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punto la crisi della sinistra,il nuovo soggetto politico,il ruolo dei comunisti, l’opposizione a Roma...scrivere per fare ordine nei propri pensieri, volendo dare un senso al proprio lavoro, fin quando tale lavoro è ritenuto utile... Claudio Ursella

...e a capo


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Parte I Crisi della sinistra, classe e soggetti sociali intermedi nel quadro della crisi capitalistica....................................................pag. 3 La ricostruzione di una sinistra politica e il “gap” tra livelli di coscienza della classe e i suoi compiti...........................................pag. 4 1976 - 1980 gli anni cruciali.............................................................................pag. 7 La divaricazione tra classe e sinistra politica...............................................pag. 11 Due destre?........................................................................................................pag. 15 L’espulsione del lavoro dalla politica............................................................pag. 19 Il PRC e la crisi..................................................................................................pag. 23 Dalla nascita del PRC alla rottura con il governo Prodi.............................pag. 27 Il PRC di Bertinotti nella nuova stagione di conflitto sociale....................pag. 28 In basso a sinistra: il PRC e i suoi nuovi compiti.........................................pag. 35 La nuova fase politica e la ricollocazione dei soggetti intermedi..............pag. 41 La costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra.......................pag. 44 Parte II Il nuovo soggetto politico della sinistra............................................pag. 48 Il PRC tra ambiguità e timori.........................................................................pag. 49 L’unità delle sinistre........................................................................................pag. 50 Il fronte della sinistra.......................................................................................pag. 54 L’unità dei comunisti........................................................................................pag. 58 Perplessità e timori...........................................................................................pag. 61 Come nasce il nuovo soggetto politico della sinistra?.................................pag. 66 Quale soggetto sociale per il nuovo soggetto politico?...............................pag. 70 Ambito valoriale e culture politiche..............................................................pag. 72 I vizi “piccolo borghesi” della sinistra e i nuovi soggetti intermedi.........pag. 77 Il soggetto politico come contenitore: valori, collocazione, scopo.............pag. 84 Radicamento e pratiche sociali per una politica “utile”.............................pag. 90 Una nuova progettualità politica per un nuovo modello sociale............. pag. 94 La presenza nelle istituzioni: passaggio immediato e visione strategica.. pag. 98 Parte III Direzione politica e nuovo ruolo del PRC..................................................pag. 104 Dai due modelli di partito al “partito nuovo”.............................................pag. 105 PRC e nuovo soggetto politico: relazione dialettica, non competizione..pag. 111 Un nuovo compiti per il Partito: la direzione politica................................pag. 116 Il “partito delle avanguardie” e la riunificazione dei comunisti...............pag. 122 Parte IV Roma e l’opposizione che non c’è...................................................................pag. 126 Una “campagna elettorale” diversa...............................................................pag. 128 Un nuovo ruolo dell’opposizione nelle istituzioni.......................................pag. 129 I referenti nella costruzione dell’opposizione politica................................pag. 133 Progettualità locale, 4 delibere, lavoro: riunificare l’opposizione.............pag.148


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CRISI DELLA SINISTRA, CLASSE E SOGGETTI SOCIALI INTERMEDI NEL QUADRO DELLA CRISI CAPITALISTICA L’ipotesi della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, è il punto d’arrivo di una crisi pluridecennale della sinistra politica, del suo ruolo, del suo progetto, della sua capacità di interpretare le soggettività e le dinamiche sociali. Misurarsi ancora una volta con il tema della costruzione di una sinistra, che non sia ne residuale, ne minoritaria, ne tantomeno subalterna e compromessa, può apparire come un’impresa dettata dalla sola volontà di non rassegnarsi ad una realtà, che mai ha visto la sinistra a tali livelli di irrilevanza. Se così fosse tale scelta sarebbe solo il frutto di una idealistica e soggettiva determinazione, non supportata da un’analisi obbiettiva delle condizioni, che possono rendere tale ipotesi concretamente praticabile. Nel ragionamento che qui si propone, vi è il tentativo di comprendere come il processo di crisi della sinistra politica, sia frutto delle dinamiche dei soggetti sociali, nel quadro della lunga crisi capitalistica, e come quindi, il modificarsi di queste dinamiche, può produrre le condizioni per un superamento di tale crisi. Il tentativo è quello contribuire a ricollocare un dibattito tutto interno alle contingenti dinamiche politiche, nell’ambito di una più ampia visione dello scontro di classe, riappropriandosi di quella capacità di lettura degli interessi sociali, che in modo non sempre lineare, si esprimono attraverso la dialettica politica. E’ questo un tentativo, che certo può apparire presuntuoso, ma che è solo frutto della necessità di collocare un impegno di lavoro politico gravoso, nel quadro di una visione che a tale impegno dia senso.


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LA RICOSTRUZIONE DI UNA SINISTRA POLITICA E IL GAP TRA LIVELLI DI COSCIENZA DELLA CLASSE E I SUOI COMPITI La possibilità di costruire un nuovo soggetto politico della sinistra, si basa sul presupposto che nella società siano ormai mature le condizioni, per la ricostruzione di una sinistra che abbandoni definitivamente le culture sconfitte del passato, e si misuri con il nuovo quadro prodotto dalla fase più acuta della crisi del capitalismo in occidente. Tale presupposto va verificato in una riflessione analitica, che vada oltre la contingente dialettica di forze politiche minoritarie e marginali, e assuma invece come proprio scenario la crisi del capitale e il ricollocarsi delle classi sociali in tale contesto. In tal senso è forse opportuna anche uno sguardo panoramico sul lungo travaglio della crisi della sinistra italiana, perchè anche gli errori, le inadeguatezze e addirittura i tradimenti, di cui è costellata la storia della sinistra negli ultimi trent’anni, vanno inquadrati all’interno di una analisi dei rapporti tra le classi nel contesto della crisi, essendo questi errori e inadeguatezze, l’espressione fenomenica di una realtà sociale ed economica più profonda, di cui la politica è semplice rappresentazione. Questa riflessione si propone quindi di comprendere come la sconfitta della sinistra politica in Italia, non sia solo il frutto di errori soggettivi dei suoi dirigenti, ma dell’oggettivo ricollocarsi dei diversi soggetti sociali, nel quadro di una crisi del capitalismo, che ha da tempo concluso il ciclo espansivo del secondo dopoguerra. Tale ciclo espansivo, durato fino alla metà degli anni ‘70 e caratterizzato dalla tendenza alla piena occupazione, dall’aumento dei consumi e dalla crescita dei mercati interni, dallo sviluppo del welfare e dell’intervento pubblico in economia, è stato il contesto nel quale la sinistra si è rafforzata in Italia e in Europa, costruendo un blocco sociale ed un sistema di alleanze, al centro del quale la classe operaia svolgeva un ruolo egemonico. Alla fine di tale ciclo è iniziata la crisi di una sinistra politica, che non è stata i grado di comprendere come le risposte capitalistiche alla crisi (ristrutturazione produttiva, finanziarizzazione, globalizzazione, prevalenza della sfera privata su quella pubblica), modificavano sia la condizione e la coscienza dei diversi soggetti del blocco sociale prodottosi nella fase precedente, sia, soprattutto, le relazioni fra di essi.


5 Ancor prima che la crisi della sinistra politica giungesse a piena maturazione con scissioni, abiure e sconfitte elettorali, tale crisi si è manifestata nella perdita di ruolo della sinistra politica, laddove a fronte di soggettività sociali sconvolte dai processi di ristrutturazione, null’altro s’è saputo fare se non tentare di dare rappresentanza alle conseguenze di tali sconvolgimenti, condannando la politica ad una subalternità impotente, rispetto alle dinamiche sociali; il consenso elettorale è diventato quindi un fine, ancor prima che un mezzo, l’unica ragion d’essere di una sinistra solo preoccupata della propria sopravvivenza. A fronte dell’assenza di una prospettiva politica realistica, frutto di una conseguente analisi della fase, la sinistra politica, nelle sue diverse componenti, si è appiattita su una subalterna rappresentazione dei limiti dei soggetti sociali di riferimento, rinunciando a quello che è il suo ruolo: misurarsi con il tema del “gap” tra i livelli di coscienza del proletariato e i suoi compiti nella fase politica. E’ un fatto obbiettivo e indiscutibile, che a fronte di un assunto teorico, condiviso da tutte le varie culture politiche della sinistra marxista, che assegna alla classe la prospettiva storica di superamento dell’ordine fondato sul capitalismo, la realtà politica è stata quella di una classe in larga misura inadeguata a misurarsi con tale compito. La sinistra politica, intesa come insieme di sistema valoriale ed elaborazione teorica, pratiche sociali e strutture organizzative, è stato in larga misura lo strumento che ha permesso il superamento di tale “gap”. In particolare la riflessione leninista sul tema della coscienza politica esterna alla classe, affrontava questo problema nelle forme semplici e lineari che ben s’adattavano alla situazione di una classe che alla fine dell’800 era in larga misura analfabeta, e di una società molto più semplice, non solo di quella odierna, ma anche di quella prodotta dal fordismo nel corso del ‘900. Benchè tale approccio sia oggi superato, resta il fatto che l’aver affrontato questo tema senza pregiudizi, permise ai comunisti russi, di far compiere alla classe un salto epocale, sulla via della sua liberazione. Il non essere stati in grado di affrontare questo tema nel corso dei decenni, limitandoci alla prudente amministrazione di una rendita elettorale, garantita dalla semplice rappresentanza delle debolezze della classe, ha fatto si che tali debolezze scavassero profondamente nella classe, aumentando


6 il gap tra i suoi livelli di coscienza e i compiti nella fase politica, fino a giungere ad un distacco quasi totale tra classe e dimensione politica. Il tema dell’inadeguatezza dei livelli di coscienza della classe in rapporto ai suoi compiti, non è mai stato d’attualità come in questi giorni. A fronte di un capitalismo europeo che, nel quadro di un drammatico restringimento delle sue compatibilità economiche, ha perso ogni capacità di produrre egemonia, lasciando inevase una quantità di domande sociali, sia di ordine materiale (reddito, casa, servizi sociali), sia immateriale (democrazia, cultura, coesione sociale), e che anzi ha la necessità di operare una costante distruzione, sia sul piano ambientale, che su quello produttivo, mai come oggi la classe appare incapace di farsi portatrice di un altro progetto di società, alternativo a quello basato sul profitto e sullo sfruttamento. Al contrario mai come oggi la classe, indebolita e frammentata dal combinato congiunto di crisi economica e ristrutturazione dei processi produttivi, appare appiattita su una passività rassegnata, periodicamente interrotta da occasionali esplosioni conflittuali a carattere puramente difensivo, e permeabile a pulsioni di tipo populistico e reazionario. Scomparsa dalla scena politica, quella classe che per buona parte del ‘900 era stato il punto di riferimento ed il fulcro di ogni progetto politico di trasformazione, oggi trova espressione solo in alcuni segmenti più coscienti e determinati, che ancora mantengono un minimo di capacità di autodifesa sul piano sociale e sindacale, senza però essere in grado di trasformare questa autodifesa in contrattacco, riaffermando la centralità della contraddizione capitale-lavoro, intorno alla quale riconnettere tutte le contraddizioni irrisolte, di un capitalismo in crisi e senza capacità egemonica. Classe e politica sembrano aver preso strade diverse e divaricate, e questo è il nodo centrale di quella che viene definita crisi della sinistra: una sinistra senza classe e una classe senza sinistra. Ricomporre questa relazione è il tema della costruzione di un “nuovo soggetto politico della sinistra”, ma perchè questo tema possa essere affrontato in termini non volontaristici, è opportuna una riflessione sul perchè, sul come e sul quando questa relazione si è interrotta. La riflessione sui limiti e gli errori soggettivi della sinistra e dei suoi dirigenti, non ci da conto del perchè tali errori e tali limiti si siano affermati come proposte


7 vincenti, in grado di ottenere consensi elettorali, mentre ogni impianto che ha tentato di rimanere legato alla realtà e ai bisogni della classe, nonchè alla sua possibilità di vittoria nello scontro con la borghesia, è risultato ininfluente, marginale, residuale. E’ necessaria una analisi oggettiva che ci dia conto di come le risposte che la borghesia ha prodotto per gestire la lunga crisi iniziata alla metà degli anni ‘70, hanno modificato sia le condizioni della classe, sia soprattutto le relazioni tra la classe e la dimensione della politica. E’ dentro questa analisi delle condizioni oggettive, che possiamo trovare il senso e la ragione, dell’affermarsi come opzione politica maggioritaria della sinistra, di quegli errori soggettivi che hanno prodotto la parabola discendente che va da Occhetto a Renzi.

1976 - 1980: GLI ANNI CRUCIALI Se volessimo individuare un momento simbolico in cui per la prima volta il rapporto tra classe e dimensione politica della sinistra si incrina, questo certo sarebbe la marcia dei 40.000 quadri e crumiri che portò alla sconfitta della FIAT nel 1980. In quel giorno disgraziato per la prima volta crolla uno degli assunti su cui si era fondata la relazione tra classe e sinistra nel nostro paese, l’idea che la classe operaia fosse portatrice dell’interesse generale del paese e che intorno ad essa fosse possibile costruire l’alleanza di gran parte dei ceti sociali, contro l’interesse egoistico di una borghesia incapace di offrire sviluppo e modernità. Questa idea, per la prima volta veniva messa in discussione da una manifestazione, in cui il “diritto generale al lavoro“, veniva sbandierato dalla FIAT, in contrapposizione al diritto specifico di 23.000 lavoratori FIAT al “loro lavoro“: il sindacato confederale, “garante dell’interesse generale” del lavoro, capitolò, abbandonando gli operai della FIAT; il PCI di Berlinguer, che tra la scelta di un presunto interesse generale e un chiaro interesse di classe, scelse la classe, chiude con la fase in cui rappresentando la classe, interpreta “l’interesse generale del paese”, e inizia una fase di progressiva marginalizzazione dalla scena politica. Questa idea della classe come “soggetto generale”, che è centrale nell’elaborazione marxista (il proletariato liberando se stesso, libera l’umanità


8 intera), aveva avuto in Italia la sua prima verifica negli scioperi del ‘43 e nella lotta al nazifascismo, si era rafforzata insieme al rafforzarsi e all’estendersi della classe operaia nella fase espansiva del capitalismo nel secondo dopoguerra, e aveva nell’URSS un concreto esempio. In particolare tale impianto era stato interpretato con metodo e originalità dal PCI di Togliatti, che nell’individuare una “via nazionale al socialismo”, aveva fatto del partito della classe operaia, il punto di riferimento di tutte le energie più dinamiche del paese; attraverso il concetto di “democrazia progressiva”, tendeva a far coincidere lo sviluppo democratico del paese con la costruzione del socialismo e l’avanzata del proletariato; con il “partito nuovo” a carattere di massa e capillarmente insediato, si innervava nella società, fin quasi a coincidere con essa. Il tema del gap tra i livelli di coscienza della classe e i suoi compiti, veniva affrontato con una complessa costruzione politica e una ampia visione strategica, alla cui guida era un Partito, che così come era stato per Lenin e i bolscevichi, era il luogo della “coscienza politica”. Grazie a questo impianto il PCI riesce a trasformare ogni rivendicazione a carattere sociale e sindacale della classe, nel tassello di una costruzione politica, potenzialmente attrattiva per altri settori sociali. La praticabilità di questo impianto è tutta nell’aderenza e nell’interpretazione di una fase del capitale, la cui espansione era legata all’attuazione di politiche keynesiane, finalizzate alla piena occupazione e alla crescita del mercato interno, anche e soprattutto grazie all’intervento pubblico in economia. Intendendo la coscienza politica come capacità di andare oltre la comprensione del proprio interesse specifico, collocando tale interesse nel quadro di più complesse relazioni sociali, la classe, attraverso il PCI, giunge ad esercitare, dopo i duri anni ‘50, la propria potenzialità egemonica sulla società: il PCI, che in buona misura coincide con la sinistra, interpreta la società, attraverso la classe, mentre la società nel suo complesso, vede la sinistra come diretta emanazione della classe. Questa feconda relazione ha una sua prima incrinatura nel ‘68, per i limiti soggettivi del Partito, che fatica a prendere atto che la sua stessa azione nella società, ha determinato una crescita delle aspettative della classe,


9 che sollecitano e premono per un balzo in avanti: i giovani, figli della scolarizzazione di massa, e le nuove generazioni operaie, pongono problemi a cui il PCI fatica a dar risposta, ma che avrebbero forse trovato composizione, se altri eventi non avessero modificato lo scenario. La possibilità di una riconnessione tra aspettative radicali espressesi nel biennio 68-69, e il principale partito della sinistra politica, è evidenziata dalla grande avanzata del PCI nelle tornate elettorali del ‘75 e del ‘76, ma giunge però fuori tempo massimo, per l’esplodere della crisi petrolifera del ‘73, che chiude il ciclo espansivo del capitale e dall’avvio a quella crisi, di cui oggi vediamo gli effetti più nefasti. Nel nuovo quadro l’impianto strategico del PCI risulta completamente superato, mentre la crisi del vecchio modello capitalistico impone compiti nuovi, per i quali la coscienza e la cultura politica sedimentata nella classe e nel blocco sociale che intorno ad essa si è costruito, risultano inadeguati. Si ripropone nuovamente quel gap tra livelli di coscienza della classe e i suoi compiti, che il PCI aveva risolto nei decenni precedenti. I movimenti giovanili del ‘77, nati intorno alla critica dell’insufficienza del modello sociale prodotto dal fordismo nel dopoguerra, e soprattutto dalla comprensione della dimensione della precarietà, come elemento strutturale della nuova fase del capitale (le due società, garantiti e non garantiti), tentano la soluzione di questo gap tra livelli di coscienza della classe e i suoi compiti, con l’accelerazione soggettivistica della lotta armata, con esiti drammatici e disastrosi; un’altra ipotesi punta tutto sull’autonomia della classe, rispetto ad ogni strategia politica che ad essa si sovrapponga, scambiando i livelli più avanzati di singoli frammenti di classe, con la classe nel suo complesso. Al contrario il PCI, all’apice della sua forza elettorale e del suo radicamento sociale, imprigionato in una visione strategica ormai superata, interpreta la crisi principalmente come frutto dell’arretratezza di una borghesia nazionale parassitaria, e ritiene di rispondere ad essa contrapponendogli una classe operaia capace di “farsi stato”, assumendo su di se il peso della crisi capitalistica, nel quadro di una strategia in cui il tema dell’austerità, è il paradigma di un nuovo modello sociale e di sviluppo. L’idea della classe operaia come “classe generale” del paese, viene ripro-


10 posta senza considerare il venir meno di quelle che erano state le ragioni strutturali dell’affermarsi di tale idea: l’aumento della produzione e dell’occupazione, nella fase espansiva del capitale, che avevano aumentato il potere contrattuale della classe. Mentre il PCI investe la forza elettorale accumulata nei decenni precedenti, nel tentativo di farsi carico di compatibilità capitalistiche sempre più limitate, partecipando ai governi di Unità Nazionale e contribuendo alla sconfitta dei movimenti giovanili radicali, con l’avvallo della stretta repressiva, e dei settori più conflittuali del mondo del lavoro, con la svolta sindacale dell’EUR, la borghesia italiana agisce nel corpo vivo della classe, e forte del modificarsi del rapporto tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, inizia quel percorso di ristrutturazione produttiva, il cui punto di non ritorno è la vertenza FIAT, l’attacco alla fortezza operaia, assediata ed espugnata nell’autunno del 1980. La sconfitta della FIAT giunge alla fine di un ciclo in cui la classe operaia, sacrificata ad un progetto di governo del paese anacronistico e velleitario, ha perso lungo la strada tutti i suoi principali alleati, cessando di essere il punto di riferimento indiscusso di un più ampio fronte sociale. La lacerazione tra movimenti giovanili e mondo operaio è plasticamente rappresentata dagli scontri all’università di Roma in occasione della venuta di Lama; il movimento delle donne, che rappresenta la grande novità del ‘900, fatica a interagire con il mondo operaio, e soprattutto con la sua rappresentanza politica, impegnata a mantenere rapporti con il mondo cattolico e una DC clericale; il mondo intellettuale e democratico, ha visto messo a dura prova la sua relazione con il PCI, negli anni in cui i governi di Unità Nazionale varavano provvedimenti restrittivi della libertà. Per la prima volta nella storia italiana, nel ‘78 due referendum, contro la Legge Reale sull’ordine pubblico e contro il finanziamento pubblico ai partiti, vedono la sinistra divisa e la classe operaia incapace di proporsi come un omogeneo punto di riferimento per tutti gli altri soggetti sociali. Nelle elezioni dell’anno successivo, per la prima volta si manifesta, con l’affermazione elettorale del Partito Radicale, quel voto di protesta antipartitico, che oggi con Grillo è fenomeno di massa.


11 Tutti i temi della crisi della sinistra, si presentano almeno in forma embrionale, negli anni cruciali che vanno dall’estate del ‘76 all’autunno dell’ ‘80: la difficoltà di relazione tra sinistra politica e mondo giovanile, mai più risolto dopo la crisi del ‘77; il tema dei diritti civili e della differenza di genere, nuova frontiera del conflitto, che vede la sinistra ancora in difficoltà; la divaricazione tra istituzioni repubblicane e conflitto sociale, che giunge oggi al suo epilogo con le modifiche costituzionali; la critica al sistema dei partiti, da allora sempre più screditato; e infine la classe operaia, isolata nella difesa del proprio posto di lavoro, senza alcun potere contrattuale a causa dei processi di ristrutturazione produttiva, e senza soprattutto una visione di società, che ridia senso al valore sociale del lavoro. E’ questa la sconfitta che sancisce la fine della sinistra politica nella società, parallelamente alla fine di una egemonia della classe, che nel quadro della crisi capitalistica non è in grado di misurarsi con i suoi compiti di fase: non l’uscita dalla crisi, ma l’uscita dal capitalismo in crisi. Il tema del “potere“, del pieno controllo dei processi politici, economici e sociali, per governare tali processi in un progetto alternativo, operando una rottura radicale e colpendo la borghesia in crisi, sottraendo ad essa valore da reinvestire per il rilancio di un nuovo modello economico, di cui il lavoro produttivo sia il centro, ridando quindi forza al soggetto operaio e difendendolo dalla crisi che lo sta investendo, questo tema potenzialmente maturo alla metà degli anni ‘70, non viene posto con determinazione: la classe, privata di un organico progetto politico, è consegnata alla imminente controffensiva del capitale. L’incapacità della sinistra politica di affrontare il gap tra i livelli di coscienza della classe, coscienza prodottasi nel quadro di una strategia di cambiamento graduale, e i suoi compiti di fase, che invece impongono una rottura radicale, è palese in questa breve stagione, quando l’immensa forza accumulata nei decenni precedenti dal PCI, rimane come acefala e stordita.

LA DIVARICAZIONE TRA CLASSE E SINISTRA POLITICA E’ negli anni ‘80 che la sconfitta operaia, si traduce nella dissoluzione


12 del blocco sociale che intorno ad essa si era prodotto, e della sinistra politica che lo rappresentava. Il quadro in cui tale dinamica si produce è quello di un capitalismo che ha ripreso momentaneamente a crescere, grazie al recupero del saggio di profitto determinato dalla riduzione di salari e occupazione, diritti e welfare, da una maggiore produttività dovuta all’innovazione tecnologica, e da una crescita del capitale finanziario, che sostiene il mercato interno con l’indebitamento pubblico e privato. A questa risposta momentanea del capitale alla sua crisi, i soggetti sociali reagiscono in ordine sparso, ma tutti nel quadro di una sostanziale subalternità. Sconfitta con l’eroina e la galera ogni pulsione radicale nel mondo giovanile, protagonista della stagione politica precedente, la controffensiva culturale della borghesia offre nuovi modelli identitari a carattere edonistico, nel quadro di una generale ripresa dei consumi. La crescita della piccola impresa, funzionale alla ristrutturazione di un ciclo produttivo sempre più frammentato nei suoi siti, ma centralmente controllato attraverso le nuove tecnologie informatiche, è facilitata da un accesso al credito relativamente facile, e diviene l’opportunità per la ricollocazione di operai espulsi dalle grandi fabbriche, che con la loro professionalità si trasformano in microimprenditori: gran parte dello sviluppo del Nord Est è legato a questa dinamica. Lo sviluppo del nuovo settore dei servizi, informatici, finanziari, immobiliari e nel settore delle comunicazioni, offre sbocchi occupazionali ai giovani con formazione medio-alta, creando una quantità di lavoro precario e senza diritti, in cui il tema delle garanzie del lavoro, viene sostituito da quello delle opportunità della concorrenza individuale, opportunità manifeste proprio nelle potenzialità di un mercato nuovo e in espansione. In termini generali tutto il tema dei diritti, a partire da quelli legati alla differenza di genere, trovano una loro declinazione nel quadro di un individualismo rivendicato, contro ogni limite imposto dalla collettività. L’attacco al welfare e al sistema pubblico si struttura con particolare virulenza, da un lato accentuando il malaffare e il clientelismo che in esso sempre si era annidato, dall’altro screditandolo proprio per queste ragioni, in favore di un privato efficiente e meno costoso: l’obbiettivo è facilmente raggiunto, e lo screditamento del dipendente e della funzione pubblica, si realizzano con il consenso generale. A livello di immaginario politico, la sconfitta delle aspettative di cambiamento degli anni ‘70, chiude definitivamente la fase in cui le istituzioni erano vissute anche come lo strumento della trasformazione sociale, e le consegna al


13 ruolo di garanti di una governabilità senza prospettiva. E’ questa una dinamica che si produce con il consenso di vasti settori sociali, che dopo la crisi della seconda metà degli anni ‘70, si affidano alle sorti di una ripresa capitalistica che sembra in grado di offrire un benessere concreto e tangibile, seppur nel quadro di una crisi morale e valoriale. A fronte dell’opzione della politica d’austerità, con cui il PCI aveva cercato di tenere insieme il suo blocco sociale, ottenendo il solo risultato di avvallare quei “sacrifici”, subiti solo dalla sua base sociale, e funzionali alla ridefinizione di un adeguato saggio di profitto, il capitale risponde con un’offerta di benessere e indebitamento, capace di ricostruire intorno ai suoi interessi un blocco sociale di soggetti giovani, moderni, dinamici e soprattutto spregiudicati. L’egemonia culturale della borghesia è ristabilita, e tutto quel variegato mondo di soggettività sociali genericamente definito come ceto medio, rompe definitivamente l’alleanza con la classe operaia Fuori dal quadro idilliaco degli anni ‘80, rimane una classe operaia sempre più isolata e priva di potere contrattuale, che vede la sua identità, un tempo fondata sul ruolo centrale nei processi produttivi, sempre più in crisi a fronte di una valorizzazione capitalistica che si attua con nuove modalità; esterni sono anche i lavoratori dei servizi a bassa professionalità, edilizia, pulizie, commercio e grande distribuzione, logistica in genere, strutturalmente deboli, con l’aggravante di operare in un settore che è esploso, proprio nel quadro della sconfitta operaia, della riduzione delle garanzie e della precarizzazione, con un proliferare di piccole imprese, spesso formalmente cooperative; a questi vanno aggiunti i lavoratori del settore pubblico, scuola, trasporti e sanità in particolare, divisi tra la rivendicazione del valore sociale del loro lavoro in un quadro che tende a svilirlo, e la subalterna possibilità di sopravvivenza in un sistema pubblico, che ancora garantisce piccoli privilegi clientelari. Questo mondo ormai incapace di esercitare forza attrattiva nei confronti del resto del paese, viene definitivamente sconfitto e umiliato, con il referendum sulla scala mobile, quando settori significativi della stessa sinistra, guidati dal PSI di Craxi, da una parte di ceto sindacale, che avendo rinunciato alla crescita salariale, cerca un suo ruolo nella contrattazione degli adeguamenti all’inflazione, e addirittura da settori del PCI, decidono


14 di assestare il colpo definitivo: è la definitiva presa d’atto della fine di un’epoca. E’ quella del referendum sulla scala mobile, la sconfitta di un mondo del lavoro dipendente, residuo insediamento sociale di una sinistra che solo pochi anni prima “parlava a tutto il paese”, e che è ormai privo di forza e di ruolo, in conseguenza del nuovo modo di produzione postfordista e della finanziarizzazione; il soggetto operaio e il mondo del lavoro in genere, ancora fondamentali sul piano dei numeri, appaiono però marginali dal punto di vista della capacità di interpretare le innovazioni che attraversano la società, e soprattutto non in grado di offrire linfa e alimento ad una sinistra politica priva di strategia. La sconfitta nel referendum è la prima di tante occasioni, in cui risulta evidente il fatto, che non basta che il partito sia schierato dalla parte giusta, per ottenere “il consenso delle masse”. Anche una battaglia coraggiosa e di principio, come quella condotta da Berliguer sul referendum, è insufficiente a dare risposta ad una crisi della sinistra, che impone una nuova e più avanzata lettura della fase. La morte di Berlinguer rappresenta anche simbolicamente la fine di una epoca, e dopo di essa la sinistra politica e il ceto politico che ad essa fa riferimento, si trova davanti alla scelta tra due ipotesi: la possibilità di liberarsi del peso della rappresentanza di questo soggetto di classe, sentito come residuale e senza prospettiva, per modernizzarsi e puntare alla rappresentanza di quelle nuove forme di variegato ceto medio prodotte dalla nuova ed effimera fase espansiva del capitale, oppure attestarsi a difesa della debolezza dei soggetti di classe, rinunciando a partecipare al governo dei processi, in una sorta di arroccamento politico e culturale, con l’unica forza da spendere di una rivendicata superiorità valoriale, quel tema delle “mani pulite”, che è l’ultima bandiera del PCI. Il dilemma viene puntualmente risolto alla fine degli anni ‘80, quando il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, producono il contesto simbolico e mediatico perfetto per chiudere l’esperienza storica del partito della classe in Italia: lo scioglimento del PCI infatti non è solo la ratifica della fine di ogni legame con la storia del movimento comunista, ma so-


15 prattutto la rinunzia a legare il partito ad una precisa collocazione di classe. Il fatto che la proposta di Occhetto risulti maggioritaria in quello che fu comunque un congresso democratico, oltre che un grande momento di discussione all’interno della sinistra italiana, da il senso di come il processo di divaricazione tra sinistra politica e classe fosse avanzato. Al di là di ogni semplificatoria categoria di “tradimento”, lo scioglimento del PCI rappresenta la presa d’atto della fine di quel blocco sociale, che aveva tenuto insieme le diverse soggettività del ceto medio italiano (piccola impresa e lavoro autonomo, mondo delle professioni e lavoro intellettuale, consistenti sacche di lavoro dipendente di fascia alta, residue aristocrazie operaie), con il grosso della classe operaia nel settore manifatturiero, i lavoratori dei servizi a bassa professionalità, gran parte dei dipendenti pubblici dei settori più colpiti dall’attacco al welfare, trasporti, scuola e sanità. La sinistra maggioritaria che si organizza nel PDS, cessa di essere legata ad una classe, che è sempre più debole nel quadro dei nuovi rapporti di produzione, e per la sua sopravvivenza e perpetuazione, si affida alla rappresentanza di un ceto medio (ovviamente progressista), che sembra essere il protagonista di una nuova fase espansiva del capitale. Alla sinistra minoritaria, che da vita al PRC, rimane il compito storico, ancor prima che politico, di uscire dalla semplice difesa di una condizione di classe ormai superata dai rapporti di produzione, per dare vita ad un progetto politico adatto ai tempi; riconnettere gli interessi di classe a quelli generali del paese, ricostruendo una capacità egemonica della classe e la possibilità di ricostruzione di alleanze sociali, intorno alla centralità del suo ruolo. In altri termini, superare il gap, tra livelli di coscienza della classe e i suoi compiti. DUE DESTRE ? Gli anni ‘90 iniziano con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e con la conseguente estensione su scala planetaria, di un modo di produzione capitalistica a cui non si contrappone più alcuna alternativa: la globalizzazione dei rapporti di produzione capitalistica, tendenza storica strutturale,


16 può attuarsi senza limitazione. Aumentano sulla scena mondiale i soggetti della competizione capitalistica, crescono le risorse disponibili da mettere a valore, si aprono mercati immensi, la crescita riparte guidata dai soggetti emergenti del capitalismo mondiale, ma tutto ciò ha conseguenze dirette nei paesi d’origine del sistema capitalistico e in particolare in Europa. A fronte dei processi di globalizzazione, la dimensione nazionale delle politiche economiche europee diviene sempre più inadeguata, mentre gli escamotage monetaristici con cui paesi come l’Italia potevano sostenere la crescita, risultano sempre meno praticabili: il tema dell’integrazione europea diviene una necessità stringente e trova nella riunificata Germania il suo rigoroso alfiere. E’ in questo scenario che il tema politico ed economico degli ultimi 25 anni diviene centrale: il debito pubblico e la necessità della sua riduzione, imposta dai partner europei, non disposti a farsi carico della “bad company” Italia. A livello nazionale, la vicenda di tangentopoli esplode proprio alla fine del ciclo di crescita economica, gonfiata dal debito e dal malaffare degli anni ‘80, e si sposa perfettamente con la richiesta di maggior rigore e minor debito pubblico che viene dall’Europa. DC e PSI i partiti del debito pubblico degli anni ‘80, escono dalla vicenda politica italiana, sostituiti dal rigore dei governi tecnici, mentre la crisi del sistema politico screditato da tangentopoli, apre il tema delle riforme istituzionali e costituzionali: la fine del proporzionale è l’inizio dell’agonia della Costituzione. Questo a grandi linee lo scenario internazionale e nazionale, uno scenario di crisi, incertezza e rapide trasformazioni, determinato dalle necessità del grande capitale internazionale, di inserire anche l’economia italiana nel quadro di più vaste relazioni internazionali. Il blocco sociale che negli anni 80 era stato il cardine della governabilità craxiana, un connubio di interessi che teneva insieme mafia e malapolitica, e intorno a quest’asse unificava consistenti pezzi di mondo imprenditoriale e di clientelismo nel settore pubblico, appare inadeguato ad affrontare la nuova fase, e i soggetti sociali che si sentono scaricati ed estromessi dai nuovi equilibri in costruzione, reagiscono in modo rabbioso: al nord quella piccola impresa cresciuta all’ombra del malaffare, dell’evasione fiscale e del denaro facile, reagisce denunciando “Roma ladrona” e invocando la


17 secessione; i grandi gruppi industriali e finanziari, che quel sistema avevano prodotto, attraverso i loro giornali, divengono gli alfieri dell’antipolitica; dal sud la mafia tenta di ricontrattare un nuovo patto mettendo le bombe. Nel vuoto politico creatosi all’inizio degli anni ‘90, il tema reale è lo scontro tra quella parte del capitalismo italiano che punta a ricollocarsi nel nuovo contesto determinato dalla globalizzazione e che spinge verso l’integrazione europea, e gli interessi più provinciali che si attardano sulle rendite di posizione di un capitalismo legato ad una dimensione nazionale. E’ intorno a queste due opzioni che si ricostruisce il sistema delle alleanze sociali nel paese, e la palude sociale del ceto medio diviene il terreno di battaglia per l’egemonia politica ed elettorale tra i due spezzoni della borghesia, mentre gli interessi di classe, anche grazie alle riforme del sistema elettorale, divengono sempre più marginali e irrilevanti. E’ in questo quadro che la sinistra moderata ritrova finalmente una propria identità, dopo il vuoto determinato dall’abbandono dei suoi riferimenti di classe, definendo la sua progettualità, proponendosi come protagonista della soluzione del differenziale, tra la condizione del paese e le sue potenzialità sulla scena economica internazionale. I temi della modernizzazione e dell’efficienza, quelli della meritocrazia e della libera concorrenza, l’esaltazione della qualità italiana e la ricerca di una legittimazione politica in sede atlantica ed europea, divengono la base di un’alleanza tra settori del grande capitale e quei ceti medi che sono rimasti ai margini del blocco di potere politico-mafioso che ha governato l’Italia negli anni ‘80. E’ un’alleanza che è però ancora debole in gran parte del paese, specialmente in quelle aree il cui tessuto sociale più arretrato, guarda con timore alle richieste di competitività e rigore che giungono dall’Europa. Nel nord gran parte del tessuto produttivo della piccola impresa, cresciuto all’insegna del “piccolo è bello”, guarda con comprensibile diffidenza ai processi di globalizzazione economica, che espongono alla concorrenza internazionale e obbligano a sinergie imprenditoriali per cui non sono preparati, e che l’arretratezza dell’apparato burocratico dello stato rende ancora più difficoltose; nel sud, dove l’economia illegale e malavitosa svolge un ruolo centrale, le difficoltà sono ancora maggiori. Le tradizionali regioni rosse


18 del centro Italia, sono le sole in cui, decenni di buona amministrazione e di crescita economica, culturale e civile, garantiti fin dal dopoguerra dal PCI, hanno creato un ceto medio in grado di collocare le proprie prospettive, in un progetto di crescita e sviluppo più ampio, della semplice difesa dell’interesse immediato. A fronte di questa oggettiva debolezza, il tentativo della sinistra moderata di estendere l’alleanza a quanto rimane della soggettività di classe organizzata, stendendo una patina vagamente socialdemocratica su un progetto politico di tipo liberale, risulta un elemento ulteriormente contraddittorio, che rende il progetto meno credibile per i settori di ceto medio culturalmente di destra, e soprattutto meno affidabile per quella parte della borghesia italiana cosciente, che non c’è più alcuno spazio in Europa per suggestioni socialdemocratiche: così temi come quelli della difesa dei diritti del lavoro, del welfare, della stessa difesa della Costituzione, pur presenti nella rappresentazione della sinistra moderata, si riducono a richiami rituali, impegni subordinati ad altre priorità, usati strumentalmente nel tentativo di cooptare in un piano di riorganizzazione del capitalismo italiano, anche settori di classe. Sull’altro versante, dopo la stagione dei governi tecnici dei primi anni ‘90, che comunque collocano in termini definitivi il paese nel solco della costruzione europea, la velleità di potersi svincolare dalle dinamiche europee e mantenere un più ampio margine d’autonomia, si coagulano intorno alla figura di Berlusconi, che oltre a mettere insieme il disagio leghista dei ceti medi del nord, e gli interessi dell’economia criminale del sud, è espressione di quella parte della borghesia italiana legata alle rendite di posizione monopolistiche, sia pubbliche che private, che hanno bisogno di tempo per ricollocarsi in un nuovo quadro economico internazionale. Il berlusconismo non è esplicitamente antieuropeo, semmai può dirsi “aeuropeo”, nel senso che disattende ad ogni occasione indirizzi e direttive europee, divenendo di fatto un elemento di ritardo e di intralcio della costruzione europea. Al di là del diverso atteggiamento sui temi imposti dall’Europa, comune ad entrambi gli schieramenti è l’approccio ai principali temi economici: centralità del sistema imprenditoriale e affidamento ad esso delle scelte


19 di sviluppo, prevalenza della sfera privata su quella pubblica nell’ambito dei servizi sociali, riduzione delle garanzie del lavoro come soluzione ai problemi occupazionali, riduzione della pressione fiscale per rilanciare gli investimenti privati. In ambito politico istituzionale per entrambi gli schieramenti il tema della governabilità è prevalente su quello della rappresentanza, ne effettive distanze ci sono in politica estera (salvo una più coerente disponibilità filoatlantica e filoeuropea del centrosinistra). In sostanza se dovessimo usare le categorie di destra e sinistra in relazione alla vicinanza ad un punto di vista di classe, faticheremmo a cercare una sinistra, mentre invece forte sarebbe il dubbio di trovarci di fronte a due diversi tipi di destra. La possibilità di utilizzare il concetto di sinistra al progetto politico di cui si sono fatti portatori prima il PDS poi i DS, è strettamente legata all’uso di questo termine in relazione alla dialettica politica interna alle dinamiche della borghesia, laddove il punto di discrimine più che sui temi economici e sociali, passa per i diritti civili, il rapporto tra poteri centrali e locali, la laicità dello stato, i rapporti tra politica e magistratura, il riferimento ai valori e ai diritti universali, sanciti dalla democrazia liberale. Queste sono le opzioni politiche, tutte interne al fronte borghese, che hanno agito la scena politica in Italia, contendendosi il controllo di quella quota di ceto medio oscillante tra l’una e l’altra ipotesi, mentre pezzi sempre più consistenti di società, escluse da entrambi i progetti politici, venivano espulsi dalla scena politica o costretti ad autoescludersi. L’alternarsi dei due diversi schieramenti al governo del paese, tutto giocato su temi propagandistici e di facile impatto mediatico, ha di fatto messo in secondo piano il vero e unico processo reale intorno a cui si è determinato la politica italiana: lo scontro tra diversi settori della borghesia italiana, sul tema della costruzione di uno spazio politico ed economico europeo, che è il nuovo contesto dei processi di valorizzazione del capitale e del ridefinirsi dei rapporti tra le classi. L’ESPULSIONE DEL LAVORO DALLA SCENA POLITICA Nello scenario politico tutto caratterizzato dallo scontro tra diverse opzioni e interessi interni al fronte borghese, nel quadro dell’agenda dettata


20 dai processi di integrazione europea, il ruolo della classe, intesa come i diversi comparti del mondo del lavoro sia dipendente che autonomo, appare marginale sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi, e ciò malgrado la scena sociale sia tutt’altro che pacificata e che a più riprese, negli ultimi vent’anni, conflitti significativi e imponenti movimento di massa abbiano agitato la scena sociale. Tale condizione di debolezza si spiega con il fatto che le tendenze e le ragioni strutturali, che avevano determinato la riduzione del potere contrattuale e la conseguente riduzione di potenzialità egemonica della classe, nel corso della fase critica a cavallo tra gli anni ‘70 e 80, non solo permangono ma addirittura si rafforzano, nel quadro dei vincoli imposti dal processo di costruzione europea, e alla luce della concorrenza internazionale frutto della globalizzazione. Nel mondo del lavoro dipendente classico, legato alla media e grande impresa privata, ancora in buona misura regolato dal Contratto Collettivo Nazionale, il rapporto tra domanda e offerta di lavoro continua ad essere squilibrato, la disoccupazione costantemente al di sopra degli standard fisiologici, e la crescita economica insufficiente, corrispondente di fatto ad una sostanziale stagnazione; ciò determina un quadro di complessiva insicurezza, che non può ovviamente produrre alcuna spontanea rivendicazione sui temi salariali e dei diritti; al contrario tale insicurezza predispone all’accettazione rassegnata della politica sindacale di capitolazione concertata, sempre presentata come “danno minore”, rispetto alla catastrofe prodotta dalla crisi del sistema di rapporti di produzione dato, presentato come l’unico possibile, senza alternative. In aggiunta i costanti processi di ristrutturazione e frammentazione del processo produttivo, la liberalizzazione del mercato del lavoro, che aprendo a nuove forme contrattuali crea disparità di condizioni tra lavoratori dello stesso comparto e dello stesso sito produttivo, la minaccia di essere espulsi da un mercato globale sempre più competitivo, sono tutti elementi strutturali di indebolimento, che si traducono in un atteggiamento difensivo, frutto della “realistica“ presa d’atto di un’assenza di alternative. Tale “realismo”, si traduce sul piano politico ed elettorale nella presa d’atto dell’inesistenza sulla scena politica, di un partito che rappresenti il


21 lavoro e che abbia un progetto generale ed una politica industriale basato su di esso; quindi la delega a quel soggetto che di volta in volta sembra il più adatto a garantire il proprio interesse particolare, sia perchè più “forte” (il voto operaio a Berlusconi), sia perchè legato ad una comunità locale (il voto operaio alla Lega), sia perchè “responsabile” (il voto operaio al centro-sinistra), sia perchè più “conflittuale” (il voto operaio alla sinistra radicale). L’aspetto centrale è che in questo settore sociale, che nei decenni precedenti aveva espresso il voto più stabile, vincolato ad una precisa scelta di campo, tendenzialmente ideologico, oggi prevalgono scelte più aleatorie e instabili. Nel settore dei dipendenti pubblici, il tema centrale è quello del ruolo del welfare, tema sul quale la politica ha rinunciato a cimentarsi, per limitarsi a discutere della sua sostenibilità. E’ proprio il tema della sostenibilità economica del sistema di welfare, uno degli elementi di connessione tra il progetto di modernizzazione capitalistica del centro-sinistra e il vasto comparto del Pubblico Impiego. A fronte di un centro-destra pregiudizialmente ostile alla sfera pubblica (salvo la difesa corporativa di specifiche nicchie clientelari), la relazione tra il mondo dei dipendenti pubblici, scuola e sanità in particolare, con quel centro-sinistra tradizionalmente schierato a favore del welfare è tendenzialmente naturale, salvo dover poi prendere atto, che lo schierarsi a favore in linea di principio, non si traduce in scelte conseguenti. Di fatto i principi restano subordinati ai vincoli imposti dal prioritario progetto di modernizzazione capitalistica, e ai tagli, alla precarizzazione e alle privatizzazione che esso impone. Anche in questo caso il mondo del lavoro si rapporta alla politica, sulla base della valutazione del “minor danno” possibile, senza che la politica sia in alcun modo in grado di rappresentare le istanze di questo settore. Fuori da questi due grandi comparti del mondo del lavoro, c’è la jungla dei settori a bassa professionalità, edilizia, pulizie, commercio, logistica, caratterizzati da una frammentazione pulviscolare del sistema imprenditoriale, dal meccanismo ricattatorio dei subappalti, investito massicciamente dalla precarietà e dal lavoro nero, quasi totalmente non sindacalizzato, depresso dall’arrivo in massa di manodopera migrante a basso costo. Sono questi i settori la cui espansione ha più goduto della progressiva “deregulation” del mercato del lavoro, un ambito privilegiato


22 della valorizzazione del capitale, basti pensare a settori come l’edilizia, la grande distribuzione, il turismo, complessivamente meno esposti ai rischi della competizione internazionale, strutturalmente predisposto alla flessibilità per le fluttuazioni produttive stagionali. Qui dove una condizione ottocentesca di “proletariato” pare ritrovare la sua modernità, qui dove è possibile trovare i giovani, le donne, i migranti, semplicemente la politica non arriva, di esso non si cura e in conseguenza di ciò in questo settore del mondo del lavoro, la partecipazione alle dinamiche politica ed elettorale è quasi nulla o al più legata a contingenti suggestioni mediatiche, o peggio alle tradizionali dinamiche clientelari. Un discorso analogo vale per un altro frammento di classe, quel lavoro autonomo e parasubordinato, spesso ad alta competenza professionale e tecnologica, nei settori delle comunicazioni, informatico, immobiliare, che si sviluppa nel corso degli anni ‘80 in totale assenza di garanzie collettive, e anzi proprio nel quadro di una concorrenza individuale spesso parossistica. Dopo aver goduto degli effetti della fase espansiva degli anni ‘80, e soprattutto di mercati nuovi ancora integri e ricchi di opportunità, nel corso degli anni ‘90 i lavoratori di questo settore devono prendere atto del ridimensionarsi di tali opportunità, e misurarsi con la realtà di una condizione di precarietà totalmente dipendente dalle incertezze di un mercato stagnante. In questo settore del mondo del lavoro, in cui l’età media è più bassa, più alti sono i livelli di scolarizzazione, la distanza dalla politica è vissuta con disincanto, senza alcuna attesa ne delusione. Gli anni ‘90 segnano la definitiva divaricazione tra mondo del lavoro e rappresentanza politica; il lavoro che per buona parte del ‘900 era riuscito a rappresentarsi come un organico corpo di interessi sulla scena politica, interagisce con la dimensione politica in modo disorganico, frammentato, tendenzialente corporativo, o semplicemente rinuncia del tutto a qualsiasi forma di relazione, compresa la partecipazione al voto. Da parte della politica il tema del lavoro viene enunciato solo in relazione a quello prioritario dell’impresa, a cui di fatto è considerato dipendente e subalterno. Sono passati 50 anni dalla scrittura della Costituzione che recita “L’Italia e una Repubblica fondata sul lavoro”, meno di 20 da quando il tema della “classe operaia che si fa stato”, appassionava gli intellettuali, la devasta-


23 zione non poteva essere più completa, e si è prodotta per la travolgente forza del capitale di distruggere e rielaborare ogni rapporto sociale in funzione della sua valorizzazione. La fase storica che aveva permesso un progressivo avanzamento della condizione della classe, dei suoi diritti e del suo benessere materiale, nel quadro delle compatibilità del capitale, si chiude e con essa si archivia definitivamente, l’impianto politico che aveva permesso alla classe di operare in quella fase. Ma il ridursi dei margini di compatibilità che possono permettere avanzamenti parziali della classe, non implica una difficoltà del capitale ad esercitare una forza egemonica e costruire un suo blocco sociale, anzi tutt’altro. Forte della crescita trainata dai nuovi mercati della globalizzazione, oltre che della grande quantità di valore sottratto al lavoro, il capitale continua a mantenere la capacità di riproduzione dei rapporti sociali, tale da renderlo ancora in grado di produrre egemonia e consenso, non più a partire dalla sua capacità di rispondere ad aspettative di avanzamento sociale e di progresso civile, ma solo per le opportunità di soddisfazione di egoismi individuali che offre. Questa dimensione meramente autoriproduttiva, che già segnala l’imminente esplodere della crisi, è particolarmente evidente in Italia, dove la stagnazione economica, dovuta agli elementi di arretratezza di cui il berlusconismo è espressione, impediscono di cogliere le opportunità che nel corso degli anni ‘90, offre la globalizzazione.

IL PRC E LA CRISI E’ questo il contesto generale nel quale va collocata la vicenda del PRC, un partito che nasce in conseguenza dell’esaurimento e del fallimento della strategia politica con cui il PCI aveva affrontato la nuova fase del capitale, successiva alla crisi del modello fordista, e le risposte messe in campo per affrontare tale crisi; l’altro tema fondativo del PRC, è la critica all’inadeguatezza del modello del “socialismo reale”, e la necessità di riaffermare una nuova visione del socialismo, tema però più evocato che affrontato. Ma l’ambizioso impegno di “rifondare” la pratica e il pensiero comunista per affrontare i problemi della nuova fase del conflitto capitale-lavoro, lascia subito il campo ai contingenti problemi di sopravvivenza sulla scena


24 politica ed elettorale del soggetto appena nato. Così da subito il PRC si attrezza per occupare uno spazio elettorale e politico, quello della rappresentanza del lavoro e di una classe, che abbandonata dai suoi alleati , priva di una prospettiva strategica e di capacità egemonica, ha ancora una sua consistenza e una sua spendibilità in termini di consenso elettorale. Forte di un “marchio” ancora prestigioso, il PRC vive buona parte della sua vicenda politica, nel dilemma tra la prudente amministrazione di una rendita elettorale, da investire nel tentativo di difendere la propria base sociale dalla crisi e dai processi ristrutturativi del capitale, e mantenere così un ruolo politico ed elettorale, e la comprensione che i termini della crisi sono tali da restringere progressivamente compatibilità e spazi di contrattazione, e che senza la ridefinizione di un nuovo orizzonte strategico, il Partito è condannato all‘irrilevanza. Questo dilemma è tutto interno alla base sociale del PRC, costituita da vari frammenti della variegata composizione di classe, in cui prevalente risulta il mondo del lavoro dipendente tradizionale, ma in cui trovano prima rappresentanza politica, anche i frammenti più coscienti della nuova soggettività di classe precaria, oltre che quei settori di ceto medio con una visione meno miope dei loro interessi. Questa aggregazione, che tendenzialmente potrebbe essere la rappresentazione embrionale di un blocco sociale tutto da costruire, non è unificata però dall’individuazione di una chiara soluzione ai diversi bisogni sociali, nel quadro di un comune progetto di società, ma solo dalla necessità di una comune resistenza e della ripresa del conflitto, contro l’attacco della borghesia. Nodi cruciali, quali il rapporto tra reddito e lavoro, tra pratiche di autorganizzazione sociale e ruolo dello stato, centralità operaia e nuove soggettività conflittuali, difesa delle istituzioni rappresentative o necessità del loro superamento verso la democrazia partecipativa, rimangono sullo sfondo di un dibattito, che dopo la crisi del socialismo reale, non ha più precisi e concreti riferimenti; neanche sul tema sindacale c’è la minima possibilità di unificazione, e la frammentazione delle scelte sindacali in seno al PRC, è la conseguenza della frammentazione dei vari settori della classe, che nemmeno nel Partito trovano un organico elemento di riunificazione.


25 Il PRC di fatto è il luogo in cui si riuniscono tutte le debolezze e tutti i limiti di una classe sconfitta, ma non domata, incapace di costruire egemonie e alleanze sociali, ma irriducibilmente legato alla difesa della propria condizione e della propria identità. Tutto ciò fa del PRC il “partito della classe”, della classe così come è, con i suoi limiti e le sue potenzialità. Con questi limiti, che sono i limiti dei soggetti sociali che rappresenta, il PRC deve subito misurarsi con un dilemma irrisolvibile: da un lato c’è un’analisi della crisi che individua la progressiva riduzione dei margini di compatibilità del capitale, il ridursi della possibilità di raggiungimento di obbiettivi parziali in termini di salario, diritti sociali e spazi di agibilità democratica; dall’altro c’è la velleitaria speranza di riaffermare il ruolo di una sinistra di classe, nel quadro delle dinamiche politiche, istituzionali ed elettorali, così come aveva fatto il PCI nei suoi anni migliori. Malgrado il richiamo alla “Rifondazione”, che non va dimenticato fu accolto con ostilità dalla metà dei delegati al congresso fondativo, il PRC dei primi anni è più legato alla difesa di un’esperienza del passato, che alla ricostruzione di una prospettiva futura; il reale ancoraggio ad un punto di vista di classe, che sul lungo periodo garantisce al PRC una duttilità in grado di farlo sopravvivere ad ogni sconfitta, nell’immediato si traduce in un appiattimento sui livelli di “coscienza della classe”, imprigionata nel solco di quell’impianto strategico, il cui esaurimento era stata la causa della crisi del PCI. E’ in questo quadro che si colloca un approccio al tema della crisi del capitale e dei suoi processi di ristrutturazione, che piuttosto che cogliere le nuove contraddizioni che essa produce, si attarda nella difesa di assetti strutturalmente superati dai nuovi rapporti di produzione; questa scelta, che ha una sua autentica e concreta ragion d’essere, proprio nella necessità di rappresentare e difendere quegli interessi di classe che costituiscono ancora la base sociale ed elettorale del Partito, prevale sulla necessità di concepire una costruzione strategica che sia in grado di offrire una prospettiva reale, e non puramente difensiva, alla classe, offrendo poi tale prospettiva strategica, come base per la costruzione di nuove alleanze so-


ciali.

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Il tema politico irrinunciabile per un partito comunista, dell’orizzonte progettuale nel quale far vivere la sua iniziativa politica, che porrebbe la necessità di individuare, nella stessa dinamica dei processi ristrutturativi del capitale, i soggetti e le pratiche su cui ricostruire una strategia alternativa, non è presente nel dibattito del Partito. La semplice considerazione dialettica del nesso tra dinamiche e trasformazioni del ciclo produttivo e il prodursi di nuove contraddizioni, nuove soggettività sociali, nuove esperienze, viene messa da parte a fronte di una velleitaria e roboante “opposizione” alla ristrutturazione capitalistica (dei processi produttivi, del welfare, delle istituzioni), che si traduce di fatto nella mera rappresentanza nelle istituzioni, dei timori e dei malesseri di una classe, ancora non in grado di interpretare la realtà della crisi, e quindi di individuare risposte all’altezza del livello dello scontro. Riempire il gap tra livelli di coscienza della classe, appiattita nella impossibile difesa di una condizione superata dal modificarsi dei rapporti di produzione capitalistica, e quelli che sono i suoi compiti di fase, la costruzione di una credibile alternativa, da far vivere nella società, prima ancora che nelle istituzioni: essere Partito, luogo della coscienza politica dei settori più avanzati della classe, non semplicemente rappresentazione del complesso delle sue debolezze. L’incapacità di misurarsi con tale livello del problema, non è problema imputabile a singoli dirigenti, ma è nel complesso responsabilità di ogni singoli militante, tutti più o meno partecipi di una cultura politica, in cui il tema della “difesa e della sopravvivenza” del Partito, è stato prevalente rispetto alle ragioni della sua esistenza. Diversamente da un partito rivoluzionario, che nel concreto rapporto con la realtà e alla luce di una rigorosa analisi della fase definisce i suoi compiti, il PRC, nato come “difesa” di una identità “di Partito”, subordina ogni scelta politica, prima ancora che alla sua “utilità” nel quadro di una strategia, alla sua “opportunità” in relazione alla sopravvivenza del Partito, sopravvivenza che si ritiene vincolata alla presenza nelle istituzioni. La parabola del Partito, che si articola in varie fasi, giunge al suo esito più traumatico con la sconfitta elettorale del 2008, quando il tema della utilità sociale e politica del Partito, si impone ineludibile nel dibattito in-


27 terno, mentre ci si adatta a far vivere il Partito, anche a prescindere dalla sua presenza nelle istituzioni.

DALLA NASCITA DEL PRC, ALLA ROTTURA CON IL I GOVERNO PRODI La prima fase della storia del PRC, che si esaurisce con la caduta del I governo Prodi, vede il Partito impegnato in una azione meramente difensiva della condizione di classe, che si esplica in una politica “frontista” di alleanza elettorale, legittimata anche dai rischi rappresentati da una destra mafiosa ed eversiva; il ruolo che il Partito si assegna è quello di garantire la difesa dei diritti del lavoro e del welfare, nel quadro di coalizioni, la cui prospettiva strategica era proprio la distruzione dei diritti del lavoro e del welfare. Con una felice metafora, molti anni fa un compagno definiva questa scelta “essere il vagone di estrema sinistra, di un treno che viaggia a destra”; tale impianto, anch’esso riconducibile al tema della “riduzione del danno”, aveva come unica ragion d’essere la possibilità di condizionamento delle coalizioni, derivante da una piccola rendita elettorale; d’altre parte tale rendita elettorale, dopo la fine del proporzionale, era possibile solo nell’ambito della coalizione, per cui prima ancora di poter condizionare la coalizione, era la coalizione ad esercitare un effettivo condizionamento sul Partito. Questo impianto, che ha garantito la presenza nelle istituzioni del PRC, ne rappresentava contestualmente l’assenza di qualsiasi orizzonte strategico, condannando il Partito ad un declino lento, che coincideva con il lento declinare della forza della sua base sociale nel mondo del lavoro dipendente classico; in continuità con il PCI e i suoi limiti, il PRC non riesce ad andare oltre la rappresentanza di quel pezzo del mondo del lavoro dipendente, che subisce le conseguenze della crisi e della ristrutturazione, senza nemmeno offrire quell’illusione di orizzonte progettuale, basato su crescita e sviluppo economico, in una prospettiva di rilancio europeo e internazionale, sul quale la sinistra moderata costruiva il suo blocco sociale, e cooptava settori della stessa base sociale del PRC. Con la fine del I governo Prodi e il pieno dispiegarsi della segreteria di Bertinotti, si attua un primo tentativo di uscire da un ruolo tendenzialmente


28 residuale per riaprire un più ampio orizzonte strategico: la richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, il tema della patrimoniale, rappresentano il coerente, seppur forse velleitario, tentativo di uscire dal ghetto della difesa dell’esistente, tentando di riaprire una timida prospettiva di trasformazione. Tale tentativo sconta subito una prima lacerazione in seno alla base sociale del PRC, di cui la scissione del PdCI è la rappresentazione politica; settori significativi di classe che si erano affidati al PRC, nella speranza di ricostruire un argine all’offensiva padronale, considerano la scelta del PRC di uscire dal governo Prodi, un tradimento imperdonabile, data l’impossibilità, stante i rapporti di forza dati, di andare oltre quella politica di “riduzione del danno”, oltre la quale c’è solo il baratro di una crisi, in cui “a pagare saranno i più deboli”. E’ il punto di vista di settori di classe tradizionali, la cui relazione con il PRC si basava sull’equivoco, mai sciolto, della continuità tra PCI e PRC, ma è anche l’indicatore di come nella classe, anche nei settori più coscienti e determinati, manchi quasi totalmente una comprensione della fase e dei compiti che essa impone. Non casualmente la scissione del PdCI trova consensi principalmente nel mondo del lavoro dipendente classico, e in particolare in quello che si organizza nella CGIL, quei settori che ancora possono difendere qualche residua garanzia, che gran parte del mondo del lavoro ha ormai perso.

IL PRC DI BERTINOTTI NELLA NUOVA STAGIONE DI CONFLITTO SOCIALE La rottura con il governo Prodi è comunque la chiave di volta che permette al PRC di aprire una nuova fase della sua vicenda, caratterizzata dalla relazione con i movimenti sociali contro la globalizzazione e la guerra. Proprio l’emergere di questi movimenti, segnala un primo limite nella capacità di risposta alla crisi da parte del capitale: dopo la crescita degli anni ‘80, fondata sulla sconfitta operaia, trainata dall’indebitamento pubblico e privato, e dall’esplodere delle tecnologie informatiche, dopo il ciclo espansivo globale, successivo al crollo del muro di Berlino, che aveva fatto teorizzare la “fine della storia” e il “capitalismo come unico orizzonte possibile”, proprio lo sviluppo della sua dimensione globale, pone il problema dei limiti del modo di produzione capitalistico, della sostenibilità di tale modello dal punto di vista economico, sociale e ambientale.


29 Il ‘900 finisce e il nuovo millennio inizia, con un dato di novità epocale: per la prima volta la critica al sistema capitalistico, non parte dai soggetti investiti dalla contraddizione capitale-lavoro, o in ogni caso tali soggetti non compaiono come i protagonisti primari, ma da una quantità di soggettività diffuse e particolari, che mettono in discussione il modello economico del capitale, ognuno a partire dalla sua specificità, ma tutte nel quadro di una visione comune. Quasi simbolicamente il movimento nasce negli Stati Uniti, a Seattle, nel primo tra i paesi a capitalismo avanzato, e finisce a Genova in Italia, nell’ultimo dei paesi a capitalismo avanzato. Poi quella stessa estate, l’11 settembre, e lo scatenarsi della guerra globale, è la risposta lucida di un capitalismo che a fronte di una crisi di egemonia irrisolvibile, mostra il suo volto reale, quello della guerra come unico strumento di mantenimento del suo dominio. Il movimento No Global, estirpato negli Stati Uniti, nel mondo si trasforma nel Movimento per la Pace, con un impianto difensivo e privo della determinazione sovversiva della fase precedente. E’ comunque un punto di svolta: se la funzione storica di una classe è quella di interpretare lo sviluppo delle forze produttive, e quindi produrre ricchezza, coesione sociale ed egemonia, per la borghesia occidentale, l’11 settembre è l’inizio della fase discendente della sua parabola. Il manifestarsi di tale elemento di crisi strutturale è, nello scenario italiano, la prima occasione, dopo vent’anni di arroccamento senza prospettive, per ricollocare un punto di vista e una sinistra di classe, nel quadro di una più vasta alleanza sociale, aprendo il tema della rappresentanza politica della contraddizione capitale-lavoro, alle nuove contraddizioni generate da un capitalismo ormai all’apice della sua maturazione. Temi generali quali il futuro, la pace, l’ambiente, i diritti individuali e collettivi, la democrazia, che parlano all’intera società, e ai quali il capitale non è in grado di offrire risposte e soluzioni, divengono il terreno di una possibile ricostruzione di un blocco sociale alternativo. Tale opportunità per essere adeguatamente sfruttata, dovrebbe però prevedere un livello di coscienza della classe, tale da farsi interprete di una


30 critica globale al modello di sviluppo, ponendo al centro di essa la irriducibilità della contraddizione tra capitale e lavoro; tale opportunità è significativamente colta dai settori più organizzati e coscienti del mondo del lavoro, dalla FIOM ai sindacati di base, e la stessa CGIL viene in parte coinvolta. Si riapre una stagione caratterizzata da imponenti manifestazioni di piazza, che vedono la contaminazione tra soggetti diversi, e la possibilità di ricollocare il tema del lavoro, e quindi del ruolo della classe, nel quadro di una prospettiva non subalterna alle dinamiche del capitale. Tale possibilità viene esperita con il referendum per l’estensione dell’art.18 nel 2003, lanciato dopo che su questo tema si era prodotto un argine unitario di gran parte della sinistra, contro il tentativo di Berlusconi di eliminare lo stesso articolo. E’ il tentativo di riunificare il mondo del lavoro frammentato e disperso, intorno ad un diritto primario e fondamentale, puntando contestualmente a ribaltare o almeno a ridefinire, i rapporti di forza tra sinistra radicale e sinistra moderata, presentandosi come referente politico di un mondo sindacale che già inizia vivere una crisi di rappresentanza politica. L’operazione, forse viziata di politicismo, fallisce: la CGIL, che poco tempo prima aveva alzato la bandiera della difesa dell’art.18, portando in piazza tutta la sua forza e raccogliendo intorno a se un vasto fronte sociale, quando si tratta di passare dalla difesa del quadro esistente, alla messa in discussione dello stesso quadro, si sottrae e boicotta il referendum. A ciò si aggiunge il forte arretramento di un mondo del lavoro che, soprattutto nelle piccole imprese dove l’art.18 non vale, ha introiettato la percezione, che la difesa delle sue condizioni (e del suo posto di lavoro), è possibile solo nel quadro delle compatibilità dell’impresa; il tema poi risulta estraneo a quei vasti settori di classe, nati in un contesto di lavoro nero e precario, in cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato è praticamente inesistente e l’art.18 sostanzialmente ignoto; il vasto astensionismo segnala, che senza una proposta capace di riattivare questo consistente settore di classe, il tema del lavoro non può tornare ad assumere centralità. La sconfitta nel referendum segnala, ancor più di quella di vent’anni prima sulla scala mobile, la condizione di una classe che, frammentata e disgregata, non solo non riesce più a presentarsi all’esterno come “sog-


31 getto generale” della trasformazione, ma non è neanche in grado, al suo interno, di cogliere con chiarezza il valore di un comune obbiettivo minimo. D’altra parte il voto referendario segnala il fatto non scontato, che malgrado anni di sconfitte che hanno lacerato il tessuto della classe, c’è ancora la massa critica sufficiente per riprendere le fila di una tessitura sociale, sindacale e politica, in grado di riaprire uno spazio all’alternativa: 10.000.000 di voti ottenuti, in una campagna difficile, osteggiata dai media e condotta in solitudine dal PRC e dagli altri soggetti della sinistra radicale, sono un risultato che va ben al di là del bacino elettorale del PRC, e seppure è evidente che la scelta referendaria non può immediatamente tradursi in scelta politica o elettorale, è altrettanto vero che puntando sui temi del lavoro, è possibile contendere alla sinistra moderata, l’egemonia che ancora esercita verso significativi settori di classe. La sconfitta al referendum è comunque un passaggio dirimente: su un tema di estrema concretezza, ma anche di grande valenza simbolica, la rottura interna al fronte della sinistra è stata netta e senza possibilità di ricuciture. Messi di fronte all’obbligo di fare una scelta, i DS e gran parte della CGIL, si sono schierati con il fronte padronale, sulla base dell’assioma ormai presentato come indiscutibile, che il lavoro si difende, difendendo l’impresa; il tentativo di composizione degli interessi di capitale e lavoro, nel quadro di una ipotesi di ammodernamento e crescita economica, non può darsi se non deprimendo i diritti dei lavoratori: tali diritti sono incompatibili con la crescita economica, quindi tali diritti sono incompatibili con il progetto politico dei DS, anche se ciò significa il rischio di una lacerazione con quei milioni di lavoratori che, malgrado l’indicazione negativa del Partito, si recano comunque alle urne. In condizioni normali, a fronte di un simile passaggio politico, ci si sarebbe dovuto attendere, da parte di una forza politica di classe, una serie di scelte abbastanza ovvie: valorizzazione del risultato referendario, da sedimentare in termini di costruzione sociale e sindacale sui territori e sui posti di lavoro; accentuazione della battaglia politica verso la sinistra moderata, al fine di acuire la lacerazione prodottasi tra essa e la sua base sociale nel mondo del lavoro; abbandono di ogni ipotesi di alleanza elettorale


32 a livello nazionale, anche a costo di scontare l’esclusione dal Parlamento, il tutto finalizzato alla possibilità di proporre una alternativa credibile e coerente, ad un progetto di centro-sinistra velleitario, e destinato a mostrare la corda non appena posto al vaglio della realtà. Questo in condizioni normali, ma l’Italia non è un paese normale. Qui governa Berlusconi, insieme ad una destra mafiosa e tendenzialmente eversiva, non intaccata nel suo insediamento sociale, anche grazie alla scellerata gestione del passaggio dalla lira all’euro, che si sostanzia in un trasferimento di ricchezza dal mondo del lavoro dipendente, a quello del lavoro autonomo, del commercio, delle professioni e della rendita immobiliare, attraverso un aumento esponenziale dei prezzi al consumo, dei canoni e del valore degli immobili. Qui arretratezza e modernità convivono, in qualche misura anticipando quelle modalità di espressione del capitalismo, che nel frattempo si vanno producendo nei paesi che sono i nuovi protagonisti della globalizzazione economica: da un lato una gestione del potere e del consenso di antico stampo familistico e mafioso, dall’altra una spregiudicata e moderna manipolazione dei media, che permette la cooptazione di quei soggetti di classe più deboli, meno coscienti e non raggiunti da alcuna forma di organizzazione collettiva; a ciò va aggiunto l’impianto populistico e autoritario, che anticipa una tendenza ormai globale, alla sostituzione delle forme della democrazia del ‘900, con un plebiscitarismo di grande impatto mediatico; infine la capacità di coniugare la modernissima vocazione allo smembramento della dimensione pubblica, in linea con i dettati del neoliberismo internazionale, con l’uso spregiudicato della crescita del debito pubblico e dell’evasione fiscale, cementando in un unico blocco sociale, chi dal ritrarsi dello stato ci guadagna, insieme a chi, alla fine, ci rimette. Il berlusconismo “di governo” è la traduzione in salsa italiana, di un capitalismo occidentale che fatica sempre più a gestire le sue contraddizioni, ed è obbligato a rinunciare a quell’immagine di agente del progresso economico mondiale, che era stata la base ideologica della sua espansione negli anni precedenti, subito dopo la fine dell’URSS; così per mantenere una residua capacità di consenso e coesione del suo blocco sociale, il capitale si ricompatta intorno alle paure e alla difesa da un nemico esterno (il fondamentalismo islamico, la competitività cinese, i migranti afri-


33 cani...), e reagendo con la guerra. La capacità del capitale di riprodurre i rapporti sociali che lo tengono in vita, esaurita le opportunità della prima fase della globalizzazione, si riduce all’essenzialità dei rapporti di forza militari con cui gli Stati Uniti impongono l’ordine mondiale. Qualcosa di analogo accade in Italia, fortunatamente in modo incruento, dove il berlusconismo ha ormai esaurita la sua prima fase, quando intorno alla novità di Forza Italia si coagulano tutte le speranze di crescita del paese, prodottesi nell’artificiale fase espansiva degli anni’80, e governa il paese nel discredito più totale, senza alcuna capacità attrattiva; ciò che ancora lo fa forte sono i timori di un blocco sociale che della globalizzazione e dei processi di integrazione europea, comincia a vedere più i rischi che le opportunità, e si ricompatta intorno alla difesa di interessi immediati e meschini, timorosa delle ragioni del cambiamento, che con l’emergere del conflitto sociale, bussano alla porta. A fronte di questo avversario, e malgrado la frattura prodotta dall’esito del referendum sull’art.18, la possibilità di una rottura con il centro-sinistra, non viene presa in considerazione non solo all’interno del PRC, ma nell’esteso e variegato arcipelago della sinistra sociale e sindacale. Si sacrifica sull’altare della prioritaria necessità di sconfiggere Berlusconi, nella speranza di riaprire una dinamica politica stagnante e ingessata, sia il risultato politico rilevante ottenuto con l’aggregazione intorno alla battaglia referendaria, sia le grandi mobilitazione per la pace, che avevano visto costituirsi un grande e variegato fronte sociale, e che vengono smentite nella partecipazione ad una coalizione elettorale, che non mette in discussione la politica estera filoatlantica dell’Italia. Le elezioni del 2006 che giungono alla fine di un ciclo di protagonismo dei movimenti sociali, quali non s’era mai visto nei vent’anni precedenti, sono il punto d’arrivo di una domanda di cambiamento che giunge da una quantità di soggetti del conflitto. Tale ciclo pur essendo collocato nel quadro di dinamiche internazionali, con il movimento No Global prima, quello pacifista poi, ha specifiche caratteristiche nazionali e vede l’emergere di nuovi soggetti: un nuovo protagonismo del mondo del lavoro, con una più forte visibilità e caratterizzazione politica della FIOM e l’emergere del sindacalismo di base, le nuove conflittualità metropolitane, dove la


34 battaglia dei centri sociali si allarga ad investire il tema della casa (Disobbedienti, Action), il mondo ambientalista, ampi settori di ceto medio e intellettualità diffusa, insofferenti della cappa berlusconiana. Un contesto variegato, che le “due sinistre”, dovrebbero rappresentare in una coalizione e in un progetto di governo, che si allarga fino a settori di centro, cooptati per mere ragioni di opportunità contingente. Una coalizione la cui unica ragion d’essere, sta nella forza elettorale che può raccogliere e negli eletti che può ottenere. Una coalizione che rimanda i nodi irrisolti, ad una dialettica parlamentare tra le forze che la compongono, contando su una maggioranza vasta, ottenuta attraverso il premio di maggioranza, che può permettere margini di manovra ad ogni singola componente, nell’interpretazione dell’imponente patto programmatico dell’Unione. Ma questo precario progetto si scontra con la capacità di reazione di un berlusconismo capace quasi di ribaltare sondaggi e previsioni, ricompattando la sua base elettorale. Il risultato risicatissimo al senato, dove di fatto la maggioranza è sotto scacco, diviene quindi una gabbia, in cui il PRC rimane intrappolato senza margini di manovra, con la sola alternativa tra il subire l’iniziativa delle forze moderate, o il far cadere il governo una seconda volta, esplicitando di fronte al paese la totale inconsistenza della sua prospettiva strategica. E’ nella divisione quasi verticale all’interno del PRC, tra la maggioranza bertinottiana, che punta alla partecipazione al governo e la minoranza grassiana, che propone di attestarsi sul semplice sostegno parlamentare, che vengono al nodo i limiti strategici del PRC. Nell’impianto di minoranza si ripropone l’approccio di prudente amministrazione della propria rendita elettorale, garantita dalla partecipazione alla coalizione, gestita come possibilità di interdizione nei confronti della sinistra moderata in termini puramente difensivi, ma non investita in un progetto di effettivo cambiamento del paese; dall’altro il velleitarismo politicista di un impianto, che punta a offrire risultati concreti alla domanda di cambiamento espressa dai movimenti di massa, confidando nella possibilità di allargare i sempre più ristretti margini di compatibilità economica, imposti dalle politiche di integrazione europea, attraverso una battaglia tutta interna alle


35 dinamiche istituzionali. Nell’un caso come nell’altro, la forza dei movimenti sociali, è solo finalizzata al posizionamento istituzionale, che rimane il terreno prioritario dell’iniziativa del Partito. L’illusione di poter garantire una risposta alla domanda di cambiamento messa in campo dai diversi soggetti sociali negli anni precedenti, attraverso una via tutta istituzionale, è l’espressione coerente di un Partito, che incapace di produrre nella società, gli elementi dell’alternativa, costruendo un più alto livello di integrazione tra i diversi soggetti e le diverse pratiche sociali, nel quadro di una propria visione della società, si limita a rappresentare tali pratiche e tali soggetti così come essi si esprimono, con la loro debolezza e frammentarietà, in un quadro in cui la delega elettorale e istituzionale, rimane come l’unico effettivo collante. La fine delle aspettative suscitate da tale delusione è devastante, e la base sociale ed elettorale, che aveva permesso al PRC di sopravvivere negli anni precedenti, ne esce divisa in modo lacerante: alle elezioni del 2008 il tema dell’antiberlusconismo e il “voto utile” da un lato, e quello della difesa degli interessi di classe e della rappresentazione delle istanze più avanzate dei movimenti sociali dall’altro, vengono definitivamente separati dal PD “a vocazione maggioritaria” di Veltroni, e il ricatto del “voto utile” viene esercitato in modo lucido e coerente, con l’introduzione delle soglie di sbarramento. La Sinistra Arcobaleno appare in questo quadro per quello che effettivamente fu, il tentativo di ricontrattare l’alleanza che Veltroni aveva sciolto, senza alcuna riflessione ne sulle cause oggettive di quella rottura, ne soprattutto alcun tentativo di cambiare strada rispetto ad una storia, la cui cifra più evidente, era stata la subalternità del piano della costruzione sociale e conflittuale, rispetto a quello della competizione elettorale e istituzionale.

IN BASSO A SINISTRA: IL PRC E I SUOI NUOVI COMPITI La vicenda del PRC dopo la sconfitta del 2008 e la catastrofica, ma in ultima analisi salutare, scissione di SEL, è storia di ieri e ruota tutta intorno a due temi: la progressiva, anche se lenta, interiorizzazione della fine, della fase delle coalizioni elettorali con il PD, e la necessità di ridefinire un nuovo ruolo del PRC, a partire dal radicamento sociale e dalla internità


36 nei conflitti e nelle pratiche di autorganizzazione. Lo slogan “in basso a sinistra”, che è stato la parola d’ordine intorno a cui il Partito aveva cercato di rilanciarsi, dopo la sconfitta elettorale e la scissione, tiene dentro queste due problematiche, laddove il concetto di “in basso”, definisce la priorità del radicamento sociale, quello di “a sinistra”, definisce la collocazione politica del Partito al di fuori dell’ambito del centro-sinistra. Queste due opzioni comunque, in se non rappresentano la panacea di tutti i problemi, e anche le aspettative prodottesi in seguito al cambio di rotta, vengono deluse nelle puntuali verifiche elettorali. Il tema del radicamento sociale, di cui la proposta di “partito sociale” è il cuore, viene agito all’inizio in termini generosamente volontaristici (la campagna del pane, la solidarietà ai terremotati in Abbruzzo, l’importantissima esperienza con i migranti a Nardò, la nascita di un circuito di GAP, il sostegno militante a presidi e picchetti operai), ma senza una strategia che collochi tali pratiche in una più ampia visione strategica, in cui i processi di mutualismo non sono solo pratiche propagandistiche o di resistenza, ma anche elementi di una visione alternativa di società. Non si comprende l’intrinseco valore politico di pratiche, che alla luce di un’analisi dei limiti delle esperienze di gestione centralizzata e burocratica prodotte dal socialismo reale, e della progressiva riduzione della funzione statale indotta dalle dinamiche del capitale, possono se non produrre almeno evocare, una nuova visione di società e una nuova idea di socialismo: un modello sociale, basato sull’integrazione tra un intervento pubblico in grado di definire gli indirizzi dello sviluppo attraverso il controllo dei settori strategici (infrastrutture, energia, comunicazione, servizi pubblici e sociali primari), in dialettica con dinamiche di autorganizzazione sociale ed economica e pratiche di autogoverno locale, che si producono direttamente nella società, a partire dal diretto protagonismo dei soggetti. La costruzione sociale, che dovrebbe essere il fine del “partito sociale”, e senza la quale il conflitto è privo di prospettiva, dovrebbe essere concepita come embrione della visione alternativa di società, e non solo finalizzata alla costruzione di un insediamento, il cui fine è il consenso


elettorale.

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Alla mancanza di questa visione d’insieme, corrisponde poi un atteggiamento nel corpo del Partito, spesso arretrato, in cui non si coglie il senso politico della proposta del “partito sociale”, relegandolo a pratica meramente solidale, se non assistenziale, la cui unica ragione è una aspettativa di consenso elettorale, che ovviamente viene delusa. C’è poi anche chi, non avendo ancora compreso di militare in un Partito il cui nome è “rifondazione comunista”, esprime una pregiudiziale ideologica rispetto a questa proposta, basata su una riproposizione acritica di un modello di socialismo, già superato dalla storia, dopo la fine dell’Unione Sovietica, in cui tutto si risolve nella funzione pubblica e statale, e le dinamiche di autorganizzazione sociale sono viste quasi con sospetto. L’altro corno del problema, quello della collocazione politica del PRC , al di fuori e alternativo al PD, viene agito dal Partito con determinazione a livello nazionale, ma non trova sulla scena politica interlocutori credibili, come dimostrano le vicende della Federazione della Sinistra e di Rivoluzione Civile, caratterizzate dal non aver sciolto il nodo delle ragioni di una collocazione elettorale esterna al centro-sinistra: se in funzione di una scelta strategica di alternatività al PD, o se per ragioni tattiche in funzione di una ricontrattazione dell’alleanza con il PD. Questo per quanto riguarda i nostri partner, ci sono poi i ritardi di un Partito che a livello locale, a volte per una aderenza a concrete dinamiche territoriali, alle volte per meno nobili ragioni, si attarda nell’ipotesi di coalizioni con il PD, che spesso non si realizzano proprio per volontà del PD: a Roma il ritardo con cui si è deciso di puntare sulla candidatura alternativa di Medici, non ha certo aiutato la campagna elettorale, ne ha offerto un immagine convincente della scelta del partito. Ma al di là dei limiti soggettivi, con cui tali temi sono stati affrontati, rimane il fatto che il cambiamento d’approccio successivo al congresso del 2008, non si è tradotto ne in risultati elettorali, ne in crescita politica e organizzativa del Partito, che anzi prima del risultato delle ultime europee, è stato al punto più basso della sua crisi.


38 Quali siano state le reazioni a questo fatto all’interno del partito è stata materia di ampia discussione in sede congressuale ed esula da questa riflessione, mentre invece rimane aperta la necessità di capire prima di tutto, se questi due temi ispiratori della nostra proposta politica, hanno trovato conferma nell’evolversi della situazione politica e sociale; altra domanda è quale sia la relazione tra tale proposta politica, e le condizioni e i livelli di coscienza dei soggetti sociali a cui questa proposta avanziamo. Si tratta in sostanza di comprendere prima di tutto se i compiti di fase che abbiamo individuato sono corretti, e quindi di capire come riempire il “gap” tra tali compiti e i livelli di coscienza della classe. Rispetto alla prima questione, l’individuazione dei compiti di fase, non c’è dubbio che almeno per quanto riguarda la scelta di puntare alla costruzione di una sinistra alternativa al PD, la risposta sia positiva: l’esito del PD renziano, l’accordo con Berlusconi, confermano ogni previsione; SEL, il PdCI e gli altri soggetti minori che in questi anni, hanno preferito puntare sul rapporto con il PD, sono in crisi e privi di prospettiva. Al contrario il PRC, che ha messo in relazione la sua analisi sulla fine di ogni prospettiva di condizionamento del centro-sinistra, con la scommessa di un’esigenza di rappresentanza politica di una sinistra sociale incompatibile con le politiche liberiste dell’Europa, ha avuto alcuni primi riscontri positivi. Già “Cambiare si può” aveva segnalato la possibilità di un nuovo incontro tra sinistra politica e sinistra sociale, sulla base di una collocazione alternativa al PD, poi tale possibilità ha avuto una nuova conferma con la L’Altra Europa. Senza fare dell’inutile ottimismo, è possibile affermare che la scelta di costruzione di una sinistra alternativa al PD, coerentemente antiliberista e incompatibile con questa costruzione europea, è stata fatta e ha avuto i suoi primi riscontri. Mancano invece eguali elementi di verifica rispetto ad una strategia di ricostruzione del radicamento sociale del Partito, dato che i ritardi, le resistenze interne e la soggettiva debolezza del Partito, ne hanno impedito una adeguata attuazione; quando e dove il lavoro è stato fatto, dei risultati si sono visti, ma in una condizione di precarietà, con una diffusione di pratiche sociali a macchia di leopardo, abitualmente delegata alla volontà di singoli compagni, non inserite in una visione organica e spesso nel disinteresse dei gruppi dirigenti; ciò ha reso difficile quella sedimentazione


39 dei risultati, sulla base dei quali è possibile fare adeguate verifiche. Il tema politico è capire se il vecchio modello di costruzione del radicamento sociale, basato sulla rappresentanza istituzionale dei bisogni sociali, che ormai è in larga misura impraticabile, visti i cambiamenti nelle regole elettorali, i vincoli e le compatibilità economiche, e infine il ridefinirsi del ruolo e del funzionamento delle istituzioni, possa essere sostituito con una modalità che vede il prevalere del tema della costruzione sociale, rispetto a quello della rappresentanza, attraverso forme e pratiche di mutualismo economico, sociale e solidale, in grado di riconnettere il tessuto di un blocco sociale variegato e disgregato. Dalla società giungono segnali in tal senso: nella lotta per la casa, le pratiche di autodifesa dagli sfratti, l’autorecupero edilizio e le occupazioni di case, sono un primo terreno di ricomposizione solidale e conflittuale, basato sulle pratiche di autorganizzazione; nell’ambito dei consumi, la sensibilità sui temi del consumo etico, della compatibilità ambientale e della sovranità alimentare, da luogo a spontanei processi di autorganizzazione sociale; addirittura nel mondo del lavoro colpito dalla crisi, il tema dell’autorganizzazione economica dei lavoratori, sta producendo le prime significative esperienze; le pratiche di finanza mutualistica, fanno la loro comparsa nel sostegno ad iniziative sociali ed imprenditoriale a carattere solidale; più in generale, il tema dell’organizzazione di reti solidali a livello locale si diffonde, sia come forma di autodifesa, sia come elemento di ricostruzione di relazioni sociali orizzontali, partecipate e democratiche, e ha nell’esperienza della Val di Susa, il suo punto più avanzato. Più arretrate sono le dinamiche del mondo del lavoro, dove la frammentazione sindacale, che anche il nostro Partito subisce, impedisce l’attuarsi di pratiche di solidarietà trasversali, oggi più che mai necessarie alla difesa del posto di lavoro e alla ricostruzione di prospettive economiche di sviluppo: le casse di resistenza, la capacità di riconnettere i siti produttivi al tessuto territoriale, costruendo una comune capacità di autodifesa, l’estensione dei progetti di riappropriazione da parte dei lavoratori, di piccole e medie imprese in crisi o in via di delocalizzazione, la costruzione di organiche relazioni solidali tra lavoratori dei servizi pubblici e utenza, la costruzione, in forma autorganizzata, di pratiche di autotutela tra lavoratori


40 precari, sono ipotesi di lavoro non adeguatamente esperite, da un mondo sindacale, che quando non esaurisce il suo ruolo nella contrattazione degli ammortizzatori sociali, manca comunque di una visione politica che vada oltre il limitato ambito aziendale, o al più, categoriale. Alla luce di quanto detto è possibile affermare che i compiti individuati per la fase siano quelli giusti, ma c’è forse da chiedersi se, a fronte di un impegno così grande, il solo Partito con le sue limitate forze, possa essere sufficiente, o se invece su questi temi non sia possibile ricostruire una iniziativa politica unitaria a sinistra, che coinvolga sia i diversi soggetti della sinistra sociale diffusa, sia quella parte della sinistra politica più aderente alle dinamiche sociali. E’ in tal senso che il tema di un nuovo soggetto politico della sinistra può essere un’opportunità, se riusciremo a vincolarlo più ai temi della costruzione sociale, che non a quelli della rappresentanza istituzionale. In sintesi il PRC dopo aver vissuto per anni, legando la sua esistenza alla semplice rappresentanza degli inadeguati livelli di coscienza di una classe travolta e sconfitta dalle trasformazioni del ciclo produttivo, deve oggi fare la difficile scommessa di candidarsi a guidare la classe nella realizzazione dei suoi compiti politici, in un quadro di crescita dei livelli di coscienza, che può darsi solo attraverso la comprensione della irriducibile incompatibilità, tra la possibilità di un livello minimo di dignità della propria esistenza, e il rispetto delle compatibilità economiche imposte dall’agenda europea. La possibilità di svolgere questo difficile ruolo, dipende certamente da fattori soggettivi, legati alla capacità del PRC di cambiare il suo modo di essere e di agire, ma può oggi contare sull’opportunità di fattori oggettivi favorevoli, legati al diverso posizionamento dei soggetti sociali, a fronte di un inasprimento della situazione economica e della definitiva manifestazione del velleitarismo del progetto politico, con il quale la sinistra moderata ha, fino ad oggi, avuto un ruolo maggioritario. E’ in questo quadro che è possibile riaprire quella relazione tra classe e politica, che si è esaurita nel corso degli ultimi vent’anni.


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LA NUOVA FASE POLITICA E LA RICOLLOCAZIONE DEI SOGGETTI INTERMEDI La rottura della relazione tra classe e politica, è sostanzialmente la fine di quell’impianto che fino alla metà degli anni ‘70 riuscì a collocare lo specifico interesse di classe, nell’ambito di una vasta rete di relazioni politiche e sociali. Tale rottura si è realizzata in un lungo processo iniziato negli anni ‘80, quando la sconfitta della classe ha determinato l’autonomizzazione di un vasto aggregato sociale, che genericamente possiamo definire come “soggetti intermedi”; la condizione di questi soggetti intermedi, è stata più facilmente garantita da un quadro capitalistico in grado di sostenere la riproduzione dei rapporti sociali, piuttosto che da una classe, la cui prospettiva di avanzamento, incompatibili con tali rapporti sociali, implicava più rischi, che opportunità. La conseguenza di questa dinamica è stata la rottura del blocco sociale prodottosi negli anni ‘70, l’assunzione da parte di questi soggetti intermedi delle compatibilità capitalistiche, come l’unico quadro in grado di garantire la riproduzione dei rapporti sociali e la propria condizione, e il conseguente isolamento della classe, condannata ad un progressivo deterioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, cioè alla riproduzione ad un livello sempre inferiore dei rapporti sociali che ne definiscono la condizione. Quella che con una semplificazione può definirsi la “società dei due terzi”, laddove i rapporti sociali di produzione, garantiscono il riprodursi della condizione sociale di una quota maggioritaria della popolazione, nell’ambito delle proprie compatibilità, condannando il terzo restante ad una progressiva esclusione. Tale dinamica è chiaramente rappresentata dai flussi elettorali, dove la somma tra un’astensione che da anni si aggira intorno al 20%, e le percentuali dei partiti “conflittuali”, come il PRC, corrisponde a quasi un terzo dell’elettorato: una parte della società che in modo cosciente, o incosciente, prende atto dell’impossibilità di essere assunta nell’ambito delle compatibilità del sistema. A fronte di questo isolamento la classe, esclusa di fatto dalla partecipazione politica, anche nei suoi soggetti più coscienti e determinati, non ha potuto che arretrare su un piano prepolitico, in cui anche le contestazioni più radicali, si esauriscono su un piano strettamente “sindacale”, avendo


42 come unico esito o la “riduzione del danno” (mondo del lavoro e welfare), o la cooptazione subalterna nell’ambito delle compatibilità date (sinistra sociale, associazionismo), o infine la riproposizione di una conflittualità estrema, ma senza prospettiva (movimenti di lotta per la casa). Questo quadro può oggi ridefinirsi alla luce della semplice considerazione, che le politiche di integrazione europea stanno ormai svelando il loro vero fine, che non è quello di “rilanciare il ruolo economico dell’Italia in ambito internazionale, inserendosi nel ciclo della crescita trainato dai nuovi soggetti economici emergenti” o altre simili balle in salsa PD, ma semplicemente collocare l’Italia nel quadro dei nuovi equilibri del capitalismo europeo, nell’ambito di una macroarea economica a guida tedesca, che abbia al suo interno la possibilità di realizzare quella distruzione di capitale fisso, che necessaria alla valorizzazione del capitale, non può più realizzarsi in ambito extraeuropeo, per l’eccessiva concorrenza internazionale. In sintesi un “terzo mondo interno”, da depredare, sfruttare, devastare e, se necessario, usare come luogo di guerra: nulla di molto diverso di quanto accadde nel meridione, dopo l’unificazione italiana. A questo portano le politiche di integrazione europea, e in modo più o meno confuso, tale prospettiva inizia a essere compresa anche in ambiti limitati, di quei soggetti intermedi, che fino ad oggi avevano assunto le compatibilità del sistema, come il perimetro nel quale la loro condizione era garantita. Oggi si inizia ad intuire che il contesto del capitalismo globale, e in esso di quello europeo, non sono più in grado, non solo di garantire un qualche avanzamento sociale, per i soggetti più deboli, ma nemmeno di riprodurre i rapporti sociali e le condizioni di quei “due terzi”, che ne costituiscono la base sociale. Questo dato determina una ridislocazione dei soggetti sociali, che è ben visibile nelle ultime tornate elettorali e in particolare nelle ultime europee. Il voto a Grillo, alla fine dell’esperienza del governo Monti, è il chiaro segnale della rottura di quel blocco sociale dei “due terzi”, che aveva garantito la governabilità nei vent’anni precedenti; i “soggetti intermedi”, senza alcuna comprensione di ciò che effettivamente sta loro accadendo, ma intimoriti da una condizione sempre più insicura, si predispongono a fare una scelta politica, che per la prima volta, non ha come elemento pre-


43 giudiziale l’accettazione delle compatibilità di sistema. Nello stesso settore sociale, si esprimono anche esperienze più coscienti ed avanzate: prima Cambiare si può, poi la Lista per Tsipras, attraverso le quali, settori intellettuali e in generale quel pezzo di “società civile” che ha mantenuto una capacità critica, individua la necessità di una rottura con le politiche europee, e con chi politicamente le rappresenta. A fronte di questa frattura nel proprio blocco sociale di riferimento, il PD renziano non ha più balle da raccontare, e per ottenere un minimo di credibilità, deve mettere sul tavolo 80 euro (pochi, maledetti e subito), per garantirsi il sostegno di quel mondo del lavoro dipendente, in cui il PD ancora trova consensi, ma a cui non ha più alcun progetto da proporre. E’ la fine di una fase storica, nella quale il presentarsi degli interessi del capitale con due progetti apparentemente diversi e contrapposti, ha permesso a tali interessi di raccogliere consenso in ampi strati della popolazione, compattandoli non solo nella difesa di uno schieramento contro l’altro, ma soprattutto l’uno insieme all’altro, contro ogni ipotesi di rischioso “salto nel buio”. Con i rigorosi limiti imposti ai bilanci, tale possibilità di manovra politica si riduce, e prima le “larghe intese”, oggi l’accordo Renzi-Berlusconi sulle riforme costituzionali, definiscono un nuovo quadro, caratterizzato dalla tendenziale esclusione dalla dinamica politica, di una quota di quei soggetti intermedi, a cui non è più possibile garantire il riprodursi della propria condizione sociale. Si riduce la base di consenso possibile, e quindi con le riforme elettorali, si abbassa quella necessaria: la società dei due terzi, diviene la società della “metà”, se non di un terzo appena. La mobilità politica dei soggetti intermedi, è sempre il segnale del modificarsi delle condizioni oggettive sulle quali si fondano i rapporti di forza tra capitale e lavoro: in termini puramente oggettivi, la tendenza di tali rapporti di forza, non può che vedere un indebolimento del capitalismo occidentale, che investito da una crisi strutturale, riduce la sua capacità di cooptare intono alle proprie necessità, un più vasto aggregato di interessi; sul medio periodo, l’emergere della contraddizione capitale-lavoro, nei paesi del nuovo capitalismo, e l’impoverirsi dei mercati interni non potrà che indebolire il capitalismo occidentale, riducendo i margini di profitto derivanti dal differenziale tra basso costo della forza lavoro sul mercato


44 del lavoro globalizzato, e opportunità di un mercato interno sempre meno ricco. Questo è il quadro generale che un pezzo di società comincia a intuire, reagendo con timori e preoccupazioni che in termini politici assumono spesso forme inquietanti e contraddittorie; è certo che il futuro non prevede la riproduzione dei rapporti e delle condizioni date, e che in modo più o meno traumatico, le condizioni di vita di milioni di persone saranno travolte o, nel caso delle nuove generazioni, si produrranno in contesto totalmente diverso da quello attuale. La “trasformazione sociale” non è più una bandiera agitata da una quota minoritaria della popolazione esclusa dalle dinamiche di autoconservazione della maggioranza; la “trasformazione sociale” si sta producendo di fatto, come esigenza di una quota minoritaria e più ricca della popolazione, che ha necessità di “cambiare tutto”, istituzioni, welfare, mercato del lavoro ecc..., per mantenere la sua unica certezza, il profitto e la rendita. Stante la oggettiva incapacità dei soggetti intermedi, di difendere il proprio interesse a partire dall’individuazione di una strutturale alterità di tale interesse, a quello del capitale, l’opposizione che a tale trasformazione sociale essi possono mettere in campo sarà sempre velleitaria e contraddittoria, caratterizzata dalla costante tendenza a ricercare, nell’ambito dell’interesse del capitale, lo spazio per la propria autoperpetuazione. Senza l’espressone di un punto di vista di classe, autonomo e cosciente della propria strutturale alterità all’interesse del capitale, il futuro è già segnato: alla fine del percorso di “trasformazione sociale”, nuovi equilibri a carattere autoritario e tendenzialmente repressivo dovranno prodursi, per garantire la riproduzione sociale di interessi minoritari, contro una massa esclusa da ogni forma di partecipazione politica: di fatto “la barbarie”

LA RICOSTRUZIONE DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO DELLA SINISTRA E’ questo il contesto generale, in cui oggi il PRC ha l’impegno di ricostruire una relazione tra politica e classe, relazione oggi possibile, proprio per il tendenziale dissolversi del variegato blocco di consenso e di inte-


45 ressi, che il capitale aveva aggregato intorno a se, e a difesa delle sue compatibilità. E’ oggi possibile ricollocare il conflitto sociale, che in modo frammentario e in termini tendenzialmente difensivi si esprime nel paese, nell’ambito di un più vasto tessuto di alleanze e relazioni sociali e politiche, incontrando le inquietudini e il malessere di quei soggetti intermedi, cui il capitale non è più in grado di offrire una prospettiva certa, e che sono alla ricerca di una prospettiva politica e di una visione di società, nella quale ricollocare le proprie aspettative. E’ questo il tema della costruzione di un soggetto politico dell’alternativa, nel quale sia possibile raccordare tutte le manifestazioni critiche nei confronti degli attuali rapporti sociali di produzione, con un punto di vista di classe, che a partire dall’irriducibile contraddizione capitale-lavoro, pone il problema del superamento di tali rapporti. Temi quali quello dell’ambiente e dei beni comuni, dei diritti civili e della democrazia, della pace e dell’integrazione, sono gli ambiti in cui si realizza una prima rottura tra interesse del capitale e aspettative dei soggetti intermedi; in termini strettamente economici, una analoga rottura si realizza a causa degli elevati livelli di disoccupazione, che colpiscono anche e soprattutto soggetti giovani e ad alta scolarizzazione, molti dei quali emigrano, coscienti dell’impossibilità, in Italia, di riprodurre quella condizione sociale, a cui per nascita e formazione si ritenevano destinati. A fronte di questa nuova condizione dei soggetti intermedi, si fa avanti la necessità di un nuovo modello sociale, la cui realizzazione non può darsi, se non nel quadro di una prospettiva di radicale spostamento delle risorse economiche e produttive, dal capitale al lavoro, cioè in altri termini se non nel quadro di una ripresa offensiva del conflitto sociale, a partire dalla priorità del lavoro, sulla rendita e sul profitto. E’ questa la ragione che può produrre una ridislocazione dei soggetti intermedi nel quadro politico, e l’uscita dall’isolamento dei soggetti di classe, espulsi dalla politica. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, il modo in cui spesso viene affrontato il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, appare inadeguato e viziato da un approccio che guarda più alla rappresentazione esteriore dei fenomeni, che non ai fenomeni stessi. Al di là delle polemiche sul protagonismo di singoli personaggi, piuttosto


46 che sui tatticismi e gli opportunismi di singoli soggetti politici, al di là delle pulsioni antipartitiche che ancora condizionano il processo o dei tentativi di trovare la “modalità perfetta” con cui garantire trasparenza e partecipazione nei processi decisionali, il fatto veramente rilevante che si cela dietro quel risultato di poco più del 4%, è che per la prima volta dopo decenni, si può riaprire la possibilità di rimettere in connessione un punto di vista di classe, con una parte di quei soggetti intermedi, fino ad oggi organici alle compatibilità del sistema, all’interno di una prospettiva strategica alternativa al quadro imposto da quelle compatibilità. Il dato elettorale, che indica il voto all’Altra Europa provenire principalmente da soggetti ad alto livello di istruzione, e in generale nel ceto medio urbano, oltre che dai giovani, segnalano la possibilità della ricostruzione di un fronte sociale, all‘interno del quale la classe può ritrovare lo spazio per una propria autonoma espressione politica. Il fatto che il progetto nato intorno all’Altra Europa, sia più il punto di aggregazione di soggetti sociali intermedi più che di settori popolari, lungi dall’essere un problema in se (come molti ritengono) è invece una opportunità che ci segnala la riapertura di uno spazio politico per l’azione della classe, fuori dai limiti delle compatibilità di sistema. Piuttosto che interrogarci sui limiti e le contraddizioni interne di questo progetto, dovremmo invece coglierne le ragioni profonde, di natura oggettiva, legate all’evolversi della crisi, ai processi di integrazione europea e alle loro ricadute nei rapporti sociali, investendo sull’ipotesi che tale progetto possa contribuire alla soluzione di quella crisi della sinistra, che è sostanzialmente la crisi della relazione tra classe e politica, cioè, in altri termini, l’impossibilità per la classe di collocare il proprio interesse, in una più ampia rete di relazioni sociali. Il tema vero per i comunisti in questa fase, è come fare in modo che una classe che ha perso ogni fiducia nella politica, che non riesce a concepire se stessa se non come portatrice di un interesse specifico ed elementare, e che sulla base di tale interesse può addirittura cadere nella trappola della guerra tra i poveri, possa tornare ad essere il punto di riferimento di interessi generali, attraverso la piena coscienza della sua condizione, che in se è la chiave e il paradigma, attraverso cui è possibile interpretare, tutta


47 la realtà sociale. La costruzione di un soggetto politico della sinistra collocato fuori e contro le compatibilità di sistema, aperto alla partecipazione di soggetti diversi, con diverse culture e diversi interessi, è il campo in cui la classe può tornare a svolgere questo ruolo. Il tema vero per i comunisti in questa fase, è come fare in modo che il processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, sia attraversato da ogni manifestazione di conflitto sociale, sia innervato da ogni pratica di autorganizzazione sociale, sia contaminato da ogni cultura antagonista, e che questo processo sia reciproco, perchè ogni conflitto sociale, ogni pratica di autorganizzazione sociale, ogni cultura antagonista, sia obbligato a misurarsi con la necessità della costruzione politica. Perchè ciò che definisce la natura e la funzione di un soggetto politico, non sono ne i meccanismi di funzionamento interno, ne le dinamiche di selezione dei gruppi dirigenti, ma la natura degli interessi sociali che rappresenta e organizza, e la natura delle relazioni sociali che produce. I comunisti devono portare nel processo di costruzione di questo nuovo soggetto della sinistra, il contributo che al momento manca, quello di un punto di vista di classe, basata sulla concreta dialettica di teoria e prassi, assumendo la direzione dei processi, non attraverso la vittoria di una qualche battaglia sul tema degli organigrammi, o organizzando la claque ai convegni e alle assemblee, ma imponendo, territorio per territorio, comitato per comitato, la centralità degli interessi di classe, come terreno di riunificazione di un più vasto fronte sociale, e della sua rappresentazione politica. Ma questo è un altro lavoro.


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IL NUOVO SOGGETTO POLITICO DELLA SINISTRA La proposta di costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, rappresenta un significativo cambio di passo rispetto ai diversi approcci fin qui tentati per uscire dalla storica crisi della sinistra politica in Italia. Con questa proposta, che va intesa in termini letterali, non si tratta di ricomporre il frammentato collage della sinistra politica italiana, ma appunto di costruire un “nuovo” soggetto, che obblighi tutte le diverse componenti della sinistra politica italiana, a misurarsi con la domanda inevasa di espressione politica, che nasce dalla società. Si tratta di accompagnare un processo già in corso, che vede l’aggregarsi di realtà sociali a carattere locale o settoriale, insieme ai diversi soggetti della sinistra politica, rappresentati dai singoli militanti e dalle singole strutture di base, uniti dalla necessità di dare una comune cornice politica al loro impegno e alla loro battaglia. E’ questa una scommessa, la cui riuscita dipende da una quantità di fattori soggettivi e oggettivi, ma che in ultima analisi risponde alla domanda di riempire il vuoto, prodotto dal ritrarsi della politica “ufficiale”, arroccata a difesa di interessi incompatibili con le istanze e gli interessi che si organizzano nella vasta galassia della sinistra sociale diffusa. In tal senso tale scommessa ha un preciso senso storico e politico, e le contraddizioni, le confusioni, nonchè una certa ingenuità che caratterizzano la prima fase di questo percorso, vanno visti come elementi fisiologici di un processo reale, che tenta la sperimentazione di soluzioni originali, a fronte dei fallimenti della sinistra politica degli ultimi decenni.


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IL PRC TRA AMBIGUITA’ E TIMORI Assunto che quello che sta accadendo intorno alla Lista Tsipras, è un processo reale, già iniziato con Cambiare si può, che segnala un’esigenza presente nella società, dovrebbe risultare evidente che il PRC dovrebbe dare il massimo contributo affinchè tale processo si rafforzi e si indirizzi sui giusti binari; ciò anche in considerazione del fatto che solo il PRC, tra tutti i diversi partiti e partitini della sinistra, ha colto tale processo in nuce, dimostrando di essere l’unico frammento della sinistra politica italiana, con un minimo di aderenza alla realtà. Il PRC ha compiuto la sua scelta di collocazione alternativa al PD già nel 2008, pagandola con una grave scissione; il PRC è stato l’unico partito a interloquire con Cambiare si può, avendo poi il torto di subire l’iniziativa e le pressioni di altri soggetti, che hanno dato vita a Rivoluzione Civile; il PRC, lanciando la candidatura Tsipras alle europee, ha offerto la sponda politica a quei soggetti della “società civile”, che avevano rotto con il centro-sinistra europeo; senza poi contare poi il lavoro svolto nella raccolta delle firme e in campagna elettorale da Partito. In sostanza è possibile affermare che il prodursi nella sinistra sociale, di un percorso di costruzione del soggetto politico, può essere la prima verifica della nostra scelta strategica di collocazione alternativa al centrosinistra, una scelta vissuta in solitudine e anche con dissensi interni al Partito, ma che oggi trova finalmente conferma nella costruzione di una più larga possibilità di interlocuzione. E’ evidente che quanto fin qui detto può essere smentito, da momentanee battute d’arresto o scelte contraddittorie, rispetto agli elementi che hanno ispirato la lista per L’Altra Europa, in particolare il suo nascere in alternativa al “partito unico” delle politiche di integrazione europea; ciò potrebbe già accadere alle prossime regionali e questo porterebbe a lacerazioni gravi, prima fra tutte il diritto a ritirare a quella cessione di sovranità, rispetto alle scelte elettorali, che per il nostro partito può avere un senso solo in un perimetro ben definito, che è quello dello della collocazione alternativa al centro-sinistra. Si tratta quindi di assumere questo percorso come un terreno di costru-


50 zione, di partecipazione e laddove necessario di battaglia politica, che però va condotta a partire dalla piena comprensione del valore di tale percorso, della sua necessità e ineludibilità. Ma per poter fare ciò è necessario che il Partito si liberi di ambiguità, perplessità e timori, che sono un freno all’agire politico, impedendoci di svolgere il ruolo da protagonisti che ci compete. Le ambiguità sono principalmente legate alla lettura del processo in corso attraverso la lente deformante, di vecchie proposte di superamento della crisi della sinistra politica, già fallite e oggi sostanzialmente impraticabili. Parole d’ordine come “Unità delle sinistre”, “Fronte della sinistra” e in qualche misura anche “Unità dei comunisti”, benchè suggestive e rassicuranti, sono oggi prive di senso. Le perplessità sono invece la legittima conseguenza della mancata chiarezza, rispetto a temi complessi, quali il rapporto tra autonomia politica e organizzativa dei comunisti e nuovo soggetto della sinistra, o a più limitate questioni, quali il meccanismo di partecipazione “una testa un voto”, o “l’assenza di vincolo di mandato”, o il tema della “cessione di sovranità”. In ultimo il timore, sostanzialmente irrazionale, che dietro la proposta di costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, si celi la segreta volontà di “sciogliere il Partito” da parte dei gruppi dirigenti. Su ognuno di questi temi è opportuno soffermarsi, perchè dallo scioglimento di questi nodi dipende la possibilità per il Partito di lavorare con convinzione e unità, alla costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, e quindi alla realizzazione della strategia del Partito.

L’UNITÀ DELLA SINISTRA E‘ questo dell’unità della sinistra il tema che quando evocato raccoglie sicuramente la maggior quota di consensi tra quella residua base elettorale della sinistra, sconcertata da divisioni che fatica a comprendere e orfana di un soggetto politico in grado di offrire scelte chiare al momento in cui ci si trova davanti ad una scheda elettorale. Tutti auspicano l’unità della sinistra, e diffusa è la convinzione che tale unità, non si realizzi a causa


51 della volontà di gruppi dirigenti rissosi e preoccupati del mantenimento della loro piccola poltrona, piuttosto che di ricostruire un nuovo soggetto politico della sinistra in cui tutti facciano “un passo indietro”: il problema è capire, una volta fatto “il passo indietro”, in che direzione andrebbero fatti i due necessari “passi avanti”. Tutti auspicano “l’unità della sinistra”, salvo poi mettersi d’accordo sul cosa fare una volta uniti. Ora che questo tema si presenti come esigenza di una certa quota di elettorato di sinistra, che piuttosto che misurarsi con la realtà di opzioni politiche inconciliabili, preferisce attestarsi sul ricordo del bel tempo andato, quando la realtà si mostrava (ma già non lo era) più semplice, e uno dei tanti elementi che definiscono l’inadeguatezza dei livelli di coscienza della classe, di fronte ai suoi compiti di fase. Ciò che francamente risulta inconcepibile, è che soggetti che quotidianamente si misurano con la problematicità della realtà, assumano questo atteggiamento semplicistico, come l’orizzonte del loro progetto. In realtà l’idea di una riunificazione della sinistra in un unico soggetto politico, non è considerata credibile nemmeno da quelli che la propongono, dato che nessuno è così velleitario da ritenere che tutta la “sinistra”, da Civati, ai tanti soggetti della diaspora comunista, possano essere ricondotti ad un processo unitario. Più semplicemente il tema dell’unità della sinistra è il tema della riunificazione di quelli che sono i due soggetti politici con una residua base elettorale e un minimo di struttura nazionale, cioè SEL e il PRC. Ovviamente tale progetto, che prevede la necessità di un “passo indietro”, da parte dei due partiti, non viene presentato in modo esplicito, stante l’impossibilità evidente di prescindere dalle diverse collocazioni, dalle diverse analisi della fase, e dai diversi obbiettivi che nella fase si danno i due partiti: costruzione della sinistra alternativa al PD, inteso come parte organica del fronte borghese, per il PRC, costruzione di una sinistra “autonoma“ dal PD, in funzione della ricostruzione del centro-sinistra, per SEL. Stante l’impossibilità di proporre lo scioglimento di fatto del PRC, in funzione di un soggetto unico della sinistra, quello che si propone è uno snaturamento della linea del Partito, finalizzato a mantenere una


52 interlocuzione politica ed elettorale con SEL, alla luce della “ragionevole” considerazione, della necessità di non arroccarsi su posizioni “pregiudiziali”, ma di lavorare anche in seno alle contraddizioni interne alla base sociale di SEL, e dello stesso PD, con il quale SEL è ancora alleato in gran parte degli enti locali. A partire da questa argomentazione, si interpreta il processo di costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, principalmente come lo spazio per la riproposizione di una alleanza tra SEL e PRC, e conseguentemente si condiziona il nostro agire in tale processo, alla possibilità del realizzarsi di tale alleanza. Così, per esempio, il tema della valutazione politica delle scelte di governo delle amministrazioni locali in cui SEL è presente, come qui a Roma, diviene un terreno scivoloso sul quale muoversi con prudenza, per evitare di mettere in discussione quel rapporto con SEL, che è considerato la ragione prima della costruzione del nuovo soggetto politico Senza entrare nel merito delle infinite ragioni di non condivisione di quest’approccio, tutte materia delle nostre discussioni e scelte congressuali, quello che va rilevata è l’arretratezza di tale posizione, che piuttosto che misurarsi e scommettere, sul prodursi di percorsi che vedono l’attivazione di nuovi soggetti e nuove problematiche, piuttosto che investire su la costruzione di un nuovo spazio politico in cui misurare il valore e l’aderenza alla realtà delle proprie scelte, ripropongono lo schemino asfittico che vede i due partiti concorrenti, cercare accordi e mediazioni che garantiscano la “loro” autoperpetuazione, piuttosto che il prodursi di una più vasta aggregazione politica e sociale. E’ assolutamente legittimo che i compagni di SEL, che si impegnano nel percorso di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, lo facciano portando in esso le loro esperienze di governo locale e sulla base di esse tentino di indirizzare la scelta alle prossime elezioni regionali; è altrettanto legittimo che il PRC si impegni per una chiara collocazione alternativa di questo soggetto alle prossime elezioni. Sarà questo un tema su cui si misura la crescita e le caratteristiche del soggetto in formazione e la validità delle analisi, sulla base delle quali i due partiti hanno fatto il loro investimento. Ciò che non ha senso, è che nel nostro Partito, non si comprenda che il tempo delle relazioni tra minisoggetti politici della si-


53 nistra è concluso, e che da oggi in poi le scelte, anche quelle di ordine elettorale, vanno definite attraverso una relazione più vasta con tutti quei soggetti della sinistra diffusa, che oggi si vogliono misurare con il tema della costruzione della soggettività politica. E’ evidente che una modalità di questa natura può essere rischiosa e può mettere l’uno o l’altro dei due partiti, di fronte all’inadeguatezza del proprio approccio, rispetto alle dinamiche che si producono in un più ampio ambito di relazioni politiche, provocando lacerazioni interne e la marginalizzazione o addirittura l’uscita dal percorso di costruzione del nuovo soggetto politico, di uno dei due partiti. E’ un rischio che può correre il PRC, qualora il nuovo soggetto in costruzione perpetuasse un approccio subalterno al centro-sinistra; è un rischio che ha già corso e che sta ancora correndo SEL, come la scissione istituzionale ha dimostrato, in conseguenza della scelta di alternativa compiuta alle elezioni europee. Nell’affrontare questo rischio possiamo appoggiarci su tre elementi, che sono le uniche certezze che abbiamo: una analisi della fase che individua la necessità oggettiva, di una ricollocazione dei soggetti sociali attivati dal percorso di costruzione del nuovo soggetto politico, in termini alternativi al PD; la nostra soggettiva capacità di trasformare tale analisi in concreta iniziativa politica; la fiducia che gran parte della base militante e dei soggetti sociali che fanno riferimento a SEL, coglieranno le opportunità che il progetto di costruzione del nuovo soggetto offre, anche in risposta ad un rapporto con il PD sempre più subalterno, contraddittorio e privo di prospettiva. In questo quadro la riproposizione del tema dell’unità della sinistra, inteso come prospettiva di ricomporre la scissione del 2008 è fuori dalla realtà; la realtà è che la scissione del 2008, e le divaricate posizioni politiche che da quella scissione emersero, giungono oggi a verifica, nel quadro finalmente svelato del ruolo di governo del PD e della sua organicità alle politiche di integrazione europea. Se esiste una “terra di mezzo”, certamente chi l’ha vista, potrà offrirla come opportunità di sollievo, ad una sinistra sociale priva di prospettive; se non esiste, toccherà ad altri guidare la navigazione, nelle burrascose acque della crisi.


54 In conclusione il tema dell’Unità delle Sinistre, esaurita ogni reale valenza politica, rischia di trasformarsi nel cavallo di Troia di quanti, ritenendo esaurito il percorso del PRC, non si limitano a trarre le individuali conseguenze di questa legittima valutazione, ma nella presunzione di avere ancora un ruolo di direzione di un Partito che non riconoscono, ritengono loro dovere politico operare per distruggerlo.

IL FRONTE DELLA SINISTRA E‘ questa un’altra ipotesi arretrata, fondata principalmente sul timore che la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, possa mettere in discussione l’autonomia politica e organizzativa dei comunisti; a tale timore si risponde con l’uovo di Colombo di una proposta, che basata sull’accordo tra diversi soggetti politici, tutti garantiti nella loro identità e autonomia, dovrebbe permettere sia la ricostruzione di pratiche unitarie, sia una comune rappresentanza istituzionale. C’è in questa proposta la dimostrazione evidente di come pur di sfuggire a timori immotivati e addirittura irrazionali, si preferisca evitare di misurarsi con la realtà, rinchiudendosi nel cantuccio rassicurante delle formule rituali e delle vuote liturgie. Entriamo nel merito affrontando con ordine tutte le ragioni per cui tale proposta è inconsistente. La prima ovviamente riguarda i soggetti a cui tale proposta dovrebbe essere rivolta, e qui già sorge un primo problema: di quale sinistra stiamo parlando? Di una sinistra esplicitamente anticapitalista, come da più parti si rivendica, o più genericamente di una sinistra antiliberista? Dato che nel secondo caso ovviamente non si potrebbe prescindere dall’avanzare tale proposta ad un fronte che va da SEL ai CARC, è forse opportuno declinare il tema del Fronte, come fronte anticapitalistico, sorvolando sul fatto che tale scelta, pone ovviamente il problema della relazione con i soggetti antiliberisti, posti al di fuori del perimetro organizzativo di tale fronte. Assunto che il Fronte dovrebbe essere anticapitalistico, c’è da capire se


55 esso dovrebbe coinvolgere solo soggetti organizzati o anche movimenti spontanei o singole individualità: dato che il Fronte dovrebbe prevedere piattaforme politiche, strutture organizzative e scelte comuni in ambito elettorale, e dato che ogni soggetto aderente al Fronte lo farebbe in forma collettiva, è lecito supporre che un tale Fronte dovrebbe prevedere organismi di coordinamento in cui sono rappresentati i diversi soggetti collettivi, una modalità questa che taglia fuori quei movimenti spontanei, quelle piccole realtà a carattere locale e settoriale, che non hanno ne la dimensione, ne la struttura, tale da legittimare una rappresentanza collettiva, oltre ovviamente a coloro che volessero aderirvi, senza far parte di nessuna struttura collettiva. Quindi il Fronte dovrebbe essere il fronte anticapitalista, in cui si coordinano realtà politiche o magari sindacali (cosa ancor più improbabile) con una propria struttura organizzata. E con ciò abbiamo definito il quadro dei possibili soggetti di tale Fronte: le diverse realtà della galassia comunista, soggetti sindacali e sociali con connotazione antagonista, quali i sindacati di base e i movimenti organizzati nella lotta per la casa. Senza entrare nel merito della momentanea indisponibilità di buona parte di questi soggetti a misurarsi non solo con il tema della costruzione di un fronte, ma anche di semplici accordi elettorali, dovremmo rilevare che una costruzione di questo tipo si colloca completamente al di fuori di quanto fin qui prodotto con la Lista Tsipras e quindi anche della nostra adesione alla Sinistra Europea. Infatti tutte le formazioni della galassia comunista, a partire da quella Rete dei Comunisti, con cui è assolutamente necessario mantenere una stretta interlocuzione, si collocano sui temi europei con posizioni e analisi diverse dalle nostre; in altri termini la proposta del Fronte, non ci avrebbe permesso di lanciare e sostenere la candidatura del compagno Tsipras, e tanto meno di raccogliere intorno ad essa un minimo di massa critica e di consenso elettorale. E lecito avanzare la proposta di un fronte anticapitalistica, che si colloca in rottura con il lavoro svolto in questi mesi, ma è bene essere coscienti di cosa si sta facendo. C’è poi l’ipotesi di costruzione del “fronte dal basso”, espressione sicuramente di grande impatto, ma di altrettanta poca chiarezza: cosa significa “fronte dal basso”? Se intendiamo l’unità d’azione che in ogni territorio,


56 in ogni posto di lavoro, in ogni conflitto, vanno costruite a partire dall’individuazione di comuni obbiettivi e a prescindere dall‘appartenenza a partiti e formazioni diverse, stiamo parlando di una pratica che dovrebbe essere ovvia per ogni militante comunista; se intendiamo che tale unità d’azione debba essere la base per la costruzione di livelli di integrazione e coordinamento più avanzati, fino al livello nazionale, torniamo al tema iniziale: come si aderisce a questo fronte, come membri di soggetti collettivi, o come soggetti individuali coinvolti nelle strutture locali? Nel primo caso ritorniamo al ragionamento di cui sopra, il “fronte” come coordinamento di soggetti collettivi, o per dirla in termini più chiari, come la riproposizione dei vecchi “intergruppi” della nuova sinistra degli anni ‘70; nel secondo caso è il meccanismo è esattamente quello che si produce nei comitati per Tsipras, e che tanto preoccupa i fautori del Fronte. Un ultima ipotesi di lettura di questa proposta di Fronte e che con esso si intenda di fatto ciò che già si sta producendo intorno alla lista per L’Altra Europa, ma che invece di dare luogo ad un nuovo soggetto politico, produca un “fronte”, in cui i soggetti politici che vi partecipano non sono obbligati a rinunciare alla propria visibilità, ma possono presentarsi invece che con un unico simbolo, con tutti i simboli dei soggetti che vi aderiscono. Ovviamente in questa ipotesi si da per scontata una visione del processo di costruzione del nuovo soggetto politico come frutto dell’accordo tra forze politiche, SEL e PRC in particolare, escludendo tutti coloro che a questo percorso si avvicinano a prescindere dalla loro adesione ad un Partito. E’ un’idea frutto di una cultura politica, che non assume l’autonomia delle soggettività sociali come l’elemento che ormai caratterizza da decenni la realtà del conflitto, e che continua a riproporre quella dinamica “pattizia”, tra partitini e organizzazioni varie, che già è fallita con la FdS. La cosa più curiosa è che chi propone il “fronte” in nome della difesa dell’autonomia e dell’identità del Partito, non assume il fatto che un fronte, a cui si da adesione come soggetto collettivo, limita maggiormente l’autonomia politicadel PRC, rispetto ad un nuovo soggetto politico, a cui si aderisce individualmente e in cui il PRC non da alcuna formale adesione collettiva, limitandosi ad operare in piena autonomia attraverso i suoi iscritti. L’idea che il PRC debba vincolarsi con una adesione formale e


57 propri diretti rappresentanti in organismi di coordinamento e direzione, all’interno di un “fronte”, con altri soggetti politici, siano essi SEL o il PCL, è un obbiettiva limitazione dell’autonomia del Partito, che si troverà vincolato nella propria azione al rispetto dei “patti”, stabiliti all’interno del “fronte”. L’idea che il PRC debba fare “patti”, con forze politiche di cui non condivide l’analisi, la strategia e la collocazione politica, è assolutamente legittima, purchè tale idea non venga sbandierata come una maggior garanzia per l’autonomia politica e organizzativa del PRC, La realtà è che al di là di ogni proposta di Fronte che dal nostro Partito possa eventualmente partire, è già in corso un processo di costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, nel quale stanno già agendo soggetti individuali e collettivi, che non chiedono una “coalizione” di sigle e siglette, ma una vera e propria forza politica di sinistra, autenticamente di sinistra. Piuttosto che attardarci in una discussione tutta interna e senza alcuna capacità di coinvolgimento e attrazione nella società, dovremmo prendere atto che il compito dei comunisti non è quello di inventare formule rassicuranti in cui costringere la realtà (il fronte, l’unità della sinistra ecc...), ma cogliere le esigenze che si producono nella società e trasformarle in concreta iniziativa politica. Oggi nella realtà c’è bisogno di una forza politica della sinistra, e questo è il dato chiaro a qualsiasi persona che vive le difficoltà imposte dalla crisi; i comunisti sanno che la costruzione di un soggetto politico della sinistra non è un processo semplice, ne lineare, ma piuttosto che sottrarsi ad esso, inventando formule rassicuranti, dovrebbero puntare ad assumere la direzione di tale processo. E’ un dato evidente che la richiesta di un soggetto politico della sinistra, nuovo, plurale con caratteristiche di massa, può incontrare una esigenza diffusa, e divenire punto di riferimento di quote di elettorato in grado di prendere atto della fine del centro-sinistra; il nostro compito è collocare un punto di vista di classe, radicale e conflittuale, in questo processo, favorendo il prodursi di alleanze e relazioni, piuttosto che condannare tale punto di vista di classe all’isolamento in un improbabile fronte anticapitalista di duri e puri, che peraltro al momento non sembra esistere nemmeno in embrione. In realtà dietro la proposta del Fronte, c’è una più o meno cosciente sfi-


58 ducia nel Partito, nella sua capacità di farsi contaminare dai processi politici che innesca, senza per questo perdere la sua identità; è una sfiducia forse comprensibile alla luce di anni di sconfitte e anche di scelte opportuniste da parte dei gruppi dirigenti, ma ciò non toglie che far dipendere le scelte del Partito da timori e sfiducia, significa rinunciare a fare politica. Di fatto, questa sfiducia è speculare a quella di chi ritiene ormai esaurito il ruolo del Partito, perchè pensare di difendere un Partito, evitando il confronto con i processi reali, è peggio che scioglierlo, è trasformarlo in una caricatura, così come lo sono i micropartitini identitari in cui si è frammentata l’esperienza comunista. In ultima analisi la proposta del Fronte, è l’espressione di una tendenza, sempre presente e forte nel Partito, che agitando lo spettro dei rischi di scioglimento e liquidazione del Partito, opera contrastando ogni tentativo di innovazione, ogni tappa del processo della rifondazione, rinunciando a misurarsi con la problematicità e la concretezza dell’attuale condizione, per rifugiarsi nella sicurezza di un approccio acritico, dottrinale e privo di qualsiasi capacità dialettica, che è l’esatto contrario del leninismo, che è invece creatività nel rigore, solida costruzione e materia viva, da reimparare a maneggiare con sicurezza e determinazione.

L’UNITÀ DEI COMUNISTI Il tema dell’unità dei comunisti non dovrebbe nemmeno essere affrontato in questo ambito di riflessione, dato che la necessità di una riorganizzazione dei comunisti e quella della costruzione di una sinistra alternativa, sono temi collegati ma assolutamente non coincidenti. In particolare il tema della riunificazione dei comunisti in un unico Partito, non può darsi se non nel quadro di una riflessione sul Partito stesso, sulla sua organizzazione e sulla sua funzione, riflessione che verrà svolta più avanti. Purtroppo però è ancora presente nel Partito un sentimento diffuso, che non si esprime come una vera e propria opzione politica, ma che sottende ai dubbi nell’attuazione della attuale linea politica, e che riguarda l’aspirazione o il semplice desiderio, di poter risolvere ogni problema, riunendo tutti i comunisti in un “grande Partito Comunista”, che sarebbe il “deus ex machina”, in grado di ricomporre il proletariato, ricostruire il blocco


59 sociale, dotarlo di una giusta linea, riportarlo in parlamento o, variante di estrema sinistra, organizzare la Rivoluzione, il tutto all’ombra delle bandiere rosse e della falce e martello, e al canto di Avanti Popolo. Ora per quanto pochi siano i compagni che ancora sperano in una simile prospettiva, sarebbe il caso di spiegare loro che questo film è finito da almeno 30 anni, e che da allora si è rimasti fermi in sala, a guardare i titoli di coda. La possibilità di costruire un partito comunista con carattere di massa, in grado di essere punto di riferimento per vasti e differenziati settori sociali, sulla base di un comune riferimento ideologico, è non da oggi, ma almeno dalla nascita del PRC, un’ipotesi antistorica, che non fa i conti con la fine del modo di produzione fordista e del modello di società costruito intorno ad esso. Tale modello di società, basato sulla produzione di massa, per il consumo di massa, costruiva soggettività sociali e modelli identificativi relativamente semplici e facilmente aggregabili, in grandi compagini a carattere politico o sindacale, con una forte caratterizzazione ideologica e identitaria. Al contrario, la dimensione frammentata del ciclo produttivo, che scompone la classe in una quantità di soggettività diverse per condizione e collocazione, unita all’esplosione del circuito delle comunicazioni, che offre una quantità di modelli identificativi quasi infinita, rende impraticabile qualsiasi forma di aggregazione collettiva di massa, sulla base di un comune modello ideologico. E’ questo un dato ineludibile che nessuna “Unità dei Comunisti” al 3%, può mettere in discussione; il tema dell’unità dei comunisti, va quindi totalmente svincolato da quello della possibilità di costruire un soggetto politico di sinistra con caratteristiche di massa, e va ricollocato nel quadro di una più specifica riflessione, sul tema della direzione politica della classe. Fatta chiarezza su questo dato, si pone la necessità di ricollocare la costruzione di un soggetto politico della sinistra, con caratteristiche e radicamento di massa, in un impianto non ideologico, ne identitario, ma capace invece di dar conto delle diverse culture e soggettività sociali, in modo da poter pienamente aderire alle mille pieghe di una società scomposta e frammentata, ricomponendole nel quadro di un sistema valoriale condiviso, e intorno a poche semplici idee forza di valore strategico.


60 Se si vuole fare riferimento alla storia del PCI come grande partito di massa, più che al suo collante ideologico e simbolico, dobbiamo pensare alla capacità di quel partito di accogliere culture e linguaggi diversi, facendoli interagire e confrontare in una quantità di spazi sociali e sezioni di partito, ambiti istituzionali e strutture produttive, tali da costituire una vera e propria rete ante litteram, e soprattutto un pezzo di società nella società. In questi termini la storia del PCI come grande partito di massa rimane ancora un modello ed un riferimento indiscutibile, e i comunisti che di quella storia sono gli eredi, la possono e la devono portare nel processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra. Proposte come l’Unità delle Sinistre o Fronte della Sinistra, hanno in comune una visione del superamento della crisi in cui versa la sinistra politica, tutta interna alle relazioni tra i soggetti politici della sinistra attuale, e si differenziano solo per la direzione in cui volgono lo sguardo in cerca di interlocuzione. Entrambe le ipotesi sembrano ritenere che con un “soggettivo” sforzo di volontà, teso a “unificare” (la sinistra, gli anticapitalisti, i comunisti...), la sinistra politica potrebbe uscire dalla sua crisi, quasi che questa crisi fosse un problema tutto interno alla politica, e non la manifestazione di fenomeni sociali più complessi, che si sono prodotti nel corso di decenni nella società. In tal senso la sinistra politica italiana è il prodotto di questa crisi, e non può essere in alcun modo la soluzione. Quanto è accaduto e sta accadendo intorno alla Lista Tsipras, e ancor prima con Cambiare si può, è la dimostrazione più evidente dell’inutilità di tentare percorsi ricompositivi, a partire dalla riunificazione di sigle e siglette; ad esclusione del PRC, nessuna formazione politica della sinistra, ha avuto la sensibilità politica di comprendere che un primo segnale di ripresa, stava giungendo dalla sempre maggiore politicizzazione della sinistra sociale. Abbiamo visto come SEL sia stata partecipe di questo processo in modo contraddittorio e infine lacerante, il PdCI ha commesso su questa vicenda l’ultimo errore, pagandolo anch’esso con una rottura interna, Ross@ si è divisa tra quanti hanno scommesso sul nostro fallimento e quanti all’ultimo momento hanno deciso di dare un sostegno, mentre i vari partitini comunisti hanno confermato il loro autismo, rinunciando anche a misurarsi con questa realtà.


61 L’esperienza della Lista Tsipras ha dato una prima dimostrazione, che i percorsi unitari non si producono mettendo insieme un po’ di debolezze, ma costruendo punti di forza, a partire dalla capacità di interpretare le dinamiche della realtà. In tal senso il PRC ha dimostrato di essere uno di questi punti di forza, probabilmente l’unico nell’ambito della sinistra politica organizzata, e questo dovrebbe, almeno per un po’, far metter da parte ogni ipotesi di “superamento” del nostro partito, ne in indistinti processi di unificazione della sinistra, ne in una acritica “unità dei comunisti”.

PERPLESSITÀ E TIMORI Accanto a quelle che sono vere e proprie proposte alternative alla linea del Partito, proposte frutto delle divisioni ereditate dal Congresso, divisioni che nel nuovo quadro prodotto dal risultato delle elezioni europee, appaiono oggi totalmente prive di ragione, vi sono poi delle “perplessità” rispetto a diversi temi che accompagnano la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, che pongono problemi seri e richiedono un adeguato chiarimento. Il primo e più complesso tra questi temi è quello che riguarda la relazione tra il PRC, che è, e rimane un partito autonomo a tutti gli effetti, e il soggetto politico, cioè di fatto un “altro partito”, che contribuiamo a costruire con altri protagonisti. E’ questo un tema complesso che prevede una seria riflessione sul ruolo e l’organizzazione di un partito comunista in questa fase storica, e che verrà trattata ampiamente più avanti. Altre questioni sono invece più semplici e riguardano singoli aspetti della relazione tra il Partito e il nuovo soggetto politico, e su cui è possibile soffermarci. La prima questione riguarda il meccanismo di adesione individuale al nuovo soggetto politico e quindi il processo decisionale basato “su una testa, un voto”: è questa una scelta che il nostro Partito ha fatto già all’indomani della pessima esperienza di Rivoluzione Civile, quando la logica degli accordi di vertice fra gruppi dirigenti, non solo fu una delle cause della sconfitta, ma soprattutto produsse uno dei livelli più bassi di miseria politica a cui il PRC si sia mai adattato. Va ricordato che già all’epoca, a fronte di un percorso, quello di Cambiare si può, che si produceva attra-


62 verso iscrizioni individuali e percorsi partecipati, Rivoluzione Civile fu un’operazione di espropriazione politica, decisa da un pugno di dirigenti screditati, al fine di garantirsi un posto in lista per se e per i propri portaborse, a cui anche i nostri dirigenti ebbero il torto di non opporsi. La scelta di costruire un progetto politico basato sul principio “una testa, un voto”, è quindi una nostra scelta, e anzi dobbiamo confidare, che le sperimentazioni intorno a modelli decisionali come il “metodo della condivisione”, probabilmente legittimi in una fase iniziale, lascino quanto prima spazio al più funzionale e operativo metodo di “una testa, un voto”. A ciò va poi aggiunto che il metodo dell’adesione individuale, è il metodo naturale di adesione ad una qualsiasi forma associativa (compreso il PRC), così come il metodo di “una testa, un voto” è il metodo democratico di qualsiasi forma associativa (compreso il PRC); l’idea dell’adesione collettiva e quindi dei processi decisionali definiti sulla base di espressioni di voto collettive, attiene ai soggetti federativi, quali possono essere coalizioni o fronti, come avvenuto in altri paesi europei, ma quanto sta accadendo in Italia è altra cosa: qui ciò che sta accadendo è che il processo di costruzione di un nuovo soggetto politico, non essendo stato assunto da nessuna forza politica, ad esclusione del PRC, è stato promosso da singole individualità, intellettuali noti, ma anche semplici cittadini, e solo successivamente, ha visto l’adesione di alcune forze politiche. Come già detto, non c’è alcuna coalizione, ne fronte possibili nella situazione italiana; a differenza che in altri paesi europei, non si sono prodotte le condizioni ne per coalizioni, ne per fronti; c’è solo l’attivazione di cittadini, strutture sociali, intellettuali, in un percorso di costruzione, che incrocia la proposta politica del nostro Partito e obbliga altre forze politiche a misurarsi con esso. In questo quadro l’adesione individuale e le decisioni con il metodo “una testa, un voto” è non solo la più giusta, ma anche l’unica praticabile. Più complessa è la questione del “vincolo di mandato”, nell’azione degli iscritti al Partito in seno al nuovo soggetto politico e soprattutto nei momenti decisionali e nelle occasioni di voto. E’ questo un tema che non attiene alle regole di funzionamento del nuovo soggetto politico, ma al modo in cui come Partito ci relazioniamo ad esso. In sostanza il fatto che noi si decida di blindare il comportamento dei nostri iscritti, o di lasciare ad essi


63 margini di autonomia più o meno ampi, è un tema che riguarda le nostre regole di funzionamento interne, e soprattutto, l’idea che abbiamo di noi come Partito. E’ del tutto evidente che un Partito, tra le cui funzione c’è anche quella di organizzare e coordinare l’azione dei propri iscritti e militanti, non può presentarsi nelle sue relazioni con altri soggetti, con un ventaglio di posizioni tra loro divergenti e contraddittorie; d’altra parte dovrebbe essere altrettanto evidente che nella relazione con altri soggetti, il Partito si arricchisce nella misura in cui i militanti sanno aderire, articolare e mediare se necessario, in relazione alle situazioni specifiche con cui si misurano. La logica del “non capisco ma mi adeguo”, in cui si tradurrebbe un vincolo di mandato, trasforma il militante da recettore sensibile della realtà quale dovrebbe essere, in semplice terminale di decisioni, non necessariamente accettate o comprese. D’altra parte va detto che le preoccupazioni per l’assenza di un “vincolo di mandato” nella nostra iniziativa all’interno del nuovo soggetto politico, sono tutte legate all’esperienza di un Partito che, diviso in correnti, in più di un’occasione ha dato l’impressione di essere una sorta di Babele. Il tema quindi esiste a prescindere dalla relazione con il nuovo soggetto politico, anche se è possibile che proprio questa relazione lo possa far deflagrare. L’idea di risolvere questo problema con l’apposizione di un burocratico “vincolo di mandato”, è comunque sbagliata ed inutile: sbagliata perchè presume di superare i problemi reali di un Partito, che non è in grado di lavorare unitariamente sulla linea democraticamente decisa, semplicemente imponendo diktat d’autorità, che poi effettivamente non si è nemmeno in grado di far rispettare; infatti il nostro Partito, attraverso il comma 1 dell’art.5 dello Statuto che così recita “Le/gli iscritte/i al Partito della Ri-

fondazione Comunista–Sinistra Europea sono tenute/i a contribuire alla realizzazione delle proposte e delle iniziative del partito, a promuoverne la crescita, a prendere parte alla sua vita interna e ad avere in essa comportamenti democratici e solidali, a contribuire al suo finanziamento, a diffonderne la stampa, a votarne le liste elettorali.“ già di fatto impone un

vincolo di mandato sufficientemente ampio, che pure spesso non viene rispettato, a dimostrazione del fatto che perchè una regola funzioni, non


64 basta stabilirla, essa deve essere effettivamente condivisa da gran parte dei soggetti a cui si applica, e solo in rari e isolati casi imposta, esercitando la forza e gli strumenti necessari, fino alle conseguenze estreme. Molto meglio espellere un singolo compagno, che approfittando di un mandato ampio, danneggi il Partito, che imporre vincoli a tutti i militanti, rinunciando a quell’esercizio di applicazione creativa della linea del partito, che è ciò che caratterizza e definisce un dirigente politico, rispetto ad un semplice e acritico esecutore. Se poi la preoccupazione è che ad approfittare di un mandato ampio, siano intere correnti del Partito, che cercando sostegno nelle relazioni prodotte all’interno del nuovo soggetto politico, possano ribaltare una linea politica decisa democraticamente nelle istanze di Partito, neanche in questo caso il “vincolo di mandato” è di una qualche utilità. Qualora dovesse mai accadere, che la battaglia politica dovesse giungere ad un simile livello di bassezza, la soluzione non può essere un burocratico tentativo di tappare la bocca ai compagni responsabili di simili comportamenti, ma un franco e deciso invito ad abbandonare il Partito, accompagnato dalle conseguenti misure. Stiamo costruendo un soggetto politico della sinistra nuovo, ampio, variegato, accogliente, proprio perchè sia anche la sede di confronto tra culture politiche diverse, non c’è alcuna necessità di tenerle, tutte e comunque, all’interno del Partito. La terza fonte di perplessità che preoccupa molti compagni del Partito, è il tema della “cessione di sovranità”, specialmente in rapporto alle questioni elettorali. Su questo tema va prima di tutto chiarito un concetto: a differenza di quanto accadrebbe in un fronte o in una coalizione, il Partito non aderisce al nuovo soggetto politico come entità collettiva; di fatto sul piano meramente formale, non esiste relazione alcuna tra il PRC e il nuovo soggetto politico: la relazione tra le due realtà, in termini formali, passa solo e semplicemente per l’adesione individuale degli iscritti al Partito, esattamente come nel caso della CGIL o di una qualsiasi struttura sindacale. Ciò significa che nessun accordo formale di “cessione di sovranità” impegna il Partito: il Partito non ha sottoscritto, ne è stato invitato a sottoscrivere impegni in tal senso, pregiudizialmente ad una sua adesione ad un progetto politico, adesione che peraltro non è ne prevista, ne richiesta


in termini formali.

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La cessione di sovranità sui temi elettorali, è un atto libero e unilaterale che il PRC assume come impegno, nel quadro di una condivisione di scelte programmatiche e collocazione politica; ciò significa che, come già avvenute per le elezioni europee, a fronte di una piattaforma ed una collocazione elettorale condivisa, il PRC rinuncia a presentare proprie liste, e lascia alla dialettica interna al nuovo soggetto politico, della quale gli iscritti al Partito sono partecipi, ogni decisione su simboli, composizione delle liste, conduzione della campagna elettorale, scelta degli eletti. Non c’è quindi alcun rischio di essere “obbligati” a scelte elettorali non condivise. La “cessione di sovranità”, non è un atto notarile, il cui mancato rispetto comporta una penale, è l’atto politico unilaterale, di una libera collettività di iscritti al PRC, che si rinnova di volta in volta al rinnovarsi delle condizioni che la prevedono: condivisione della piattaforma programmatica e della collocazione politica. Una breve considerazione ancora rispetto all’ultima questione, quel timore mai sopito, e certo frutto di periodici traumi, che tutta l’operazione di costruzione del nuovo soggetto politico, miri in ultima analisi, allo scioglimento del Partito e alla liquidazione dell’esperienza comunista. Il tema dello scioglimento del Partito, come ogni altro tema politico, va guardato laicamente e senza pregiudizi: tale tema è previsto da un articolo dello Statuto, che impone un minimo di due terzi dei/delle delegati/e perchè il Partito possa essere sciolto. E’ evidente che qualora si dovesse giungere alla situazione che due terzi del Partito ritenesse necessario, utile o inevitabile, sciogliere il Partito, ciò accadrebbe. E’ altrettanto evidente che se ciò accadesse, sarebbe solo per la volontà liberamente espressa dagli iscritti, secondo le regole di un Congresso sovrano. Non c’è altro modo di sciogliere il Partito. Ci sono poi infiniti modi di renderlo inutile, ininfluente, marginale, subalterno, testimoniale, opportunista, e via continuando... tutti pericoli più concreti dello scioglimento. Se potessimo sgombrare il campo da ipotesi politiche fuorvianti, e da ti-


66 mori e perplessità sostanzialmente immotivati, potremmo affrontare una riflessione più di merito, cercando di capire quali sono le opportunità di rilancio di una prospettiva strategica di classe, legate alla costruzione di un nuovo soggetto politico. Per fare ciò sarà opportuno soffermarsi su quelli che sono gli elementi fino ad oggi chiari del percorso di costruzione avviato, ed in particolare le dinamiche che hanno prodotto tale percorso, la natura sociale dei soggetti che ne sono coinvolti, il sistema valoriale che li tiene insieme, i limiti oggettivi che tali soggetti e tale sistema valoriale presentano. E’ sulla base di una analisi condivisa di tali aspetti che sarà poi possibile allargare il ragionamento ai compiti politici che tale soggetto può effettivamente svolgere, e al modo in cui i comunisti possono operare perchè tali compiti, siano effettivamente svolti. DA DOVE NASCE IL NUOVO SOGGETTO POLITICO DELLA SINISTRA? La storia che ha prodotto il percorso della costruzione della Lista per Tsipras, non è cominciata con l’appello degli intellettuali, ma affonda le sue radici in una vicenda più lunga e complessa: i protagonisti di tale percorso sono infatti in larga misura gli stessi soggetti individuali e collettivi, che si sono mossi nel solco aperto a cavallo del millennio dal movimento No Global, proseguito poi con il movimento contro la guerra, e che ha investito la sua forza nel sostegno alla coalizione che ha portato al II governo Prodi; dopo il fallimento di quell’esperienza e la scissione del PRC, il soggetto politico che meglio ne rappresentava le istanze, questo arcipelago è tendenzialmente scomparso dalla scena politica, o almeno non è riuscito a riproporsi come protagonista di una dinamica conflittuale che tendeva sempre più alla radicalizzazione. Così nel cuore della crisi finanziaria esplosa nel 2008 e della crisi politica del governo Berlusconi, i soggetti sociali che negli anni passati avevano per primi denunciato i limiti della globalizzazione, faticano ad occupare la scena, e tocca alla FIOM assumere l’iniziativa, il 16 ottobre del 2010, nel tentativo di porre il tema delle politiche del lavoro al centro di una crisi che già vede una probabile radicalizzazione dello scontro; tale radicalizzazione è evidente due mesi dopo, il 13 dicembre, nel giorno del voto su Ruby in Parlamento, quando tocca agli studenti esprimere l’indigna-


67 zione di un intero paese, scontrandosi con la polizia a piazza del Popolo e giungendo quasi ad assediare il Parlamento, in una esaltante giornata di lotta. A fronte di queste due iniziative, che cadono nel momento di maggior crisi del governo Berlusconi, reti e movimenti sociali risultano inadeguate a fare da polo di aggregazione di una nuova fase del conflitto, anche se nei singoli territori e realtà locali, quasi sottotraccia, continua a prodursi un tessuto di comitati e associazioni che individua nel terreno della lotta per i beni comuni, un orizzonte in cui collocare questioni sociali e ambientali, lotta alle privatizzazioni e alla speculazione, contrasto alle basi militari e alle grandi opere. Sono temi in continuità con quelli posti dal movimento No Global, ma venuto meno il riferimento alla sinistra politica radicale, che aveva caratterizzato la fase precedente al II governo Prodi, e piuttosto che misurarsi con le divisioni di quella sinistra, lacerata dalla scissione tra PRC e SEL, tali temi vengono agiti fuori da una dimensione politica generale, ma nell’ambito di battaglie locali concrete o altrettanto concrete campagne generali, ma su temi molto particolari, come quella in difesa dell’acqua pubblica. Il risultato di questo fenomeno è visibile con il referendum in difesa dell’acqua pubblica, frutto dell’iniziativa dal basso di centinaia di comitati locali; il successo del referendum che registra una schiacciante vittoria, pone per la prima volta la possibilità per le reti e i movimenti sociali di agire direttamente sulla scena politica ed istituzionale, condizionando le stesse forze politiche presenti in Parlamento (il PD è obbligato a schierarsi per il Si), superando la necessità di rapporto con la sinistra radicale, divisa ed espulsa dalle istituzioni. Di fatto il movimento per l’acqua pubblica è il primo esperimento di rete sociale, con capacità di azione a livello politico e istituzionale, e il modello di ogni tentativo successivo. E’ però a questo punto che nelle reti e nei movimenti sociali si ripropongono le differenze mai sopite tra quei settori che puntano ad agire la scena politica istituzionale, seppur in totale autonomia da essa, e la parte più radicale, che rivendicando una totale alterità di classe, punta ad una radicalizzazione dello scontro. La realtà è che mentre su alcuni temi di critica al liberismo selvaggio, come la difesa dell’ambiente o dei beni comuni, o sulla democrazia e i diritti, sembra possibile ancora una relazione con la base sociale del PD, e quindi un qualche condizionamento del centrosini-


68 stra (la coalizione che Bersani costruisce qualche tempo dopo con SEL, si chiama, non casualmente “Italia Bene Comune), quando si entra nel vivo di problemi che riguardano i soggetti più deboli della classe, come sul tema del diritto alla casa, o nella lotta contro le strutture repressive per i migranti, così come quando si affrontano i temi del salario e dei diritti del lavoro, e soprattutto il tema della precarietà, il PD è evidentemente una controparte a tutti gli effetti. Le conseguenze sono evidenti pochi mesi dopo, il 15 ottobre del 2011, quando rispondendo ad un appello internazionale degli Indignados spagnoli, reti e movimenti sociali tentano di riprendere la scena e la piazza; la manifestazione nasce acefala, per la rivendicata rinuncia ad ogni gestione politica della piazza, ed in più, nel tentativo di evitare tensioni e problemi d’ordine pubblico, ci si adatta ad un percorso che evita ogni obbiettivo simbolico: il risultato è che le tensioni invece di esprimersi all’esterno, davanti ai palazzi del potere, si producono all’interno dello stesso corteo, ed è la debacle politica e organizzativa degli scontri a piazza San Giovanni. A fronte del tentativo di ricondurre il movimento nell’ambito di una relazione politica con il centro-sinistra, settori estremamente minoritari, ma non totalmente isolati, fanno naufragare la manifestazione; è il punto più basso, e per certi versi la fine, di quel fenomeno di reti e movimenti, tenuti insieme da un comune orizzonte, pur a fronte di pratiche diverse, che a Genova aveva toccato il punto più alto. Nel maggio dell’anno successivo la FdS lancia una manifestazione nazionale, l’ultimo significativo evento di massa a testimoniare l’esistenza di una sinistra politica in Italia, ma la risposta di reti e movimenti e scarsa e marginale: mentre una parte dei movimenti più conflittuali hanno sempre avuto un difficile rapporto con la sinistra politica, considerata come articolazione estrema del centro-sinistra (non del tutto a torto), altri settori con i quali il livello di condivisione era stato maggiore, si preparano a tentare la strada di una propria espressione politica autonoma, escludendo una sinistra politica divisa, espulsa dal Parlamento e considerata sostanzialmente residuale. Nasce così il progetto di ALBA, il primo tentativo di costruzione di una nuova soggettività politica, a partire dalle soggettività sociali. Nell’au-


69 tunno dello stesso anno, nel solco di ALBA e con al centro molti degli stessi soggetti protagonisti, nasce il progetto di Cambiare si può, finalizzato proprio alla partecipazione diretta alle imminenti elezioni politiche, con una proposta chiaramente alternativa al centro-sinistra e una dichiarata diffidenza verso i partitini della sinistra, accusati di puntare solo alla propria autoperpetuazione, e di essere pronti anche a mediazioni di bassa lega. La candidatura di Ingroia e l’esperienza di Rivoluzione Civile, che appoggiata dalle segreterie dei partiti, blocca sul nascere l’esperienza di Cambiare si può, sembra fatta apposta per legittimare ogni diffidenza e ogni pregiudizio antipartito; il suo esito fallimentare è l’occasione per il PRC di chiudere definitivamente con la logica dei patti tra segreterie, e di guardare con più attenzione e disponibilità ai tentativi che nella società si producono, per risolvere il tema della crisi della rappresentanza. Dopo l’ennesimo fallimento elettorale della sinistra politica, il percorso di assunzione in proprio da parte dei soggetti sociali del tema della rappresentanza politica, si ripropone ancora una volta con le elezioni europee, rinunciando però a quell’atteggiamento antipartitico che aveva caratterizzato i precedenti tentativi, e trovando finalmente nel PRC un partito in grado di cogliere l’esigenza reale che si manifestava, offrendo ad essa sia una candidatura in grado di fare da collante, sia un minimo di struttura organizzata; SEL arriverà dopo e il suo intervento sarà anch’esso determinante. Questo il percorso che ha portato alla Lista Tsipras e All’altra Europa, e che ora ripropone, dopo un primo piccolo successo elettorale, il tema della riappropriazione della rappresentanza politica diretta, da parte delle soggettività sociali. Non l’invenzione di un gruppo di presuntuosi intellettuali, ma un processo di maturazione di soggettività sociali, che va avanti da anni, misurandosi con il fallimento della mediazione politica un tempo garantita dalla sinistra istituzionale, nel quadro di compatibilità di sistema sempre più limitate. Solo dei “comunisti” con l’inguaribile vocazione al privilegio della rappresentanza istituzionale, possono guardare con sospetto a questa dinamica, che invece è un segnale della crescita di coscienza della incompatibilità, tra istanze sociali e gli attuali rapporti politici e istituzionali.


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QUALE SOGGETTO SOCIALE PER IL NUOVO SOGGETTO POLITICO? Già evidenziando in qualche modo il percorso compiuto dalle soggettività sociali che hanno dato vita alla Lista Tsipras, se ne definisce in qualche modo anche la composizione sociale, e se ciò non bastasse, l’analisi del consenso elettorale ottenuto, così come è state fatta in diverse sedi, compresa l’assemblea nazionale del Vittoria a luglio, offre un quadro chiaro. Si tratta di un frammento sociale la cui principale caratterizzazione è data da un livello culturale medio-alto, livello culturale a cui si accompagna una condizione, o per quanto riguarda i più giovani, almeno la provenienza da una condizione, di relativo benessere; soggetti che per quanto colpiti dalla crisi, non sono ridotti alla necessità di dover impiegare ogni loro risorsa, alla semplice riproduzione della propria condizione; soggetti che per livello culturale e condizione di vita, hanno sempre avuto la possibilità di collocare tale condizione in una rete di relazioni sociali più ampia, in cui è previsto l’interesse per tematiche generali, l’impegno sociale e in generale una concezione non limitata, o addirittura grettamente egoistica, del proprio interesse sociale. Con un ventaglio di figure sociali che val dal mondo delle libere professioni a quello del precariato, dai soggetti più coscienti del mondo operaio e del lavoro dipendente in genere, fino ai pensionati e agli intellettuali, si tratta di una composizione sociale, in larga misura legata a quella specifica tipologia di ceto medio che il fordismo ha prodotto, integrando nel proprio modello di consumi, pezzi rilevanti di mondo operaio e di lavoro dipendente in genere. Definire ceto medio questo tipo di soggettività, è improprio sia per il carattere ideologico che tale espressione ha avuto nel tempo, sia perchè l’aspetto più evidente della crisi è proprio l’impossibilità di garantire l’esistenza di ceti medi. Il termine soggetti intermedi rispetto a quello di ceti medi, è forse più adatto perchè non definisce alcuna condizione di medietà, intesa quasi come un giusto mezzo tra un capitale scandalosamente ricco e un proletariato intollerabilmente povero, sorta di decoroso e sobrio ideale, a cui ridurre o elevare i due soggetti antagonisti nella lotta di classe, ma semplicemente una collocazione intermedia, tra chi ha tutto e chi non ha nulla,


71 senza dare a tale collocazione alcuna valutazione di merito. La definizione di soggetti intermedi è anche adatta a definire la provvisorietà di questo soggetto, che investito dalla crisi, di fatto vede sempre più assottigliarsi la possibilità della propria riproduzione: ciò è chiaramente evidenziato nella frattura di condizioni che passa fra le generazioni, con pensionati con redditi e condizioni economiche, tendenzialmente migliori dei giovani, abitualmente precari. Sul piano strettamente economico questo frammento di soggettivitò sociale, ha caratteristiche simili a quello che in questi anni ha costituito la base sociale ed elettorale del centro-sinistra e in larga misura ha coinciso con esso, specialmente quando il centro-sinistra comprendeva anche forze radicali come il PRC, ma rimanendovi in parte legato anche successivamente, sia attraverso il voto a SEL, sia direttamente attraverso il voto “utile”. Con il procedere e l’approfondirsi della crisi, e lo svelarsi, durante i governi Monti e Letta della totale subaltenità del PD alle politiche europee, e poi con Renzi, addirittura del suo connubio con il centro-destra, mentre parte della base sociale ed elettorale del centro-sinistra si spostava su Grillo, in questo frammento sociale, che per formazione politica e culturale è refrattario al populismo grillino, ha iniziato a maturare la necessità di un percorso autonomo e tendenzialmente alternativo a quello del PD. E’ questo un fenomeno marginale in termini quantitativi, ma che può essere un indicatore utile di una tendenza possibile, e soprattutto di una opportunità per la ricostruzione di un blocco sociale alternativo, a quello con il quale fino ad oggi il capitale ha garantito il proprio governo dei processi. Infatti seppur quantitativamente marginale, questo frammento sociale ha le caratteristiche per poter costruire il nucleo di massa critica e il riferimento culturale, intorno a cui ricostruire un soggetto politico della sinistra, con capacità attrattive nei due diversi ambiti in cui si collocano, al momento, le manifestazioni più esplicite di dissenso con le politiche di gestione della crisi. Il primo di questi ambiti è rappresentato sempre da quei soggetti sociali intermedi, affini come condizione a quella che caratterizza il voto a L’Altra Europa, ma culturalmente meno predisposti all’impegno diretto, usi alla delega e a riporre la fiducia nel leader di turno, la cui principale espres-


72 sione di dissenso, è stata il voto a Grillo. Con il quasi certo declinare della meteora grillina, dopo il fallimento della “spallata” e l’inizio della “lunga marcia”, il nuovo soggetto politico può offrire la sponda a quanti, dopo l’ennesima delusione, potrebbero altrimenti unirsi al già vasto fronte dell’astensione. Tale possibilità ha in suo favore soprattutto il fatto che una quota non irrilevante del voto grillino, viene da sinistra, e a sinistra potrebbe tornare, se una prospettiva credibile venisse proposta. Il secondo, e per noi comunisti più importante ambito, è costituito da quel mondo di conflittualità sociale, di resistenza operaia, di pratiche di autorganizzazione sociale, o anche di semplice, ma cosciente, “alterità proletaria”, che oggi non solo non ha alcuna rappresentanza politica, ma che non sembra in grado di produrre una propria organica visione, intorno a cui costruire alleanze sociali. La contiguità valoriale, e in alcuni casi (come sul tema della TAV) l’internità ai conflitti, di soggetti individuali e collettivi partecipi del progetto di nuovo soggetto politico della sinistra, può rendere credibile la possibilità di una riconnessione, tra settori di soggettività intermedie più coscienti e radicali, e settori di classe espulsi dalla dinamica politica, ma protagonisti di esperienze di conflitto sociale e resistenza. Ovviamente la possibilità che il piccolo frammento sociale aggregatosi intorno a L’Altra Europa possa divenire punto d’attrazione per questi e altri settori, è pregiudizialmente legata ad una scelta chiara in termini di alternativa al PD; non fare tale scelta, significherebbe garantirsi forse un piccolo strapuntino istituzionale, ma ripercorrere di fatto gli stessi errori che hanno portato i “partitini” della sinistra alla loro crisi.

AMBITO VALORIALE E CULTURE POLITICHE Il contesto valoriale nel quale si colloca la costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, è quello prodotto dal ciclo di mobilitazioni e conflitti, il cui maggior impulso si è prodotto con l’esplosione del movimento No Global, e che si sostanziano nell’opposizione alla riduzione a merce di ogni rapporto in ogni ambito della vita sociale, sia esso il lavoro, l’ambiente, la cultura, le relazioni fra persone ecc.... A partire da questo rifiuto, reazione ad un capitalismo pervasivo e distruttivo, si è ricostruita dopo


73 vent’anni in cui il capitalismo si era rappresentato come “unico orizzonte possibile”, una lettura critica delle dinamiche del capitale e della sua crisi, che ha aperto a nuovi soggetti sociali una collocazione radicale, indisponibile ad accettare i diktat delle autorità economiche internazionali. Questa dimensione critica ha visto confermate le sue previsioni con l’inasprirsi della crisi, giungendo quindi a prodursi come opzione politica, individuando una precisa controparte nel grande coalizione della politiche europee, espressione dei poteri finanziari. Nell’ambito di questo contesto valoriale si collocano due diversi filoni di elaborazione, uno certamente minoritario, ma più moderno, legato a pratiche innovative e al mondo giovanile, l’altro più in linea con la tradizione della sinistra politica classica. Il primo è caratterizzato dalla rottura con l’impianto classico del ‘900, che poneva al centro della critica al sistema capitalistico il tema della contraddizione capitale-lavoro, e quindi il ruolo del proletariato come soggetto protagonista di tale contraddizione. Al contrario, tutti i movimenti di critica radicale del modo di produzione capitalistico di questi ultimi vent’anni, pur assumendo la contraddizione capitale-lavoro, l’hanno rideclinata all’interno di una dimensione più complessa, nella quale il ruolo della classe, è sfumato fin quasi a dissolversi. Contestualmente a questo processo, si è modificato il tema del superamento del sistema capitalistico, declinato nel ‘900, pur con un ventaglio di opzioni diverse, come la necessità del sostituirsi del proletariato alla borghesia, nella gestione del potere politico ed economico, e quindi del socialismo; considerato questo impianto esaurito con la fine del “socialismo reale”, l’attenzione si è spostata su una serie di opzioni, tutte con un loro intrinseco interesse, il cui tema comune è il prescindere dallo scontro di classe e dalla dialettica tra rapporti di produzione e soggettività sociali, per ricollocare la costruzione dell’alternativa in termini sostanzialmente idealistici. Il tema della decrescita è certamente il più noto tra questi temi, ma anche la propensione ad immaginare la società come una sorta di comunità, la cui autorganizzazione è di per se garanzia di eguaglianza e giustizia su un


74 piano di equilibrio e armonia, e quindi l’idea che la funzione pubblica dello stato, come strumento di organizzazione e mediazione del potere di una classe sull’altra, possa essere superata; c’è poi tutto un approccio che guarda al lavoro produttivo, e in particolare a quello manifatturiero, come un tema residuale, a cui contrapporre il tema del reddito, senza comprendere che proprio l’incapacità di produrre lavoro è la cifra interpretativa del capitalismo in occidente, e quindi la base della critica al sistema basato sul profitto; c’è poi una rimessa in discussione del concetto stesso di classe, basata sulla identificazione di tale concetto, con la sua rappresentazione nel quadro del capitalismo fordista novecentesco, piuttosto che sulla sua definizione in relazione al tema generale della produzione di plusvalore, al di là delle manifestazioni specifiche con cui esso si produce, in relazione al modificarsi del ciclo produttivo. Questi e altri temi, la cui trattazione richiederebbe altri spazi e soprattutto altre competenze, sono comunque manifestazioni dell’elemento di novità prodotto dalla globalizzazione capitalistica e soprattutto dall’estensione del meccanismo di mercificazione capitalistica, a tutti gli aspetti della vita sociale. Di fatto il capitalismo occidentale all’apice della sua parabola, sta producendo contraddizioni irrisolvibili che coinvolgono una quantità di soggetti e problematiche, dalle popolazioni indie delle foreste dell’Amazzonia, alle nuove figure professionali precarie ad alta specializzazione, dalle tematiche ambientali a quelle della comunicazione, e le voci critiche del capitale provengono da ambiti e contesti tra i più vari e parlano linguaggi diversi. Ciò da luogo a una quantità di contributi critici, elaborazioni parziali, intuizioni innovative, ipotesi velleitarie, tutte però riconducibili alla insostenibilità degli attuali rapporti di produzione, e tutte utili nella fase di ricostruzione della massa critica, necessaria al’elaborazione di una nuova cultura anticapitalista. Il secondo ambito di ragionamento, che è in continuità con approcci più classici, è certamente maggioritario, e si attesta sulla critica alla gestione della crisi, piuttosto che sulla critica al sistema che tale crisi ha prodotto, ipotizzando alternative e soluzioni, nel quadro di un cambiamento dei rapporti politici in sede europea e nazionale. L’ipotesi che rimettendo in discussione vincoli di stabilità e rigore monetario, in particolare quelli più odiosi come il “fiscal compact”, si possa offrire lo spazio ad un intervento


75 pubblico tale da ridare fiato a produzione e consumi, riattivando il circuito economico, senza necessariamente porre il tema del superamento degli attuali rapporti di produzione capitalistica, fa parte del tradizionale bagaglio culturale della sinistra politica; ovviamente ad essa si accompagna, anche la possibilità di commettere gli errori della sinistra politica classica, e cioè il rischio di investire, pur di modificare i rapporti politici in sede europea o nazionale, nella relazione con quella parte del centro-sinistra che appare più sensibile a rimettere in discussione vincoli e rigore. Nel complesso tale ipotesi, ripropone le ricette keynesiane basate sul debito pubblico, senza soffermarsi sulla necessità di capire cosa sia accaduto, e come sia stato possibile, per il capitale, mettere da parte tali politiche alla fine degli anni ‘70, senza trovare di fatto opposizione. Ciò che non viene assunto è che proprio il successo delle politiche keynesiane del dopoguerra, riproponendo la centralità della contraddizione capitale-lavoro ad un livello più alto, ha prodotto un’alternativa netta, tra il superamento di tali politiche in senso neoliberista, o la loro riproposizione nel quadro di una ridefinizione di equilibri di potere e rapporti di produzione. Un tema che non fu affrontato allora, e che oggi si pone in termini ancora più radicali e ineludibili, ma senza poter più contare sulla forza politica e la capacità egemonica, di una classe disastrata da 30 anni di politiche neoliberiste. A parte qualche contributo di Guido Viale, manca al momento un tema, tra le varie ipotesi di superamento di questa fase di ristagno e recessione, quello che assumendo la distruzione di valore come elemento naturale di soluzione delle crisi di sovrapproduzione (e questa è una crisi di sovrapproduzione), piuttosto che opporsi a tale distruzione con politiche meramente difensive (del salario, dell’occupazione, dello stato sociale), passi ad una fase offensiva, collocando il tema della distruzione nel campo avverso. Ciò per esempio può significare individuare i modi e le forme di questa distruzione, attraverso il mancato pagamento o comunque la ricontrattazione, di parte o tutto il debito pubblico o dei soli interessi (80 miliardi l’anno), intervenendo almeno su quella parte di debito pubblico di proprietà di investitori italiani; ciò avrebbe conseguenze sul sistema bancario


76 nazionale, e richiederebbe un intervento dello stato, e la necessità di ricostruzione di un sistema bancario pubblico. Tale operazione equivarrebbe alla distruzione di una gran quantità di valore, quel valore legato alla merce finanziaria, la cui sovrapproduzione è il tema strutturale di questa crisi; ma tale distruzione sarebbe funzionale a una ripresa economica, che questa volta dovrebbe seguire indirizzi diversi da quelle dei decenni passati. Per quanto questa ipotesi possa essere traumatica e densa di insidie, lo sarà sempre meno del subire i processi di distruzione governati dal capitale, che dopo essersi esercitati con salario, occupazione, stato sociale e beni comuni, inevitabilmente approderanno alla guerra, lo strumento con il quale il capitale storicamente risolve le crisi derivanti dalle sue eccedenti capacità produttive. Il fatto che il tema del “No Debito” sia scarsamente presente nelle discussioni intorno al nuovo soggetto politico, è probabilmente, e forse inconsciamente, collegato ai timori di quei soggetti intermedi che da tale trauma potrebbero subire conseguenze spiacevoli, sia perchè direttamente proprietarie di quote infinitesimali di debito pubblico, sia per le conseguenze economiche che tale trauma produrrebbe. Così piuttosto che fare i conti con un tema ostico e poco “simpatico” come quello della distruzione, ci si attarda in soluzioni velleitarie, ma rassicuranti, nella speranza di poter frenare e arginare processi strutturali profondi, con politiche difensive e senza prospettiva. Di fatto la necessità di una scelta radicale e coraggiosa, che equivale allo spostamento di rilevanti risorse economico, dalla rendita all’investimento produttivo, e produrrebbe una reazione dura e temibile da parte dei mercati finanziari, potrebbe essere meglio sostenuta da quei soggetti, la cui condizione è oggi, già gravissima e che “non avendo da perdere che le loro catene”, subirebbero un minor impatto, avendo comunque in cambio almeno una prospettiva e una speranza. In questo quadro risulta evidente come la contraddizione capitale-lavoro ritorna ad essere centrale, laddove la soluzione della crisi, può essere data solo dall’espropriazione di quote di ricchezza finanziaria, da trasformare in investimento produttivo, e quindi ricchezza sociale, finalizzata al la-


77 voro, e tale espropriazione può essere attuata solo da quei soggetti che per la loro collocazione ai livelli più bassi della scala sociale, sono totalmente incompatibili con gli attuali rapporti sociali. Ciò, ovviamente è “lotta di classe”, un tema sul quale i soggetti sociali intermedi, anche quelli coinvolti nel nuovo soggetto politico, faticano a collocarsi.

I VIZI “PICCOLO BORGHESI” DELLA SINISTRA E I NUOVI SOGGETTI INTERMEDI Veniamo così al tema dei limiti e delle criticità nel percorso di costruzione del nuovo soggetto politico, tutti interni alle caratteristiche della composizione sociale e del sistema valoriale che caratterizza tale progetto. Tali limiti sono riconducibili ad una assenza di concretezza sui temi sociali, ad una difficoltà a declinare la critica generale ad un modello di relazione sociali, in termini di costruzione sociale e capacità conflittuale, nello specifico dei singoli contesti locali e settoriali. L’idea di concepire il nuovo soggetto politico, in funzione di campagne nazionali, in supporto all’iniziativa istituzionale o finalizzate all’orientamento dell’opinione pubblica attraverso i media, che, per esempio, la proposta di una campagna nazionale contro il TTIP evoca, risponde ad una cultura politica, tutta interna ad una soggettività sociale che tendenzialmente si misura con i problemi, a partire da una coscienza soggettiva, piuttosto che da una condizione oggettiva. La cultura che sottende a tale approccio, e che ha portato all’estinzione la sinistra politica, è l’idealistica convinzione, che il ruolo della politica sia quello di individuare e denunciare i problemi, avanzare soluzioni e raccogliere consensi intorno ad esse, quindi investire le sedi decisionali perchè assumano tali soluzioni, in un processo in cui la crescita della coscienza soggettiva è la chiave del modificarsi dei rapporti di forza tra gli interessi in campo. Questa modalità astratta, non fa i conti con la dialettica tra livelli di coscienza soggettiva e condizione oggettiva dei soggetti, dove la prima si realizza in funzione della seconda. Ciò è invece ben chiaro all’avversario di classe, che modificando le condizioni oggettive dei soggetti subalterni, ne ha contestualmente destrutturato i livelli di coscienza.


78 Il compito del nuovo soggetto politico, e dei soggetti intermedi che ne sono promotori, non può essere quindi, come fin qui fatto dalla sinistra politica, quello di denunciare problemi, avanzare proposte e poi chiedere deleghe elettorali per portare tali proposte nelle sedi decisionali, ma prima di ogni altra cosa agire nella sfera sociale, per modificare attraverso pratiche di resistenza e di mutualismo, la condizione dei soggetti e quindi la loro coscienza soggettiva. E’ questo il tema del radicamento sociale, che il nuovo soggetto politico eredita irrisolto dalla sconfitta della sinistra politica, testimoniato in modo plateale, dagli scarsi risultati elettorali, proprio in quelle periferie urbane, in cui ad una condizione di maggior malessere, si accompagna un più basso livello di coscienza soggettiva. E’ auspicabile che il fatto che questo nuovo soggetto politico, sia anche il prodotto di una critica alla separatezza della sfera politica da quella sociale, possa offrire l’opportunità di un cambio di passo. Se ciò non sarà, tutto il progetto si risolverà nell’irrilevanza di un semplice cambiamento dei ceti politici. Collegata e per certi versi dipendente a questo approccio idealistico, c’è la tendenza già introiettata, alla preminenza di un dibattito tutto interno, su modi e funzionamenti della politica, nella astratta ricerca di un “metodo” democratico e trasparente, da cui dipenderebbero le sorti della rifondazione della politica. L’idea che il processo decisionale, sia il luogo in cui il prodursi della coscienza collettiva, porta all’individuazione delle giuste scelte e soluzioni, e che quindi da tale processo, dalla sua trasparenza e democraticità, dipenda la possibilità per il soggetto politico di svolgere un ruolo politico significativo, è smentita quotidianamente dai fatti. Soggetti politici basati sull’autoritarismo e il leaderismo, ignari di ogni procedura democratica, ma capaci di aggregare e organizzare interessi concreti, svolgono sicuramente una funzione politica e sociale più rilevante di soggetti politici, la cui principale cura è l’espressione e la rappresentanza di ogni singola componente interna. La necessaria coerenza di mezzi e fini, per cui un soggetto politico che aspira alla democrazia, cerca di praticarla al suo interno, non può tradursi in una nevrotica, incomprensibile e paranoica ricerca del cavillo più adatto a evitare, il pro-


79 dursi di quelle dinamiche di ceto politico, che invece proprio in questo tipo di discussione, trovano il modo migliore di esprimersi. Di fatto l’unica garanzia del prodursi di processi partecipativi reali, non sta in un sistema di regole piuttosto che in un altro, ma nella capacità di un soggetto politico di farsi attraversare, di rendersi interprete, di organizzare, i processi e i soggetti reali. Il PCI, fondato sul vituperato “centralismo democratico”, è stata la più importante e significativa esperienza di partecipazione democratica del nostro paese, proprio perchè seppe fare questo; la sinistra politica prodottasi nel quadro della sconfitta, dopo lo scioglimento del PCI, pur con tutte le sue innovazioni nella vita democratica interna, si è arenata nelle secche di un politicismo più preoccupato di rappresentare se stesso, le proprie fazioni e correnti, che i soggetti, le esperienze e i processi reali. Il “funzionamento” del nuovo soggetto politico, la selezione dei suoi organismi di coordinamento, i suoi processi decisionali, dovrà quanto prima essere il prodotto della dialettica dei soggetti che a esso fanno riferimento, piuttosto di qualche regola o “legge”, per cui come dice il noto proverbio è sempre “pronto l’inganno”. I due limiti sopra indicati sono di fatto i limiti di una sinistra politica, che storicamente e salvo poche “rivoluzionarie” eccezioni, è stata condizionata dai limiti di una direzione “piccolo borghese“, cioè di quella “piccola borghesia”, che ha svolto un ruolo determinante nella costruzione politica in cui si è rappresentata la classe, e attraverso la quale la classe ha tentato di risolvere il gap tra i suoi livelli di coscienza e i suoi compiti di fase. Ciò che è da comprendere è quanto, tra gli attuali soggetti intermedi e la vecchia “piccola borghesia”di un tempo, siano gli elementi comuni, e quanti i tratti di diversità, sia sul piano delle condizioni oggettive che su quello delle culture politiche soggettive, e ciò al fine di valutare se tale progetto può presentare elementi di novità, o se siamo solo in presenza dell’abile manovra di qualche intellettuale in cerca di visibilità, ottenuta a scapito di una sinistra politica in crisi. L’investimento di una politica di classe in questo progetto, può basarsi solo sul presupposto che la condizione e la cultura di questi soggetti intermedi, sia obbiettivamente diversa da quella dei ceti medi del passato. E’ oggettivamente diversa la condizione di questi soggetti intermedi, che


80 la crisi sta colpendo duramente, specialmente nella fascia d’età più giovane, obbligandoli ad una più concreta aderenza ai temi della difesa della propria condizione, e della costruzione dei contesti perchè tale condizione migliori. E’ soggettivamente diversa la cultura di questo specifico frammento sociale di soggetti intermedi, del quale sono parte, specialmente nella fascia generazionale più anziana, molte esperienze nate nel vivo di pratiche conflittuali, frutto delle esperienze più avanzate del mondo politico e sindacale, prodottesi nel corso degli ultimi decenni. A differenza dei vecchi ceti medi, la cui condizione era ben definita e soprattutto garantita, nel quadro di una gerarchia data e indiscussa, questi soggetti intermedi si sono prodotti come frutto di una ridefinizione di gerarchie e rapporti di forza, tra capitale e lavoro, nel quadro prima delle politiche espansive keynesiane, poi nel precario scenario della crisi capitalistica. Il tratto più caratteristico del vecchio ceto medio, una prudente tendenza alla stabilità, è inapplicabile a questi soggetti intermedi, prodottisi prima in un quadro di conflitti, poi in quello della precarietà, e che ora vedono definitivamente a rischio la stessa possibilità di riprodurre la propria condizione. Questi elementi di novità, non possono celare il fatto che al momento, permangono ancora limiti, nella capacità di questo soggetto di entrare in relazione con quel mondo di conflittualità sociale, che si produce in quegli ampi settori di classe, la cui condizione è già drammatica da tempo e che con la crisi diviene disperata. Settori di classe che pur privi di una propria visione politica, sono obbligati da una stringente condizione di necessità, a misurarsi quotidianamente con uno scontro di classe che vive nella concretezza di battaglie di tipo sindacale e rivendicativo, che non prevede mediazioni possibili e si gioca tutto e immediatamente su temi economici. Fin quando questa distanza non verrà colmata, non può darsi la saldatura tra una sinistra politica che si ricostruisce intorno al ritrovato protagonismo di soggetti intermedi, colpiti dalla crisi e dalla fine degli assetti sociali che garantivano il riprodursi della propria condizione, e quei settori di classe già da tempo espulsi da tali assetti sociali. La vicenda prodottasi solo nell’autunno scorso intorno a due grandi e im-


81 portanti mobilitazioni è paradigmatica di questa situazione. Il 12 ottobre dell’anno passato, rispondendo ad un appello di intellettuali e costituzionalisti, una grande manifestazione si tiene a piazza del Popolo a difesa della Costituzione: c’è la FIOM, SEL, le reti pacifiste, quelle ambientaliste e per i beni comuni, il mondo della scuola e della cultura, settori della CGIL, e ovviamente il PRC, il tutto con una composizione sociale che vede settori intellettuali, soggetti politicizzati e militanti di partito, lavoratori dipendenti e pensionati, più o meno gli stessi settori coinvolti nel percorso dell’Altra Europa; una settimana dopo, il 18 e il 19 ottobre, è la volta dei settori più radicali, che riempiono San Giovanni con i sindacati di base in sciopero, fra cui molti precari e lavoratori a rischio di perdita del posto di lavoro, e migliaia di famiglie di occupanti di case, in gran parte immigrati, oltre a un gran numero di giovani, molti provenienti da centri sociali delle periferie urbane. Le due piazze hanno obbiettivi e linguaggi diversi, la prima impegnata a difendere quel sistema di tutele politiche e sociali di cui la Costituzione è stata garante, la seconda impegnata a rivendicare diritti e condizioni di vita, che ha già verificato come non più garantite da alcuna Costituzione. La divisione delle due piazze, è stata la riprova di una lacerazione nel blocco sociale da costruire, che nel giro di pochi mesi ha consegnato entrambe alla sconfitta. A distanza di meno di un anno, a fronte del definitivo affossamento della Costituzione, perpetrato da un governo che ha pagato il consenso 80 euro a voto, la risposta di piazza è stata un presidio di testimonianza e le dignitose, autorevoli e ininfluenti prese di posizione di intellettuali e costituzionalisti, in un quadro di totale disinteresse del paese, troppo impegnato a sopravvivere alla crisi economica, per prendersi il lusso di occuparsi dei grandi temi della democrazia. Nello stesso tempo i soggetti che avevano prodotto le piazze del 18 e 19, vincolati in una dinamica conflittuale legata al proprio specifico sindacale e rivendicativo, si sono separate, l’una, i movimenti di lotta per la casa, per arenarsi in uno scontro “colpo su colpo” risoltosi in una spirale repressiva, l’altro, i sindacati di base, rinunciando di fatto a riproporsi come soggetto politico, per il comprensibile timore di investire il proprio radi-


82 camento sociale in assenza di una realistica prospettiva politica. Ciò che di fatto è accaduto, è che i soggetti intermedi si sono mobilitati per la difesa di quegli assetti sociali garantiti dalla Costituzione, che sono il quadro di tutela della “loro“ specifica condizione, presentando tale difesa, come difesa di un “interesse generale”, assegnando quindi ad essa una superiore valenza politica, senza tener conto del fatto che quel presunto “interesse generale”, già da tempo non prevede più la tutela di ampi settori di classe. Questo atteggiamento che si presenta come più “politico”, in realtà è semplicemente la manifestazione di uno specifico interesse sociale, con in più l’aggravante che tale interesse sociale, nel caso in questione, non rappresenta nemmeno un interesse avanzato, ma una semplice battaglia difensiva di retroguardia, persa nel silenzio e nell’indifferenza dei più. Al contrario un atteggiamento politicamente serio, avrebbe dovuto puntare immediatamente all’unificazione delle due piazze, senza alcun timore per i rischi di contaminazione con pratiche conflittuali non condivise, e in quel contesto ricollocare la battaglia per la Costituzione, non come battaglia di retroguardia a difesa di residue e sempre più limitate tutele e garanzie, ma come battaglia offensiva, per la riconquista di garanzie e tutele per quanti in questi anni le hanno perse, o per quanti, come i migranti, non le hanno mai avute. Questa vicenda, che precede di alcuni mesi la nascita della Lista Tsipras, non coinvolge direttamente il processo politico che da quella lista è nato, ma certo ha coinvolto gran parte dei soggetti che a quel progetto politico oggi lavorano, a partire dai militanti di PRC e SEL; il PRC non riuscì a svolgere alcuna funzione politica all’epoca, ma ebbe almeno la sensibilità di essere presente in entrambe le piazze, SEL al contrario decise per la sola piazza del 12 ottobre. Oggi la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra è la scommessa di riconnettere soggetti intermedi in grado di produrre una costruzione politica, con quei settori di classe esclusi dalla politica, ma protagonisti del conflitto sociale: perchè ciò sia possibile è necessario collocare il nuovo soggetto politico nel vivo delle contraddizioni sociali, impegnarlo in quelle pratiche di resistenza e costruzione sociale, la cui concretezza è la chiave del radicamento sociale. Ma per fare ciò c’è ne-


83 cessità di un progetto e soprattutto di un partito comunista, in grado di esprimere in forme adeguate alla fase, un coerente e organico punto di vista di classe. Il tema della costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra è il tema della ricollocazione di un punto di vista e degli interessi di classe, nell’ambito di una più vasta rete di relazioni e interessi sociali; ciò permette la ricostruzione di una relazione tra sinistra politica e classe, e quindi la possibilità di superamento di quella crisi della sinistra che si trascina ormai da decenni. La possibilità di affrontare tale tema è legata al prodursi della crisi, che disgregando il blocco sociale su cui le politiche del capitale hanno esercitato la loro egemonia, determina il ridislocarsi su posizioni radicali, di quei settori più coscienti dei soggetti sociali intermedi, che storicamente hanno prodotto la costruzione politica, nel cui quadro il proletariato ha collocato il tema del superamento del gap, tra i suoi livelli di coscienza e i suoi compiti di fase. E’ nella relazione tra soggetti sociali intermedi e classe, che si definisce la natura della costruzione del soggetto politico: quanto più tale relazione pone al centro della sua analisi la contraddizione capitale-lavoro e gli interessi di classe, tanto più il soggetto politico sarà irriducibilmente alternativo al capitale; quanto più tale relazione permette una interpretazione di tutta la complessità sociale alla luce della contraddizione capitale-lavoro, tanto più il punto di vista di classe sarà in grado di produrre egemonia. Il compito dei comunisti in questa fase è favorire il prodursi di tale relazione, in una dialettica tra teoria e prassi, che parta dall’assunzione dell’orizzonte valoriale intorno a cui tale relazione al momento si può produrre, per trasformare tale orizzonte valoriale, in concrete pratiche di resistenza e costruzione sociale, rielaborare le pratiche in una più articolata e verificata progettualità politica, ponendo quindi a partire da tale progettualità, i temi politici dei rapporti di forza e dei poteri. Questo è schematicamente il lavoro da fare, che ovviamente va meglio definito nel dettaglio dei singoli passaggi.


84 Tale processo, nel definire la natura del soggetto politico, ne definisce anche il percorso di costruzione, all’interno di una pratica di relazione includente, nel quadro di un sistema valoriale condiviso, a partire dalla reciproca contaminazione delle pratiche. Un percorso che deve vivere nella concretezza delle dinamiche sociali, con un ruolo decisivo dei suoi terminali territoriali, che devono superare l’angusto perimetro dei semplici comitati elettorali, per divenire i luoghi della relazione politica di tutte le diverse e frammentate esperienze di partecipazione e autorganizzazione sociale.

IL SOGGETTO POLITICO COME CONTENITORE: VALORI, COLLOCAZIONE , SCOPO Uno dei primi dati che risulta evidente guardando al processo di costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, è che al momento, sembrano mancare gran parte dei presupposti su cui abitualmente si basa l’esistenza di un soggetto politico. Il secondo elemento, che subito dopo è possibile notare, e che è lecito ritenere che tali presupposti forse oggi non sono così necessari. Non c’è oggi, e difficilmente potrà esserci domani, una base ideologica condivisa; anche le culture politiche sono differenziate, e seppur reciprocamente contaminabili, difficilmente potranno comporsi nella sintesi di una articolata visione strategica e progettuale; non c’è un gruppo dirigente riconosciuto, una “testa” autorevole, in grado di essere riferimento per tutte le diversità presenti; non c’è, ed è auspicabile che mai ci sia, un “leader”, secondo il modello dei principali partiti oggi presenti sulla scena politica; manca il riferimento ad uno specifico interesse, sia esso legato ad un particolare soggetto sociale, o a un definito ambito territoriale; manca un modello organizzativo, quale quella che il PRC ereditò dal PCI, in grado di produrre la griglia, in cui collocare le diverse soggettività aderenti al progetto, e infine a dirla tutta, manca persino un comune approccio tattico, rispetto alle prossime ed imminenti scadenze elettorali. L’unico collante che al momento tiene insieme i soggetti partecipi del progetto, è solo e semplicemente un sistema valoriale, di critica radicale alle politiche neoliberista; sulla base di un tale sistema valoriale, è poi possibile la definizione di piattaforme programmatiche, che in sostanza


85 si risolvono in un elenco di si e di no, nei quali il sistema valoriale trova espressione. Nulla di più. Costruire un soggetto politico in queste condizioni può apparire come una pura velleità, eppure se mettiamo da parte consolidate convinzioni e qualche vecchio pregiudizio, dovremo prendere atto che un soggetto politico con caratteristiche così “leggere”, è forse il più adatto, se non l’unico possibile, per agire su una scena politico-istituzionale, che oggi è caratterizzata da proprio da “partiti contenitore”, come di fatto potrebbe essere il nuovo soggetto politico della sinistra. E’ questo un dato, forse difficili da assumere, ma con cui è necessario fare i conti. Il fatto che la politica istituzionale, abbia cessato di indirizzare le scelte economiche e sociali del paese, limitandosi alla semplice amministrazione dell’esistente, nel quadro delle compatibilità imposte da poteri sovrannazionali, ha modificato la funzione dei partiti politici, che da soggetti organizzatori del consenso intorno a diverse opzioni e progettualità politiche, si sono trasformati in semplici rappresentanti di interessi specifici e spesso contraddittori, nell’ambito di quei “comitati d’affari della borghesia”, in cui i governi e istituzioni si sono trasformati. I partiti, che un tempo avevano identità ideologiche e visioni del mondo, si trasformano in semplici “contenitori”, di quegli interessi sociali, che tentano di non essere esclusi da quella “rappresentanza politica”, senza la quale non c’è alcuna tutela nei confronti delle politiche di spoliazione indotte dal vincolo finanziario del debito pubblico. La battaglia politica si riduce sostanzialmente al tema “chi dovrà pagare?”, e la possibilità di avere una rappresentanza politica, si traduce nella speranza di non dover rispondere, “tocca a me”. I partiti, raccolgono questi interessi sociali, selezionandoli sulla base della loro compatibilità con i limiti imposti dagli assetti economici (e ciò porta alla progressiva espulsione degli interessi di classe), li aggregano sulla base di una almeno ipotizzabile compatibilità reciproca, costruendo così “contenitori” molto grandi o “coalizioni contenitore”; tali contenitori poi si organizzano intorno a idee semplici e facilmente veicolabili a livello mediatico, a linguaggi sedimentati, residuo delle vecchie culture ideologiche, o a leader riconoscibili, il tutto con l’obbiettivo di compattare una base elettorale, intorno ad un abbozzo di si-


86 stema valoriale, da spendere nella comunicazione elettorale, in assenza di identità, ideologie e progetti politici. Questo schema, ha caratterizzato il sistema politico italiano per quasi un ventennio, nel teatrino dello scontro tra centrodestra e centrosinistra; dopo il 2008, quando le necessità imposte dall’esplodere della crisi finanziaria, hanno obbligato la politica italiana a rinunciare alla loro residua rappresentanza sociale, per concentrarsi nel sostegno di governi di larghe intese, nati senza il supporto di alcun voto popolare, il meccanismo si è riprodotto ma con significativi cambiamenti e altri protagonisti. L’emergere sulla scena elettorale del voto di massa a Grillo ha segnalato in modo inequivocabile, il ridefinirsi della contrapposizione politica, non più sullo schema centro-destra e centro-sinistra, come negli anni precedenti, ma lungo il crinale di una opposizione al sistema politico nella sua interezza, individuato come “casta”. Di fatto, quella che si è prodotta è una spaccatura elettorale che per la prima volta assume caratteri “antisistema”, anche se il sistema sottoposto a critica non è quello dei rapporti economici, ma solo quello della rappresentazione politica di tali rapporti economici. Il grillismo produce per la prima volta un contenitore nuovo, in cui interessi sociali diversificati e contraddittori, non si raccordano per garantirsi tutele all’interno delle dinamiche istituzionali, ma proprio per mettere in discussione tali dinamiche. Privo di alcun progetto o identità politica, proprio per questa ragione il grillismo può essere punto di riferimento per soggetti diversi, che pragmaticamente lo individuano come possibile grimaldello di un sistema blindato. Il senso di un soggetto politico è in relazione ad uno scopo, ancor prima che ad un progetto. In egual misura il PD, da Monti a Renzi, ridefinisce la sua natura di contenitore in relazione al suo scopo: l’obbiettivo di garantire stabilità politica, indirizza la scelta degli interessi sociali da rappresentare e delle alleanze politiche da costruire, e anche l’ultimo ambito valoriale di riferimento, è variabile dipendente dai saldi di bilancio del ministero dell’economia. Il tentativo di Bersani di riproporre lo schema precedente alla crisi, con un PD alternativo al centrodestra, sia per ambito valoriale, sia per interessi


87 rappresentati, è una parentesi velleitaria, che si conclude con una congiura alle “idi di marzo”. Il tema politico che prima dell’esplodere della crisi era stato il “chi paga?”, su cui centrodestra e centrosinistra s’erano divisi, è superato, e il nuovo tema è “stabilità politica e rispetto degli impegni, instabilità politica e baratro economico”. Su questa elementare antinomia si definisce lo scontro elettorale alle Europee, e su questo i due contenitori raccolgono consensi. Il successo elettorale di Renzi alle elezioni europee, non mette in discussioni lo schema, ma anzi lo rafforza, nella misura in cui Renzi, si rappresenta come punto di raccordo tra vecchio centro-sinistra e vecchio centro-destra, accomunati dalla garanzia della stabilità, nella gestione delle politiche imposte dall’Europa, e dalla contestuale difesa di un consistente, seppur minoritario, settore sociale ancora non colpito dalla crisi. Il tema del “partito contenitore”, è quindi riproposto dal PD renziano, con una più marcata collocazione centrista. Contestualmente, il voto alle elezioni europee, obbligando i partiti ad uscire dal provincialismo del dibattito politico italiano, e costringendoli a misurarsi con i temi della politica europea, ha depotenziato la corazzata grillina, costretta a uscire dall’ambiguità tra destra e sinistra, per mostrarsi come parte organica della destra populista. Il partito di Grillo, che era stato il grande “contenitore” del malessere sociale, perde la sua appetibilità per quella quota di elettorato di sinistra, che già con il voto al 5 Stelle, si era liberato dal tabù del “voto utile”. E’ lecito credere, che il prossimo passaggio elettorale dimostrerà i limiti dei due grandi contenitori protagonisti dell’ultima battaglia elettorale, nel raccogliere una quota del tradizionale voto di sinistra. Ciò aprirà uno spazio politico ed elettorale a sinistra connotato da due elementi: la rottura con il centro-sinistra già prodottasi con il voto a Grillo, e la rivendicazione di un sistema valoriale di sinistra, che Grillo non è più in grado di rappresentare. Per cogliere questa opportunità c’è la necessità di una soggettività politica


88 che sappia accogliere quei soggetti intermedi, che sul piano elettorale sono passati nel corso della crisi, dal centro-sinistra a Grillo, e che oggi, esaurita la forza dirompente del grillismo, e evidenziate le sue distanze rispetto al sistema di valori della sinistra, possono trovare approdo elettorale in un contenitore valoriale chiaramente collocato a sinistra, e che si proponga con la stessa volontà di rottura dei 5 Stelle. Ma perchè ciò sia possibile è inopportuno, almeno in questa fase, la ricerca a tutti i costi di una costruzione politica troppo definita, sia in termini di identità che di progetto politico; tale ricerca in questa fase, non potrebbe che avvenire nell’ambito limitato dei soggetti coinvolti dal percorso dell’Altra Europa, e anche in questo ristretto ambito potrebbe risultare inutilmente divisivo, e quindi incapace di porsi come punto d’approdo dei soggetti potenzialmente coinvolgibili. Ciò di cui c’è necessità in questa fase è di un contenitore in grado di accogliere sul piano politico ed elettorale, quei settori e soggetti sociali, non ancora espulsi dalla dinamica elettorale, e offrire loro una chiara collocazione e un definito riferimento valoriale, che a partire da una conseguente opposizione alle politiche di integrazione europea, si presenti come un credibile primo punto di forza, in grado di rendere inapplicabili i diktat europei. Per la realizzazione di questo specifico e immediato scopo, ambito valoriale e collocazione politica, sono più che sufficienti, se agiti con coerenza e determinazione. Ambito valoriale, collocazione politica e scopo immediato del progetto, non solo possono offrire un riferimento elettorale a soggetti intermedi in via di radicalizzazione, cosa che in se potrebbe stabilizzare il risultato elettorale delle europee e riaprire le istituzioni ad soggetto politico di sinistra autonomo dal PD, ma anche porre le condizioni per riaprire la relazione con quei vasti settori di classe espulsi dalle dinamiche politiche. Senza questa relazione, il nuovo soggetto politico della sinistra sarebbe condannato ad una breve esistenza, precariamente appeso a soglie di sbarramento elettorale, che altri possono alzare a loro piacimento. La possibilità di un nuovo soggetto politico della sinistra di agire sul piano istituzionale, è necessariamente legata ad una forza elettorale, che oltre ai soggetti intermedi in via di radicalizzazione, sia espressione del riavvicinarsi alla politica dei


89 settori di classe che ne sono stati espulsi. Ma il realizzarsi di ciò, non è tema di campagne elettorali. L’ambito valoriale dovrebbe essere in se, già in grado di proporsi come contenitore degli interessi di classe e dei soggetti che tali interessi agiscono in forme più conflittuali: temi come il diritto al lavoro e al reddito e la lotta alla precarietà, il diritto alla casa e la difesa delle pratiche di lotta messe in campo dai movimenti, la lotta alle grandi opere e la presenza nei movimenti che ad esse si oppongono, la difesa del patrimonio pubblico e dei beni comuni, i diritti dei migranti e la battaglia contro i CIE, questi e altri temi che caratterizzano i livelli più alti dello scontro sociale nel paese, sono tutti interni alle culture politiche, e spesso anche alle pratiche, dei soggetti che si sono aggregati intorno al percorso dell’Altra Europa. Ciò nonostante, tale percorso non è risultato per il momento attrattivo di tutta la differenziata galassia che si muove su questo terreno conflittuale. E’ lecito ritenere che senza una relazione con i settori di più conflittuali e coscienti, l’ipotesi di allargare i consensi a più ampi settori di classe nei quartieri popolari e nel mondo del lavoro meno tutelato, risulti improbabile; c’è necessità di una strategia che apra e sedimenti relazioni, tra il nuovo soggetto politico e tutte le esperienze del conflitto sociale, soprattutto quelle più radicali. Ma tale strategia non può basarsi su una presunta capacità di “rappresentare” il conflitto sociale nelle istituzioni, perchè tale rappresentanza è sostanzialmente inutile, essendo venuta meno ogni autonoma funzione di mediazione sociale delle istituzione. Fondamento di questa strategia, deve essere la trasformazione dell’orizzonte valoriale condivisibile, in pratiche effettivamente condivise, con il fine di realizzare nelle dinamiche sociali ancor prima che nelle istituzioni, lo scopo primario del nuovo soggetto politico, la inapplicabilità dei diktat europei. Per meglio spiegare questo concetto, il tema dell’opposizione al TTIP può essere utile: pensare di lanciare una campagna d’opinione per chiedere alle istituzioni europee di rinunciare a questo trattato è sostanzialmente inutile; cercare di convincere chi è senza casa, o non ha un lavoro a impegnarsi in una simile campagna, magari con una bella raccolta di firme,


90 può risultare addirittura ridicolo; illudere poi che l’azione politica a livelli istituzionali, possa produrre un qualche risultato è una truffa politica. L’opposizione al TTIP ha un senso solo rendendo tale trattato inutile, con pratiche di disobbedienza civile, rifiuto di pagare i costi che il TTIP imporrà su tariffe e servizi pubblici, produzione di circuiti economici alternativi a quelli sottoposti a tale trattato, e infine azioni di boicottaggio tali da produrre concreti danni economici all’avversario: in questo quadro l’azione istituzionale, non è più quella finalizzata alla rappresentanza del dissenso al TTIP, ma al contrasto conflittuale di ogni ipotesi di azione istituzionale per l’attuazione del TTIP. Passare da una rappresentanza difensiva degli interessi dei soggetti sociali, nel quadro del governo e della gestione della crisi, all’attacco diretto al processo di governo e alla gestione della crisi, per destrutturarlo. Per fare questo non è necessaria una organica visione strategica che ancora non c’è, per fare questo è necessario un chiaro sistema valoriale di riferimento che permetta di scegliere come schierarsi, una collocazione nel quadro politico non compromessa, e la capacità di produrre pratiche e radicamento sociale estese e tendenzialmente di massa.

RADICAMENTO E PRATICHE SOCIALI PER UNA POLITICA “UTILE” Il tema delle pratiche sociali, sia in termini di resistenza e conflitto, sia in termini di autorganizzazione e costruzione sociale, è la nuova frontiera di una politica in cui la rappresentanza ha perso di senso. Esaurita la fase delle politiche keynesiane in cui, nel quadro di un compromesso sociale, finalizzato alla crescita dei mercati interni, le istituzioni erano luogo di rappresentanza e composizione tra interessi in conflitto, oggi il ruolo delle istituzioni viene ridefinito come semplice articolazione di un sistema di “governance”, diretto da istituzioni sovranazionali senza alcuna legittimazione popolare. Le istituzioni si collocano quindi al di fuori e al di sopra del sistema di interessi che dovrebbero governare, risolvendo il loro ruolo nella semplice definizione di una cornice legislativa e normativa, di decisioni e indirizzi assunti in altra sede; a ciò si aggiunge la funzione repressiva nei confronti


91 di tutto ciò che non si adegua a tale quadro legislativo e normativo. In sostanza torna di piena attualità la definizione di Marx, dei governi come “comitati d’affari della borghesia” e quella di Lenin degli apparati statali, come “strumento del dominio di una classe sulle altre”. A fronte di questo dato, la politica deve ritrovare un proprio senso, in relazione a quel tema del potere (o dei poteri), che è tema politico per eccellenza. Assunto che le istituzioni non sono più i luoghi “del potere” (di decisione, di indirizzo, di mediazione), c’è la necessità di rideclinare il tema del potere, tema politico per eccellenza, non più come “conquista” (del governo, di un assessorato, di una presidenza di commissione), ma come “ricostruzione” di luoghi di partecipazione e decisione condivisa. Tale modalità, in forma schematica ed essenziale, adattata ad una società molto più semplice, fu quella usata dai bolscevichi con la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”; oggi il tema è molto più complesso, ma nella sostanza lo stesso. Costruire i luoghi di partecipazione e decisione dal basso, in grado di ricostruire una dimensione della politica, che nelle istituzioni si fa sempre più escludente. Perchè ciò sia possibile è necessario ridare un senso ai processi di partecipazione politica, a partire dalla ricostruzione di una “utilità sociale” della politica; tale utilità sociale si è persa, insieme alla funzione di rappresentanza e mediazione, che la politica agiva nella sfera istituzionale. Oggi tale utilità sociale va ricostruita, a partire dalle pratiche di costruzione e resistenza. Il PRC ha già dovuto misurarsi con il tema della “utilità sociale” della politica all’indomani della sua espulsione dal Parlamento; la risposta a tale problema è stata quella del “partito sociale”, una proposta che pur con molte resistenze e incomprensioni, è stata una delle chiavi che hanno permesso al Partito di sopravvivere in questi anni difficili. Uno dei limiti che tale proposta ha incontrato, è stata quella di dover conciliare pratiche sociali, caratterizzate da un approccio pragmatico, inclusivo e non ideologico, con l’azione di un Partito a forte caratterizzazione identitaria; non a caso, nel processo di costruzione di pratiche sociali, sono sorte le Brigate di Solidarietà Attive “diverse, ma non distanti” dal PRC, proprio allo scopo di produrre un contenitore più vasto di quello possibile per un par-


92 tito, con un impianto ideologico caratterizzato e definito. Oggi il tema della costruzione di un nuovo soggetto politico, a carattere plurale, inclusivo, non identitario, può essere l’occasione di ricollocare pratiche di ricostruzione dell’utilità sociale della politica, in un ambito più ampio, offrendo alle strutture locali di questo nuovo soggetto, l’opportunità di misurarsi con un livello di protagonismo politico, che vada ben oltre l’essere terminale locale di una macchina di propaganda elettorale. Il tema della costruzione di reti mutualistiche e solidali, capaci di produrre sia forme di autorganizzazione sociale, sia pratiche di resistenza, deve imporsi come lo strumento che permette di trasformare il sistema valoriale condiviso dal nuovo soggetto politico, in concreta iniziativa politica. Attraverso le pratiche mutualistiche e solidali, è possibile organizzare embrionalmente, la risposta alla progressiva desertificazione sociale e culturale, determinata dal ritirarsi della funzione pubblica di fronte ad una quantità di domande sociali inevase. Non si tratta ovviamente di immaginare le pratiche sociali come “sostitutive”, di una funzione pubblica assente, ma come il tentativo di organizzare i bisogni a partire dall’individuazione di soluzioni a concrete esigenze, in funzione della costruzione di capacità rivendicative e conflittuali tali, da poter imporre la necessità di una pubblica assunzione di responsabilità. Ma ancor prima di questo, la costruzione di pratiche sociali, è necessaria per contrastare l’azione dell’avversario, che quotidianamente mina i livelli di coscienza della classe, attraverso la destrutturazione delle relazioni e del tessuto sociale, in cui tale coscienza si produce. L’aspetto più grave delle attuali politiche di gestione della crisi, è che esse operano nel tessuto sociale, modificandone la cultura e le aspettative: territori interi abbandonati al degrado, in cui un centro commerciale o un parcheggio vengono sentiti più necessari che un parco pubblico; carenze dei servizi sociali date per scontate, e la cui soluzione viene individuata nella selezione dell’accesso su base “etnica” (prima gli italiani!); la competizione al ribasso nell’accesso al lavoro, in luogo della difesa collettiva del diritto al lavoro; la rinuncia a qualsiasi attenzione ai temi della pace e della democrazia, frutto di una condizione di limitatezza economica e culturale, che non permette di allargare lo sguardo oltre il ristretto orizzonte


93 del proprio quotidiano. In generale, la barbarie sociale che avanza nel cuore della società, e si incarna in un soggetto di classe ridotto alle sue passioni più brute. Pensare di contrastare questi processi, con cui l’avversario di classe distrugge le condizioni concrete in cui una coscienza può prodursi, semplicemente con slogan elettorali o radicali e antagonistici richiami alla lotta, è assolutamente inutile. A fronte di un attacco che agisce nella concretezza di una condizione, per spingerla sul terreno della barbarie sociale, è necessaria una risposta ugualmente concreta, che ridia un senso vero e verificabile ad un sistema valoriale alternativo, a quello della competizione selvaggia e dello sfruttamento. E’ a partire da questa necessità, che è possibile ricostruire una relazione tra quei soggetti intermedi, che oggi interpretano la necessità di un nuovo soggetto politico, e i soggetti di classe espulsi dalle dinamiche politiche; trasformare un sistema valoriale, in pratiche concrete e fruibili, in grado di incontrare bisogni sociali inevasi, e organizzarli ad un livello più alto. Pratiche di riappropriazione di spazi pubblici per riconsegnarli all’uso sociale; estensione e difesa delle pratiche di espropriazione del patrimonio immobiliare privato, per garantire il diritto alla casa; costruzione di circuiti di consumo alternativi, in grado di valorizzare le produzioni a “marchio etico“; promozione di pratiche di autogestione e autorganizzazione del lavoro, nel quadro della soluzione di bisogni sociali collettivi; sperimentazione di strutture in grado di offrire servizi sociali e sanitari, per quanti vengono espulsi dal sistema dei servizi pubblici; costruzione di veri e propri piani di sviluppo economico e urbanistico locale, in cui riconnettere interessi diversi in una comune capacità progettuale; costruzione di strutture finanziarie a carattere locale, che raccogliendo risparmio sociale, da sottrarre ai circuiti finanziari speculativi, metta in circolo le risorse economiche necessarie. In aggiunta a ciò la costruzione delle reti di difesa dagli attacchi dell’avversario, dai comitati antisfratto e antisgombero, alle strutture di difesa legale, dai comitati di sostegno ai picchetti e alle mobilitazioni dei lavoratori, alle camere del lavoro territoriali in cui organizzare il lavoro precario. Tutto ciò è fare politica “di massa” oggi, e un tale compito, quasi impossibile per il solo PRC, può forse essere aggredito da un soggetto politico più ampio, se questo soggetto politico non vorrà arenarsi


94 nelle secche del politicismo e dell’elettoralismo, e soprattutto se vorrà valorizzare la vocazione “sociale” di tante sue componenti. La possibilità di avviare un tale processo, che significa di fatto la ricostruzione di una sinistra alternativa con basi di massa, passa attraverso la determinazione dei soggetti intermedi più radicali ad uscire da una politica “declamata”, per approdare ad una politica “praticata”.

UNA NUOVA PROGETTUALITA’ POLITICA PER UN NUOVO MODELLO SOCIALE La costruzione di pratiche sociali è il fattore necessario e pregiudiziale, alla possibilità che il nuovo soggetto politico, possa affrontare una discussione sui temi generali della progettualità politica e della visione di società, senza scadere in una astratta discussione d’accademia. E’ a partire dalla condivisione e dalla contaminazione delle pratiche, che è possibile produrre la massa critica, intorno alla quale riconnettere un sistema di alleanze sociali, tale da poter mettere in campo i rapporti di forza adeguati, a sostenere un progetto politico complessivo, che si sviluppa direttamente dalle pratiche sociali in cui si sperimenta. Perchè la ricostruzione di una comune progettualità politica e di una comune visione di società, può essere solo frutto dell’iniziativa che i soggetti sociali stessi mettono in campo nella loro quotidiana iniziativa politica. La possibilità di immaginare un nuovo modello sociale e poi, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, la possibilità di indicare nell’URSS una concreta e praticata alternativa di società, è stata per gran parte del ‘900 un fattore importante, nel percorso che ha permesso alla classe di agire come protagonista sulla scena, e di attrarre intorno alle sue organizzazioni politiche, anche altri settori sociali. Questa opportunità è ormai venuta meno da decenni, dopo la fine del “socialismo reale”, e da allora ogni ipotesi di costruzione sociale alternativa al modello capitalistico, deve fare i conti con i limiti e l’esaurirsi di quelle esperienze. Ciò paradossalmente proprio mentre a porre il problema della necessità di superamento del sistema capitalistico, non sono solo i comunisti o le culture politiche legate alla storia del movimento operaio, ma una quantità di soggetti che individuano la


95 necessità di andare oltre un sistema che, attraverso la devastazione ambientale e la guerra globale, sta mettendo a rischio il futuro dell’umanità intera. Vero è che in diverse parti del mondo, proprio la fine del modello codificato del “socialismo reale”, sta producendo una serie di sperimentazioni, in particolare nei paesi Latino Americani, che certamente produrranno avanzamenti rilevanti nel percorso storico di liberazione della classe. Nella stessa Cina, le dinamiche del sviluppo capitalistico, su cui il PCC sta puntando per superare i ritardi economici del paese, riproporranno certamente ad un livello più avanzato lo scontro di classe e la contraddizione capitale-lavoro, e ciò non potrà non avere conseguenze nello stesso Partito Comunista. Ma tutto ciò, che pure può offrirci utili spunti di riflessione, non può risolvere il problema che abbiamo di fronte, qui, oggi in Italia e in Europa, nel contesto di quello che è uno dei punti alti dello sviluppo capitalistico. Oggi il problema con cui ci misuriamo, è quello del superamento di un sistema, che ha prodotto insieme ai più alti livelli di benessere, anche le aspettative sociali più avanzate, in termini di condizioni materiali, diritti individuali e collettivi, relazioni sociali. Il fatto che oggi il capitale non sia più in grado di dare le risposte, alle domande che il suo stesso sviluppo ha prodotto, non significa che tali domande vengano meno, e che un progetto politico d’alternativa possa prescinderne. E’ improponibile una visione di società che superi il modello capitalista, senza dare risposte a temi come la partecipazione democratica e le libertà politiche, i diritti sociali e quelli individuali, la parità di genere e la libera scelta del proprio orientamento sessuale, la capacità di pianificazione economica e la valorizzazione delle capacità imprenditoriali, la possibilità che ogni talento sia valorizzato, ma che il valore non sia ragione di privilegio, in sostanza quella relazione tra individuo e collettività, tra dimensione centrale e locale, tra statale e sociale, che è stato l’elemento di ritardo delle esperienze del “socialismo reale”. E’ sfruttando tale ritardo, che il modello capitalistico ha momentaneamente vinto la battaglia contro il socialismo, ed è la mancata soluzione di tale ritardo, che impedisce nei paesi a capitalismo avanzato, di offrire nel


96 modello di società socialista, un chiaro esempio di possibile alternativa. Certamente affrontare questo tema non è compito del nuovo soggetto politico che si va a costruire, ma è anche evidente che nella misura in cui questo tema non è solo materia accademica, ma una sorta di lente generale, con cui si guarda alla concretezza di ogni specifico problema, la discussione su questi temi è ineludibile. Così mentre sui temi che riguardano la relazione tra individuo e collettività, è certamente cresciuta nell’ambito valoriale della sinistra una coscienza più avanzata e di connotazione libertaria, più difficile è affrontare temi politici più generali. Così non c’è aspetto della crisi politica, economica e sociale del paese, che non possa, almeno teoricamente, collocare le sue possibili soluzioni in impianti diversi, seppur parimenti in contrasto con le politiche del capitale. Temi come quelli della richiesta di lavoro o di reddito di cittadinanza, di assunzioni pubbliche piuttosto che autorganizzazione economica e cooperativa dei lavoratori, della gestione pubblica o sociale di attività di interesse collettivo, della garanzia del diritto per chi occupa e lotta, o della precedenza di chi da anni attende pazientemente una casa, e gli esempi potrebbero continuare, tutte antinomie che si collocano in una discussione che ha per sfondo l’esaurirsi dell’esperienze del secolo passato, quando ogni strategia di trasformazione sociale, aveva al centro il tema dello stato, prevalente su quello della società. Su questi temi sarebbe opportuno che una riflessione collettiva si ponesse, ma perchè essa possa essere fruttuosa c’è necessità di almeno tre elementi. Il primo è che tale discussione avvenga in un contesto ampio, coinvolgendo culture politiche e sociali diverse, nell’ambito dello stesso sistema di coordinate valoriali; anche per questo abbiamo bisogno di un soggetto politico ampio, variegato, accogliente, perchè tutti coloro che in questi anni si sono misurati con la critica al sistema capitalistico, possano confrontare riflessioni ed elaborazioni che vengono da culture diverse, da quella del movimento operaio, a quella ambientalista, da quella libertaria a quella femminista, senza dimenticare quelle culture democratiche e liberali, che il neoliberismo sta affossando. La necessità di un ambito di discussione più ampio, dovrebbe essere particolarmente evidente a noi comunisti, che nel corso degli ultimi decenni, a causa di un dibattito troppo


97 chiuso ed autorefenziale, stiamo assistendo ad una sorta di analfabetismo politico di ritorno, in cui riemerge lo stalinismo, la difesa acritica dell’esperienza sovietica, e addirittura di quella della Corea del Nord. Il secondo elemento è che questa discussione sia espressione diretta, o almeno strettamente correlata, alle pratiche e alle sperimentazione di costruzione sociale e mutualistica, e alle dinamiche del conflitto; e questo perchè tutto ciò che non può rappresentarsi in una pratica, per quanto limitata sia, non è oggettivamente verificabile e quindi non può offrire l’opportunità di un fruttuoso processo dialettico. Ogni discussione che non può prevedere verifiche pratiche, tende alla cristallizzazione delle posizioni, che alla fine produce solo stagnazione, stanchezza e in ultima analisi, noia. Al contrario ogni discussione diviene fruttuosa quando è vincolata ad una esperienza reale e verificabile, perchè ogni piccola esperienza di costruzione sociale, evoca una visione prospettica più ampia: anche un solo piccolo gruppo d’acquisto popolare, contiene in se un’altra idea di società, e il ruolo della politica e proprio quello di far emergere questa idea, collegarla ad altre simili, in un sistema di relazioni che progressivamente modifica la realtà, “lo stato delle cose presenti”. Il terzo elemento, è che tale discussione sia sempre collocata nel vivo dello scontro di classe, perchè ogni ipotesi, proposta, visione o progetto, ha un senso nel quadro dei rapporti di forza tra i soggetti che agiscono la scena sociale, e non in se. Ciò significa in sostanza, la capacità di comprendere come una particolare proposta o indicazione, possa effettivamente attivare soggetti sociali, produrre alleanze e infine modificare i rapporti di forza, mantenendo viva una dialettica sociale, una condizione fluida e di movimento, nella quale ipotesi momentaneamente impraticabili, riacquistano senso e concretezza. Così per esempio, sul tema del lavoro e del reddito, la convinzione, per i marxisti scontata, che il tema del diritto al reddito è in termini strutturali, legato al diritto al lavoro, non può impedirci di considerare la possibilità che si producano movimenti sociali legati alla rivendicazione di reddito, anche a prescindere dal lavoro, e che questo protagonismo determini una ridefinizione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, tale da ricostruire le condizioni per il rilancio di politiche per il lavoro. Il valore di una proposta politica, non in se, ma nelle relazioni che produce.


98 Un ambito di riflessione collettiva, che si produce avendo come bussola questi tre elementi, non può certo bastare a risolvere questioni complesse e la cui soluzione può essere verificata solo “dopo”, aver ridefinito i rapporti di forza tra capitale e lavoro in termini radicale. Esso può però porre le premesse, per una visione progettuale politica condivisa, tale da permettere di agire lo scontro non solo in termini di resistenza ma anche di proposta, sui territori, nelle vertenze per il lavoro, nelle stesse istituzioni, ad un determinato livello dello scontro, quando il tema del confronto tra poteri può essere posto, supportato da adeguati rapporti di forza.

LA PRESENZA NELLE ISTITUZIONI: PASSAGGIO IMMEDIATO E VISIONE STRATEGICA Il tema delle istituzioni, e quindi della partecipazione elettorale, che in questa riflessione è posto alla fine di un percorso, dopo aver affrontato quello delle pratiche e della costruzione di una progettualità politica, è invece nella realtà, quello attualmente prioritario, costituente e sostanzialmente pregiudiziale. Ciò non avviene in relazione ad una effettiva priorità di questo tema per ragioni concrete e verificabili; il fatto che una lista alternativa abbia oggi tre deputati in Europa e ne possa avere domani 15 in Parlamento, non produce in se alcun effettivo cambiamento nelle condizioni di vita delle persone e nella difesa di interessi concreti, e in realtà nemmeno negli equilibri parlamentari e nelle dinamiche istituzionali. Di fatto, dato lo svuotamento di funzioni delle istituzioni rappresentative a tutti i livelli, l’unica possibilità di avere un ruolo istituzionale è quella di collocarsi a sostegno di una maggioranza qualsiasi, e da quella posizione cercare di ottenere quel che è possibile, ma senza troppo disturbare l’applicazione di indirizzi di governo, decisi nei consessi del potere finanziario internazionale. Da un punto di vista concreto avere una piccola rappresentanza dell’opposizione nelle istituzioni è un fatto di scarsa rilevanza, e anzi l’eccessiva valutazione della funzione di una presenza nelle istituzioni del nuovo sog-


99 getto politico, apre la strada a quanti ritengono che pur di ottenere tale presenza sia necessario un accordo con il PD. Ancora una volta il tema elettorale, si presenta più come un problema che un’opportunità, all’interno di un percorso che dovrebbe collocarsi più nelle dinamiche sociali, che non nelle rappresentazioni politico-istituzionali. Ciò nonostante il tema elettorale rimane centrale: il fatto che oggi si discute di un nuovo soggetto politico, dipende dall’aver passato (per il rotto della cuffia) una prima verifica elettorale; la principale divisione all’interno del percorso di costruzione, riguarda la futura collocazione elettorale; un esito non soddisfacente alle prossime elezioni potrebbe addirittura pregiudicare tale percorso. Questi sono i fatti e con tali fatti dobbiamo fare i conti, a partire dalla riconsiderazione dell’elemento elettorale, nei termini più classici dell’approccio leninista, in base al quale i test elettorali, sono prima di tutto un elemento di valutazione dei livelli di coscienza della classe, e più in generale dei soggetti sociali in campo. A partire dalle scelte che si faranno rispetto alla collocazione elettorale del nuovo soggetto politico e dal risultato che esso otterrà, si definisce la fattibilità, qui ed ora, di un progetto di cui abbiamo individuato necessità e possibilità oggettive, ma che potrebbe ancora non essere giunto a maturazione. In tal senso tutti i ragionamenti fin qui svolti sono di fatto appesi alle scelte che verranno compiute nella prossima tornata di elezioni regionali; in particolare va ribadito che la “cessione di sovranità” sui temi elettorali da parte del PRC, non può tradursi nella supina accettazione di scelte che ripropongono la costruzione del nuovo soggetto politico, come semplice articolazione di un centrosinistra, ormai strutturalmente estraneo e ostile ad un punto di vista di classe. Fatte queste doverose precisazioni è possibile ragionare sul tema di una ridefinizione del ruolo di un soggetto politico nelle istituzioni, a partire da due considerazioni: la prima riguarda la fine del riconoscimento del


100 ruolo delle opposizioni, come rappresentati di un interessi sociali tendenzialmente componibili nel quadro di mediazioni politiche; la seconda riguarda il fallimento di tutti i tentativi di condizionamento delle politiche di governo, nel quadro della partecipazione a coalizioni di maggioranza. Alla luce del primo dato, dobbiamo verificare l’esaurirsi del ruolo classico dell’opposizione, per intenderci l’opposizione come fu condotta dal PCI, in un contesto economico e sociale, in cui la mediazione politica svolgeva un ruolo fondamentale nella dinamica di riproduzione dei rapporti sociali dati; da ormai trent’anni la mediazione politica degli interessi sociali è sempre meno praticata, e l’esplodere della crisi l’ha definitivamente spazzata via. Oggi i governi si impongono a colpi di maggioranza e voti di fiducia e anche quando una mediazione viene ricercata, essa è extraistituzionale, come dimostra la vicenda Renzi - Belusconi. Alla luce della seconda considerazione, dobbiamo prendere atto che il tentativo di condizionamento dall’interno di maggioranze di governo, si è tradotto di fatto nell’aver subito indirizzi politici generali inaccettabili, a fronte di risultati minimi o nulli: la tutela di piccole nicchie della propria rappresentanza sociale o le semplici dilazioni nelle politiche di attacco e di impoverimento dei soggetti di classe che si pretende di rappresentare. Sempre il risultato finale è stato un ulteriore scollamento tra sinistra politica e classe, e una conseguente lacerazione nell’ambito della stessa sinistra politica. C’è la necessità di cambiare strada nel nostro approccio alla battaglia politica istituzionale. Il dato da cui partire è l’individuazione di governi e istituzioni, come le articolazioni di una catena di comando, che dalle centrali decisionali europee, si estende fino all’ultimo municipio, con l’impegno a garantire una piena applicazione delle politiche stabilite a livello centrale, senza che tali politiche trovino una coerente e determinata opposizione. Tale funzione si applica articolando le scelte generali, in un impianto “amministrativo”, che nella sua apparente neutralità, ha come oggettiva funzione quella di modulare l’attacco, in modo tale da dividere i soggetti subalterni, colpendoli uno alla volta, e impedendo la saldatura di un fronte d’opposizione.


101 E’ questo il tema della “coperta corta”, che oggi lascia fuori da garanzie e tutele un soggetto particolare, domani, restringendosi ulteriormente ne lascia fuori un altro, ma sempre presentando la “neutra” amministrazione, come intenzionata a fare il possibile per garantire tutti o quasi tutti. In un libro sulle persecuzioni naziste contro gli ebrei il metodo veniva illustrato con chiarezza: si stabiliva che tutti gli ebrei in grado di procurarsi un determinato salvacondotto entro una certa data, potevano considerarsi al sicuro, quindi si procedeva alla deportazione di tutti gli ebrei “irregolari”; la pratica veniva poi reiterata a breve termine, e un altra quota di ebrei veniva deportata; tutti gli ebrei della città piuttosto che ribellarsi ad una deportazione di massa, tentavano di tutelarsi nei confronti di un procedimento “selettivo”, che sembrava lasciare spazio alla salvezza individuale. Allo stato attuale, l’unico scopo di governi e amministrazioni, sembra quello di applicare la razionalità dei metodi nazisti, alla distruzione dei diritti sociali e del lavoro, selezionando di volta in volta i soggetti da colpire e garantendo gli altri, con la protezione di una “coperta corta”, che al passaggio successivo si restringerà ulteriormente. Opporsi a questa pratica nelle istituzioni non può significare tentare di allargare un po’ la coperta (o allungare di qualche giorno i termini per il salvacondotto), ma semplicemente portare dentro i processi decisionali di questa macchina amministrativa “neutra”, la concretezza dei soggetti sociali, con pratiche e iniziative in grado di disarticolare tali processi decisionali, secondo la logica essenziale, per cui il conflitto sociale è, tra le altre cose, anche la capacità di produrre un danno all’avversario. Le istituzioni, sono in tal senso, la prima trincea avversa di un nemico di classe, i cui stati maggiori sono nelle inattaccabile retrovie dei palazzi del potere finanziario internazionale. Ovviamente un simile impianto, da per scontata la presa d’atto che le istituzioni di cui stiamo parlando, non sono più quelle della Costituzione nata dalla Resistenza, a cui il PCI nel dopoguerra affidava un ruolo centrale, nella costruzione della democrazia progressiva, come via nazionale al socialismo. In una strategia di battaglia istituzionale così concepita, diventa fondamentale l’individuazione degli “anelli deboli” della catena di comando dell’avversario, quelli su cui è più facile esercitare una pressione produttiva di risultati.


102 Tali anelli deboli sono le istituzioni di prossimità, municipi e comuni, ed è su quel livello che il nuovo soggetto politico dovrebbe concentrare la sua attenzione, a partire dalla possibilità di organizzare l’iniziativa istituzionale, proprio di quelle reti e di quei soggetti sociali, impegnati sui territori nelle pratiche conflittuali e mutualistiche. A quel livello le istituzioni hanno margini di permeabilità sicuramente maggiori che non hai livelli superiori, si aprono serie possibilità di produrre contraddizioni all’interno dei ceti politici che vi operano, e soprattutto è possibile legare una azione anche estremamente conflittuale nei confronti delle istituzioni, con la possibilità di costruire interlocuzioni e alleanze sociali sul territorio. A ciò va aggiunto che dare priorità a questo livello dell’attività istituzionale, permette di mantenere un’aderenza tra iniziativa istituzionale e pratiche sociali, evitando il rischio del prodursi di un ceto politico-istituzionale di sinistra, rischio che è sempre presente. Nel quadro di un simile approccio, in grado di far deflagrare la “neutralità amministrativa” delle istituzioni, con l’irrompere al loro interno del conflitto sociale in tutte le sue manifestazioni, è forse possibile ridefinire rapporti di forza più vantaggiosi, e quindi la possibilità di produrre una iniziativa istituzionale che non sia semplicemente di attacco all’avversario, ma che possa prevedere anche una funzione più “propositiva”. Non possiamo infatti escludere che, specialmente a livello di istituzioni di prossimità, si possano produrre le condizioni, per una relazione proficua tra costruzione sociale e livelli istituzionali; ciò passa ovviamente per la capacità delle istituzioni di rinunciare alla presunta “neutralità amministrativa”, scegliendo di stare in campo contro le politiche imposte dai livelli “superiori”. Questa possibilità, che su questioni specifiche già si è prodotta, con amministrazioni comunali schierate a fianco dei cittadini su tematiche ambientali o contro la chiusura di servizi sociali e sanitari, ha in Val di Susa il suo punto più avanzato, con sindaci e amministratori comunali, esplicitamente a fianco della loro comunità, contro il governo nazionale. E’ questo il quadro in cui ridiventa possibile, una produttiva relazione tra istituzioni e processi partecipativi, un quadro in cui le istituzioni locali rifiutano di ridursi alla pilatesca e ipocrita neutralità amministrativa, e in-


103 sieme ai cittadini e agli organismi in cui i cittadini si organizzano, si mette a disposizione nella costruzione di una comune resistenza ai processi di impoverimento e desertificazione sociale. Il compito del nuovo soggetto politico, è proprio nella necessità di un processo di rivilitalizzazione delle istituzioni in senso democratico e partecipativo, che sollevi il velo ipocrita della neutralità amministrativa, e riconsegni le istituzioni al loro ruolo di rappresentanza dei cittadini, ridando un nuovo senso alla funzione politica. Ma la possibilità che tale processo si attivi, passa attraverso uno scontro duro, senza mediazioni e senza remore, con chi, riempiendosi la bocca di retorica sul valore delle istituzioni, le ha trasformata in una semplice funzione esecutiva di un progetto di macelleria sociale, una miserabile sentina ove l’unica ragione di permanenza è diventato il meschino e spesso fraudolento, interesse individuale.


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DIREZIONE POLITICA E NUOVO RUOLO DEL PRC Nella riflessione fin qui esposta, intorno al nuovo soggetto politico della sinistra, è assente un tema, quello della “direzione politica“, senza il quale ogni complesso ragionamento si riduce alla semplice esposizione di una serie di sogni irrealizzabili. Il tema della direzione politica, non va confuso con la discussione che sta in questa fase appassionando i soggetti coinvolti nel progetto di costruzione del nuovo contenitore politico, e che si articola in vari passaggi, la definizione delle modalità dei processi decisionali, la titolarità a rappresentare il nuovo soggetto politico, la definizione di organismi nazionali e intermedi di coordinamento politico e organizzativo. E’ questa una discussione che ha spesso carattere astratto e formalistico, in cui intervengono temi politici irrisolti e sottaciuti, e che quando giungerà a soluzione, quale che essa sia, ci dirà come il nuovo soggetto politico funzionerà. In questa discussone dobbiamo essere presenti, dando un contributo quanto più omogeneo possibile come militanti dello stesso partito, con l’obbiettivo di dare a questo soggetto politico, una modalità di funzionamento, quanto più aderente alle dinamiche reali che si esprimono nella società, contrastando ogni tentativo di rendere il nuovo soggetto politico, subalterno vizi di elettoralismo e istituzionalismo. Tutto ciò comunque attiene al tema della capacità del nuovo soggetto politico di raccogliere e rappresentare interessi ed esperienze sociali, facendole agire come un corpo organico sulla scena politica. Altra cosa è il tema della direzione politica, che oltre alla rappresentanza degli interessi sociali, pone la questione della relazione tra tale rappresentanza, ed una organica progettualità politica, frutto di una definita coscienza soggettiva; per i comunisti tale progettualità politica, non può che essere espressione di quella classe i cui interessi sono diametralmente opposti a quelli del capitale, e


105 la cui collocazione in relazione al ciclo produttivo, è tale da obbligarla a mettere radicalmente in discussione i rapporti di produzione dati. In sintesi il tema della direzione politica è tema che attiene alla classe, attraverso il Partito in cui si organizzano i suoi rappresentanti più coscienti e determinati. In tal senso la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra è il campo, in cui la direzione politica della classe e del suo partito, si misurano con la possibilità di guidare un più vasto fronte sociale, a partire dalla capacità di interpretarne esigenze e bisogni, in una visione generale di trasformazione sociale. E’ questo il senso di una proposta politica che mette in stretta relazione dialettica, la costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, con il rafforzamento del PRC, l’espressione al momento più avanzata dell’autonomia politica ed organizzativa dei comunisti. Rispetto a questo compito il PRC è però oggi strutturalmente inadeguato, a partire dalla stessa confusa percezione che ha di se la collettività che in esso si riconosce. A prescindere dalla ripetizione rituale dei limiti del Partito, dei suoi vizi e delle sue debolezze, qui di seguito si tenterà di individuare gli elementi strutturali, di tali limiti, debolezze e vizi, a partire da una riflessione sul tema del “partito” così come s’è posto nella storia del movimento operaio. Passo successivo sarà quello di individuare nuovi compiti e nuove modalità di azione del Partito, nel quadro di una prospettiva che permetta alla classe di dotarsi del “partito rivoluzionario”, necessario ad affrontare una fase che non prevede altri sbocchi in Europa, nel medio o lungo periodo, che non la guerra o la rivoluzione.

DAI DUE MODELLI DI PARTITO AL “PARTITO NUOVO“ La difficoltà a ragionare sul ruolo e la funzione del Partito si palesa già nella confusione sul termine stesso “partito”, laddove questo termine viene utilizzato senza tener conto del diverso significato, che esso ha assunto nella storia del movimento operaio e di quello comunista in particolare. Con il concetto di “partito” si intende usualmente l’organizzazione di in-


106 teressi e soggetti sociali, finalizzata all’azione politica nell’ambito delle regole della democrazia liberale: ciò significa, in sostanza, l’organizzazione di una struttura che da la possibilità di eleggere, sulla base delle regole elettorali vigenti, rappresentanti di determinati interessi e soggetti, nelle istituzioni cui competono le decisioni politiche. I partiti politici nascono più o meno in questa forma con la Rivoluzione Francese, mentre al di fuori di questa modalità di organizzazione della politica, sussistono, per buona parte dell’800, forme di tipo settario, quali società segrete a carattere patriottico o anarchico, che escluse dalle forme della democrazia liberale, o contrarie ad essa, tentano di agire la scena politica con iniziative a carattere insurrezionale o addirittura terroristico. Il movimento operaio e la sua prima compiuta espressione politica, la II Internazionale che raccoglie i partiti socialisti, pur avendo come riferimento un orizzonte ideale di superamento delle forme e degli assetti politici e sociali capitalistici, verso uno stato socialista, si struttura e si concepisce nel solco già previsto dalla democrazia liberale, e si organizza in funzione del suo operare, nel quadro delle istituzioni parlamentari, al pari di tutti gli altri partiti. Anche la discussione in seno alla II Internazionale tra il modello di partito dei socialisti francesi e quello dei socialisti tedeschi, non mette in discussione la funzione primaria, che rimane quella di organizzare il consenso, in funzione della rappresentanza di classe, nel quadro delle regole della democrazia liberale. Con la nascita del movimento comunista, che rappresenta un balzo in avanti nella prospettiva di liberazione della classe, una delle principali innovazioni riguarda il ruolo del partito: non più finalizzato a rappresentare la classe nell’ambito della democrazia liberale, ma ad organizzare i settori più coscienti e determinati della classe in funzione di una direzione politica, finalizzata al superamento (anche a costo dell’abbattimento) delle strutture dello stato borghese e della sua democrazia liberale. Questo tipo di funzione, già individuata nell’elaborazione leninista dei primi anni del secolo, trova ulteriori ragioni nel quadro di una successiva riflessione di Lenin sul tema dello stato, in cui si ribadisce il carattere fondamentale dello stato, inteso come organo di dominio di una classe sulle altre; nel quadro di questa impostazione, si riduce notevolmente la rilevanza dell’attività parlamentare, per i partiti comunisti di ispirazione bolscevica. In


107 questi elementi di rottura rispetto alla precedente tradizione socialista, sono alcune delle ragioni fondative del movimento comunista. Da allora il concetto di “partito” nel movimento di classe ha due accezioni diverse: da un lato contenitore del consenso dei soggetti di classe in funzione della difesa di interessi immediati, nell’ambito degli assetti capitalistici, attraverso politiche di tipo riformistico, che è tipico dei partiti socialisti, maggioritari in seno alla classe in tutta Europa; dall’altro il partito di “rivoluzionari di professione”, di quadri e dirigenti politici, abitualmente meno forte sul piano elettorale, ma con un impianto organizzativo più strutturato, in grado spesso di fare la differenza nella battaglia politica e sindacale, il cui fine è la costruzione delle condizioni per la “rottura rivoluzionaria”, modello questo tipico dei partiti comunisti della III Internazionale. Nel secondo dopoguerra. in Italia, le due idee di partito vengono in qualche modo riunificate nel “partito nuovo”, di cui Togliatti è stato l’ispiratore. A partire dal ruolo svolto dalla classe, e dai partiti in cui essa si organizza, nella formazione del nuovo stato democratico nato dalla Resistenza al fascismo e fondato sulla Costituzione, l’analisi sul ruolo dello stato si fa più complessa e non più riconducibile al semplice “strumento di dominio di una classe sulle altre”. E’ in questo quadro che anche l’azione politica nelle istituzioni riacquista un senso nuovo, fino al punto di considerare le stesse istituzioni, rese sempre più democratiche e partecipative, un elemento importante della strategie di costruzione del socialismo. Questa intuizione teorica sul piano politico, si sposa con la ridefinizione del ruolo dello stato, nel quadro delle politiche economiche keynesiane del dopoguerra, producendo una relazione diretta tra crescita dei processi democratici, sviluppo economico e avanzamento delle condizioni della classe: ciò permette al “partito nuovo” di ottenere significativi successi sul piano istituzionale, governando intere parti del paese, secondo un modello che ancora oggi è il più avanzato prodotto in Italia. Di fatto il “partito nuovo”, mantiene molte delle caratteristiche del vecchio partito di modello bolscevico, in particolare il centralismo democratico, il ruolo fondamentale dei funzionari politici, eredi della tradizione dei “rivoluzionari di professione”, un notevole accentramento delle sedi


108 decisionali e soprattutto una forte compattezza ideologica e organizzativa, A fronte di questi elementi di continuità, gli elementi di novità sono comunque notevoli. In primo luogo la maggiore facilità nell’accesso, per il quale più che una “formazione” ideologica, è richiesta la semplice “adesione” ideologica, rimandando poi l’effettivo processo formativo ad una successiva selezione interna: ciò fa si che nel corso del tempo si produca nel corpo del Partito una divisione di fatto tra gli iscritti, in almeno tre categorie diverse: gli iscritti che aderiscono al Partito, lo sostengono ma partecipano alle sue attività in modo sporadico e occasionale, contribuendo in limitatissima misura alla costruzione della linea politica; gli attivisti che quotidianamente partecipano all’attività, e che hanno modo di contribuire alla costruzione della linea, e soprattutto alla sua verifica; un terzo livello di quadri intermedi e funzionari, a cui lo stesso Partito ha messo a disposizione un percorso formativo, che sono il cuore politico e organizzativo del Partito, e soprattutto il collante tra il corpo del Partito, e un gruppo dirigente che si colloca ancora ad un livello superiore. E’ questo un gruppo dirigente che, a partire da un’indiscussa autorevolezza, misurata nell’esilio e nella lotta antifascista, ha il compito di produrre la linea politica, sulla base di una sensibilità in grado portare a sintesi indirizzi, stimoli ed esperienze che vivono nel Partito. Si tratta in sostanza di una grande macchina democratica, che pur muovendo da un gruppo dirigente centrale, vive per la capacità di produrre una dialettica ed una condivisione in grado di raggiungere ogni iscritto al Partito. Gli architravi di questa costruzione sono sostanzialmente tre: un gruppo dirigente coeso, sperimentato e autorevole, formatosi nel vecchio PCdI di stampo bolscevico e temprato dalla dura lotta al fascismo; una strategia definita, e mai messa in discussione, rispetto alla quale ogni articolazione è possibile, ma nessuna “eresia” è lecita; il riferimento ideale e politico all’URSS, sia in quanto dimostrazione della realizzabilità e della razionalità degli ideali socialisti, sia come “punto di forza” imprescindibile nella lotta al capitale. Con queste caratteristiche il PCI è divenuto nel corso di trent’anni il più grande partito comunista dell’occidente e forse il più grande partito di massa della sinistra europea, anche se nel corso del tempo si sono mostrati alcuni limiti. In primo luogo uno scadimento nella compattezza ideologica,


109 determinato anche dalla facilità di accesso di soggetti portatori di altre culture politiche e di altri interessi sociali, che hanno determinato l’accentuazione delle articolazioni tattiche della linea del partito, anche per la necessità di misurarsi con la concreta amministrazione di larghe porzioni del paese, il tutto a scapito di un orizzonte strategico sempre più indefinito. Poi una tendenza alla burocratizzazione dei processi decisionali, comprensibile vista la complessità e l’estensione della macchina democratica del Partito, ma che ha reso difficile la comprensione di fenomeni nuovi, come quelli prodottisi a partire dal biennio ‘68-69, e che hanno investito soprattutto le giovani generazioni. E’ alla metà degli anni ‘70, all’apice della sua forza elettorale che il PCI inizia la sua parabola discendente, quando venuti meno gli architravi su cui si era fondato, i problemi fino a quel momento gestibili, divengono mali incurabili. E’ a quell’epoca che è ormai venuto meno gran parte del gruppo dirigente formatosi nella Resistenza, sostituiti da quadri la cui formazione era avvenuta più all’interno degli apparati di Partito, che non nel conflitto sociale: la tradizionale compattezza del PCI è incrinata, e all’interno iniziano a manifestarsi aree culturali e politiche diverse, che solo nell’autorevolezza e nelle capacità politiche ed umane di Berlinguer, trovano composizione, se non sintesi. Contestualmente la crisi petrolifera, cambiando lo scenario, mette in discussone il modello di capitalismo keynesiano, nel quale il disegno strategico del PCI aveva un senso, ed apre a quelle politiche neoliberiste, in cui nemmeno il tatticismo del PCI può collocarsi; l’Unione Sovietica entra in un processo di crisi e di stagnazione politica ed economica, che obbliga lo stesso PCI a prenderne le distanze. In questo quadro, che avrebbe necessitato di un repentino cambiamento di strategia, alla luce di una salda impostazione ideologica, sono invece i limiti già manifestati, a prendere il sopravvento: la burocratizzazione dei processi decisionali, diviene una vera e propria elefantiasi che blocca ogni capacità reattiva del Partito, mentre nel vuoto strategico, si affermano culture politiche estranee all’interesse di classe e alla elaborazione marxista e leninista. E’ all’interno di questa crisi che nasce il PRC, ed è con questa crisi che il PRC non ha mai fatto i conti. In particolare il PRC nella illusoria rivendicazione degli aspetti migliori del PCI, ha speso buona parte della sua sto-


110 ria, ormai più che ventennale, nella riproposizione di un “partito di massa” per cui sono venute meno non solo le condizioni politiche dei tempi di Togliatti, Longo e Berlinguer, ma anche le condizioni sociali, alla luce dei cambiamenti avvenuti nel ciclo produttivo e nella composizione di classe, e quelle culturali, in conseguenza dei cambiamenti nelle forme di espressione e rappresentazione, indotti dalla rivoluzione delle comunicazioni. E’ in questo quadro che la sintesi raggiunta da Togliatti con il “partito nuovo”, accogliente e aperto a culture diverse, ma con una forte impronta ideologica, fortemente accentrato nell’impianto strategico, ma con una grande capacità di articolazione tattica a livello locale, perfettamente inserito nell’ambito istituzionale, ma con una visione in grado di trascendere da esso, non solo non è più praticabile, ma è anche sostanzialmente inutile. Infatti la necessità di un tale modello di partito, derivava da una strategia di costruzione del socialismo, che a partire dal concetto di “democrazia progressiva”, assegnava al Partito il ruolo di guida della classe “nelle istituzioni”, non contro di esse, come era stato per i partiti di tipo bolscevico; il quadro avanzato, prodotto dal combinato composto di conquiste democratiche del movimento operaio e politiche keynesiane del capitale, permetteva un superamento della vecchia divisione tra partiti socialisti riformisti e partiti comunisti rivoluzionari, con i rispettivi modelli organizzativi, producendo sul piano politico, una sintesi strategica più avanzata, complessivamente definita “via italiana al socalismo”, e sul piano organizzativo, il “partito nuovo”, come lo strumento coerente di questa sintesi. Questa condizione non è più. Le politiche del capitale non prevedono alcun spazio d’azione di tipo keynesiano e le istituzioni si sono progressivamente adattate al nuovo quadro, tagliando ogni legame con la Costituzione nata dalla lotta al fascismo, semplicemente minando alla base quella stessa Costituzione, abrogando la legge elettorale proporzionale, per cui ogni voto ha lo stesso valore. Il fatto di non aver compreso la gravità della sconfitta subita sul referendum contro il proporzionale, già poco dopo la nascita del PRC, e di non aver ricavato le doverose conseguenze di un’analisi, che già individuava gli esiti ai quali oggi assistiamo, è stata una delle ragioni che ci ha impedito di avviare una riflessione sul ruolo


111 del Partito, e su come doveva organizzarsi per svolgere questo ruolo. Togliatti, alla luce di un cambiamento di fase, capì che andavano cambiati gli strumenti per affrontare la fase; egli produsse quella sintesi tra partito inteso come strumento finalizzato all’azione in ambito istituzionale, attraverso la costruzione di un esteso radicamento sociale e un conseguente consenso elettorale, e partito inteso come luogo di organizzazione dei soggetti più coscienti e determinati della classe, finalizzato alla direzione politica. Oggi questa sintesi non è più praticabile, e, a fronte della necessità di costruire un soggetto politico della sinistra con caratteristiche di massa, in grado di radicarsi in ogni piega di una società complessa e variegata , e di trasformare tale radicamento anche in consenso elettorale, i comunisti devono dotarsi di una organizzazione di partito di tipo nuovo, in grado di produrre direzione politica, anche nei confronti di questo stesso soggetto politico. PRC E NUOVO SOGGETTO POLITICO DELLA SINISTRA: DIALETTICA NON COMPETIZIONE Uno dei passaggi di più difficile comprensione della attuale linea del Partito, è quello che riguarda la relazione che va prodotta tra un autonomo PRC, con una sua linea e una sua organizzazione, suoi organismi dirigenti, e proprie articolazioni locali, e un nuovo soggetto politico della sinistra che auspicabilmente si doterà anch’esso di linea e organizzazione, gruppi dirigenti e articolazioni locali. Il comprensibile timore è che il ruolo dei comunisti possa ridursi a semplice area culturale, o al più a corrente organizzata, nell’ambito del nuovo soggetto politico; è questo un timore comprensibile alla luce di una storia che ha visto sempre i partiti comunisti in un rapporto di competizione con gli altri soggetti politici della sinistra, competizione che seppur attenuata, si manteneva anche nelle fasi di più intensa azione unitaria, come all’epoca dei Fronti Popolari e della lotta unitaria contro il fascismo. Non avendo nella nostra storia, altro modello se non quello della “competizione” con altri soggetti politici, è comprensibile l’atteggiamento di chi teme che la costruzione del nuovo soggetto politico, non possa che essere in competizione con il rafforzamento del Partito. Ciò che invece va considerato è che oggi sono venute meno le ragioni e le condizioni di questo approccio competitivo, e ciò ci offre l’op-


112 portunità di tentare delle soluzioni originali e innovative, sul tema della dialettica tra unificazione politica di un vasto fronte sociale e direzione politica della classe. Nel corso della loro storia i partiti comunisti si sono sempre misurati con la necessità di costruire dei fronti sociali vasti, in grado di tenere insieme sia i settori di classe più coscienti e determinati, già influenzati dalla loro azione, sia i settori di classe più moderati, influenzati dall’egemonia dei ceti medi e organizzati all’interno dei partiti di sinistra di tipo riformista. Già Lenin all’indomani della nascita del PdCI, sosteneva la scelta di fuoriuscita dei comunisti dal PSI, ma contestualmente li invitava a riprendere da subito, e per quanto possibile, relazioni unitarie con quello che rimaneva ancora il partito maggioritario in seno alla classe. Il tema che già Lenin individuava, era quello di non subordinare la concretezza dello scontro politico, alle diverse prospettive strategiche tra comunisti e socialisti. Nel corso dei due decenni successivi questo tema fu variamente affrontato, passando dalla teorizzazione del “socialfascismo” a quella dei Fronti Popolari, ma sempre nel quadro di due diversi impianti teorici, quello riformista dei socialisti e quello rivoluzionario dei comunisti, che si “contendevano” il consenso in seno alla classe, in ragione della capacità delle rispettive proposte di rispondere a concrete situazioni. Così in linea di massima, laddove le condizioni dello scontro di classe si facevano più dure e minori erano i margini di contrattazione con le forze del capitale, i comunisti aumentavano la loro influenza, determinando anche una maggiore radicalità dei partiti socialisti, mentre laddove le rivendicazione della classe trovavano spazio nelle compatibilità del capitale, i comunisti divenivano forza marginale e i socialisti approdavano su posizioni sempre più moderate e compatibili. Dopo la 2° Guerra Mondiale e la vittoria sui fascismi, le politiche keynesiane del capitale, furono in tutta Europa il contesto in cui si rafforzarono le forze socialdemocratiche, salvo che in Italia dove l’intuizione politica di Togliatti, permise ai comunisti di interpretare la nuova fase con una strategia adeguata. Nel quadro della divisione d’Europa in due blocchi le differenze tra socialdemocrazie e partiti comunisti si accentuarono ulte-


113 riormente, anche se ciò non impedì periodiche convergenze. Questo, appena tratteggiato è quanto accaduto nel corso del ‘900, quando a fronte dell’emergere sulla scena politica del movimento operaio, ben due culture politiche se ne contendono il consenso, entrambe con visioni organiche, progettualità politica definita e soprattutto capacità di aderire a contesti reali, offrendo soluzioni concrete: sia i comunisti che i socialisti, hanno contribuito in Europa, al miglioramento delle condizioni della classe, almeno fino alla metà degli anni ‘70. Due culture e soggettività politiche alternative per visione strategica, ma con ampie possibilità di convergenze e condivisione, e il cui rapporto, più o meno unitario a secondo delle diverse fasi, era sempre caratterizzato una quota di naturale competizione. Da allora le cose sono radicalmente cambiate, il modello socialdemocratico in tutte le sue varie articolazioni, non è più in alcun modo funzionale agli interessi del capitale, ed è stato liquidato in gran parte d’Europa, sopravvivendo solo nei paesi più ricchi e di più antica tradizione come la Svezia; in Italia il vecchio riformismo socialista, già affossato da Craxi, è sopravvissuto come corrente minoritaria in seno ai DS, avendo un ultimo momento di gloria con la segreteria di Bersani, ma è finito con lui. Più o meno in quello stesso ambito di cultura politica, si è collocato il progetto di SEL, l’ultimo velleitario tentativo di illudere i residui soggetti di classe, non ancora espulsi dalla partecipazione politica, sulla possibilità di garantire i propri interessi, senza rompere l’alleanza politica con forze organicamente espressione del capitale. E’ auspicabile che la costruzione del nuovo soggetto politico, offra una soluzione alla crisi di questa formazione, evitando lo spreco delle risorse umane che ancora raccoglie. Il vecchio tema della competizione o dell’unità, tra comunisti e riformisti, sinistra moderata o radicale, è stato superato dal capitale con un offensiva ha tolto agli uni il contesto della loro azione politica, agli altri il soggetto dell’azione politica. Così l’impianto liberista ha sgomberato il campo da ogni illusione socialdemocratica di politiche keynesiane, mentre la ristrutturazione produttiva ha indebolito, diviso e trasformato, quella classe operaia, che era il cuore della forza dei comunisti.


114 Nel vuoto che tutto ciò ha prodotto, emergono due soli dati: la tendenza di frammenti di diverse soggettività sociali intermedie, orfane degli impianti riformisti variamente declinati, a rappresentarsi politicamente sulla base di una cultura politica e un orizzonte valoriale conseguentemente antiliberista; la necessità per una classe frammentata e emarginata dai nuovi processi produttivi, di superare tale condizione, ricollocando la sua azione in una rete di relazioni più ampia. Compito dei comunisti è favorire la relazione tra queste due esigenze, facendo si che esse trovino entrambe espressione politica, contribuendo alla costruzione degli strumenti organizzativi necessari: un soggetto politico capace di contenere un vasto aggregato sociale, e un Partito Comunista in grado di dirigere la conflittualità e la resistenza della classe, collocandola in un più vasto quadro di relazioni sociali. Sono questi due progetti di natura diversa, il nuovo soggetto politico dipende dal realizzarsi di un processo oggettivo, quello di soggetti sociali a rischio di espulsione dalla sfera politica, che tentano la via dell’autorappresentazione, l’altro è frutto di una determinazione soggettiva dei settori più coscienti della classe, che pur nella sconfitta hanno visto confermato il realizzarsi della analisi della crisi capitalista, e sulla base di tale analisi, producono una propria strategia politica. I due progetti hanno di fronte a se percorsi diversi, il primo impegnato ad essere riferimento di culture e soggetti sociali variegati, sulla base di un orizzonte valoriale e piattaforme programmatiche condivise, il secondo con l’obbligo di ridefinire la propria identità e strategia, a partire dalla centralità della contraddizione capitale-lavoro e della ricostruzione di un organico punto di vista di classe. Hanno funzioni diverse, il primo deputato ad agire nell’ambito della costruzione di radicamento sociale e consenso elettorale, il secondo con il compito di ricostruire una capacità di direzione politica dei processi sociali. Sono complementari perche senza il nuovo soggetto politico, il punto di


115 vista di classe, che i comunisti cercano di interpretare, non può collocarsi in una più vasta rete di relazioni e rapporti sociali, rischiando di rimanere ingabbiato in pratiche conflittuali e di resistenza, necessarie ma insufficienti a egemonia su un più vasto blocco sociale; d’altra parte il nuovo soggetto politico senza i comunisti, difficilmemte potrà anche solo candidarsi alla rappresentanza di quei settori conflittuali della classe, senza i quali quest’esperienza, non può che arenarsi nelle secche di un politicismo privo di concretezza. L’unica rischio che i due progetti corrono di divenire reciprocamente incompatibili, può venire solo dalla rinuncia di quanti oggi si impegnano nella costruzione del nuovo soggetto politico, a tentare la via dell’alternativa al PD. Ma tale rinuncia può essere solo momentanea, ultima esitazione di una soggettività sociale inadeguata a misurarsi con la radicalizzazione del conflitto che la crisi impone. E’ la crisi, che determinerà le scelte in ultima analisi, e la lettura della crisi che ci da indicazioni sugli sviluppi inebitabili, e il travaglio delle prossime regionali, quale che ne sarà l’esito, sarà solo una tappa, non certo l’ultima. In sostanza, i due diversi modelli di organizzazione politica che hanno accompagnato la storia della sinistra e del movimento operaio, quello di tipo socialista, con forti differenziazioni interne, con una rappresentanza sociale più variegata, concepito in funzione della rappresentanza istituzionale e dell’azione nel contesto dei rapporti di produzione dati, e quello di tipo comunista, organizzato e coeso, intorno a un definito impianto ideologico, con un più marcato ancoraggio agli interessi di classe, e concepito per dirigere i processi sociali, in direzione del superamento sia degli assetti istituzionali sia dei rapporti di produzione, dopo l’esaurirsi del tentativo di sintesi sperimentato con il PCI, tornano a separarsi, ma venuta meno, causa l’acuirsi della crisi, l’opzione politica riformista e socialdemocratica, essi non solo non sono più alternativi, ma anzi necessitano di un rapporto dialettico, in cui il rafforzarsi dell’uno offre opportunità alla crescita dell’altro. Queste le ragioni per costruire “due partiti”, una ipotesi assolutamente nuova e forse difficile da comprendere, ma è di cose nuove, anche se un po’ “difficili”, che abbiamo bisogno, non della riproposizione di certezze


116 tanto rassicuranti, quanto inutili.

UN NUOVO COMPITO PER IL PARTITO: LA DIREZIONE POLITICA Cambia quindi la natura del lavoro prioritario da fare. Non più la necessità di competere con forze della sinistra moderata, nel tentativo di sottrarre loro consenso elettorale, in quelle fasce sociali intermedie ancora interne alle dinamiche politiche ed elettorali, attività questa che va condotta attraverso il nuovo soggetto politico della sinistra, che nasce proprio a questo scopo, ma piuttosto rivolgere la propria autonoma azione a quei vasti settori di classe espulsi dai processi politici, per ricollocarli all’interno di un più vasto fronte sociale, la cui rappresentazione politica è il nuovo soggetto in costruzione. Non si tratta quindi solo di condizionare dall’interno il nuovo soggetto politico per collocarlo su posizione radicali e anticapitaliste, cosa per la quale un’area o una corrente sono in se sufficienti, ma soprattutto di esercitare una autonoma azione all‘esterno del nuovo soggetto politico, nei confronti di quei settori di classe che ad oggi non sono coinvolti in tale percorso; per fare ciò, c’è la necessità di un vero proprio partito, autonomo e organizzato, la cui azione non può essere determinata dall’arretratezza e dal comprensibile attendismo, di soggetti sociali intermedi, che solo da poco e neanche con piena chiarezza, si sono collocati al di fuori del quadro politico delle compatibilità del sistema. E’ solo attraverso l’apertura di una dinamica di questa natura, che deve portare il nuovo soggetto politico ad essere attraversato prima, e determinato poi, dalla radicalizzazione dello scontro sociale, che è possibile un effettivo condizionamento “a sinistra” dei soggetti sociali intermedi e del soggetto politico che li rappresenta. Ogni opzione che rinuncia all’autonoma iniziativa del Partito in seno alla classe, per adattarsi alla costruzione di aree politiche o correnti in seno al nuovo soggetto politico, oltre che espressione di una vecchia cultura politicista priva di qualsiasi capacità attrattiva, è minoritaria di fatto, perche rinunzia a priori ad agire sulle relazioni e i rapporti di forza in seno ad un blocco sociale da costruire e al suo soggetto politico di riferimento.


117 Cambia il lavoro da fare per il Partito, non più il tentativo di rappresentare una complessità di soggetti sociali irrappresentabili in un soggetto politico a forte caratterizzazione ideologica, ma l’investimento del proprio patrimonio ideologico (quand’esso non è ridotto a vuote formulette), nella diretta organizzazione degli interessi di classe e soprattutto nella costruzione delle relazioni politiche tra tali interessi, e una più vasta rete di interessi sociali. Fare ciò significa contestualmente rafforzare il Partito e il nuovo soggetto politico allo stesso tempo, uscendo da ogni logica competitiva tra i due soggetti. Fare ciò significa soprattutto agire per la ricostruzione di una coscienza politica di classe, che andando oltre l’ambito specifico e immediato dei bisogni, sia in grado di produrre egemonia su gli altri soggetti sociali, e quindi di collocare l’azione della classe come interprete dell’interesse generale. Fare ciò significa in ultima analisi operare per il superamento del gap tra i livelli di coscienza della classe e i suoi compiti di fase. In ciò è la direzione politica che attiene al Partito. Tutto ciò può apparire molto bello, ma il Partito è in grado di realizzarlo? Il Partito è in ultima analisi, la somma, e nell’ipotesi migliore la sintesi, delle esperienze e delle capacità dei suoi singoli militanti, con in più il valore aggiunto, della soggettiva volontà di ognuno di essi, di misurarsi con i compiti che l’applicazione della linea del Partito impone. In tal senso una linea politica ambiziosa e verificabile nella sua aderenza alla realtà, obbliga ogni militante a crescere, nella sua esperienza e nella sua capacità; è la relazione dialettica tra elaborazione della linea politica e il lavoro con cui la si applica, il principale strumento di formazione di militanti e della loro trasformazione in quadri e dirigenti. Alla luce di questa considerazione l’immagine del Partito attuale è totalmente insoddisfacente. Da anni ormai la linea del Partito si è ridotta sostanzialmente alle scelte che di volta in volta ne garantivano la sopravvivenza; assunto che la sopravvivenza del partito è abitualmente interpretata come presenza nelle istituzioni, la linea del Partito si è ridotta sostanzialmente alle indicazioni con cui realizzare la possibilità di un ritorno o di una permanenza nelle istituzioni. Nell’ambito di questo peri-


118 metro, si è svolta ogni discussione politica, nell’ambito di questo perimetro si sono prodotte tutte le laceranti divisioni, nell’ambito di questo perimetro si è prodotta la capacità militante di ogni singolo compagno. Le periodiche iniziative di raccolta di firme per referendum o iniziative di legge popolare, si collocano nello stesso ambito, essendo in ultima analisi tentativi, di agire la scena istituzionale, dalla quale si è stati espulsi. Al di fuori di questo perimetro, l’impegno generoso di tanti compagni in situazioni di conflitto sociale o nel lavoro di costruzione, è risultato sostanzialmente disorganico all’iniziativa complessiva del Partito; ancor di più nel mondo del lavoro, dove l’incapacità di un intervento politico, ha consegnato i nostri militanti ad una azione sindacale sostanzialmente subalterna. In generale è possibile affermare che gran parte dell’attività richiesta dal Partito ai suoi militanti, in applicazione della linea del Partito, si è risolta nella raccolta di firme o di voti. Con la costruzione di un nuovo soggetto politico a cui delegare le funzioni elettorali, e a cui sarà anche opportuno se possibile, affidare la titolarità di grandi campagne nazionali, i militanti del Partito rischiano di divenire solo la bassa manovalanza di campagne elettorali o di campagne nazionali referendarie o d’altra natura, delle quali non hanno la piena responsabilità politica, ne tanto meno la titolarità in quanto comunisti. Se consideriamo giusto e necessario, affidare titolarità e responsabilità politica, di attività che fino ad oggi il Partito gestiva in forma diretta, ad un nuovo soggetto politico, è evidente che o troviamo per il Partito un altro ambito di impegno, o possiamo anche chiudere il Partito e formare una corrente interna del nuovo soggetto politico, come certamente qualcuno auspica. Ovviamente fuori dall’ambito elettorale e referendario il lavoro da fare non manca. Dalla costruzione di pratiche sociali, alla presenza nelle situazioni di conflitto, dalla messa in rete delle esperienze territoriali, all’organizzazione della soggettività politica nel mondo del lavoro, dalla capacità di costruire progettualità territoriale, alla battaglia politica e culturale per ricostruire un punto di vista di classe condiviso tra tutti i soggetti conflittuali, non mancano gli ambiti in cui investire il tempo e le energie, almeno parzialmente sottratto alle periodiche, estenuanti e spesso fru-


119 stranti campagne elettorali. Manca invece al momento una linea politica che, territorio per territorio, situazione per situazione, definisca il quadro organico in cui collocare tali azioni; a ciò va aggiunto che sono spesso insufficienti le competenze dei compagni, disabituati ad a misurarsi con un piano di attività che richiede capacità di direzione, seppur in ambito locale e specifico. E’ intorno a questi due temi che è forse possibile, con il tempo e la pazienza, “ristrutturare” completamente il Partito per adattarlo ai nuovi compiti. In primo luogo la capacità di concepire ad ogni livello, dal circolo territoriale al Partito nazionale, una strategia in cui costruzione sociale e pratiche di resistenza e conflitto, si collochino in un quadro di relazioni e alleanze sociali, tale da poter avere una piena espressione politica, che possa tradursi nella ridefinizione dei rapporti di forza, verificabile anche sul piano elettorale. Superare una dimensione in cui l’impegno nella costruzione sociale ha quasi un carattere di semplice servizio, separato dal “fare politica”, e fare si che uno sportello casa sia la base per un comitato antisfratto o una lista d’occupazione, che una scuola per stranieri sia la base per l’ulteriore sviluppo di una loro organizzazione sui temi della casa o del lavoro, e che queste attività possano entrare in relazione con ogni momento vertenziale sul territorio, costruendo connessioni e reciproche solidarietà, che devono compiutamente esprimersi, nel comune riferimento alla medesima soggettività politica. Ovviamente un approccio di tale natura prevede un metodo di lavoro che non può essere periodicamente interrotto dalle emergenze elettorali, ma al contrario la capacità di guardare se non a lungo almeno a medio termine; prevede militanti in grado di comprendere il senso del proprio agire nel quadro di una strategia complessa e articolata; prevede il prodursi di esperienze e competenze specifiche, frutto dell’applicazione ad un settore e ad un ambito di lavoro; prevede soprattutto la conoscenza e la capacità di analisi dei soggetti con i quali si entra in relazione e la capacità di operare producendo alleanze e contaminazioni; prevede in ultima analisi, la determinazione a misurarsi con una funzione dirigente, piuttosto con il semplice lavoro di “propagandisti” del Partito. Qualora nel nostro Partito si attivassero energie e risorse in questa dire-


120 zione, esse non sarebbero sufficienti se contestualmente le strutture centrali del Partito, le federazioni in particolare, non fossero in grado di costruire le strutture di supporto a tale lavoro militante, sia sul piano politico che organizzativo. In primo luogo un chiaro e condiviso orizzonte strategico dell’azione del Partito, nel quale il lavoro delle strutture locali e dei singoli militanti possano collocarsi in modo organico e coerente: militare in un Partito in cui “ognuno fa un po’ come cazzo gli pare” è una pura perdita di tempo, e poteva avere un senso fin quando ad unificare c’era almeno il comune impegno elettorale. Oggi che questo impegno è delegato ad un diverso soggetto politico, o il Partito trova la sua ragion d’essere in una comune strategia, o può anche chiudere domani. In una città come Roma avere un comune impianto strategico significa condividere l’analisi sul contesto generale in cui si opera, sui soggetti in campo, sulle possibili alleanze sociali, sulle pratiche da attivare, quindi lavorare in modo coordinato e coerente ognuno nel proprio ambito, con la comprensione che il ruolo politico del partito si realizza nella capacità di superamento dei particolarismi, con cui i conflitti e le dinamiche sociali tendono a presentarsi, per ricomporli in una massa critica, intorno a cui aggregare un vasto fronte sociale in grado di agire la scene politica e condizionarla. Ma è questo un tema complesso che richiede una trattazione a se stante, specificamente riferita alla necessità e possibilità di costruire a Roma l’opposizione politica, a partire dalla unificazione e dall’estensione, dell’opposizione sociale esistente. Il secondo aspetto di supporto all’attività militante riguarda la possibilità di offrire strumenti e occasioni di formazione e crescita. Questo tema che è in se centrale, non può essere considerato appannaggio di un gruppo di lavoro o di una commissione della federazione, anche perchè esso deve essere declinato in almeno tre diversi ambiti. C’è una prima necessità di ridefinizione di un quadro ideologico di riferimento condiviso, a fronte di una condizione in cui nel Partito si è abbandonata la riflessione critica sugli elementi strutturali e fondativi dell’esperienza comunista; dirsi comunisti oggi ha un senso, se troviamo ancora una ragione per tali elementi strutturali e fondativi, nel quadro delle condizioni reali con cui ci misuriamo, non perchè essi ci appaiono “giusti”.


121 Comprendere il senso di espressioni come “dittatura del proletariato”, o “democrazia progressiva”, non per decidere quella che più ci convince o ci piace, ma per capire come nel corso della storia i comunisti hanno tentato di offrire risposte a problemi concreti, e sulla base di questa comprensione tentare a nostra volta di dare soluzioni a problemi concreti. A questo serve una “ideologia”, non a misurarsi in una autoreferenziale battaglia delle idee, che non interessa più a nessuno, magari rispolverando anche il folklore delle contrapposizioni tra stalinisti e trotzkisti. Su temi di ordine generale, di carattere economico, politico e sociale, è necessario che il Partito offra delle chiavi di lettura, producendo iniziative e materiali ad hoc, anche per permettere ad un militante di sapere in quale contesto opera, e non doversi scoprire in un Partito in cui c’è ancora chi non ha chiarito, il rapporto tra libertà individuale e socialismo, piuttosto che quello tra legalità e lotta di classe. C’è poi un secondo livello di formazione necessaria, quella che un tempo veniva definita “la cassetta degli attrezzi”, quel bagaglio di conoscenze, generali e specifiche, teoriche e pratiche, che permettono di applicarsi ad un lavoro e ad un impegno, con gli strumenti necessari. E’ questo un tema che dovrebbe poter essere affrontato in seminari di formazione e con materiali da mettere a disposizione di chi opera nei diversi ambiti, senza la pretesa di trasformare ogni militante in una autorità competente, specializzata in norme e legislazioni e al corrente del dibattito intellettuale sull’argomento; approntare una semplice “cassetta degli attrezzi”, quello strumento di operai e artigiani, che permette di conoscere ed eventualmente operare un primo intervento su un problema, ma con cui nessun operaio o artigiano crede di trovare tutte le soluzioni. Il terzo livello di formazione è quello che si produce poi in modo quasi spontaneo, nel confronto tra esperienze diverse nello stesso ambito, e per il quale c’è la necessità che la federazione attraverso gruppi di lavoro metta in relazione le diverse pratiche ed esperienze. Di fatto la formazione diviene l’attività prioritaria del partito, declinata in tutti in tutti i suoi aspetti, nel vivo dell’impegno sociale e conflittuale, nella formazione teorica e ideologica, nell’acquisizione di conoscenze e tecniche, nel confronto di esperienze, con il fine di produrre quei quadri


122 e dirigenti in grado di realizzare effettivamente il ruolo di direzione che spetta al Partito, e senza il quale la classe non è al momento in grado di misurarsi con il gap, tra i suoi livelli di coscienza e i suoi compiti. L’obbiettivo è quello di costruire un Partito, la cui struttura e la cui funzione, sia in grado di attrarre tutti i soggetti più determinati e coscienti della classe, quelle avanguardie sociali e sindacali, riconosciute sui territori e sui posti di lavoro, che hanno compreso la necessità di costruire una direzione politica generale, che superi lo specifico sociale e sindacale. Con una espressione sintetica potremmo dire che il Partito deve essere conosciuto e valutato all’esterno, non per la quantità dei suoi iscritti ed elettori, ma per la qualità dei suoi militanti e dirigenti. E’ sulla base di questa impostazione che il Partito può ambire alla direzione politica del nuovo soggetto politico e dei processi che esso sarà in grado di attivare, non certo avvitandosi nelle astratte discussioni sulle regole del suo funzionamento.

IL PARTITO DELLE AVANGUARDIE E LA RIUNIFICAZIONE DEI COMUNISTI E’ evidente che in questa idea di Partito non c’è nulla di nuovo. Essa si muove di fatto nel solco di quel partito “avanguardia della classe”, che è una delle principali intuizioni leniniste, con la precisazione che nell’attuale contesto più che di “partito d’avanguardia”, sarebbe opportuno parlare di “partito delle avanguardie”. Questa precisazione è dovuta, a fronte del modificarsi della composizione di classe, in cui è difficile individuare uno specifico settore trainante, come fu a suo tempo la classe operaia dei grandi centri industriali, e quindi a partire da questo settore trainante, costruire un impianto politico “d’avanguardia”. Oggi la contraddizione capitale - lavoro si articola in infiniti ambiti, così come sono aumentati gli ambiti di valorizzazione del capitale e di estrazione del plusvalore; in questo quadro più che una collocazione nel ciclo produttivo oggettivamente più avanzata, in grado di produrre un livello più alto di coscienza, è forse opportuno assumere quei comportamenti soggettivi più coscienti, che si producono nei vari contesti in cui in cui si produce lo scontro di classe. Così la costruzione del Partito, non può più


123 essere immaginata a partire da una sintesi compiuta, prodotta ai livelli dei settori più avanzati della classe, e quindi estesa a coinvolgere via, via i soggetti sociali, potenzialmente alleati, quanto invece come processo in itinere, che si produce a partire dall’intensificarsi sempre più organico delle relazioni tra soggetti d’avanguardia, espressione dei singoli spezzoni di una classe frammentata nella sua relazione con il ciclo produttivo. E’ nell’ambito di tale processo che va collocato il percorso di riunificazione dei comunisti, un percorso che non può essere inteso come la riaggregazione di sigle e siglette, sulla base di una acritica e confusa adesione ad un comune impianto ideologico, ma al contrario come un processo, in cui la costruzione di relazione unitarie prodotte nella concretezza dell’agire sociale, seleziona di fatto i punti di vista più avanzati e aderenti alla realtà, che divengono patrimonio comune, marginalizzando e mettendo da parte quelle elaborazioni e concezioni, che sopravvivono come incrostazioni, soffocando l’impianto ideologico dei comunisti e impedendo che esso si misuri con la realtà. Questo perchè per noi il tema della “rifondazione comunista”, non può essere una mera riflessione accademica sugli errori del passato, ma una verifica condotta nell’analisi della realtà attuale e nell’azione che in essa svolgiamo, dell’adeguatezza e della sufficienza del patrimonio ideologico dei comunisti; è sul piano di questa verifica che è possibile la riunificazione dei comunisti, non a prescindere da essa. Faremmo torto a tanti compagni comunisti che hanno fatto scelte diverse dalle nostre invitandoli ad un percorso unitario prescindendo da tali scelte. Dobbiamo invece confidare, che al di là delle diverse collocazioni organizzative, tutti i comunisti sappiano cogliere il valore dei percorsi unitari effettivamente praticabili, verificare le loro posizioni nella pratica concreta e se necessario rimetterle in discussione fino alle estreme conseguenze. Quando ci si libera dai vizi del settarismo e dello stalinismo, la battaglia politica, anche dura ma franca e aperta, è sempre salutare. Pensare di evitare tale battaglia cercando l’unità sulla base di un semplice atto di buona volontà, è un’offesa all’intelligenza che ci facciamo come comunisti, e un atto di irresponsabilità davanti alla classe, che se ha necessità di comunisti uniti, ha anche necessità di una direzione politica chiara e definita.


124 La costruzione dell’unità dei comunisti è tema serio, che deve essere affrontato nel quadro di una riunificazione di tutti i soggetti più coscienti e determinati della classe, processo che si produce nel vivo del conflitto, e che necessariamente prevede la sconfitta di ogni posizione “politica”, che per rigidità ideologica e settarismo, è di ostacolo a tale riunificazione. L’unificazione dei comunisti è in tal senso, un processo quasi fisiologico nel crescere del conflitto sociale e del rafforzarsi del fronte di classe, un elemento naturale del prodursi della direzione politica, il segnale evidente dell’elevarsi e del rafforzarsi della coscienza politica di classe. E’ questo un fenomeno speculare a quanto abbiamo avuto modo di verificare in questi anni, quando sconfitta della classe e la crisi nei suoi livelli di coscienza, si sono accompagnate alla frammentazione dell’esperienza comunista. Pensare di affrontare il tema dell’unità dei comunisti “a freddo”, sulla base di una pura determinazione soggettiva, può solo voler dire tentar di riunificare un po’ di debolezze, nel tentativo di allargare l’angolo asfittico della propria prospettiva politica. I veri processi unitari si producono intorno ai punti di forza: quella che, tra le tante microformazioni comuniste, saprà esprimere forza e capacità di direzione, sarà il soggetto agente del percorso di riunificazione dei comunisti. Interpretare questo compito è un aspetto della costruzione del Partito nel quale ci dovremmo impegnare, per recuperare energie ed esperienze, specialmente giovanili, oggi investite in ipotesi politiche strutturalmente minoritarie e ideologicamente inadeguate. Ciò che dobbiamo costruire è il partito in cui si organizzano i soggetti più coscienti e determinati della classe, quelle avanguardie sociali, che assumono la necessità di un luogo di direzione politica, in grado di misurarsi con la costruzione di una strategia di trasformazione sociale, e di farla vivere in pratiche di costruzione sociale e conflitto, capaci di rappresentarsi politicamente attraverso un nuovo soggetto politico, che sia punto di riferimento di una vasta alleanza sociale. Abbiamo la necessità di un Partito di questa natura anche guardando all’orizzonte che si profila, sia a livello nazionale, che europeo e mondiale, uno scenario in cui, la possibilità di una stretta autoritaria e i rischi di guerra, sono sempre più concreti, e pongono ai comunisti la necessità di


125 innalzare la qualità dei propri livelli di organizzazione e di consapevolezza, per essere nelle condizioni di affrontare qualsiasi contesto. E’ questo un progetto politico ambizioso e apparentemente al di fuori dalla nostra portata. Ma piuttosto che contemplarlo, facendoci annichilire dalla distanza tra un simile obbiettivo e le nostre attuali forze e capacità, è meglio tentare di tradurre tale progetto in impegni di lavoro immediati e in ambiti definiti. Tradurre quindi i ragionamenti esposti in una strategia di costruzione dell’opposizione politica e sociale a Roma, che è il lavoro che ci compete.


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ROMA E L’OPPOSIZIONE CHE NON C’E’ Porsi l’obbiettivo di costruzione di una opposizione politica a Roma, significa misurarsi con un tema quasi totalmente nuovo per il nostro Partito, stante il fatto che per 15 anni abbiamo concepito la nostra azione in città, a partire dal sostegno o dalla partecipazione a maggioranze di governo. In questo quadro l’azione del Partito si è esaurita in un atteggiamento emendativo delle politiche di centro-sinistra e nella rappresentanza di singole nicchie di soggettività sociale. Dal 2008 al 2013, benchè il PRC fosse già fuori dal consiglio comunale, i suoi voti hanno contribuito all’elezione dei due rappresentanti della Lista Arcobaleno che sosteneva la candidatura di Rutelli, e l’opposizione che il PRC ha tentato di produrre nei confronti della giunta Alemanno, non è riuscita ad assumere caratteristiche proprie, ma si è collocata nel solco dell’opposizione istituzionale. Solo alle ultime elezioni il PRC si è caratterizzato con un proprio autonomo profilo programmatico, senza però adeguatamente sfruttare l’eccellente lavoro svolto, a causa della prolungata attesa di un improbabile e mai realizzato accordo con il PD, che di fatto ha inibito per diversi mesi la nostra possibilità di iniziativa politica. Senza entrare nel merito di una valutazione critica sulle scelte del passato, il dato con cui oggi dobbiamo misurarci, è quello della necessità di fare un primo significativo passo nella costruzione di un visibile punto di riferimento politico della sinistra alternativa, che si collochi all’opposizione in questa città. C’è tutto un mondo di soggettività sociali, che agiscono nella scena cittadina sulla base di valori, pratiche e interessi, oggettivamente incompatibili con le politiche della giunta Marino, e soprattutto con gli indirizzi di una politica nazionale nel cui solco la giunta si muove: è


127 questa la massa critica da aggregare per dare l’avvio al progetto. Purtroppo il dato con cui ci dobbiamo misurare è che quelli che potrebbero essere i nostri possibili interlocutori, sono in larga misura non interessati al tema della costruzione di una opposizione politica: parte di essi rifuggono il piano politico, agendo il conflitto sociale in forme radicali, ma senza assumere la necessità che tale conflittualità si produca come compiuto progetto politico, in grado di concepire alleanze sociali e una idea alternativa di governo della città; altri invece, agendo principalmente sul versante della costruzione sociale, preferiscono collocare il loro percorso nelle pieghe di un amministrazione “non ostile”, piuttosto che contrastare esplicitamente le politiche di tale amministrazione. In un caso come nell’altro la costruzione di una opposizione politica al centro-sinistra a Roma, fino ad oggi non è stata vissuta come necessità. Oggi la situazione potrebbe modificarsi rapidamente: dal “salvaroma”, agli sgomberi di occupazioni e centri sociali, dall’attacco al salario “accessorio” dei dipendenti comunali, al rinnovarsi delle politiche di aggressione speculativa del territorio, questa giunta, sottoposta a pressione dal governo nazionale, sembra incapace di garantire quella sorta di “patto di non aggressione”, su cui si è basato il fragile equilibrio di questa città; è possibile che una riflessione si apra, all’interno dei soggetti più radicali del conflitto, a rischio di una vera e propria stretta repressiva, e allo stesso tempo si pone un problema serio a quei soggetti che fino ad oggi hanno vissuto all’ombra dell’amministrazione di centro-sinistra. Ciò potrebbe portare alla ridislocazione di una serie di soggetti sociali e politici, e quindi alla possibilità che si creino le condizioni per la ricostruzione di una opposizione politica, fondata su una visione alternativa dello sviluppo di questa città. Ma perchè ciò sia possibile, è necessario dare un segnale visibile che tale visione alternativa ha un minimo di forza reale su cui camminare; per questo la strettoia elettorale è ancora una volta un passaggio obbligato, punto di verifica non solo del nostro lavoro, ma della possibilità per questa città di mantenere in vita quelle esperienze di conflitto e autorganizzazione, che fino ad oggi l’hanno carattetizzata. Le prossime elezioni comunali saranno il punto di caduta di questa situazione: quindi meglio prendere il toro per le corna, e iniziare da qui.


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UNA “CAMPAGNA ELETTORALE” DIVERSA La dimensione elettorale è, in termini generali, solo un aspetto di un percorso di costruzione dell’opposizione politica, ma nella attuale condizione, caratterizzata dalla incapacità variamente declinata dei nostri diversi referenti sociali, a misurarsi con la dimensione politica, essa assume un valore di test determinante per la verifica del quadro in cui collochiamo la nostra proposta politica. Ma proprio perchè tale tema è così rilevante esso non può essere affrontato nei termini usuali, con atteggiamento attendista, rimandando le nostre decisioni in relazione al prodursi di quelle altrui: dobbiamo decidere da subito, che la nostra prospettiva è quella di riportare la sinistra d’alternativa in consiglio comunale, fuori e contro il PD e il centro-sinistra. L’autonoma determinazione del nuovo soggetto politico in costruzione, non può in tal senso essere in alcun modo di ostacolo all’autonomia politica del PRC, il cui ruolo deve essere anzi, quello di costruire le condizioni per cui il nuovo soggetto politico in costruzione a Roma, possa scegliere la sua collocazione in funzione di una reale valutazione politica e programmatica, piuttosto che solo sulla base del timore di non raggiungere la soglia minima per entrare in consiglio. In tal senso l’iniziativa del Partito deve essere concepita come una lunga “campagna elettorale”, ma una campagna elettorale di tipo diverso, in cui il tema non è la propaganda di un marchio elettorale, ma la costruzione di una “collocazione elettorale”, a cui richiamare e in cui coinvolgere quante più soggettività politiche e sociali in città. Ma per questa campagna elettorale di tipo diverso dobbiamo dotarci di una diversa strumentazione e un diverso metodo di lavoro: dobbiamo prima di tutto comprendere quale può essere il ruolo e l’utilità di una forza di sinistra d’opposizione all’interno delle istituzioni, domanda questa la cui risposta è tutt’altro che scontata; dobbiamo individuare i soggetti che potenzialmente possono essere coinvolti in tale percorso; dobbiamo poi definire un percorso politico che permetta l’aggregarsi di tali soggetti; dobbiamo poi dimostrare la capacità di incidere di una opposizione politica e quindi elettorale, lavorando con determinazione per la caduta della giunta Marino; dobbiamo infine mettere questo percorso a disposizione di quel nuovo soggetto politico della sini-


129 stra a cui cediamo la rappresentanza elettorale. Forse lavorando in questo modo potremmo puntare ad ottenere quel piccolo risultato elettorale, senza il quale diventa molto difficile la riapertura di una prospettiva politica in questa città.

UN NUOVO RUOLO DELL’OPPOSIZIONE NELLE ISTITUZIONI Uno dei cambiamenti più profondi indotti dai vari sistemi elettorali maggioritari, è la perdita di potere contrattuale delle forze d’opposizioni in genere, e la sostanziale irrilevanza delle piccole forze d’opposizioni in particolare. In questo quadro l’unico “voto utile” è quello che porta al governo, mentre qualsiasi voto dato a forze che non possono realisticamente competere per il governo, perde di utilità concreta, per trasformarsi in un voto di testimonianza, d’appartenenza, un voto ideologico; è questo un fatto obbiettivo, che difficilmente possiamo contrastare e che fa si che una quantità di soggetti, che pure si pongono in termini critici nei confronti delle coalizioni di centro-sinistra, alla fine vi aderiscano, piuttosto che tentare la difficile via della rappresentanza autonoma e alternativa, il cui esito finale, quand’anche raggiunto, è quello di proporre un’opposizione istituzionale priva di efficacia e puramente testimoniale. A fronte di questo dato indiscutibile, o ci si adatta a giocare la partita secondo le regole del maggioritario, rinunciando definitivamente ad una propria autonoma e alternativa presenza elettorale, o si opera un cambiamento a 360 °, sottoponendo a critica tutto il meccanismo della politica istituzionale, contrastando il concetto di voto utile, alla luce di una chiara ridefizione di quale deve essere “l’utilità”, di una opposizione non testimoniale nelle istituzioni. La prima cosa di cui ci dobbiamo liberare è di tutto quel retorico armamentario di propaganda elettorale, con il quale si tenta di convincere gli elettori dell’estrema rilevanza, per le sorti della città, della presenza di un paio di consiglieri di sinistra in consiglio comunale. Sulla base di tale armamentario, il voto alla sinistra è di volta in volta determinante, per rappresentare i lavoratori, per attuare programmi di sinistra, per condizionare governi e in generale per tutte quelle ragioni basata sul presupposto, che


130 stando nelle istituzioni, sia possibile ottenere chissà quali rilevanti risultati. Questa concezione in se sbagliata, diviene ridicola se a rappresentarla è una forza politica che fatica a prendere il 4%; dato che è difficile credere che qualcuno con un po’ di buon senso possa veramente ritenere che il governo di una città come Roma, possa dipendere dalla presenza di un consigliere di sinistra o dalla sua assenza, volerlo far credere agli elettori, significa proporre una piccola truffa, mal congegnata, a cui infatti nessuno crede. Dal punto di vista delle scelte dirimenti per il governo della città, la nostra iniziativa è stata quasi ininfluente quando eravamo interni alle coalizioni, può divenire irrilevante del tutto quando ci si colloca al di fuori di esse. La presenza politica nelle istituzioni di una forza del 4%, nell’ambito di sistemi maggioritari, è ininfluente per ciò che concerne il condizionamento di maggioranze, o comunque per la possibilità di una incisiva azione nei consigli e nelle commissioni; l’eliminazione del proporzionale è avvenuta anche per evitare che soggetti di scarsa rilevanza elettorale, ma con una adeguata capacità di manovra politica, potessero divenire condizionanti delle scelte degli esecutivi. Questi fatti sono noti ormai all’elettore medio, che infatti orienta le sue scelte nei confronti di quei soggetti, la cui forza rappresenta una minima garanzia di attuazione degli impegni presi, piuttosto che su piccole forze, che a malapena possono superare lo sbarramento e la cui azione rimane comunque isolata e testimoniale; questa modalità di scelta ovviamente è ancor più accentuata nelle elezioni amministrative, più legate a specifici e concreti interessi, piuttosto che nelle elezioni nazionali o europee. Quanti poi non possono trovare risposte alle loro esigenze nell’offerta politica messa a disposizione dalle forze maggiori, piuttosto che affidarsi al velleitarismo di piccole formazioni marginali, semplicemente escono dalla dinamica elettorale e finiscono nel “partito di massa” dell’astensione. Se vogliamo scardinare il meccanismo che porta a far convergere il consenso sulle grandi coalizioni, anche quando non ci si riconosce in esse, se vogliamo riportare al voto quella massa di elettori che si astiene, dobbiamo essere in grado di comunicare un messaggio meno velleitario e più aderente alla realtà, individuare delle credibili ragioni per cui è necessario e opportuno un voto di opposizione, ma per farlo dovremo avere chiaro, al-


131 meno fra di noi, a cosa serve una opposizione nelle istituzioni, tema questo del quale abbiamo una scarsa e quasi dimenticata esperienza. E’ quindi necessario puntualizzare quali sono le effettive ragioni per darci l’obbiettivo di riportare la sinistra d’alternativa, all’opposizione in consiglio comunale e nei consigli municipali; avendole chiare, potremo almeno evitare di veicolare messaggi poco credibile, e magari invece riuscire a offrire ragioni convincenti, a quanti vogliamo coinvolgere su questo obbiettivo. Di fatto tali ragioni sono sostanzialmente legate alla possibilità che una proficua dialettica tra conflitti e pratiche sociali da una parte e battaglia istituzionale dall’altra, possa determinare una estensione e politicizzazione dell’opposizione sociale, e quindi una modifica dei rapporti di forza nella città. Non si tratta quindi di promettere chissà quali cambiamenti nel governo della città attraverso il voto alla sinistra d’opposizione, ma di perseguire anche attraverso la presenza nelle istituzioni, il rafforzamento di una serie di interessi e soggettività sociali, in grado di proporsi come autonoma soggettività politica, senza necessità di alcuna “ricattatoria tutela”, da parte di forze maggioritarie. Riportare una sinistra d’alternativa all’opposizione nelle istituzioni, ha un senso nel quadro di una strategia che prevede la necessità di estensione e politicizzazione dei conflitti e delle pratiche di costruzione sociale, ma perchè ciò sia possibile l’opposizione non deve essere testimoniale, ma deve essere una funzione operativa, di quell’azione di costruzione sociale e di quel conflitto di cui è espressione. In tal senso la prima e fondamentale ragione per riportare una sinistra d’opposizione nelle istituzioni comunali, è legata alla possibilità e alla necessità di intervenire in quella fase di ogni conflitto sociale, in cui dopo aver organizzato interessi e bisogni, e prodotto una forza, ci si misura con la controparte e, sulla base della valutazione complessiva dei rapporti di forza e delle possibili alleanze, si fanno scelte politiche, cercando di collocare ogni specifico conflitto, nell’ambito di una strategia più articolata. Senza la possibilità di operare con quest’ampiezza di visione, anche dirigenti politici e sindacali di grandissimo livello, alla testa di movimenti


132 forti e determinati, finiscono per trovarsi in un vicolo cieco, come dimostra l’esperienza dei movimenti di lotta per la casa. D’altra parte affidarsi in questa fase del conflitto alla relazione con esponenti della maggioranza di governo “vicini ai movimenti”, può essere utile in relazione alla necessità di realizzare in parte o del tutto l’obbiettivo immediato del conflitto, ma è certamente inutile in relazione all’obbiettivo “politico” di contrastare una visione generale del governo della città. Rispetto ai processi di costruzione sociale e di pratiche mutualistiche e partecipative, le istituzioni locali e i municipi in particolare, possono rappresentare un terreno di sperimentazione e eventualmente di battaglia politica utile, laddove il rapporto di forza tra i livelli di autorganizzazione sociale e istituzione non è così sbilanciato a favore della seconda, e possono esserci margini per una relazione produttiva o in assenza di tale relazione produttiva, di una conflittualità più efficace. In una dimensione in cui lo scontro sociale avviene principalmente sul territorio, le istituzioni di prossimità, come i municipi, sono le prime a doversi collocare, non solo in modo simbolico, su uno dei due versanti. Riuscire nel condizionamento delle amministrazioni municipali, costruendo sul territorio delle reti ampie, indebolisce il governo centrale creando contraddizioni al suo interno; esercitare una pressione, su una istituzione municipale è tendenzialmente più semplice che non sui “palazzi” del potere capitolino; organizzare questa pressione in modo coordinato e simultaneo, nei confronti di tutte le amministrazioni municipali, può mettere a rischio lo stesso governo della città. Ma sia nel caso di una dialettica positiva che nel caso di un conflitto aperto, c’è la necessità di agire la propria iniziativa politica anche nelle sedi istituzionali, meglio se a partire da una propria autonoma rappresentanza. C’è poi la necessità di essere presenti nelle istituzioni anche nell’eventualità di essere obbligati a tentare di disattivarne la possibilità funzionale, specialmente nell’applicazione di norme e provvedimenti contro i quali si producono campagne e mobilitazioni; i municipi i particolare possono essere anelli deboli nell’eventualità di azioni conflittuali determinate e generalizzate. La presenza di compagni impegnati nelle istituzioni, con conoscenze e competenze adeguate a offrire indicazioni su come rendere la propria iniziativa più incisiva, è in tal senso una risorsa necessaria.


133 C’è infine la necessità, tutta comunicativa, di dare un segnale del crescere di una soggettività politica, di cui i test elettorali sono una verifica. Il raggiungimento di un risultato elettorale significativo, corrisponde abitualmente ad una apertura di credito da parte di soggetti individuali e collettivi, esattamente come una sconfitta determina una perdita di credibilità politica. Si tratta in sostanza di mostrare la forza dell’opposizione, nella convinzione che ciò che l’ha fatta fin qui apparire inutile, è stata anche la sua debolezza. C’è di fatto la necessità di ribaltare un luogo comune, che in modo non esplicito è entrato a far parte anche della nostra cultura: l’idea che l’esito naturale dei conflitti e delle dinamiche sociali, sia produrre diversi rapporti di forza nelle istituzioni. La realtà è un’altra, dobbiamo usare anche le istituzioni, per spostare a nostro vantaggio i rapporti di forza nella società; che è esattamente ciò che fa l’avversario di classe, il quale non considera il governo o le istituzioni, come un fine in se, non si applica ad esse in funzione di una visione politica contro un’altra, ma semplicemente le usa, in funzione della realizzazione dei suoi interessi speculativi, quale che sia il soggetto politico al governo, pronto a sabotarne il funzionamento, se tale funzionamento si oppone ai suoi interessi. Realisticamente, l’obbiettivo che possiamo darci per la prossima tornata elettorale, non può essere quello di riportare la sinistra d’alternativa in consiglio comunale per “dare una svolta”, “cambiare finalmente” e altre balle elettorali; l’obbiettivo che dobbiamo darci è quello di riportare la sinistra d’alternativa nelle istituzioni, come tappa di una strategia di costruzione politica più ampia, con la specifica funzione di rafforzare, attraverso la presenza istituzionale, l’estensione e la politicizzazione dei conflitti e delle pratiche di costruzione sociale.

I REFERENTI NELLA COSTRUZIONE DELL’OPPOSIZIONE POLITICA E’ evidente che se queste sono le ragioni per un voto ad una forza politica d’opposizione, ragioni eminentemente politiche, la nostra “campagna elettorale”, deve rivolgersi a quei soggetti che direttamente o indirettamente


134 sono partecipi di una progettualità sociale e/o politica, che già agisce sulla scena cittadina, piuttosto che a soggetti che affidano la speranza di ottenere una risposta alle loro domande sociali, in relazione ad una delega che offrono a chi si candida a governare la città. Si tratta in sostanza di aggregare quella massa critica, costituita dai vari segmenti della sinistra diffusa, per riunirle in un progetto politico dal comune impianto valoriale e programmatico, nel quadro di una comune esigenza di agire la sfera istituzionale, come articolazione di una progettualità sociale e sindacale già in campo. Il perimetro di tale aggregazione deve comprendere quei soggetti che si collocano sul terreno del contrasto alle politiche di uso speculativo del territorio, alle privatizzazione dei servizi pubblici e sociali, all’attacco ai diritti e alle condizioni di vita dei lavoratori, alla gestione del dissenso e del conflitto sociale in termini di ordine pubblico, e tutti coloro che si collocano sul terreno della difesa del patrimonio pubblico e del suo uso sociale, del diritto alla casa, della costruzione di pratiche solidali e mutualistiche, dell’antifascismo e dell’antirazzismo. E’ una galassia vasta e variegata, in cui alla diversa caratterizzazione sociale, corrisponde l’intreccio più o meno trasparente, con abbozzi di progettualità politica, tra loro in competizione e spesso reciprocamente impermeabili. Il PRC malgrado i suoi limiti e le sue debolezze, è l’unico soggetto politico che riesce comunque a mantenere un minimo di interlocuzione con tutti i diversi soggetti, e quindi è l’unico che può operare per tentare di riconnetterli in un percorso di costruzione dell’opposizione politica a Roma; ma per fare ciò è necessario analizzare questa galassia, coglierne le specificità dei diversi frammenti sociali, i limiti della rappresentazione politica che producono. Il primo e più visibile spezzone di questa galassia è certo rappresentato dai movimenti di lotta per la casa “di ultima generazione”, in particolare legati alle sigle del Blocchi Precari Metropolitani e del Coordinamento di Lotta per la Casa. E’ questo apparentemente il meno indicato tra i possibili referenti di un progetto di opposizione politica che miri anche alla presenza nelle istituzioni: non solo le soggettività politiche che agiscono questo ambito sono storicamente e pregiudizialmente astensioniste, ma gran parte dei soggetti che si organizzano intorno a queste esperienze, sono immigrati, privi del diritto di voto, e quindi privi di interesse in qualsiasi


135 campagna elettorale ordinaria. Ma in questa insolita “campagna elettorale” che qui si propone, questi soggetti senza diritti, sono invece il primo banco di prova di un progetto di opposizione politica in grado di vivere nella società, e per questo utile nelle istituzioni. Riuscire nella difficile impresa di riaprire una interlocuzione tra dimensione politica e forme radicale del conflitto sociale, significa di fatto qualificare la nostra azione e renderla credibile a tutti i nostri altri referenti. La rilevanza di questa relazione, sta nel fatto che i soggetti che si organizzano nei movimenti di lotta per la casa, invisibili, senza diritti, obbligati a misurarsi in un conflitto estremo e senza mediazioni, tutto giocato sulla espropriazione diretta di valore, nei confronti dei poteri reali di questa città, hanno avuto l’ingrato e pesante compito di essere stati gli unici in questi anni, non a denunciare, ma ad opporsi fisicamente, all’ignobile miseria di una città con migliaia appartamenti sfitti e di bambini senza un tetto e un letto. Se la politica ha ancora il valore di una scelta anche etica, non può che partire da qui. Ma anche volendo mettere da parte queste considerazioni etiche, rimane il fatto che non può darsi a Roma alcun progetto di opposizione politica che non assuma la forza dei numeri, la radicalità delle pratiche, la priorità degli obbiettivi, che questo movimento rappresenta. Oggi questo movimento vive un momento difficile di cui non sono chiari quali possono essere gli sbocchi. Dopo una fase di crescita tumultuosa nel corso degli anni passati, con gli Tsunami tour, condotti anche insieme ad Action, che hanno generalizzato la pratica delle occupazioni, e successivamente le grandi manifestazioni del 18 e 19 ottobre, dove i si è tentata una costruzione politica più avanzata, saldando il movimento di lotta per la casa e quello del sindacalismo di base, la situazione ha subito una serie di battute d’arresto. In primo luogo la divisione non dichiarata, ma nei fatti, tra quei settori che hanno accettato di fermare la pratica delle occupazioni, in cambio di un percorso di regolarizzazione per le occupazioni precedente al 31/12/2013, e chi invece, come BPM e Coordinamento, sia sulla base di una incomprimibile emergenza sociale, sia sulla base di una autonoma valutazione politica, ha ritenuto di continuare con le pratiche conflittuali. Successivamente, prima della manifestazione nazionale del 13 aprile, si è interrotto anche il percorso unitario con i sindacati di base;


136 la primavera è stata poi scandita dagli sgomberi di tutte le occupazioni effettuate dopo il 31 dicembre, quindi dall’arresto dei principali esponenti del movimento. Dopo l’arresto di Paolo e Luca il movimento ha comunque reagito all’attacco perpetrato con l’art.5 del decreto Lupi, con l’iniziativa coordinata davanti ai municipi, iniziativa costruita anche con il contributo del PRC, primo segnale forse di una maggiore disponibilità sia ad articolare la propria iniziativa, sia a riaprire relazioni con altri soggetti; a parziale conferma di questa tendenza c’è poi l’assemblea ai primi di luglio in Campidoglio, con l’elemento di novità della convocazione dell’assemblea insieme ad Action, e l’invito a esponenti dei partiti (PD, SEL, M5S e PRC) a prendere posizione contro gli sgomberi, l’art.5 e l’arresto di Paolo e Luca. Quali che saranno i successivi sviluppi, di questa dinamica, il PRC deve avere una strategia di relazione con questo movimento, e tale strategia deve prodursi su diversi livelli: in primo luogo, attivarsi a livello nazionale per dare visibilità politica alla campagna per la liberazione di Paolo e Luca; sul piano cittadino continuare a seguire le dinamiche del movimento, partecipando alle occasioni pubbliche di confronto, e avanzando anche proposte di iniziativa comune come nel caso dell’art. 5; a livello territoriale è necessario tentare l’interlocuzione diretta con i diversi comitati d’occupazione, coordinandosi sul tema della lotta agli sfratti e contro l’applicazione dell’art.5, verificare laddove possibile la condivisione di pratiche mutualiste già attive nei nostri circoli (GAP, scuole per stranieri ecc...), inserire i comitati d’occupazione nei processi di costruzione di reti territoriali, e in sostanza considerare le occupazioni, come un naturale referente delle nostre politiche territoriali. E’ in questo quadro che anche la relazione tra questo ambito sociale e il nuovo soggetto politico che il PRC contribuisce a costruire, diviene possibile, e nel quadro di una tale relazione, ricostruire un nesso dialettico tra questa dinamica di conflitto sociale, tendenzialmente refrattaria a qualsiasi costruzione politica, ed una opposizione politica presente anche a livello istituzionale; tale possibilità è ovviamente subordinata alla capacità del nuovo soggetto politico della sinistra di costruire una strategia offensiva nei confronti della giunta Marino, in cui i movimenti di lotta per la casa possano uscire dall’isolamento, collocando la loro battaglia nel contesto di un più vasto quadro di alleanze e relazioni sociali.


137 Un secondo settore della sinistra romana è rappresentato da quel mondo diversificato in cui convergono le occupazioni abitative “storiche”, e i centri sociali, piccole cooperative e associazioni impegnate in percorsi di costruzione sociale e autorganizzazione economica; a questi tipo di impianto si legano quelle esperienze sindacali dell’inquilinato, che agendo nei territori, condividono spesso simili problematiche sociali (tutela contro sgomberi e sfratti, autorecupero, uso del patrimonio pubblico). E’ questo un mondo con cui il PRC ha per anni avuto una relazione di reciproca strumentalità, con il Partito a garantire la nicchia sociale rappresentata da queste realtà, per rafforzare la sua azione emendativa nell’ambito delle coalizioni di centro-sinistra, mentre da parte di queste realtà sociali si usava del bacino elettorale del PRC, come “base”, su cui “impilare” i pacchetti di preferenze gestiti autonomamente, con il fine di ottenere una autonoma rappresentanza istituzionale. Questa dialettica di reciproca strumentalità, che ha prodotto anche esperienze significative in singoli municipi, in cui i processi di costruzione sociale erano più avanzati, ha avuto un battuta d’arresto dopo la scissione del PRC, quando il tema del rapporto con il centro-sinistra ha lacerato anche queste soggettività sociali, divise al loro interno tra la riproposizione dello schema abituale di internità a coalizioni di centro-sinistra, con il solo cambio di interlocutore, non più il PRC, ma solo quella parte di esso che aveva dato vita a SEL, e il tentativo di dar vita ad una autonoma rappresentazione politica, intorno alla candidatura di Medici e a Repubblica Romana. Action, che è il soggetto “politico” che ha in larga misura interpretato questa dinamica, si è divisa e lacerata al suo interno sul tema del rapporto con il governo di questa città, e oggi è possibile che in relazione a quanto accadrà a sinistra dopo il successo della lista Tsipras, possa tentare un’uscita dal vicolo cieco che oggi la vede legata ai destini dei referenti di SEL all’interno della giunta. Anche al di fuori dell’area direttamente controllata da Action, che risponde ad una propria “progettualità politica”, diffusa è in questo mondo la comprensibile tendenza a “mettere in sicurezza” i risultati raggiunti in un ciclo di lotte ormai trentennale: centri sociali che dopo anni di battaglia contro gli sgomberi, negli ultimi anni hanno portato avanti in relativa sicurezza significative esperienze sociali, producendo anche reddito e piccole attività economiche; occupazioni abi-


138 tative “storiche”, che guardano con una certa apprensione ai nuovi movimenti, nel comprensibile timore che in una radicalizzazione dello scontro, anche le vecchie occupazioni possano essere a rischio; associazioni e cooperative sorte a partire da queste esperienze, e poi rafforzatesi anche grazie ad un rapporto con amministrazioni municipali e comunali politicamente “vicine“. E’ questo un mondo che si è mosso fino ad oggi nel quadro di visione politica, in cui al ritrarsi del “pubblico”, individuata come tendenza strutturale e inarrestabile, ci si oppone autorganizzando il “sociale”. Tale impostazione, corretta ma insufficiente, ha comunque prodotto una significativa sedimentazione sociale, nella quale si colloca il pezzo più cosciente e determinato di quella soggettività sociale, che presa coscienza dei processi di precarizzazione del lavoro, ha tentato di ricostituire una propria identità collettiva, non a partire dalla comune collocazione in relazione al ciclo produttivo, ma piuttosto dalla comune appartenenza ad un tessuto di relazioni sociali. Così a fronte di una condizione di precarietà lavorativa tendenzialmente strutturale, si tenta di costruire in proprio, attraverso le modalità dell’autogestione e dell’autorganizzazione, un tessuto di solidarietà e socialità, nella quale far vivere un’identità collettiva, costruita nella concretezza delle pratiche condivise. Anche in questa realtà la crisi sta comunque mettendo in discussione schemi consolidati; rischia infatti di saltare il “patto di non aggressione”, stabilito a partire dalla delibera 26 del ‘92 tra la giunta Rutelli e i centri sociali, raggiunta dopo un durissimo ciclo di lotte, non messo in discussione nemmeno dalla giunta Alemanno, che l’ha invece utilizzato per offrire spazi alla destra estrema di Casapound. Tale patto si era prodotto nel contesto di una città in cui la crescita del PIL, trainato dalla speculazione immobiliare, su livelli ben al di sopra della media italiana, poteva permettere di “pagare un obolo” alla pace sociale. Oggi la situazione si è modificata per l’acuirsi della crisi economica, che obbliga ad una minor tolleranza verso fenomeni di espropriazione quali sono le occupazioni, e verso circuiti economici “alternativi”, su cui non si è in grado di esercitare controllo, e verso un modo dell’associazionismo e della cooperazione, che seppur in misura minima, usa delle risorse pubbliche.


139 La tolleranza zero verso nuove occupazioni dopo il 31/12/2013, a fronte di un’offerta di regolarizzazione dall’incerto cammino, i sigilli e le misure amministrative nei confronti di centri sociali, che ne impediscono le attività e ne bloccano i circuiti economici, la stretta ai bilanci dei municipi, che in alcuni territori sono in stretta relazione con questi soggetti sociali, sono tutti elementi che probabilmente obbligheranno ad una ridefinizione del rapporto tra questo mondo di soggettività sociali, la giunta Marino e SEL, il partito che all’interno della giunta ne è il referente. Il processo di costruzione di un soggettività politica alternativa e di opposizione, deve necessariamente intersecarsi con le dinamiche che coinvolgeranno queste soggettività sociali, che a Roma rappresentano sicuramente uno dei livelli di coscienza e consapevolezza più avanzato. Si tratta di un pezzo di soggettività sociale, il cui sistema valoriale è intrinsecamente alternativo a quello su cui si orientano le politiche di governo della città, ma che fino ad oggi, ha potuto esistere e rafforzarsi, approfittando delle pieghe e delle crepe, di tali politiche, evitando lo scontro aperto. Tenendo conto che un soggetto politico come il PRC, per anni si è collocato su una analoga posizione, non c’è da stupirsi che lo stesso abbiano fatto delle soggettività sociali. Oggi però la situazione si sta velocemente modificando, e al PRC compete di produrre le condizioni, perchè la fine del “patto di non aggressione”, non si trasformi in semplice subalternità, magari con venature paraclientelari; per far ciò è necessario valorizzare al massimo le relazioni e le iniziative già avviate, in particolare il tema delle “4 delibere”, e in termini generali, tutte le elaborazioni connesse al tema dello sviluppo della progettualità locale, dell’uso del territorio e del patrimonio pubblico, delle pratiche mutualistiche, con particolare riferimento a quelle finanziarie. La sfida a cui questi soggetti sono chiamati, è quella di costruire, a partire da questi temi, una prospettiva futura più avanzata di quella che può offrire un precario strapuntino, in una giunta ancor più precaria. A fronte delle comprensibile resistenze a misurarsi con questi temi, il compito del PRC e per quanto possibile del nuovo soggetto politico, è quello di trasformare i temi di iniziativa che ci accomunano a queste soggettività, e le “4 delibere” in particolare, in occasioni conflittuali in cui “testare”, ed eventual-


140 mente mettere in crisi, la tenuta della relazione subalterna che ancora lega questi soggetti sociali, alla giunta Marino e alla sua maggioranza. Il terzo ambito della sinistra romana è quello più direttamente legato alle tematiche del lavoro, con particolare riferimento alla grande azienda dell’amministrazione capitolina e alle aziende di servizi partecipate. E’ questo un mondo in cui dopo anni di progressiva precarizzazione del lavoro e esternalizzazioni e privatizzazioni, le necessità imposta dal bilancio e dal “salvaroma”, stanno producendo un grande malessere e prime significative, seppur contraddittorie, mobilitazioni. Da un lato proteste come quelle messi in campo dai lavoratori dell’ATAC, dalle operatrici delle scuole materne, agite in modo frammentario, in forme autonome o con il sostegno del sindacalismo di base, dall’altro la mobilitazione generale dei mesi passati dei lavoratori comunali contro il taglio del cosiddetto salario accessorio, che ha visto le stesse CGIL, CISL e UIL obbligate ad assumere l’iniziativa, per finire con la battaglia di aziende in via di privatizzazione come Farmacap, c’è tutto un mondo del lavoro che inizia a sperimentare le conseguenze della crisi e delle politiche con cui la crisi viene gestita. A questo ambito vanno aggiunti poi la crisi dei consumi e le sue conseguenze nel settore del commercio e della grande distribuzione, a Roma da sempre fondamentali, l’assenza di qualsiasi politica di sviluppo industriale che non sia la riproposizione di grandi opere e nuove costruzioni, l’ormai accettata perdita di migliaia di posti di lavoro per la crisi Alitalia. E’ questo un quadro di progressiva devastazione economica e sociale, in cui la sinistra sindacale fatica ad assumere visibilità, non riuscendo a rendere il tema del lavoro, centrale per affrontare i problemi di questa città. In questo vuoto l’unico mesaggio è quello della giunta, che tratta il lavoro come una questione marginale, un tema da affrontare in termini di maggior efficienza della macchina amministrativa, o attirando un po’ di capitali pubblici o privati, per la grande opera di turno. Assente è la capacità di saldare la battaglia per il lavoro, per la sua creazione, per i suoi diritti, per la sua dignità, a quello delle emergenze sociali della città, a cui solo con un vero e proprio “piano per il lavoro”, è possi-


141 bile dare risposta. C’è in tal senso un deficit di capacità della sinistra politica in questa città, che piuttosto che svolgere la funzione che le dovrebbe essere propria, e cioè collocare la battaglia del lavoro, in una più vasta rete di interessi e relazioni sociali, e quindi di un fronte sociale più ampio, si appiattisce nella piccola logica sindacale, assolutamente inadeguata a misurarsi con le ragioni strutturali di un attacco che è tutto di natura politica. Dato per scontata che gran parte della sinistra sindacale fa riferimento ai principali soggetti politici che agiscono la scena cittadina, è evidente che le ragioni di questo deficit, vanno ricercate nella relazione che i vari settori sindacali mantengono con i loro referenti politici. Così è naturale che la “politica” sindacale dei partiti che sostengono la maggioranza, miri a circoscrivere ogni possibile tensione nel mondo del lavoro, in un ambito esclusivamente sindacale, evitando che sia l’impianto politico del governo della città, e i diktat del governo nazionale a cui la giunta si adatta, ad essere l’oggetto effettivo del contendere. Meno comprensibile, e certamente imputabile ad un deficit “soggettivo” dei gruppi dirigenti e dei militanti, che un partito come il PRC, piuttosto che intervenire nel mondo del lavoro a partire da un comune impianto d’analisi, da una comune individuazione della controparte, da una comune individuazione degli obbiettivi, tutte cose che il Partito è in grado di condividere, viva nell’impotenza determinata anche, se non soprattutto, dal prevalere delle differenti appartenenze sindacali presenti nel Partito. A fronte di un trascinarsi storico di questa patologia del Partito, non sembra emergere con chiarezza, la natura immediatamente “politica” di ogni conflitto sindacale, l’inadeguatezza e per certi versi addirittura l’inutilità, di uno strumento sindacale, che da ormai più di trent’anni ha cessato di essere strumento di rivendicazione, e che anche come semplice strumento di difesa, raramente va oltre la limitazione del danno, e spesso non riesce nemmeno in questo. E’ certamente difficile comprendere come un Partito che si dice comunista, piuttosto che affrontare il tema del lavoro come chiave di volta, di tutta la problematica sociale, approcciando quindi a tale tema in termini totalmente politici, sempre intendendo la politica come costruzione di relazioni tra interessi sociali diversi, continui invece ad “appal-


142 tare” la propria presenza sui temi del lavoro, ad un approccio sindacale, sul quale oltretutto, non c’è nemmeno la capacità di una iniziativa condivisa. A fronte di questo problema di difficile soluzione, sarebbe forse utile che i militanti del PRC, impegnati nel mondo del lavoro e nel sindacato, prima di ogni altra cosa, assumessero nella loro iniziativa, la centralità degli elementi condivisi della linea del Partito (democrazia sindacale, lotta alle privatizzazioni, opposizione al taglio di servizi ecc...), trovando il modo di costruire intorno ad essi, un primo elemento di comune “politicizzazione” della loro attività sindacale. Un secondo livello di “politicizzazione”, dovrebbe prevedere la capacità di mettere in relazione la difesa del lavoro, con la riaffermazione del suo “valore sociale”, in rapporto ad una utenza, ad un territorio, ad una esigenza collettiva, collocando il conflitto nel mondo del lavoro, non come la semplice tutela di un soggetto specifico, ma come “interesse generale”, contro “l’interesse particolare” del profitto; è in questo quadro che è possibile ricollocare la difesa del lavoro, in un fronte ampio insieme con la difesa al diritto alla casa, e quello agli spazi sociali e culturali di questa città. L’ultimo soggetto politico che svolge un ruolo nel mondo sindacale di questa città è rappresentato dall’area di Ross@, e dalla Rete dei Comunisti che ne è il cuore; i compagni che fanno riferimento a queste esperienze, sono in larga misura legati al mondo del sindacalismo di base e dell’USB in particolare che, proprio successivamente alla nascita di Ross@, ha aperto una relazione con l’area di minoranza della CGIL che fa capo a Cremaschi. E’ Ross@ l’unico soggetto che si pone il tema della “politicizzazione” del conflitto sindacale anche se il tentativo messo in atto, procede in modo contraddittorio, e soprattutto sembra far prevalere il tema della dimensione nazionale ed europea del conflitto, rispetto a quella locale. Il punto più alto di questo approccio è stato rappresentato dalle giornate del 18 e 19 ottobre 2013, quando sindacati di base e movimenti di lotta per la casa si sono affiancati e passati il testimone con una grande mobilitazione di massa; dopo quella giornata l’accentuazione della mobilitazione in chiave antieuropea da parte della direzione “politica” di USB, non è stata in grado di tenere insieme i movimenti per la casa, che hanno puntato ad una radicalizzazione dello scontro con il governo nazionale


143 (manifestazioni del 31 ottobre 2013 e del 13 aprile 2014); il tema dello scontro con l’Europa comunque non sembra adeguato a coinvolgere in un conflitto più conseguentemente politico, nemmeno la base sindacale di USB, come dimostra il risultato non esaltante della manifestazione del 28 giugno 2014. E’ ipotizzabile che proprio la volontà di costruire una dimensione politica del conflitto sindacale, a partire dai temi europei, e con una modalità di rappresentazione più legata alla “visibilità” nazionale ed europea, che alla necessità di agire nella concretezza di rapporti politici locali, sia il prodotto di un approccio astrattamente ideologico e che per questo non sia in grado di esprimere appieno le potenzialità dei settori sociali che il sindacalismo di base rappresenta. Nella costruzione di una opposizione politica in questa città, la relazione con il mondo del sindacalismo di base conflittuale, e quindi con le soggettività politiche che in quel mondo operano, è indiscutibilmente necessario; ciò è ancor più vero alla luce del fatto che un soggetto politico come Ross@, è nato con un impianto politico e alla luce di necessità, tutt’altro che dissimili da quelle che hanno portato all’Altra Europa: comune era l’idea di un soggetto politico con adesione individuale, e a cui si potesse aderire pur militando in un altro partito, comune era la volontà di far incontrare culture diverse (anticapitalismo, ambientalismo, femminismo), comune la necessità di misurarsi con il tema della rappresentanza istituzionale; gli elementi di diversità sono invece sostanzialmente tre, una maggiore caratterizzazione in senso anticapitalista di Ross@, un soggettività sociale di riferimento in parte diversa da quella dell’Altra Europa, e più legata al mondo del lavoro dipendente, e soprattutto una diversa analisi sulla crisi europea, tema questo che ha reso di fatto non comunicanti i due progetti durante questi ultimi mesi caratterizzati dalla campagna elettorale europea. Sarebbe quindi necessaria una offensiva unitaria nei confronti di questa area politica, e delle soggettività sindacali ad essa riconducibili, che partendo dalla necessità di qualificare politicamente le ragioni di conflittualità nel mondo del lavoro a Roma, puntasse a connettere tale conflittualità in una visione politica più ampia e in un più ampio fronte, unificato dalla necessità di una opposizione politica complessiva al governo della città. La costruzione di un “piano del lavoro” cittadino, anche a prescindere


144 dall’iniziativa di legge popolare nazionale a cui il Partito ha di fatto rinunciato, potrebbe essere il terreno di unificazione tra le esigenze del mondo del lavoro e le tante domande sociali inevase della città, e quindi tra soggettività sindacali conflittuali e il mondo della sinistra sociale che si organizza sui territori. L’idea su cui sarebbe opportuno lavorare è quella di uscire da una condizione in cui il tema del lavoro, dopo essere stato per una intera fase storica, il riferimento intorno a cui costruire alleanze ed egemonia, è ridotto oggi ad essere un settore “separato” dalle altre dinamiche sociali, limitato all’interno di una dinamica sindacale sempre più asfittica e priva di prospettive; ricostruire una relazione dialettica tra le problematiche del mondo del lavoro e le domande sociali della città, è la chiave di volta per la costruzione di un progetto alternativo di governo della città. Sfidare i soggetti che operano nel mondo del sindacalismo conflittuale a misurarsi su questi temi, è porre la premessa per una possibile convergenza politica e programmatica alle prossime elezioni comunali, allargando il campo delle relazioni già attivate intorno al nuovo soggetto politico della sinistra. La possibilità di lavorare per la costruzione nel corso della prossima primavera a una due giorni di confronto e mobilitazione cittadina, che intorno al tema del lavoro, della sua difesa, della sua dignità e della sua produzione, raccolga non solo il mondo della sinistra sindacale e conflittuale, ma anche la sinistra sociale, che su questi temi è tendenzialmente assente, potrebbe essere un obbiettivo concreto a cui chiamare tutti i compagni del Partito che operano in ambito sindacale. L’ultimo ambito della sinistra romana è quello che in teoria dovrebbe costituire il cuore del nuovo soggetto politico dell’alternativa, quel mondo di attivisti di sinistra che si sta organizzando e ha ripreso visibilità, a partire dalle elezioni europee e dal sostegno alla candidatura del compagno Tsipras. Delle caratteristiche sociali di questo frammento di sinistra, si è già detto ampiamente in precedenza e la situazione romana non si differenzia dal quadro generale; basti qui ricordare che a differenza delle realtà fin qui descritte, il cui rapporto con la dimensione politica o non esiste, o è strumentalmente subalterno, o si colloca nella dialettica tra sindacati e soggetti politici di riferimento, per questo tipo di soggettività sociale la necessità di produrre una “rappresentazione politica e istituzionale“ è il fattore costituente e fondativo. D’altra parte tale esigenza, che a livello europeo si è espressa con nettezza in termini alternativi al centro-sinistra,


145 si misura oggi con la difficoltà ad operare analoghe scelte in ambito locale, in ragione della diversa collocazione politica di SEL e PRC nei confronti di giunte regionali e comunali; è evidente che la mancata soluzione di questo dilemma può produrre lo stallo e la fine del progetto politico nato con le elezioni europee. A fronte della probabile determinazione di SEL a perseguire il suo progetto politico di alleanza con il centro-sinistra a livello locale, il PRC deve rimarcare con nettezza la sua determinazione a lavorare per una collocazione autonoma e alternativa al centro-sinistra, anche a costo di registrare un momentaneo stallo del percorso di costruzione di un nuovo soggetto politico. La decisione recentemente assunta in sede di coordinamento nazionale dell’Altra Europa, di rendere indisponibile l’uso del simbolo per le prossime elezioni regionali, laddove non si riuscirà a produrre una convergenza unitaria, può di fatto determinare un momento di vuoto esiziale in un momento delicato nella costruzione del progetto. E’ evidente che in tale vuoto la titolarità elettorale tornerebbe direttamente nelle mani dei partiti, con SEL e PRC impegnati a riproporsi sulle macerie dell’ennesimo fallimento di un processo di ricomposizione politica, nel quadro di un ulteriore calo di fiducia da parte di quei soggetti che intorno alla candidatura di Tsipras si erano attivati. E’ quindi auspicabile che l’impossibilità di utilizzare un simbolo, la cui proprietà è nelle mani di un numero limitato di promotori della lista per l’Altra Europa, non impedisca la costruzione a livello regionale di liste che siano punto di riferimento di soggetti che, interni o meno al percorso fin qui prodotto con l’Altra Europa, si collocano con determinazione sul versante della costruzione dell’alternativa e dell’opposizione al centro-sinistra. In tal senso il PRC non può concepire il progetto di costruzione di un nuovo soggetto politico, come un percorso predeterminato, all’interno del perimetro di partecipanti fin qui definito e sostanzialmente vincolato alle scelte di SEL; al contrario dobbiamo mettere nel conto che, il percorso di costruzione passi anche attraverso momenti in cui parte dei soggetti fino ad oggi coinvolti, si esprimano a livello locale, in modo originale e autonomo, a fronte delle rigidità e delle cristallizzazioni che bloccano i livelli nazionali; dobbiamo immaginare che l’apertura di altre relazioni e il coinvolgimento, anche solo a livello locale, di altri soggetti, allargando


146 il perimetro di interesse del nuovo soggetto politico, rompa tali cristallizzazioni e favorisco un processo di costruzione più legato alla dimensione locale, che non alle dinamiche di ceto politico nazionale; dobbiamo inoltre produrre questo tipo di iniziativa politica, che mira ad estendere e a rivitalizzare il progetto di un nuovo soggetto politico, contro ogni irrigidimento derivante dalle solite logiche “pattizie” tra partiti, anche per operare sulla base sociale di SEL, cui spesso l’accordo con il centro-sinistra sta stretto e che viene accettato solo per il timore dell’esclusione dalla rappresentanza istituzionale. Dobbiamo in sostanza, evitare di considerare la costruzione del nuovo soggetto politico, come un progetto già definito nel suo perimetro e nei suoi attori, strettamente legato all’esito delle elezioni europee; quanto fin qui fatto è solo la base di un ragionamento più ampio, non un piccolo capitale da “difendere”, anche a rischio della subalternità, con il timore che ad ogni passo il ritrarsi di qualcuno, possa mettere tutto il progetto a rischio, ma un capitale da “investire”, nella consapevolezza che solo l’aggiungersi di altri soggetti, può offrire solide prospettive a tale progetto, e solo il suo reale rafforzamento nella società, può sottrarlo alla ricattatoria tutela del centro-sinistra, che è l’unica cosa che può offrire al momento l’impianto politico di SEL. Non è al momento chiaro come nelle regioni coinvolte dalla prossima tornata elettorale si reagirà all’impasse prodotta a livello nazionale. Per quanto concerne Roma abbiamo più tempo per lavorare, favorendo una prospettiva di costruzione del nuovo soggetto politico, con un impianto esplicitamente all’opposizione della giunta Marino. Tale impianto non può però esaurirsi nella semplice declamazione di una serie di principi o punti programmatici; tale impianto deve vivere nella iniziativa locale dei comitati per l’Altra Europa, e nella loro capacità di attivarsi in relazione con tutte le altre espressioni dell’opposizione sociale e sindacale a Roma. La battaglia contro l’art. 5 e per il diritto alla casa, quella per la difesa degli spazi di autorganizzazione sociale e per le “4 delibere”, quella contro le privatizzazioni e l’attacco alle condizioni dei lavoratori, devono essere i terreni sui quali i comitati per l’Altra Europa, territorio per territorio, posto di lavoro per posto di lavoro, operano per la traduzione politica e istituzionale, dell’iniziativa sociale e sindacale; è a partire da questa capacità


147 di misurarsi con i temi reali del conflitto e della costruzione sociale, che anche il rapporto con SEL acquista un senso, nella misura in cui in questa dinamica trovano verifica le reali prospettive politiche di un rapporto con il centro-sinistra. In particolare va rilanciata l’iniziativa politica per portare in consiglio la discussione sulle “4 delibere”, che già hanno trovato l’appoggio dei comitati per l’Altra Europa, e su cui va misurata la coerenza di SEL e la sua autonomia dal PD. Proletariato marginale e migrante in lotta per i diritti minimi di sopravvivenza, nuove soggettività di precariato cosciente impegnato in pratiche di autorganizzazione sociale, lavoratori dipendenti organizzati nei sindacati conflittuali, sotto attacco per le politiche di governo della crisi, soggetti sociali intermedi non più tutelati dal centro-sinistra e in cerca di una nuova rappresentazione politica, questi sono i frammenti di soggettività politica che possono produrre la massa critica intorno a cui ricostruire, nel medio periodo, un blocco sociale. Compito del Partito, che deve operare in piena autonomia politica e organizzativa, è favorire le relazioni e le connessioni tra questi soggetti, con l’obbiettivo di giungere ad una costruzione politica in grado di ottenere il concreto risultato di riportare l’opposizione di sinistra in consiglio comunale e nei consigli municipali. Un piccolo, ma necessario passo in avanti. Per raggiungere tale risultato il Partito deve svolgere la sua funzione di direzione, principalmente a livello locale, favorendo la costruzione di reti territoriali che vedano la presenza di tutti i soggetti, ma anche sul piano cittadino, individuando singole figure di dirigenti in grado operare nelle sedi di confronto cittadino, orientando anche il lavoro dei compagni sui territori. Sedi di confronto politico, quali le assemblee dei movimenti di lotta per la casa, i coordinamenti di strutture e centri sociali, il comitato per le 4 delibere, le occasioni di confronto politico tra soggetti del sindacalismo conflittuale e politica, e ovviamente il coordinamento romano dell’Altra Europa, oltre a dover vedere la presenza dei compagni impegnati sui territori e nei posti di lavoro, devono essere “seguiti” da dirigenti cittadini che lavorano in relazione tra loro e con la segreteria, con l’obbiettiva di produrre relazioni e convergenze tra i diversi settori, nel quadro di una strategia di cui il Partito può essere l’ispiratore.


148 E’ questo un compito che tocca a noi perchè a fronte di una sinistra divisa, autoreferenziale e per lo più attenta al proprio specifico, il nostro Partito è l’unico soggetto in grado di comunicare e relazionarsi con tutti. Questa è la nostra forza e ragion d’essere.

PROGETTUALITA’ LOCALE, 4 DELIBERE, LAVORO: RIUNIFICARE L’OPPOSIZIONE La possibilità di riunificare in un unico fronte sociale e in un unico contenitore politico-elettorale, le diverse soggettività della sinistra sociale e sindacale, dipende dalla capacità di una direzione politica, di veicolare una visione del governo di questa città assolutamente alternativa, facendola prevalere sulla tendenza alla riduzione di ogni espressione sociale, nell’ambito angusto del proprio interesse particolare. E’ proprio questa tendenza alla gestione del particolare, a fronte di un governo della città che risponde invece ad un progetto politico generale, che da un lato produce divisioni e subalternità, dall’altra condanna i settori più radicali all’isolamento e alla repressione. D’altra parte le politiche della giunta Marino, e soprattutto la sua irrilevanza o addirittura connivenza, nei confronti di pressioni, diktat e ricatti, esercitati sia dal governo centrale attraverso i vincoli economici, sia specificamente dal Ministero degli Interni attraverso la Prefettura, sono la chiara dimostrazione che sta saltando la vecchia idea di governo di questa città, in cui anche un partito come il PRC si era per anni collocato. Sta venendo meno il “patto di non aggressione”, che garantiva tolleranza verso fenomeni di costruzione sociale e conflitto, ottenendo in cambio una relativa pace sociale, oltre che la possibilità di “delegare” di fatto la gestione di problemi ed emergenze cittadine, a fenomeni di autorganizzazione sociale: così i centri sociali, in molte periferie hanno supplito all’assenza di politiche giovanili, mentre i movimenti di lotta per la casa hanno svolto di fatto la funzione di ammortizzatore sociale, a fronte di una amministrazione comunale, impossibilitata a dare soluzione al tema dell’emergenza abitativa, per non incrinare il rapporto con il potere dei costruttori. La vicenda del taglio del “salario accessorio” mostra poi come anche i piccoli accorgimenti con cui amministrazione comunale e sindacati confederali


149 hanno cercato di evitare le frizioni di un insostenibile blocco dei salari, siano ormai impraticabili; più in generale, si riducono i margini per quell’amministrazione clientelare della macchina amministrativa e delle aziende partecipate, fonte storica di consenso. In questo quadro anche quei settori di elettorato di sinistra che pur in modo critico, non hanno mai fatto mancare il loro sostegno al centro-sinistra, cominciano a prendere le distanze da una giunta sempre più indifendibile. Tutto ciò può produrre le condizioni per una convergenza unitaria verso la costruzione di una opposizione politica, ma tale opposizione per prodursi, deve trovare dei terreni di azione unitaria, che diano concretezza e visibilità ad una opposizione che al momento non sembra in grado di reagire ad un attacco quale da anni non si vedeva in questa città. C’è quindi la necessità di comprendere quali iniziative possono essere messe in campo per la realizzazione di due finalità: da un lato costruire una azione comune intorno agli elementi caratterizzanti di una diversa visione della città; dall’altro mettere in campo una strategia di mobilitazione, che accendendo focolai di conflitto in ogni territorio, acuisca le contraddizioni interne alla maggioranza che sostiene Marino. Rispetto a questa esigenza gli elementi su cui lavorare sono sostanzialmente tre: la costruzione di progettualità territoriale, a livello di ogni singolo municipio; il rilancio delle “4 delibere”, come cornice generale che prefigura un’altra idea di città; la ricomposizione del mondo del lavoro, intorno ad una nuova prospettiva di sviluppo della città. Il tema della costruzione di una progettualità territoriale è centrale per dare concretezza a parole d’ordine generale che sono patrimonio condiviso di tutto il fronte di quella sinistra sociale, che può potenzialmente convergere in un progetto di sinistra politica d’opposizione. Si tratta in sostanza di dare avvio ad una sorta di conferenza programmatica permanente in ogni municipio, che coinvolgendo tutte le soggettività sociali del territorio, individui problematiche ed opportunità, e anche avvalendosi di competenze intellettuali e professionali, sia in grado di elaborare proposte sul tema centrale dell’uso del territorio e del patrimonio pubblico, e anche di quello privato non utilizzato e in abbandono, con il fine di rilanciare sviluppo economico e occupazione, dando risposte ai bisogni sociali inevasi nel campo dei servizi pubblici e valorizzando le opportunità che il terri-


150 torio offre. A fronte di un approccio burocratico della giunta, che con le “conferenze urbanistiche” ha tentato di coprirsi con la foglia di fico di una “partecipazione” risoltasi in incontri semiclandestini e con tempi contingentati, si tratta di avviare un processo che veda un’autentica partecipazione, in un percorso non subordinato ai tempi imposti dalla giunta comunale, ma che ha come orizzonte la prossima scadenza elettorale. L’obbiettivo deve essere quello di rispondere alle asfittiche politiche di rigore imposte dai bilanci capitolini, che non offrono alcuna speranza e prospettiva alla città, con l’individuazione di soluzioni concrete e praticabili, risultato di un’altra visione della città, e soprattutto della rottura del patto subalterno di ogni governo cittadino, con i poteri reali della città: nessuna soluzione sarà mai possibile in questa città, fin quando varrà il principio per cui “cambia chi governa, non cambia chi comanda”. L’attivazione di questo percorso, dovrà prevedere il censimento e il contatto con tutte le soggettività che operano sul territorio, comitati e associazioni di cittadini, occupazioni abitative e centri sociali, insegnanti e studenti delle scuole pubbliche, cooperative sociali e operatori dell’economia alternativa, operatori culturali e intellettuali con competenze specifiche, associazioni di migranti e mondo del volontariato, strutture territoriali del sindacato conflittuale e dell’inquilinato. Il lancio di questa iniziativa, dovrà avvenire, dopo un adeguato lavoro preparatorio, prima della prossima primavera, in contemporanea in tutta la città, utilizzando se possibile spazi messi a disposizione dalle amministrazioni municipali. Dopo una prima fase di incontro e definizione degli obbiettivi generali, il lavoro di elaborazione dovrà essere diviso in gruppi di lavoro specifici sui vari temi: emergenze abitative, opportunità di rilancio economico e occupazionale, sistema dei servizi sociali e assistenziali, trasporto pubblico, ambiente, ciclo dei rifiuti ecc..., cercando di trovare un adeguato utilizzo delle risorse del territorio e del patrimonio pubblico, in funzione della soluzione dei problemi, e della valorizzazione delle opportunità. Verificare la situazione degli sfratti e della precarietà abitativa, cercando soluzione al tema, sia a partire dalla necessità di requisizione degli appartamenti sfitti, sia eventualmente attraverso l’individuazione di area da destinare a nuove case popolari, in modo mirato e compatibile con il territorio, e contestualmente costruire una rete di relazioni e solidarietà,


151 intorno a inquilini sotto sfratto, inquilini cartolarizzati e occupazioni. Sul tema del rilancio economico, intervenire nella crisi del commercio e dell’artigianato, con la costruzione di distretti territoriali in cui il pubblico possa mettere a disposizione spazi per nuove imprese e imprese in difficoltà, sottraendole al ricatto della rendita immobiliare che impone canoni elevati, che incidono in misura determinante sul costo delle merci, contribuendo così a deprimere i consumi; rafforzare la produzione agricola etica e a chilometro zero, favorendo la sinergia tra gruppi d’acquisto e produttori, attraverso la promozione di una logistica adeguata, per il trasporto, per la commercializzazione, e la promozione; promuovere progetti d’impresa a carattere cooperativo, intervenendo i particolare su quelle che sono le “materie prime”, su cui la città può contare, l’uso di energie alternative, il riuso e il riciclo dei rifiuti, le risorse turistiche, il rilancio dell’industria e dell’offerta culturale, e soprattutto la valorizzazione delle conoscenze che una città con tre atenei, dovrebbe naturalmente produrre; c’è poi la necessità di intervenire su quelle che sono vere e proprie emergenze della città, la ristrutturazione e riqualificazione edilizia e il riassetto del territorio urbano, la gestione dei servizi nei grandi complessi di edilizia pubblica, favorendo anche in quest’ambito lo sviluppo di una piccola impresa solidale e cooperativa, legata al territorio e alla sua utenza; c’è poi il tema del potenziamento dei servizi sociali e assistenziali, dove è necessaria l’attivazione di una sinergia tra i lavoratori e gli utenti del settore, perchè la lotta alla precarietà e per migliori condizioni di lavoro, coincide con quella per una maggior qualità dei servizi, sottraendo la battaglia dei lavoratori, a semplici logiche sindacali e invece inserendole nel più ampio contesto di relazioni, che si allarga in primo luogo agli utenti dei servizi, quindi a tutti quei soggetti che sul territorio contrastano l’imbarbarirsi e l’immiserirsi delle relazioni sociali, e coinvolgendo quanti dal potenziamento dei servizi e da nuove assunzioni possono trovare soluzione al problema occupazionale; su tema del trasporto pubblico c’è la necessità di affiancare all’esigenza di un adeguato collegamento tra centro e periferia, una maggiore attenzione al sistema di comunicazione all’interno dei singoli municipi e fra di essi, con servizi di bus navetta a basso impatto ambientale, per favorire la fruizione dei territori e scoraggiare l’uso dell’auto all’interno di essi, e anche in questo caso c’è la necessità di coinvolgere i lavoratori dell’azienda pubblica di trasporto, e di quelle in convenzione, per legare la difesa del loro posto di lavoro alle esigenze collettive.


152 Durante il percorso ci si dovrà dotare degli strumenti informatici adeguati per promuovere e condividere in rete l’elaborazione prodotta, allargando così l’ambito di relazioni, i livelli di consapevolezza e la capacità di produrre una visione collettiva, che vada oltre la specificità delle singole problematiche. E’ evidente che una simile visione progettuale, si riduce ad una mera elencazione di pii desideri, se non è supportata dall’individuazione delle risorse economiche che possono alimentarla. Tale tema dirimente, se non si vuole risolvere tutto in semplice e inutile propaganda elettorale, implica la necessità di operare su almeno due livelli: da un lato la capacità rivendicativa e conflittuale, che obblighi le istituzioni ad una assunzione di responsabilità, dall’altro la capacità di sostenere la sperimentazione e la praticabilità di pezzi del progetto, attraverso la messa in campo di pratiche mutualistiche di autorganizzazione economica e finanziaria. Rispetto al primo punto il tema è quello della rottura dei vincoli finanziari che strozzano lo sviluppo della città, e l’attivazione di risorse pubbliche come quelle della Cassa Depositi e Prestiti, che oggi rischia di diventare l’ultima cassaforte da svuotare, per alimentare gli appetiti della rendita finanziaria. Va contrastata l’idea della “mancanza di risorse” causata dall’insostenibile debito pubblico, idea falsa, che produce rassegnazione e passività, ricordando che in Italia il risparmio privato è ancora una importante risorsa, e che tale risorsa deve avere un uso sociale. Va inoltre attuata una fiscalità locale in grado di colpire la rendita e gli interessi speculativi, sgravando invece da oneri tutti quei soggetti economici che collocano la loro attività nel quadro di una più vasta progettualità sociale. Dobbiamo essere in grado di dimostrare, conti alla mano, che piuttosto che legare lo sviluppo della città alle grandi opere, è possibile costruire il futuro a partire dalle economie locali, garantendo maggiore democrazia e controllo sociale, vivibilità e qualità della vita, sottraendo contestualmente potere a chi in questa città sempre comanda, chiunque governi. E’ evidente che la possibilità di obbligare le istituzioni a misurarsi con questi temi, è legata alla costruzione di azioni conflittuali e rapporti di forza che al momento non ci sono; il processo di costruzione di tali rapporti di forza e azioni conflittuali, deve però essere agito principalmente


153 a livello locale, e avendo come primo interlocutore e controparte le amministrazioni municipali, seppur nel quadro di una strategia coordinata a livello cittadino. La costruzione della progettualità territoriale, deve essere il quadro di riferimento intorno a cui produrre relazioni e raccogliere forza, da investire poi in una pressione costante e progressivamente più accentuata. L’alibi per cui ai governi municipali non compete di dare risposte ai problemi in campo, non può però impedire che tali istituzioni si schierino su tali temi, con prese di posizione e atti di valore politico, tali da produrre contraddizioni in una controparte, la cui coesione interna può e deve essere messa in discussione da mobilitazioni incisive, determinate e coordinate. L’obbiettivo deve essere quello di mostrare l’impossibilità di governare questa città nel quadro delle asfittiche politiche di rigore, e tale obbiettivo deve essere perseguito a partire dall’attacco degli anelli più deboli e sensibili, le amministrazioni municipali. Va però ricordato che la dimensione rivendicativa e conflittuale, prevede livelli di partecipazione crescente che è difficile produrre agitando solo obbiettivi di là da venire, e subordinati al cambiamento dei rapporti di forza nelle istituzioni. C’è quindi l’esigenza di dare concreta visibilità, alla praticabilità di un orizzonte progettuale alternativo, evitando che esso sia demandato ad un mai raggiunto “sol dell’avvenire”: è in tal senso che sono determinanti le pratiche di mutualismo e autorganizzazione economica. Non si tratta infatti di immaginare di poter riempire il vuoto prodotto dal ritiro di politiche e investimenti pubblici con la se semplice autorganizzazione della società, come di fatto si crede in alcuni ambiti della sinistra, ma di costruire pratiche mutualistiche in funzione della costruzione di una forza, da investire nel conflitto con le istituzioni per obbligarle a svolgere la loro funzione o a dichiarare il loro fallimento. Non c’è competizione, ma relazione dialettica tra pratiche mutualistiche e conflittuali, nella misura in cui il potenziamento dell’una alimenta l’altra. Va poi ricordato che il tema della costruzione di pratiche mutualistiche e di autorganizzazione sociale, sarà purtroppo centrale, nel quadro di un attacco alle condizioni di classe, la cui prima conseguenza è la rottura di ogni legame di solidarietà e la tendenza alla guerra tra poveri. Le pratiche di autorganizzazione sociale e mutualismo vanno quindi estese e rafforzate, ma perchè ciò sia possibile, è necessario misurarsi con il tema


154 delle risorse finanziarie da investire in questo processo, e questo pone la necessità di comprendere come, uno dei terreni di battaglia su cui non si è riflettuto abbastanza è quello del risparmio privato, che oggi è in larga misura gestito da un sistema bancario, che lo usa per i propri fini speculativi. Tale risparmio, che è ancora una piccola risorsa nelle disponibilità di quelle soggettività sociali intermedie, che oggi sono colpite dalla crisi, può essere meglio utilizzato per costruire una base economica alla costruzione di pratiche mutualistiche e solidali, piuttosto che essere utilizzato nel traffico d’armi, nella speculazione immobiliare e finanziaria o nel riciclaggio dei proventi di attività criminali; sottrarre la gestione dei propri piccoli risparmi al sistema bancario e utilizzarlo per una progettualità locale, controllabile e condivisa, che contribuisce fattivamente a migliorare la propria condizione e quella della propria comunità, è un atto di lotta politica concreta ed efficace. E’ questo il tema di quella che viene abitualmente definita come finanza mutualistica, una realtà embrionalmente presente a Roma e di cui il nostro Partito è protagonista attraverso l’azione di singoli militanti, ma senza alcuna capacità di operare con una definita visione strategica. Verificare la possibilità di raccogliere e spostare quote di risparmio, attualmente nelle disponibilità del sistema bancario, per trasferirlo su strutture finanziarie mutualistiche, in grado di sostenere il realizzarsi di progetti di sviluppo locale, è un modo per rafforzare un fronte sociale d’opposizione, renderlo credibile attraverso la concreta realizzazione delle sue proposte, e quindi aumentare il suo potere di contrattazione e la sua capacità conflittuale con la controparte istituzionale. E’ in questo quadro che si colloca anche la possibilità di dare vita a quelle “casse di resistenza”, che sono state un sostegno fondamentale alle origini del movimento operaio, e che di fatto abbiamo abbandonato, quanto più cresceva l’importanza delle risorse economiche, che erano in diverso modo legate all’attività istituzionale. Pratiche conflittuali e costruzione sociale, nel quadro di una articolata progettualità locale, è questo il disegno politico a cui dobbiamo chiamare tutti i diversi frammenti della sinistra sociale e sindacale romana, invitandoli al confronto sulla concretezza dei temi e delle proposte, e soprattutto aprendo relazioni sulla base di un lavoro comune, l’unico, vero e produttivo alimento di una seria e duratura costruzione unitaria.


155 La possibilità di dare vita ad un percorso di costruzione di progettualità locale condiviso, è sicuramente la parte più complessa e qualificante del lavoro che dovremmo produrre di unificazione della sinistra sociale e sindacale, ma non è l’unico e va completato con una iniziativa politica cittadina, che sia in grado di portare contraddizioni e conflitti, nel cuore dell’amministrazione comunale; per fare ciò lo strumento più adeguato è quello delle “4 delibere”, intorno alle quali si è prodotto già uno schieramento di soggettività sociali, schieramento che sarà forse possibile allargare, se esaurita la fase della raccolta di firme, passeremo alla necessaria fase di mobilitazione, per evitare che le firme raccolte finiscano dimenticate in un magazzino e le “4 delibere” rimangano chiuse in un cassetto: tale sarà infatti il risultato se non opereremo una pressione costante e determinata, per obbligare le forze politiche del centro-sinistra a portare le delibere alla discussione del Consiglio Comunale. Dobbiamo quindi operare perchè il comitato per le 4 delibere non esaurisca il suo ruolo con la raccolta delle firme, ma divenga il luogo in cui pianificare con continuità iniziative di mobilitazione, con capacità di visibilità mediatica e soprattutto in grado di sollevare l’attenzione sui singoli temi toccati dalle diverse delibere, cercando di volta in volta di costruire relazioni con i soggetti più direttamente coinvolti dalle singole problematiche: lavoratori e soggetti sindacali del mondo della scuola, per la delibera sull’istruzione pubblica; lavoratori e soggetti sindacali dell’ACEA per quella sull’acqua pubblica, allargando l’iniziativa al tema generale della privatizzazione dei servizi; movimenti di lotta per la casa, centri sociali e associazionismo in genere per quella sull’uso del patrimonio pubblico; associazioni di difesa dei consumatori e di tutela contro il sistema bancario, operatori dell’imprenditoria alternativa e della finanza mutualistica, per la delibera sulla finanza pubblica. Di fatto intorno ai temi toccati dalle 4 delibere, si produce una visione del governo della città alternativa a quella della giunta, e l’obbiettivo di portare tali delibere in Campidoglio, ancor prima che alla realizzazione di singoli aspetti delle delibere, deve produrre il risultato tutto politico, di costruire una prima linea di discrimine, intorno alla quale ricollocare con chiarezza e senza ambiguità i diversi soggetti della sinistra romana, in fun-


156 zione di una futura collocazione unitaria e alternativa al centro-sinistra. In ultimo c’è la necessità che la politica dia un segnale di attenzione alle diverse condizioni di sofferenza nel mondo del lavoro romano. C’è bisogno di un momento in cui la politica, chiami a raccolta le diverse realtà sindacali per affrontare in una visione autonoma il tema dello sviluppo della città; da troppi anni ormai il tema del lavoro e dello sviluppo economico è divenuto una variabile dell’impresa, e ciò ha prodotto la perdita di autonomia e la tendenziale corporativizzazione del lavoro. Così è potuto accadere che in una prospettiva di sviluppo strutturalmente subalterna agli interessi della rendita fondiaria e immobiliare, il mondo del lavoro romano si è di fatto accodato agli interessi dei palazzinari e della grande distribuzione, i due ambiti che hanno sostenuto la crescita in città prima della crisi. Ciò di fatto ha prodotto una divaricazione tra l’interesse allo sviluppo economico e quello alla difesa del tessuto sociale e della qualità della vita sui territori, depotenziando la possibilità per il mondo del lavoro di essere punto di riferimento di un interesse sociale più vasto. C’è la necessità che il tema dell’occupazione venga sottratto alla subalternità ad un modello di sviluppo della città, deciso dai soliti poteri forti, e che invece si riconnetta alle domande sociali inevase, ai progetti di riqualificazione, allo sviluppo di circuiti economici alternativi e ambientalmente compatibili. E’ in questo modo che diviene possibile ricollocare il tema del lavoro, come elemento qualificante di una visione alternativa del governo della città, e contestualmente ricollocare la difesa e lo sviluppo del lavoro in un più ampio, fronte, con la difesa dei diritti sociali e del diritto alla casa, della tutela dell’ambiente e del diritto alla partecipazione democratica. Si tratta di riportare il tema del lavoro, oltre un approccio meramente sindacale, di tutela e difesa nel quadro di indirizzi definiti a priori dalla controparte, per farlo approdare ai temi politici che definiscono gli indirizzi e le coordinate del governo della città; la sinistra deve essere in grado di offrire una prospettiva politica in cui la dignità del lavoro, si definisce nel suo essere risposta alle esigenze e ai bisogni di una società.


157 L’impegno dovrebbe essere quindi quello di mobilitare tutti i nostri compagni attivi nel mondo sindacale e sui posti di lavoro, per preparare una due giorni da tenere in primavera, che preveda momenti di dibattito e di mobilitazione, in cui si discuta delle prospettive della città, e in cui si mostri la forza e la determinazione del mondo del lavoro romano; visti i ritardi della Federazione proprio su questi temi, promuovere una iniziativa di tale natura può sembrare forse troppo ambizioso, ma proprio per questo è bene darsi tempi lunghi e lavorare da subito. Si tratta di coinvolgere singoli lavoratori e strutture sindacali, aziende in crisi o impegnate in vertenze, chiamando anche a dare un proprio contributo, esponenti del mondo intellettuale, e chiedendo che sul tema delle prospettive di sviluppo occupazionale, diano un loro contributo anche altri soggetti sociali dai territori, portatori di interessi sociali, ambientali e culturali, che non rappresentando un opportunità per il profitto, vengono sostanzialmente tagliati fuori, da un’idea di sviluppo che può inserire nel PIL l’economia criminale, ma considera il welfare un costo insostenibile. Progettualità locale, 4 delibere, lavoro, sono questi tre temi, tra loro in stretta relazione, sui quali il partito dovrebbe agire con il fine di costruire le premesse per una comune rappresentazione politica ed elettorale della sinistra d’opposizione a Roma. E’ questo il contributo che il nostro Partito deve dare alla costruzione del nuovo soggetto politico della sinistra, un contributo che mira in primo luogo ad estendere il perimetro dei soggetti da coinvolgere, andando oltre quelli che hanno aderito al progetto durante le elezioni europee, allargandosi a tutti coloro che a Roma, ritengono necessaria una autonoma espressione politica ed elettorale della sinistra alternativa. Un contributo che vuole definire con chiarezza la collocazione del nuovo soggetto politico della sinistra, non sulla base della polemica e dello scontro tra noi e i compagni di SEL, che di fatto bloccherebbero ogni processo politico, ma sulla base di una iniziativa politica effettiva, da portare avanti insieme, e in cui sottoporre alla verifica dei fatti le diverse opzioni presenti. Un contributo che mira a costruire il nuovo soggetto politico, dentro i processi di costruzione sociale e di conflitto, di radicamento sociale e costruzione di relazioni, lontani ed estranei alle piccole logiche di ceto


158 politico che appassionano i frequentatori dei coordinamenti nazionali, ma interni ai territori e ai posti di lavoro. Ma soprattutto un contributo che concepisce la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, plurale e con carattere di massa, non come un processo di riorganizzazione dei frammenti di una sinistra sconfitta, ne tanto meno come la burocratica definizione di regole e organigrammi, ma come un progetto politico aperto, che si produce nella dinamica reale, città per città, quartiere per quartiere, regione per regione, con accelerazioni e battute d’arresto momentanee, coinvolgendo nuovi soggetti e forse perdendone altri, obbligando tutta la vecchia sinistra a misurarsi con i compiti di una fase nuova, ad uscire da dal proprio limitato interesse particolare, e a investire il patrimonio di elaborazioni ed esperienze, che ritiene di avere, nella relazione con altri, in un progetto ambizioso. Per offrire questo tipo di contributo il PRC non può in alcun modo rimanere ingabbiato nelle comprensibili incertezze e ambiguità di un soggetto politico ancora da costruire, ma dovrà agire con tutta la sua autonomia politica e organizzativa, per aprire le strade e costruire i ponti, grazie ai quali le soggettività sociali frammentate dalla lunga fase offensiva del capitale, e oggi in corso di una reciproca ricollocazione determinata dalla crisi, possano reincontrarsi, comunicare e organizzarsi; essere gli “scout” lungo i percorsi di relazione, gli “ingegneri” di nuovi meccanismi di connessione, sapendo “immaginare” la forza di un blocco sociale, dove ora c’è solo l’impotenza della frammentazione. Se il PRC riuscirà a offrire realmente questo tipo di contributo allora realizzerà quello che è il compito di un partito comunista: esprimere e praticare direzione politica. A quel punto quella “falce e martello” che è simbolo della più cosciente espressione politica della classe, non dovrà più cercare il proprio senso su una scheda elettorale, ma potrà trovarla nel suo effettivo agire nella storia.


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