obbiettivo della vittoria e della competizione crea un legame emotivo piccoli? viscerale che è difficile da trovare in altre situazioni. R. La sezione Ultimate di Bologna sta facendo un grandissimo lavoro in questo senso. I nostri tecni- D. A ottobre ti aspetta l’inizio di una nuova especi si recano già nelle scuole medie e superiori, sia rienza di studi: il dottorato in Inghilterra. Ti spadurante le ore di educazione fisica, sia attraverso venta il doverti allontanare da una realtà così sol’organizzazione di corsi pomeridiani nel dopo- lida come l’Ultimate a Bologna? Hai intenzione scuola una volta a settimana per un’oretta, un’o- di praticare questo sport anche con le formazioni retta e mezza. Credo, ma non ne sono sicura, che a locali? partire dall’anno prossimo l’obbiettivo sia quello di portare questa modalità anche alle elementari per R. La mia idea è quella di continuare. Però in Incercare di abbassare l’età in cui si inizia a giocare. ghilterra la questione è diversa: i numeri sono più

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D. Raggiungere importanti traguardi negli studi e in parallelo competere ad alti livelli nello sport non deve essere stato affatto facile. R. Sì, non è stato facile. Per esempio, in un periodo in cui mi allenavo tantissimo le mie coinquiline hanno iniziato a chiamarmi “LontAnna” perché praticamente non mi vedevano mai (ride). D’altra parte, però, la costanza degli allenamenti mi ha aiutato a costruire una routine ben precisa. Lo sport grandi rispetto all’Italia ma il livello è più basso, scandiva i miei tempi ed è stato davvero utile anche perché ci sono numerose realtà locali ma si gioca per l’organizzazione nello studio. quasi solo per divertimento senza coltivare l’aspetto agonistico. Per cui, questa cosa mi spaventa un D. Con le Shout avete vinto il campionato europeo pochino (ride). Comunque, la mia idea è quella di (EUCF: European Ultimate Championships Fiallenarmi autonomamente soprattutto per la parte nals) per ben due volte di fila. Tra l’altro, nel 2018, fisica, frequentare saltuariamente queste realtà lo- siete state la prima squadra italiana in assoluto, cali per poi partecipare alla stagione internaziona- per qualsiasi categoria, a vincere una competiziole della squadra di Bologna. Mi unirei a loro per ne di tale livello. Come ci si sente a raggiungere le competizioni più importanti e mi allenerei con dei livelli così alti? Quanto è stato difficile? loro una volta al mese nel week-end. Anche negli anni passati è stato pensato in questo modo, per R. Vincere la prima finale è stato assurdo dal punto permettere a chi si è trasferito all’estero oppure in di vista emotivo per tutta la squadra. Già da prima altre città d’Italia di allenarsi con la squadra, orga- che arrivassi io, era un traguardo che tutta la squanizzando dei raduni durante il week-end. Un po’ dra rincorreva da diverso tempo. Per una squadra all’americana, lì fanno molto così, allenandosi solo europea vincere quel torneo è davvero il massimo. nel finesettimana visto che per loro è difficile riu- Tra l’altro, nel 2018 abbiamo battuto le Iceni, le nirsi negli altri giorni anche per colpa dei tempi di ragazze di Londra, che avevano già vinto per credo sette-otto anni di fila. È stata un’emozione fortispercorrenza. sima, anche perché erano le stesse ragazze che neD. Quando hai capito di amare questo sport? E gli anni passati ci battevano per moltissimi punti. Quindi è stato davvero uno scalare il livello piano come e quando hai iniziato a praticarlo? piano nel corso degli anni con, tra l’altro, la conR. Io ho fatto 15 anni di basket, ho iniziato addirit- sapevolezza di aver conseguito un risultato storico tura a 3-4 anni col micro-basket, per poi praticar- per l’Ultimate italiano. È stata un’emozione unica lo a livelli anche abbastanza alti, nelle giovanili e anche perché la partita è stata strana, ma quando a livello regionale. Però ad un certo punto non ce hanno buttato dentro il disco finale c’è stata un’inla facevo più, ero stufa e ho deciso di mollare. All’i- vasione di campo, eravamo tutte in lacrime. Insomnizio ero alla ricerca di uno sport sostitutivo senza ma, fortissimo dal punto di vista emotivo. avere grandi aspirazioni agonistiche. Frequentavo la quinta superiore a Padova, ed in quel momento D. È vero che riconfermarsi nello sport, dopo esmi sono imbattuta nell’Ultimate. Ho iniziato a gio- sere stati i migliori, è la cosa più difficile? care a Padova dove c’è una società abbastanza numerosa e l’anno successivo, dopo essermi trasferita R. In realtà devo dire che non è stato così per me, a Bologna, ho continuato a giocare. Ci ho messo perché la vittoria del 2018 è stata inseguita in madue o tre anni a capire di volerlo praticare a livello niera spasmodica, nervosissima, quasi ossessiva, agonistico, anche se sono una competitiva cronica come se questa conferma non arrivasse mai. Nel momento in cui questa conferma è arrivata la noquindi in realtà avrei dovuto aspettarmelo. stra mentalità è cambiata del tutto, abbiamo acqui-

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possa essere vincente: insegnare ai bambini il doversi fidare dell’avversario nel bene o nel male e avere fiducia della sua buona fede. Infatti, la prima regola dello spirito del gioco (SOTG: spirit of the game in inglese ndr) è quella di credere nell’avversario. Già questo credere nell’umanità dell’altro, soprattutto in ambienti altamente competitivi, è un passaggio mentale molto difficile. Ora parlo in questo modo, ma venendo da quindici anni di basket mi è capitato tantissime volte di prendermela con l’arbitro. In quelle situazioni il processo di de-umanizzazione dell’arbitro è quasi naturale, vedi quella sito una consapevolezza davvero unica che è stata persona molto lontana da te e quasi come il nemifondamentale per il torneo del 2019. Scendere in co assoluto. Nell’Ultimate c’è in una situazione di campo con la consapevolezza di poter vincere e reciprocità, non c’è una gerarchia, tutti i giocatori senza il peso di non dover dimostrare niente a nes- sono sullo stesso piano e condividono le responsasuno è una sensazione diversa, che ci ha permesso bilità sull’andamento dell’arbitraggio, rendendo il di giocare anche meglio secondo me, eravamo una tutto più umano. squadra molto più compatta e unita. Per esempio, nella semifinale contro le YAKA, la squadra di Pa- D. Un tema che mi sembra ti stia molto a cuore è rigi, siamo state sempre sotto, ma questa cosa non quello della gender equity. Prendendo lo sport più ha intaccato la nostra mentalità e abbiamo tenuto seguito e diffuso in Italia, ovvero il calcio, è palese fino alla fine. Poi siamo entrate in campo in parità l’enorme disparità di attenzione e di trattamento all’ultimo punto avendo la consapevolezza che sa- tra il calcio femminile e quello maschile. Tuttavia, rebbe potuta andare in entrambi i modi, ma erava- nel 2019, il mondiale di calcio femminile ha avumo comunque sicure di quello che stavamo facen- to una rilevanza internazionale senza precedenti, dando visibilità anche a diverse calciatrici che do senza che la paura ci paralizzasse. spingono verso una direzione di maggiore equità D. Una delle caratteristiche di questo sport che mi tra gli sportivi, non importa quale sia il loro genere ha completamente stupito è l’assenza degli arbitri sessuale. Come vedi questa situazione nel mondo che è prevista proprio dal regolamento. Le decisioni dello sport? Credi che qualcosa si stia muovendo? vengono prese direttamente dai giocatori in campo. Quanta strada c’è da fare ancora? Riuscite a gestire sempre questa responsabilità? R. Sicuramente c’è un’infinità di strada da fare. R. In realtà, credo che il sentirti responsabile Avendo vissuto qualche anno all’estero, mi sono dell’andamento dell’arbitraggio e della relazione resa conto di quanto la società italiana, non solo con l’altra squadra sia un bell’allenamento menta- nel mondo dello sport, sia indietro anni luce. Per le. Ci sono di sicuro partite in cui avremmo voluto un arbitro (ride). Sono capitati incontri con episodi molto incerti o partite in cui senti che le avversarie stanno strumentalizzando le regole. Però l’auto-arbitraggio ti permette sempre di avere un’altra occasione per ribaltare la situazione. Proprio per come è costruito ho la sensazione che nessuna chiamata possa condizionare in toto il risultato finale della partita. Per esempio, il regolamento prevede la possibilità di contestare una decisione o accettarla, quindi alla fine si è sempre in due a decidere. Soprattutto credo che dal punto di vista educativo

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quanto riguarda il mondiale di calcio femminile è stato un caso fortuito che l’attenzione mediatica si sia concentrata su di esso, visto che la controparte maschile italiana l’anno prima non era riuscita nemmeno a qualificarsi facendo anche una figura piuttosto barbina. Tuttavia, è stato davvero importantissimo sotto alcuni aspetti, perché ha portato all’attenzione di un immenso pubblico il fatto che lo sport femminile esiste ed è presente. Dall’altro lato però, sul discorso della percezione che il pubblico ha sullo sport femminile c’è ancora tanto da fare. La maggior parte degli sport per diverso tempo è stata preclusa alle donne che sono state relegate ai cosiddetti sport “femminili”, legati ad un concetto di performance graziosa ed elegante. Scardinare questi stereotipi è davvero un’impresa. Se si guarda per esempio agli sport di squadra che prevedono un’espressione del proprio corpo tramite caratteristiche “maschili”, quali il contatto fisico alle volte violento ed un temperamento esuberante, l’occhio cerca sempre quei tratti di femminilità. Basti pensare allo sguardo sessualizzante con cui i media descrivono le calciatrici e le pallavoliste: prima di essere un’atleta vieni considerata una donna, e in quanto donna vieni vista come un oggetto sessuale che deve rispettare dei canoni di bellezza ben precisi. Per cui spesso finiscono sui giornali per gossip e non per il loro valore in quanto atlete. Se pensiamo a Serena Williams, una delle atlete più famose e importanti della storia dello sport, un talento assoluto, spesso criticata per il suo corpo che appunto non veniva ritenuto adeguato ai soliti canoni di femminilità, per cui per molti era difficile da accettare. Quindi in generale siamo ancora molto indietro, perché il discorso della femminilità imprigiona l’espressività corporea della donna. Un’espressione che di sicuro la maggior parte delle

atlete si sono sentite dire è “corri come un uomo”, che da un lato è mortificante perché ti fa sentire brutta e non apprezzata come donna, dall’altro è un commento che pone all’apice della gerarchia dei valori l’essere uomo. Quindi un’atleta viene considerata valida solo nel momento in cui imita la performance di un uomo. D. Per cercare di cambiare le cose credo sia fondamentale agire sul piano dell’educazione. Il progetto EUGEM (European Ultimate Gender Equity Manual, ndr), di cui fai parte, si pone un nobile obiettivo: quello di creare un manuale di coaching per l’Ultimate, che tenga conto delle differenze di gender e dei diversi modi con cui ci si rapporta verso i diversi generi. Puoi parlarcene un po’ più nello specifico? R. Il progetto nasce assieme alla Federazione europea di Ultimate (EUF: European Ultimate Federation ndr), attraverso due donne che hanno scritto il bando e hanno vinto dei fondi dalla Commissione europea e dal progetto Erasmus. Noi come CUSB siamo stati l’unico club coinvolto direttamente, perché il resto delle adesioni è stato dato dalle federazioni nazionali di tutta Europa. Si sta cercando di scrivere questo manuale per coach che tratti tutte le tematiche possibili ed immaginabili riguardo l’inclusività e la gender equity. L’obbiettivo è quello di evitare qualsiasi tipo di discriminazione, basata sia sull’appartenenza di genere, ma anche sull’etnia, sulla nazionalità, sul credo religioso o sulla differenza socioeconomica. Per cui da una parte ci saranno delle sezioni sull’aspetto puramente pratico, con la presenza di semplici accortezze da applicare durante gli allenamenti per cercare di valorizzare il più possibile tutte le persone che

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e una delle due ideatrici del bando è incaricata della scrittura vera e propria del manuale coordinando tutti gli attori in causa. Ogni singola realtà proporrà una sezione scritta portando la propria esperienza. Il CUSB parlerà del recruitment, di come si coinvolgono le persone per giocare ad Ultimate ed in particolare come si trovano delle ragazze. Poi parlerà di come costruire una mentalità agonistica in una squadra femminile portando la nostra esperienza delle Shout e infine della tendenza all’oggettificazione e alla sessualizzazione delle atlete donne. partecipano. Dall’altra parte verrà affrontata per esempio il discorso dei media e della visibilità, cercando di trasmettere dei messaggi positivi con l’idea che se uno non vede non può essere. Nel senso che se una bambina non si vede rappresentata nei dépliant o nei contenuti di comunicazione legati allo sport molto difficilmente penserà alla possibilità di diventare un’atleta. L’idea è quella di affrontare temi tabù, come ad esempio le mestruazioni per le atlete, o anche l’aspetto mentale per cercare di scardinare gli stereotipi che ormai si hanno interiorizzato. È importante anche far comprendere la propria posizione di privilegio all’interno di una comunità, cercando di dare voce a tutti costruendo un linguaggio inclusivo. È un progetto molto impegnativo e ambizioso, che credo verrà implementato sottoforma di una app inizialmente, quindi sarà più facile aggiornare nel corso del tempo dando la possibilità a tutti gli utenti di contribuire. D. Il progetto è stato presentato l’8 marzo 2020. A che punto siete?

D. È un progetto che parte dall’Ultimate ma ha l’ambizione di ispirare anche gli altri sport? R. Sì esatto. Magari meno sotto l’aspetto puramente pratico negli allenamenti, ma più sulla costruzione di situazioni di inclusività attraverso un tipo di linguaggio, attraverso la decostruzione dei privilegi.

R. A fine febbraio abbiamo fatto un week-end intenso di brainstorming a Vienna. Ora il manuale sta prendendo forma, stiamo lavorando sull’indice

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VITA UNIVERSITARIA NIKI PANCALDI

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