Storia dei Nativi del Nord America IV Volume

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STORIA DEI NATIVI DEL NORD AMERICA

volume IV

NESSUNA ILLUSIONE


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In copertina shamano Ioway, ritratto da George Catlin


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NESSUNA ILLUSIONE L’incontro tra europei e nativi americani, fu in assoluto un evento di immensa valenza nella storia umana, dato che per la prima volta si incontravano due popolazioni della stesa specie umana separate da decine di migliaia di anni: ma tale evento fu vissuto in termini diversi dalle due parti. Per gli Europei, partiti alla ricerca di nuove terre e nuovi popoli da conquistare, la curiosità e l’interesse verso genti sconosciute era fortemente limitato da una quantità di fattori: in primo luogo dal fatto di essere già preparati a ogni novità, essendo partiti proprio alla ricerca di nuove terre, quindi dal pregiudizio della propria superiorità, che rendeva non degni di interesse i “selvaggi”, fino all’impegno determinato al proprio arricchimento, rispetto al quale gli indiani potevano essere un’opportunità o più spesso un ostacolo, e solo per questo essi erano degni di attenzione. Diversamente andarono le cose per gli indiani per i quali l’incontro con i bianchi, che si ripetè in tante occasioni e in diversi luoghi, fu abitualmente un evento inatteso e spesso sorprendente, che generava meraviglia e stupore e che non ci si sapeva spiegare. Gli indiani non sapevano da dove i bianchi provenivano, non avendo mai avuto nozione di altre terre oltre il mare, non avevano idea di quanti essi fossero, e all’inizio non sapevano nemmeno se essi fossero di natura umana o divina. Lo stupore poi era aumentato dal fatto che i nuovi arrivati portavano con se manufatti, armi, utensili, animali e tecniche sconosciute, con cui da subito imposero la propria supremazia. E’ quindi da considerare naturale che la curiosità degli indiani nei confronti dei bianchi fosse tale, da far loro sottovalutare il pericolo che essi rappresentavano, un pericolo che spesso giungeva anche a prescindere dalla loro volontà, quando un semplice virus influenzale, inconsapevolmente portato da un missionario, poteva distruggere una intera comunità. E’ un fatto che pur in presenza di una gran quantità di conflitti, durante i primi centocinquant’anni di relazioni tra bianchi e indiani, quando il “primo contatto” si ripetè in diversi luoghi del Nord America, furono molte le occasioni in cui da parte degli indiani l’interesse e la curiosità per i nuovi venuti, ritardò l’inizio delle ostilità e in alcuni casi permise ad un pugno di bianchi, che avrebbero potuto facilmente essere spazzati via, di insediarsi nel continente, stabilire basi e teste di ponte, da cui poi imporre il loro dominio agli indiani vicini. Così gli indiani del Messico e del Nuovo Messico, pur tra ribellioni e sanguinose repressioni, accettarono di interagire con i missionari spagnoli, acquisendo da loro tecniche agricole, artigianali e allevamento, insieme a quegli insegnamenti religiosi su quel dio che dava ai bianchi tanto potere. In Florida le elites tribali dei Timucuan per lungo tempo accettarono l’alleanza con gli Spagnoli e la religione portata dai loro missionari, senza effettivamente comprendere il grado di subalternità a cui si stavano adattando. I coloni inglesi di Jamestown e Plymouth poterono superare i primi difficili mesi del loro insediamento, grazie all’intervento di capi come Waunnosocook dei Powhatan e Massassoit dei Wampanoag, convinti di poter gestire in termini paritetici la relazione con i nuovi venuti, traendone anche vantaggio. Olandesi e Francesi poi con il loro interesse per i commerci, non ebbero grandi difficoltà ad aprire vantaggiose relazioni con le vicine tribù indiane. Durante questo primo periodo l’interesse e la curiosità degli indiani non impedì l’esplodere di sanguinosi conflitti, ma tali conflitti abitualmente nascevano quando l’esasperazione per gli abusi dei bianchi esplodeva, più che da una chiara comprensione del fatto che l’arrivo dei nuovi venuti, avrebbe in breve trasformato il mondo degli indiani e li avrebbe condotti alla rovina. Nella gran parte dei casi è probabile che gli indiani abbiano ritenuto possibile una convivenza con i nuovi venuti, il loro possibile inserimento in un tessuto di relazioni gestibile, che abbiano addirittura sperato che il loro arrivo potesse portare ad un miglioramento nelle loro condizioni; a ciò va aggiunto il timore che indiscutibilmente gli indiani provavano, per un popolo dalle risorse e dai poteri in larga misura sconosciuti. Dopotutto il commercio, le parole di pace dei missionari, i beni che gli Europei introducevano nella vita quotidiana, erano indiscutibilmente cose buone e apprezzabili. Così non mancarono i luoghi in cui l’incontro tra


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bianchi e indiani vide lunghi periodi pace: nelle colonie del New England, dove a parte la guerra con i Pequot, coloni e indiani vissero fianco a fianco per oltre mezzo secolo senza gravi conflitti; in Florida più o meno nello stesso periodo, i missionari operarono in pace tra gli indiani e lo stesso accadde nelle regioni nord-occidentali del Messico, mentre anche i Pueblo, che ebbero con i missionari un rapporto ben più conflittuale, sopportarono comunque la presenza di un pugno di Spagnoli a Santa Fè, ritenendoli forse un male minore della guerra che già avevano dovuto sopportare nei loro primi contatti. Ma alla lunga ogni illusione era destinata a tramontare, mentre lo stesso timore che gli indiani provavano per i bianchi si riduceva, quanto più essi li conoscevano, ne imparavano le debolezze, si appropriavano delle loro stesse armi. Fu così che gli ultimi decenni del ‘600 si caratterizzeranno per l’esplodere di conflitti e ribellioni, ad opera di coalizioni tribali guidate da capi determinati a distruggere definitivamente la presenza dei bianchi, nella chiara convinzione che con essi non c’era alcuna possibilità di accordo: e furono proprio i pacifici Pueblo, quelli che ottennero il risultato più significativo, cacciando gli Spagnoli dalle loro terre e non permettendo il loro ritorno per oltre dieci anni. Gli ultimi decenni del ‘600, mentre videro l’estendersi della presenza europea su gran parte del continente, con il completamento della colonizzazione della costa dell’Atlantico, l’estensione del dominio spagnolo fino alle regioni meridionali degli attuali Stati Uniti, e l’esplorazione francese del cuore del continente, la valle del Mississipi, furono al contempo segnati da clamorose esplosioni della furia indiana, che sconvolsero e misero a rischio l’esistenza di colonie già ricche e strutturate. E d’altra parte questa fu l’ultima occasione in cui il confronto militare tra bianchi e indiani non fu totalmente squilibrato a favore dei primi: i coloni ancora non erano in numero tale da poter soverchiare gli indiani e mancava un vero e proprio impegno militare delle potenze europee in America. Ma il confronto militare era solo uno degli aspetti dello scontro tra bianchi e indiani, vinto dai primi già nel momento in cui essi imposero quella supremazia tecnologica, rispetto alla quale i secondi erano strutturalmente subalterni: come era possibile combattere una guerra e vincerla, senza le armi dell’uomo bianco? E come sarebbe stato possibile, quand’anche i bianchi fossero stati cacciati, tornare a vivere senza i beni e le merci che solo loro potevano offrire? Di fronte a tali domande senza risposta, anche la lucida determinazione di capi e guerrieri lungimiranti e valorosi, non bastava a sconfiggere i sentimenti di rassegnazione, i piccoli interessi opportunistici , il senso di impotenza, il terreno di coltura nel quale anche il seme del tradimento poteva crescere. E proprio il tradimento compiuto dagli indiani stessi, fu in più di un caso la carta decisiva nelle mani dei bianchi. Alla fine del ‘600 il tempo in cui l’America era percepita come una terra di ignote meraviglie dagli Europei, e gli Europei erano percepiti con meraviglia dagli indiani era concluso, e da ambo le parti una consapevolezza s’era prodotta: agli Europei era ormai chiaro che il Nuovo Mondo avrebbe offerto i suoi tesori solo a prezzo di fatica e di sangue, imponendosi non solo sull’ambiente, ma soprattutto su chi quell’ambiente abitava, gli indiani che resistevano con determinazione e senza risparmiare la crudeltà; ai nativi era egualmente chiaro che i nuovi venuti , con le loro ricche merci e il loro dio di pace e fratellanza, non era gente con cui si poteva vivere in pace. Se qualcuno aveva covato illusioni, ora per esse non c’era più spazio.


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Gli indiani a nord della Florida In poco più di mezzo secolo, tra la fine del ‘500 e la metà del ‘600, l’intera costa Atlantica del Nuovo Mondo, dalla Florida a Terranova, era divenuta soggetta a pretese e parzialmente occupata, da ben cinque potenze europee, Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda e Svezia, ognuna delle quali aveva posto le proprie teste di ponte con comunità di coloni più o meno numerose, stabilendo presidi o missioni, aprendo stazioni commerciali. L’unica area costiera che era ancora libera dalla presenza europea, paradossalmente era proprio quella che aveva visto i primi tentativi di colonizzazione, la regione corrispondente alle coste degli attuali stati del North e South Carolina e della Georgia. Queste erano le terre dove Vasquez de Ayllon aveva tentato di fondare la prima colonia in Nord America nel 1526, dove nel 1562 gli Ugonotti francesi avevano stabilito l’effimero insediamento di Charlesfort, le stesse terre da cui gli Spagnoli erano stati cacciati nel 1580 dopo una permanenza di oltre un decennio; e a queste presenze europee documentate, vanno aggiunti i cacciatori di schiavi e pirati che frequentavano le coste e che vessavano gli indiani ad ogni occasione. Non solo le aree costiere, ma anche le regioni dell’interno avevano visto la presenza dei bianchi, con la spedizione di Hernando de Soto intorno al 1540, quella di Tristan de Luna del 1561 e quella di Juan La presenza europea sulla costa dell’Atlantico alla metà del ‘600 Pardo del 1566. Proprio sulla base di tali iniziative di esplorazione, tutta l’area, fino alle coste della Virginia, ormai saldamente in mano Inglese, nel corso dei primi decenni del ‘600 era rivendicata dalla Spagna, anche se le missioni e i presidi spagnoli si fermavano poco a nord della costa della Florida. Non si trattava quindi di una terra totalmente ignota, ma malgrado ciò gli Spagnoli, che l’avevano visitata e ne rivendicavano il possesso, non erano riusciti a stabilire ne insediamenti, ne missioni, ne presidi militari, anche se la loro presenza in Florida era stata sufficiente ad impedire ad altre potenze europee di avanzare pretese su quelle terre. Eppure si trattava di una delle terre più ricche del Nord America, densamente abitata da una quantità di popoli agricoli, che avevano dato vita a complesse strutture sociali, teocratiche e stratificate su base gerarchica, e edificato le grandi piramidi di terra che caratterizza-


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vano le la “cultura del Mississipi”. Questi popoli non si erano nemmeno mostrati pregiudizialmente ostili ai visitatori bianchi, ma anzi avevano accolto pacificamente tanto Hernando de Soto, quanto Juan Pardo, non avevano ostacolato i tentativi di insediamento lungo la costa, avevano mostrato disponibilità nei confronti dei missionari, e solo dopo aver subito le vessazioni di militari e funzionari spagnoli, erano giunti a ribellarsi e a distruggere i presidi stabiliti da Juan Pardo nell’interno e a cacciare gli Spagnoli dalla colonia di Santa Elena. Gli Spagnoli erano gli Europei con cui gli indiani di questa regione avevano avuto i maggiori contatti, e certo con essi avevano avuto molta pazienza, fin dal tempo in cui Hernando de Soto aveva attraversato le loro terre, presentandosi come una divinità, imponendo tributi e obbligando gli indiani a sfamare la sua armata e a lavorare come portatori, caricando sulle loro spalle derrate e rifornimenti per il suo esercito. Ciò che gli indiani avevano ricevuto in cambio erano state le devastanti malattie portate dagli Europei, che nel corso della seconda metà del ‘500 modificarono notevolmente il panorama politico e demografico della regione. Non abbiamo dati precisi sull’impatto delle malattie portato dai bianchi tanto sulla costa quanto nell’interno, ma è un fatto che la cultura del Mississipi nelle regioni più settentrionali e occidentali, la valle dell’Ohio e il medio corso del Mississipi, aveva iniziato un processo di decadenza a causa di cambiamenti climatici già a partire dal XIV secolo, prima del contatto con i bianchi, mentre invece era ancora in pieno fulgore nel XVI secolo in queste regioni meridionali, al tempo del contatto con i bianchi, e andò in crisi solo dopo tale evento. Il potentato di Coosa che era la principale struttura politica regionale quando Hernando de Soto visitò la regione, era già indebolito al tempo della spedizione di Tristan de Luna nel 1561, e quello di Cofitachequi aveva subito la stessa sorte quando fu visitato da Juan Pardo nel 1566. Con la crisi di queste strutture politiche teocratiche della cultura Mississipi, nuovi protagonisti emergevano, in particolare una tribù di montanari degli Appalachee meridionali di lingua Iroquaian, i Cherokee, che al tempo di Juan Pardo eramo ancora scarsamente importanti, ma che all’inizio del ‘600 erano stata in grado di spingere a sud le tribù Muskogean di Coosa e insediarsi nelle ricche terre alle pendici dei monti. Un mito Cherokee, che fa riferimento ad una sollevazione tribale, contro un clan di stregoni malvagi, può essere la narrazione di una sorta di rivoluzione sociale contro il modello teocratico, tipico delle culture del Mississipi, di cui i popoli Muskogean erano portatori, e che imponevano a tutte le tribù soggette. I Cherokee, il cui modello sociale tradizionale era più legato all’impianto tipico dell’organizzazione tribale, tendenzialmente egualitario, fondato sui clan famigliari, invece che sulle caste sociali, all’inizio del ‘600 erano divenuti una delle più potenti tribù della regione, in grado di imporsi tanto sui vicini orientali di lingua Siouan, nelle terre corrispondenti agli attuali stati del North e South Carolina, tanto a quelle meridionali di lingua Muskogean, nella zona corrispondenti all’attuale Georgia e Alabama. Il successo dei Cherokee può essere forse spiegato con il loro maggiore isolamento e i più scarsi contatti con i bianchi, che probabilmente li preservò dalla catastrofe demografica che colpì le altre tribù. Le tribù Muskogean, dopo la crisi delle culture del Mississipi Nei villaggi Cherokee non c’erano i tumuli di terra che ospitavano i templi e le abitazioni di erano in una fase di capi e sacerdoti, ma grandi capanne che ospitavano i consigli e le riunioni tribali


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trasformazione, in cui il modello teocratico e gerarchico si era indebolito, i principali centri di potere erano in decadenza, le diverse comunità si erano rese più autonome. Comunque le comunità che erano state parte del potentato di Coosa, dopo aver subito l’offensiva dei Cherokee ed essere state costrette a spostarsi più a sud, mantenevano ancora una certa coesione intorno al gruppo più potente, i Muskogee veri e propri, stanziati nel nord dell’Alabama e nelle zone limitrofe della Georgia. I Muskogee erano divisi in una gran quantità di gruppi locali, a cui si aggiungevano i Chiaia, i Tuskegee, i Koasati, gli Alibamu, tribù della stessa cultura e di lingua simile, che successivamente saranno conosciuti con il nome collettivo di Upper Creek. Questi Upper Creek che vivevano nell’interno, nel corso del ‘600 saranno il cuore della costituenda confederazione dei Creek, un aggregato politico, tenuto insieme da vincoli religiosi, linguistici e culturali che svolgerà un ruolo centrale nella regione, fino ai primi decenni dell’800 e che può essere considerata come l’erede della tradizione precolombiana di Coosa. Altre tribù di lingua Muskogean, che parlavano un dialetto diverso, l’Hitchiti, vivevano a sud degli Upper Creek, tra questi e le terre dei Timucuan, già sottomessi agli Spagnoli e cristianizzati. Alcune di queste tribù ai Un capo Muskogee che sale la piramide che sovrasta il tempi di de Soto avevano costituito il potentato di Ocute, villaggio; alla metà del ‘600 yali strutture erano ma all’inizio del ‘600 non mantenevano più alcuna unità ormai in disuso e abbandonate politica, e la loro scarsa coesione si palesava anche nel modo di rapportarsi agli Spagnoli della Florida. Così se gli Appalachee, i Chatot, i Tamathly, i Guale, gli Yamasse, avevano accolto i missionari e in qualche modo avevano accettato il controllo spagnolo, altre come gli Appalachicola mantenevano con loro solo pochi rapporti commerciali, scambiando le loro pelli pregiate, ma rifiutavano tanto i missionari che ogni forma di sottomissione, e infine altre ancora, gli Hitchiti, gli Oconee ecc… si tenevano a distanza e tendenzialmente ostili. Queste popolazioni Muskogean che parlavano un simile dialetto e avevano una simile culture, si differenzieranno tra quante rimarranno sottomesse agli Spagnoli e quelle che si legheranno agli interessi Inglesi; queste ultime, divenute poi note come Lower Creek, diverranno una parte della grande confederazione Creek. Un’ultima popolazione, quasi certamente di lingua Muskogean erano i Cusabo, che vivevano sulle coste dell’attuale South Carolina, e che avevano cacciato gli Spagnoli nel 1580; ancora negli anni ’30 del ‘600, missionari spagnoli tentarono di riprendere con loro relazioni, ma non trovarono alcun credito. Saranno loro ad accogliere i nuovi arrivati Inglesi e a legare a essi il loro destino. A nord dei popoli Muskogean e a est dei Chereokee, in quelli che sono oggi il North e South Carolina, vivevano un gran numero di tribù di lingua Siouan, di cui si hanno scarse notizie; è probabile che esse abbiano prima subito l’egemonia dei Muskogean di cultura Mississipi, come dimostrerebbe la presenza nell’area del potentato di Cofitachequi, probabilmente frutto di una espansione a nord dei popoli Muskogean; anche i riscontri archeologici dimostrerebbero che queste tribù furono partecipi del modello culturale Mississipi, anche se quasi certamente esso fu un acquisizione piuttosto tarda e di durata breve. Successivamente con l’arrivo dei primi bianchi nelle zone costiere ai tempi di Vasquez de Ayllon, la diffusione di malattie probabilmente indebolì queste tribù e una di esse, quella dei Pedee, pare che nel corso del ‘500 si sia spostata nelle regioni dell’interno per sfuggire ai cacciatori di schiavi che giungevano dal mare. Incontrate da Juan Pardo nel 1567, un secolo dopo queste tribù erano già fortemente indebolite sul piano demografico, e si trovarono schiacciate tra l’avanzante colonizzazione inglese e l’emergere della potenza Cherokee: i Cheraw, una tribù visitata da Juan Pardo che li ricorda con il nome di Xuala, nel corso del ‘600 abbandonarono le loro terre alle pendici meridionali degli Appalachee per sfuggire ai Cherokee, e cercarono rifugio a nord, al confine tra Virginia e North Carolina. I Catawba, la principale tribù Siouan della regione, che raccoglierà i resti di molti gruppi minori scomparsi, condurranno una costante guerra difensiva contro i Cherokee, fino alla fine del ‘700.


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Le tribù indiane a nord della Florida alla metà del ‘600

Ancora più a nord lungo la costa, verso le colonie della Virginia, la regione era abitata da piccole tribù di lingua Algonquian: queste genti avevano dovuto misurarsi con i coloni inglesi fin dal tempo della colonia perduta di Roanoke, e alla metà del ‘600 avevano già pagato un duro prezzo. Nell’interno vivevano invece alcune tribù Iroquaian, la più potente delle quali era quella dei Tuscarora, a cui data la lontananza dagli insediamenti, fu garantita una certa tranquillità fino alla fine del’600. A questo quadro già estremamente frammentato e complesso, va aggiunta la presenza di popoli giunti da nord e infiltratisi nella regione, dove rappresentarono un ulteriore elemento di instabilità: gli Yuchi, i Westo, gli Shawnee. Gli Yuchi, conosciuti dagli Spagnoli come Chiska, erano un popolo di cultura Mississipi che parlava una lingua isolata, forse lontanamente imparentata al Siouan, e viveva nella regione del medio e alto corso del fiume Tennessee, dove fu incontrato sia dalla spedizione di Hernando de Soto, che da quella di Juan Pardo, e con quest’ultimo si scontrò. Dopo la crisi che colpì le culture del Mississipi, nei primi decenni del ‘600 una parte di questi Yuchi abbandonò le proprie terre, per spingersi a sud, a ridosso delle colonie spagnole della Florida; in questa regione i Chiska si diedero a razzie nei confronti delle missioni, fomentando anche rivolte fra gli indiani che ci vivevano. I Westo furono un popolo misterioso che giunse intorno al 1660 nella zona delle sorgenti del fiume Savannah, facendosi subito notare per la loro bellicosità: l’ipotesi più accreditata è che i Westo corrispondano ai Ricahecrian, la tribù che pochi anni prima era comparsa sul fiume James in Virginia, dove aveva sonoramente scon-


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fitto i coloni inglesi e i loro alleati Powhatan che avevano cercato di cacciarli. Westo e Ricahecrian potrebbero essere nomi usati per gli Erie, la tribù Iroquaian che viveva presso il lago omonimo e che nel 1656 era stata sconfitta dalla Lega Iroquois e una parte della quale migrò a sud lungo il versante orientale dei monti Appalachee. Altri immigrati da nord erano gli Shawnee di lingua Algonquian, una parte dei quali, dopo il 1665, lasciò le sue terre a nord del fiume Ohio e si spostò a sud per sfuggire alle terribili incursioni dei guerrieri della Lega Iroquois durante la 1° Guerra del Castoro; i Cherokee permisero ai profughi Shawnee di stanziarsi al margine delle loro terre, in cambio del loro aiuto contro i nemici Chickasaw a ovest e le tribù Siouan a est. La crisi di un modello sociale che durava da secoli, le malattie portate dall’uomo bianco, il rinfocolarsi delle tensioni tribali, l’arrivo di popoli migranti da nord e infine l’imporsi del modello coloniale spagnolo a sud, erano tutti elementi che rendevano instabile e precario il quadro della regione, e a questi elementi va aggiunto l’impatto di un secolo di conoscenza delle merci e dei manufatti europei, che suscitavano una grande attrazione, ma di cui gli indiani potevano entrare in possesso solo accettando la sottomissione, la conversione e l’inserimento nelle missioni. Il poco commercio praticato dagli Spagnoli lungo la frontiera dei loro possedimenti, era infatti illegale e inviso ai missionari, che lo consideravano uno strumento di corruzione degli indiani. Così per le tribù della regione il solo modo di acquisire quei beni che da tempo avevano imparato a conoscere, ma che a loro erano negati, erano le periodiche razzie che minacciavano le missioni dei Timucua, degli Appalachee e degli altri indiani convertiti; il sentimento antispagnolo era diffuso fra quasi tutte le tribù dell’area, che però divise fra di loro e con poche armi di metallo a disposizione, non rappresentavano un autentico pericolo. A unificare tale sentimento e dare ad esso gli strumenti concreti per trasformarlo in una minaccia veramente grave, giunsero infine i coloni inglesi, che il commercio lo praticavano senza limitazioni, e a cui oltre alle pelli pregiate un’altra merce interessava prima di tutto: gli schiavi.

Charlestown La lunga linea di costa tra la le colonie della Virginia e la Florida, contesa tra Inghilterra e Spagna, vide l’inizio di una vera e propria colonizzazione solo in epoca piuttosto tarda, a partire dal 1670 dopo la fondazione di Charlestown, nell’attuale South Carolina. Fino a quell’epoca gli Spagnoli si limitarono a rivendicare il dominio di quelle terre senza fare alcun tentativo di insediarvisi, dopo l’abbandono di Santa Elena nel 1580, limitandosi a cercare di impedire ogni iniziativa di altre potenze coloniali; gli Inglesi invece, intorno alla metà del ‘600 divennero una presenza nella regione, sia attraverso alcuni infruttuosi tentativi di fondare insediamenti con coloni che giungevano via mare, sia attraverso l’infiltrazione di coloni che dalla Virginia si spostavano a sud fondando insediamenti autonomi. Le notizie sui rapporti tra questi primi coloni inglesi e gli indiani della costa della Carolina sono scarse e frammentarie, così come lo sono le notizie sugli indiani di queste regioni costiere, quasi tutti scomparsi prima della metà del ‘700, più in conseguenza delle malattie che a causa di conflitti con i bianchi. In queste regioni costiere i contatti con gli Europei, spesso cacciatori di schiavi, si erano protratti per oltre un secolo, a partire dai primi decenni del ‘500 e probabilmente avevano già prodotto un dramma demografico, prima ancora dell’inizio della colonizzazione vera e propria. I conflitti comunque vi furono, anche se di limitata entità, sia per lo scarso numero di europei, sia per le condizioni di debolezza degli indiani. La colonizzazione inglese era iniziata con l’infiltrazione di coloni della Virginia lungo le coste della North Carolina già iniziata intorno al 1640, quando i primi bianch si insediarono sulla costa settentrionale di Albemarle Sound, nelle terre dei Weapemoc; questa tribù già colpita dalle malattie dei bianchi fin dal tempo della fallita colonia di Roanoke mezzo secolo prima, non era in condizioni di opporsi. Diverso fu l’atteggiamento delle tribù vicine, i Chowan e i Secotan con cui vi furono tensioni e che portarono ad un aperto conflitto nel 1644, durante la 3° Guerra dei Powhatan, quando i coloni attaccarono i villaggi delle due tribù sconfiggendole; i Secotan che erano la principale tribù della zona, furono ridotti a poche centinaia, in parte riuniti in un villaggio nei pressi del lago Mattamusket dove ancora alla fine del secolo erano noti come Machapunga, altri sull’isola di Hatteras, di fronte alla costa. Dopo un primo tentativo di resistenza, la sorte delle tribù della regione tra Albemarle Sound e Pamlico Sound, fu segnata più dalle malattie e dal calo demografico che dai conflitti diretti con i coloni che si insediavano sulle loro terre. Delle diverse tribù citate nei resoconti della colonia di Roanoke alla fine del ‘500, i Neusiok e i Moratuk, scompaiono già all’inizio del secolo successivo, i Weapemoc e i Secotan


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nella seconda metà del ‘600, i Chowan, i Pamlico e i Coree sono ridotti a poche centinaia alla fine del secolo. Gli Inglesi si prendevano la terra senza trovare una vera e propria resistenza, e nel 1662 e 1663 consistenti cessioni di terra furono ottenute attraverso accordi con i Weapemoc e i Chowan, che non erano nelle condizioni di opporsi. I coloni si stanziavano lungo le coste, ma dalla metà degli anni ’50 il commercio di pelli, principalmente di cervo, fu occasione di contatto con una potente tribù dell’interno , i Tuscarora, di lingua Iroquaian e affine agli Iroquois delle regioni settentrionali; i contatti non erano diretti, ma passavano attraverso l’intermediazione di un’altra tribù Iroquaian, i Nottoway, che vivevano sul fiume omonimo, al confine tra Virginia e North Carolina, a ridosso della linea di frontiera del fiume Blackwater, che dopo la 3° Guerra Powhatan costituiva il confine invalicabile tra la Virginia e le terre indiane. I rapporti con i Tuscarora peggiorarono alla metà degli anni ’60, quando la quantità dei coloni iniziò a crescere, e forse si ebbe qualche incidente durante gli sporadici contatti, ma fino alla fine del secolo la tribù rimase abbastanza isolata. Alla fine del ‘600 le regioni costiere del North Carolina erano ormai saldamente nelle mani inglesi, le pretese spagnole erano state vanificate e quanto agli indiani, per il momento non rappresentavano un problema. L’espansione dei coloni della Virginia non andò oltre Pamlico sound, e più a sud lungo la costa del South Carolina, i coloni giunsero da oltremare solo a partire dal 1661, anche se la regione era pretesa dall’Inghilterra almeno dal 1629. Quell’anno un gruppo di Puritani del New England tentò di stanziarsi nella regione di Cape Fear, alla foce del fiume omonimo, ma il tentativo fu di breve durata; il sequestro di un gruppo di bambini indiani, con la pretesa di insegnare loro la religione cristiana, ma forse con il proposito di tenerli come ostaggi, portò subito a tensioni con gli indiani locali e dopo breve tempo i Puritani rinunciarono alla loro impresa e abbandonarono la colonia. Gli indiani di questa regione sono noti con il nome generico di Cape Fear ed erano certamente di lingua Siouan, affini o forse parte dei Waccamaw, che vivevano più a sud, e come le altre tribù Siouan, vivevano di agricoltura, ampiamente integrata da caccia, pesca e raccolta. Il fallimento dell’iniziativa dei Puritani non pose fine all’azione inglese, che oltre allo sfruttamento della regione, mirava a contrastare gli interessi spagnoli nell’area. Così già l’anno successivo il re d’Inghilterra affidò a otto nobili (Lord Proprietors) la licenza per la fondazione di colonie lungo le coste della Carolina; comunque per lungo tempo nessuna iniziativa fu assunta e solo nel 1661 i Lord Proprietors inviarono il navigatore William Hilton, un Puritano di Plymouth, a esplorare la regione per cercare il luogo più adatto all’insediamento. Anche Hilton raggiunse la regione di Cape Fear, trovandola adatta ad ospitare i coloni sia per la bellezza della terra, adatta all’agricoltura, sia per la ricchezza di pesce e selvaggina. Hilton ci da anche qualche notizia degli indiani locali, con cui ebbe rapporti pacifici, ma di cui parla con disprezzo; dalle poche parole di Hilton comunque sembrerebbe che la situazione dei Cape Fear fosse già compromessa e il loro numero non fosse elevato: i contatti con i bianchi lungo la costa erano iniziati già ai tempi di Vasquez de Ayllon e Giovanni da Verazzano, e proseguiti con le attività di pirati e cacciatori di schiavi, e certo queste presenze lasciarono il segno con le malattie. Le notizie riportate da Hilton su queste terre, suscitarono l’interesse di un gruppo di coloni inglesi dell’isola di Barbados, che fecero richiesta ai Lord Proprietors di potersi trasferire nella nuova colonia, e nel 1663 loro e un gruppo di Puritani, furono accompagnati da Hilton a Cape Fear, dove fondarono il villaggio fortificato di Charles Town. I coloni giunti da Barbados avevano già esperienza con le piantagioni di canna da zucchero e soprattutto con l’impiego di schiavi come manodopera, e la loro attività fece subito di Charles Town un significativo centro di produzione agricola, oltre che una tappa per gli scambi con la regione caraibica, e nel giro di tre anni la popolazione raggiunse le 800 unità. A differenza di quanto era accaduto in altri casi, i coloni non erano avventurieri in cerca di tesori, ne migranti inesperti in cerca di un pezzo di terra in cui vivere; i coloni di Charles Town erano proprietari terrieri e uomini d’affari, e questo specifico carattere avrà conseguenze nella storia della regione, che diverrà terra di grandi latifondisti e proprietari di schiavi, D’altra parte l’uso degli schiavi per il lavoro nelle piantagioni, produsse tensioni con gli indiani locali, che spesso furono vittime di abusi e lavoro forzato; si apre così un capitolo poco noto nella storia della colonizzazione inglese, quello della tratta degli schiavi indiani, precedente al grande afflusso di schiavi africani, e che avrebbe caratterizzato quasi mezzo secolo di conflitti nelle regioni del Sud-Est. Comunque malgrado il successo della colonia, l’interesse inglese, era per le terre ancora più a sud, più vicine agli insediamenti dei rivali spagnoli e Charles Town fu la base per le esplorazioni del tratto di costa fino a Port Royal Sound, dove un tempo era stata la colonia spagnola di Santa Elena. Senza un significativo sostegno dall’Europa, la colonia sottoposta alle minacce dei pirati che infestavano la costa e


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al rischio di un attacco spagnolo, con rapporti difficili con gli indiani che la circondavano, fu abbandonata nel 1667 e per quasi mezzo secolo l’area non vidi altri insediamenti stabili, anche se continuò ad essere frequentata dagli Inglesi. La condizione degli indiani Cape Fear continuò progressivamente a decadere, ed essi continuarono a subire abusi e vessazioni da pirati e cacciatori di schiavi, al punto che alla fine del ‘600, dopo il salvataggio di un gruppo di naufraghi inglesi, fecero esplicita sottomissione e richiesta di protezione al governatore della Carolina. L’interesse alla fondazione di una colonia più a sud, portò al viaggio esplorativo di Robert Sandford nel 1666, su incarico di piantatori inglesi di Barbados e delle Bermuda; Sandford, che aveva già navigato con Hilton, stabilì relazioni amichevoli con gli indiani Cusabo, incontrando capi dei gruppi Kiawia e Edisto e prendendo con se il giovane nipote di un capo, per insegnargli la lingua e gli usi degli Inglesi; giunto a Port Royal Sound, Sandford lasciò sul posto Henry Woodward, un colono delle Barbados che avrebbe dovuto imparare la lingua e gli usi degli indiani, per favorire un nuovo insediamento. Woodward fu catturato l’anno successivo da una spedizione spagnola, ma dopo essere fuggito dalla prigionia durante un attacco dei pirati al presidio di Henry Woodward come è stato immaginato da un San Augustin l’anno successivo, e dopo essersi sal- illustratore contemporaneo vato da un naufragio, nel 1670 era con i coloni che fondarono la nuova Charlestown, in South Carolina divenendo il loro interprete e agente indiano. I Cusabo che avevano accolto amichevolmente gli Inglesi, erano la stessa tribù che nel 1580 aveva cacciato gli Spagnoli da Santa Elena, ma a quel tempo dovevano essere in difficoltà, a causa degli attacchi di una tribù da poco giunta da nord, che si stava imponendo per la sua aggressività in tutta la regione. I Westo, questo il nome con cui li chiamavano i Cusabo, erano giunti intorno al 1660 sull’alto corso del fiume Savannah, ed erano secondo molti studiosi gli stessi Erie che erano stati sconfitti dopo anni di guerra dalla Lega Iroquois e che erano fuggiti a sud; già in possesso di armi di metallo, e forse di qualche fucile che nelle regioni del nord grazie al commercio delle pelli di castoro circolavano in abbondanza, si aprirono la strada con le armi tra le tribù Siouan della Virginia, comparendo con il nome di Ricahecrian nel 1656 sul fiume James, a ridosso della colonia di Jamestown; qui massacrarono un contingente di Inglesi e di alleati Pamunkey, inviati contro di loro. Ricompaiono poi all’inizio degli anni ’60 in questa regione, divenendo il terrore delle tribù costiere e delle stesse missioni spagnole poste più a sud, che subivano i loro attacchi; è quindi probabile che la disponibilità dei Cusabo verso gli Inglesi, fosse indotta dalla necessità di fare scambi commerciali e ottenere armi di metallo, per difendersi da questi nemici dell’interno. La nuova Charlestown fu fondata nel 1670 da coloni provenienti dai Caraibi, alla foce del fiume Ashley, in una zona di confine tra le terre dei Cusabo e le zone più a nord abitate da piccole tribù di lingua Siouan, i Sewee, i Santee, i Winyaw, i Waccamaw. Grazie anche all’iniziativa di Henry Woodward i primi rapporti con gli indiani furono pacifici e i Sewee in particolare sostennero all’inizio la colonia, rifornendola di cibo. Woodward si impegnò a visitare le tribù della regione e lo stesso anno del suo arrivo, visitò il villaggio di Cofitachequi, il cui capo del villaggio definì “imperatore”, con un esercito di mille arcieri; questa è l’ultima testimonianza sul grande centro visitato da Hernando de Soto, e trent’anni dopo nella steesa località risiedevano i Congaree, che parlavano una lingua diversa dalle vicine tribù Siouan, ed erano forse gli ultimi eredi della tradizione Muskogean di Cofitachequi. Malgrado l’attività di Woodward comunque nell’ottobre dell’anno successivo problemi ci furono con i Coosa (da non confondere con i Coosa, parte della tribù Muskogee), un gruppo Cusabo che viveva nell’interno; non si hanno notizie di questo conflitto, ma certo esso fu di bassa intensità, dato che i Coosa


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non vivevano nelle immediate vicinanze di Charlestown e gli Inglesi non si spingevano nell’interno. Nel 1674 il conflitto si aggravò quando anche gli Stono si unirono ai Coosa e uccisero tre coloni; nemmeno di questa vicenda rimangono notizie, ma è certo che nel 1675 tanto i Coosa, quanto gli Stono furono costretti alla pace, e molti di loro presi prigionieri, furono venduti come schiavi nelle Indie Occidentali. La guerra portò anche alla prima formale cessione di tratti di costa, che continuarono poi fino al 1683; gli indiani furono anche obbligati ad un tributo annuale in pelli di cervo. La resistenza dei Coosa e degli Stono, non coinvolse comunque gli La presenza inglese sulle coste della Carolina altri gruppi Cusabo, che rimasero in pace, probabilmente interessati al commercio, che rimaneva il primo strumento di controllo usato dai coloni. I coloni di Charlestown, che non erano semplici artigiani e contadini, giunti dall’Europa inesperti e privi di mezzi, ma benestanti proprietari di piantagioni, già a conoscenza dei commerci nel Nuovo Mondo, spesso coinvolti nel traffico degli schiavi che da oltre un secolo era praticato ai Caraibi nei confronti dei nativi, e la loro esperienza li mise subito in condizione di imporsi sulle già deboli tribù locali. Il commercio poi per gli indiani rappresentava una grande attrazione, e per comprenderne l’importanza è emblematica la vicenda dei Sewee, la piccola tribù Siouan che occupava la costa a nord di Charlestown. Insoddisfatti dei prezzi pagati dagli Inglesi per le loro pelli, i Sewee compresero che le pelli una volta vendute agli Inglesi, venivano da questi imbarcate e spedite oltremare, dove il loro valore cresceva ulteriormente; fu così che essi decisero di evitare l’intermediazione dei coloni e convinti che oltre la linea dell’orizzonte vi fosse la terra dove giungevano le pelli, caricarono le loro canoe di pelli e partirono in gran numero, uomini e donne per raggiungere la terra ignota. Fu un dramma e le fragili canoe al primo peggiorare delle condizioni del mare fecero naufragio, e quei pochi che non annegarono subito, furono “salvati” da un commerciante di schiavi, che caricò i superstiti per venderli nelle Indie Occidentali. Solo i pochi Sewee, per lo più anziani e malati, che erano rimasti a terra scamparono alla tragedia, ma la tribù era scomparsa già all’inizio del ‘700. Le pelli di cervo che alimentavano il commercio in questa regione, non erano pregiate come quelle di castoro che al nord avevano scatenato un immane conflitto tribale, ma ad esse si affiancava un’altra merce che aveva ampio mercato, gli schiavi, che oltre ad essere usati nelle nascenti piantagioni di Charlestown, erano molto richiesti nelle Indie Occidentali. La schiavitù nelle colonie all’inizio non era formalmente legale, ma essa si innestava su un modello economico che già prevedeva il lavoro obbligatorio per molti emigranti, come prezzo del riscatto del debito contratto per il viaggio in America; i primi Africani giunti in Virginia nel 1619, lavorarono come schiavi per un lungo periodo, ma alla fine essi ottennero la libertà. Progressivamente questa forma di lavoro servile, fu sostituita dall’uso di schiavi veri e propri e l’uso si trasformò negli anni in norma. Infatti nelle terre del sud, la cui colonizzazione fu opera di piantatori che non si limitavano a costruire fattorie in cui produrre di che vivere, ma grandi piantagioni che producevano per l’esportazione, l’afflusso di forza lavoro dall’Europa fu meno consistente che nelle re-


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gioni più a nord, dato che nessuno era interessato a emigrare nel Nuovo Mondo per fare il bracciante. Così la necessità di forza lavoro portò progressivamente all’introduzione del lavoro schiavistico, imposto ovviamente alle razze considerate inferiori; prima ancora che il grande giro d’affari del commercio di schiavi dall’Africa si organizzasse nel corso del ‘700, furono gli indiani a subire tale criminale commercio, e al tempo stesso ad esserne i protagonisti. Gli indiani, ad esclusione di quelli della costa del Pacifico settentrionale, non conoscevano la schiavitù così come era esistita in Europa da millenni, intesa come trasformazione dell’individuo in merce, che poteva essere scambiata e venduta; nelle loro società era però previsto che i prigionieri di guerra vivessero in stato di sottomissione e obbligati a lavori umili e faticosi; presso molte tribù comunque questi prigionieri potevano essere adottati e integrati nella comunità, potevano sposarsi e avere figli, che abitualmente divenivano membri effettivi della tribù. Quando però attraverso il contatto con gli Inglesi, gli indiani si resero conto che un prigioniero di guerra poteva trasformarsi in merce di valore, la tratta degli schiavi, attraverso la guerra con altre tribù, divenne una prassi diffusa nelle terre del Sud-Est, che per oltre mezzo secolo portò alla schiavitù decine di migliaia di indiani. A differenza di quanto era accaduto in Messico per tutto il ‘500, dove gli Spagnoli si impegnavano direttamente nelle razzie di schiavi, con la conseguenza di sanguinose guerre e ribellioni, gli Inglesi tendenzialmente evitarono di dedicarsi direttamente a questa attività, rinunciando anche a farne vittime le tribù più vicine agli insediamenti, sia per evitare conflitti, sia perché gli indiani, che conoscevano il territorio, potevano facilmente fuggire dalle piantagioni. Essi invece stabilivano relazioni commerciali con le tribù vicine, istigandole poi a compiere razzie verso le tribù più lontane, per prendere prigionieri e venderli ai mercanti di Charlestown; meglio poi se le tribù vittime di razzie erano in rapporti con rivali dell’Inghilterra, come era il caso degli indiani della Florida sottomessi agli Spagnoli. Rivalità coloniali e commercio degli schiavi, portarono così i proprietari di piantagioni di Charlestown a fomentare mezzo secolo di guerre tribali, alla fine delle quali interi popoli saranno definitivamente scomparsi. L’inizio di questa vicenda può forse essere datata al 1674, quando Henry Woodward si spinse nell’interno fino a raggiungere le regioni dell’alto corso del Savannah e incontrare le tribù dei Westo, che l’anno prima aveva lanciato incursioni contro i Cusabo e gli stessi coloni inglesi; nel villaggio dei Westo egli ebbe anche l’occasione di incontrare alcuni Shawnee in visita. Si trattava di due tribù giunte da poco nella regione, in rapporti ostili con le tribù vicine e desiderose di ottenere armi e alleati; i Westo poi, giunti per primi, già da anni lanciavano incursioni nei confronti delle missioni spagnole e lungo la costa, ed è probabile che avessero già molti prigionieri da vendere. Rifornite di armi da fuoco dagli Inglesi le due tribù intensificarono le incursioni verso sud, e presto a loro si unirono le tante tribù Creek e i Cherokee dell’interno, che prima della fine del secolo erano divenuti fornitori abituali di pelli e di schiavi sui mercati di Charlestown.

Il presidio spagnolo in Florida: le missioni Mentre gli Inglesi si insediavano lungo le coste della Carolina, più a sud in Florida i loro rivali Spagnoli guardavano con preoccupazione a questa avanzata, senza peraltro poterla contrastare. Dopo l’ultima sollevazione delle tribù Timucuan del 1656, il modello coloniale della Florida spagnola, si era consolidato sulla base del controllo sulla popolazione indiana, attraverso il sistema delle missioni; il lavoro degli indiani delle missioni teneva in piedi la colonia e infine gli stessi indiani ne erano la difesa, sotto il comando di ufficiali spagnoli. Nel corso di quasi un secolo, la popolazione indiana aveva in larga misura perso la sua identità tribale, le elites tribali erano abitualmente inserite nell’apparato di controllo spagnolo, molti capi avevano imparato a leggere e a scrivere, e c’era un consistente numero di meticci, che nelle comunità, operavano a fianco degli Spagnoli. Il sistema aveva molte criticità, soprattutto legate alle malattie e al costante calo demografico nelle missioni, e funzionava in misura diversa in base alla maggiore o minore tolleranza, ma alla fine gli indiani vi si erano adattati, anche perchè la presenza di Spagnoli nella regione era rimasta limitata nel corso di un secolo. La cronica carenza di coloni rendeva impossibile alla Spagna l’estensione della loro area di influenza attraverso la fondazione di nuovi insediamenti, come facevano gli Inglesi, e di fatto solo l’attività dei missionari, che tentavano di allargare le conversioni a nuove comunità tribali, poteva garantire i possedimenti coloniali spagnoli in Florida. Ma la condizione in cui gli indiani delle missioni vivevano, periodicamente flagellati da malattie, costretti al lavoro servile e obbligati a cambiare i loro usi, a vestirsi secondo i dettami della morale cattolica, a rinunciare alle loro credenze e ai loro riti, non era certo una prospettiva in grado di attrarre le tribù


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che vivevano oltre il confine settentrionale della Florida. A sud di esso, quanto rimaneva della tribù dei Guale e delle diverse tribù Timucuan, fino agli Appalachee, erano raccolti in una sistema di missioni che dalla costa dell’Atlantico si estendeva fino a quella del Golfo del Messico, fungendo da debole presidio ai possedimenti spagnoli; alle estremità di questa cin- La missione di San Luis de Appalachee tura di missioni, erano gli unici due villagi significativi, San Agustin sulla costa atlantica e San Luis tra gli Appalachee. A sud di questa fascia nella Florida settentrionale, sia la presenza spagnola che l’attività missionaria si riducevano sensibilmente e gran parte della penisola era abitata da tribù indipendenti, solo formalmente sottoposte alla corona di Spagna. Rispetto al dinamismo inglese, la cui iniziativa in poco più di mezzo secolo aveva determinato lungo la costa atlantica l’arrivo di migliaia di coloni, la costruzione di villaggi e cittadine, lo sviluppo delle attività commerciali, la Florida spagnola, rimaneva in una sorta di limbo, una terra ancora abitata dagli indiani, ma dove essi languivano sotto il paternalistico controllo dei missionari. In questo quadro già precario, ancor prima che dagli Inglesi , il pericolo giunse con l’arrivo dei Westo nella regione intorno al 1660. Questa tribù che era stata costretta a fuggire dalla regione del lago Erie per sfuggire alle distruzioni della 1° Guerra del Castoro, aveva già disponibilità di armi di metallo e fucili, aveva imparato a non temere i bianchi, ma era anche usa a commerciare con loro per rifornirsi di armi e munizioni; sicuramente dopo aver sconfitto gli Inglesi in Virginia nella battaglia di Bloody Run del 1656 e aver stipulato con loro un accordo, avevano commerciato sia in pelli di cervo, sia vendendo loro prigionieri di guerra. Giunti a sud essi si scatenarono contro tutte le tribù vicine, e dalle loro sedi sull’alto corso del Savannah, lanciavano incursioni fin sulla costa, colpendo le vicine tribù Siouan, i Cusabo della costa, fino ai Guale sotto la protezione spagnola: nel 1661 la missione di San Domingo de Asao, a nord della foce del fiume Altamaha, nella provincia di Guale, veniva distrutta dai Westo, e gli indiani costretti a ricollocarsi in una nuova missione più a sud lungo la costa, sull’isola di San Simon. La minaccia dei Westo, che gli Spagnoli chiamavano Chichimechi, si aggiungeva a quella dei Chiska (frazione degli Yuchi, emigrata a sud), che da mezzo secolo continuavano periodicamente a lanciare incursioni e razzie contro le missioni spagnole, al confine del territorio Appalachee; i Chiska comunque non erano temibili quanto i Westo, non avendo a disposizione armi di metallo. L’attività dei Westo e dei Chiska negli anni successivi fu costante ma di bassa intensità, e la situazione cambiò solo dopo la fondazione di Charlestown nel 1670, e dopo il viaggio di Woodward tra i Westo del 1674. Con l’arrivo degli Inglesi giunse il commercio e questa attività era certo più attrattiva, che non la religione imposta dai missionari e in pochi anni gran parte delle tribù a nord della Florida, si trovarono a competere fra di loro per portare pelli e schiavi sul mercato di Charlestown. La competizione portava a conflitti tribali, ma soprattutto portava ad un aumento delle incursioni verso le missioni spagnole, dove c’era possibilità di fare bottino tanto in schiavi che in merci europee. Ai Westo si unirono gli Shawnee (conosciuti in questa area come Savannah), i Cherokee e diverse tribù Creek, spesso fornite di armi da fuoco dagli Inglesi in cambio di pelli di cervo e schiavi indiani. Per difendere i loro possedimenti gli Spagnoli non potevano contare che sugli indiani delle missioni, spesso solo armati di archi e frecce, dato che gli Spagnoli non sempre disponevano delle adeguate for-


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niture di armi d all’E uropa . Gli indiani delle missioni dal canto loro erano obbligati a difendere i loro villaggi, per quanto misera era la vita che vi conducevano, ma la loro combattività, oltre che dall’armamento, era condizionata dal livello di rassegnazione e di insoddisfazione. Gli Ap pa la ch e e , una tribù solo di recente convertita, ancora Presidi e missioni nella Florida spagnola intorno al 1670 numerosa e potente, furono gli alleati più fedeli e combattivi; la loro missione di San Luis, era divenuta centro di un piccolo commercio di pelli, gli Spagnoli erano tolleranti verso gli usi locali, quali il tradizionale gioco della palla o l’uso di accompagnare i loro defunti sepolti con rito cattolico, con oggetti preziosi secondo la tradizione. In altri casi, però la vita nelle missioni era talmente dura che gli indiani preferivano fuggire e cercare di unirsi ai razziatori stessi; fu questo il caso degli Yamassee, prima alleati, poi irriducibili nemici. L’unica speranza per gli Spagnoli era quella di allargare la loro influenza fra le tribù vicine, impossibilitate a commerciare con gli Inglesi e vittime delle incursioni delle tribù più a nord: i primi furono i Tamathly (La Tama per gli Spagnoli), che attaccati e dispersi dalle incursioni dei Westo, prima del 1670 avevano cercato rifugio nelle missioni Guale della costa e in quelle Appalachee sul basso corso del Chattahoochee; a partire dalla metà degli anni ’70, molti Yamassee che vivevano nell’interno della provincia di Guale furono indotti ad avvicinarsi alle missioni sulla costa per cercarvi protezione, anche senza accettare la conversione al cristianesimo; a ovest nel 1674 due missioni furono stabilite fra i Chatot, e un contingente di 25 soldati accompagnò i missionari per difenderli dagli attacchi dei Chiska; nel 1675 missionari furono accolti dai Sawokli, una piccola tribù Lower Creek che sperava di ottenere protezione e che si trasferì sul basso Chattahoochee dove una missione era stata istituita per loro. Indiani e Spagnoli, vittime entrambi delle dinamiche legate al commercio degli schiavi, promosso e fomentato dagli Inglesi di Charlestown, erano costretti ad unirsi in un’alleanza di necessità che aveva però basi poco solide. Gli indiani cercavano protezione e difesa, ma ottenevano più preghiere che buone armi; gli Spagnoli cercavano fedeli alleati, ma quanto potevano offrire era troppo poco, per suscitare l’interesse di chi in alternativa poteva commerciare con gli Inglesi; così quando nel 1679 missionari spagnoli riuscirono a far visita ai potenti Muskogee dell’interno, non ottennero alcun risultato dato che la tribù già era coinvolta nel commercio inglese. L’alleanza era poi debole per i guasti che il sistema delle missioni produceva fra gli indiani: nel 1672 l’ennesima epidemia aveva decimato le tribù Timucuan della provincia di Mocama, e questo ovviamente non solo riduceva la forza degli indiani alleati, ma produceva malessere e diffidenza fra di essi. In alcuni casi l’alleanza era stata imposta, come fra i Chatot, una parte dei quali si era convertita, mentre l’altra continuava a mantenere rapporti con i nemici Chiska; nel 1675 una breve rivolta esplose e il missionario dovette fuggire ferito ad una vicina missione Appalachee, prima che il capitano Juan Hernandez de Florencia intervenisse a riportate l’ordine. I Chatot, almeno quelli sottomessi e convertiti preferirono


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abbandonare la loro terra e unirsi agli Appalachee, per timore di subire attacchi dai Chiska. Gli attacchi continuarono fino al settembre del 1677, quando una spedizione di poche decine di Spagnoli, con circa 200 guerrieri Appalachee e pochi Chatot si spinse a ovest fino a rintracciare un grande villaggio Chiska, attaccato e distrutto; dopo questa vicenda i Chiska cessarono di rappresentare una significativa minaccia. Ma le minacce crescevano e praticamente tutte le tribù che vivevano a nord erano entrate nel circuito commerciale inglese grazie all’azione di Woodward e altri mercanti; spesso si facevano la guerra tra di loro, ma per tutte gli indiani delle missioni erano la preda più facile e appetibile. Gli Spagnoli della Florida, la cui unica risorsa economica era il lavoro degli indiani delle missioni, rischiavano di perderla. Per gli indiani delle missioni, che avevano già accettato la sottomissione e il cristianesimo, iniziava un dramma scarsamente documentato che in pochi decenni li avrebbe portati alla completa estinzione.

L’espansione commerciale inglese Il commercio degli schiavi che impegnava i mercanti di Charlestown, poteva essere un’attività pericolosa se non gestita con metodo e una precisa strategia; le guerre tribali che tale commercio scatenava e amplificava, potevano mettere a rischio le attività della colonia e divenire una minaccia per la stessa cittadina, se le tribù più vicine si sentivano minacciate e se esse stesse divenivano vittime dell’infame traffico; a ciò va aggiunto che nel clima di conflitti intertribali, il commercio di pelli non era sicuro, i mercanti bianchi non potevano inoltrarsi nell’interno o aprire stazioni commerciali, e difficile era per gli indiani fare un pericoloso viaggio per portare le pelli a Charlestown. Fu per questa ragione che dopo il viaggio di Woodward tra i Westo e l’apertura di stabili relazioni commerciali, gli Inglesi iniziarono a fare pressioni sulla tribù, che era la principale procacciatrice di schiavi, per indurla ad evitare di colpire le tribù più vicine, alleate o sottomesse, cercando di indirizzarne l’aggressività verso sud e i possedimenti spagnoli. I Westo comunque non erano usi ad accettare imposizioni e continuarono a fare razzie, tanto tra i Cusabo, quanto tra le tribù Siouan a nord di Charlestown; l’alleanza con i Westo rischiava di essere controproducente, dato che questi erano nemici di ogni altra tribù vicina, e trattare con loro significava guadagnarsi l’ostilità di tutti gli indiani dell’area. Non riuscendo a controllare i loro alleati gli Inglesi decisero di eliminarli, e si giunse così nel 1679 ad un conflitto tra i coloni della Carolina e i Westo, che durò circa due anni. La guerra fu infine decisa dall’intervento degli Shawnee, che si sostituirono ai Westo come principali partners commerciali degli Inglesi, distrussero i Westo e occuparono le loro terre sull’alto Savannah. Dopo questo conflitto la tribù dei Westo, che dalle lontane terre del lago Erie, fin quasi ai confini della Florida, combatteva da quasi trent’anni, uscì dalla storia e gran parte di loro subirono la stessa sorte delle loro vittime, venendo venduti sul mercato degli schiavi di Charlestown e finendo nelle piantagioni di canna da zucchero delle Indie Occidentali; degli ultimi superstiti rimase traccia fin verso il 1720, per un villaggio denominato Westas, sul fiume Okmulgee, nella terra dei Lower Creek, con cui infine si fusero. Con l’uscita di scena dei Westo l’entroterra di Jamestown era più tranquillo, le piccole tribù Siouan della costa si misero quasi tutte sotto la protezione inglese, i Cusabo continuavano a collaborare con la colonia e a cedere terra, mentre l’attività commerciale inglese raggiungeva i lontani Cherokee e si rafforzava tra le tribù Creek. Sotto il controllo e la protezione inglese, gli indiani oltre a rifornire la colonia di pelli e schiavi, venivano impiegati come guide e per la caccia agli schiavi fuggitivi, oltre che come protezione contro eventuali tribù ostili. Gli indiani ottenevano merci, alcool e armi e vivevano in dipendenza degli Inglesi, con cui occasionalmente c’erano tensioni, che quasi mai sfociavano in conflitto. Nel 1683, dopo una falsa accusa di omicidio, i coloni di Jamestown attaccarono la piccola tribù dei Winyaw, sulle coste a nord del villaggio, facendo bottino di schiavi; nel 1692 un breve conflitto si ebbe con gli Stono, una tribù Cusabo, ma a parte questi due episodi, la colonia di Charlestown, ebbe vita meno travagliata di quella di Jamestown in Virginia. La presenza inglese poi, benchè in crescita (nel 1685 la colonia supererà i 2.000 abitanti) non era tale da costituire una minaccia per le tante tribù Siouan dell’interno, probabilmente già provate da calo demografico, successivamente alla spedizione di Juan Pardo più di un secolo prima. D’altra parte il pericolo rappresentato dagli Inglesi era in buona misura legato alla diffusione dell’alcool, alle malattie, alla dipendenza economica e alla perdita della propria cultura, ma la percezione di tali mali era probabilmente obliata dal miraggio di ottenere armi e merci e dall’effetto devastante dell’alcool. Ancor più che i pochi Inglesi sulla costa, le tribù in rapporti con gli Inglesi dovevano temere i Cherokee,


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che in quegli anni si andavano affermando, e addirittura le spedizioni di guerra degli Iroquois, che sicuramente giungevano fino in Virginia e anche più a sud; contro questa minaccia, l’alleanza con gli Inglesi sembrava prioritaria. Garantiti nei loro rapporti con gli indiani vicini i coloni della Carolina potevano Gli attacchi indiani alle missioni della Florida spagnola estendere i loro traffici con gli indiani dell’interno e soprattutto istigarli contro le colonie spagnole. Nei primi anni ’80 Henry Woodward visitò diverse bande Lower Creek e la sua azione portò alla crescita delle incursioni contro le missioni delle provincie spagnole delle province di Guale e di Mocama. Già nel corso degli anni ’70, in seguito agli attacchi dei Westo, le missioni più settentrionali erano state abbandonate, poi nel 1680 la missione di S.Caterina di Guale sull’isola omonima era stata distrutta da un attacco di centinaia di guerrieri Westo, l’isola abbandonata e gli indiani spostati sull’isola di Sapelo. Nel 1684 dopo la distruzione delle missioni di San Buanaventura de Guadalquini, di S.Domingo de Asao, di S.Phelipe de Alave sull’isola di Cumberland e di S.Josè de Zapala sull’isola di Sapelo, queste ultime difese da un presidio militare, gli Spagnoli furono costretti a ricollocare le missioni più a sud, oltre il confine dell’attuale Florida. Il trasferimento comunque non fu accettato dagli Yamassee ancora in gran parte pagani e da poco unitisi alle missioni, e il capo Altamaha decise di abbandonare gli Spagnoli, che non erano stati in grado difenderli, e a lui si unì una parte dei Guale e dei Tamathly; questi fuggitivi dalle missioni si spostarono a nord raggiungendo la zona di Port Royal sound, oltre la foce del Savannah. Quello stesso anno circa 150 coloni scozzesi, guidati da lord Cardross avevano raggiunto Port Royal e vi avevano fondato il villaggio di Stuart Town, autonomo da Charlestown e con esso in concorrenza per il commercio; gli Scozzesi iniziarono subito a rifornire di armi i profughi Yamassee, che l’anno dopo attaccarono la missione di Santa Catarina de Afuyca, nell’attuale contea di Suwanee in Florida, riportando a Stuart Town 22 schiavi. Nei due anni successivi, gli Yamassee continuarono a portare attacchi alle missioni spagnole, riforniti dai coloni scozzesi, fin quando nel 1686 una spedizione spagnola distrusse l’insediamento di Stuar Town. Gli Yamassee comunque rimasero nella regione, avendo ottenuto dagli Inglesi di Charlestown il permesso di stabilirsi a ovest della foce del Savannah, e i loro villaggi continueranno a crescere accogliendo indiani sbandati o figgitivi dallemissioni spagnole e attratti dal commercio e dalle razzie. In pochi anni il lungo lavoro avviato dai missionari alla fine del ‘500 lungo la costa della attuale Georgia veniva spazzato via e con esso le pretese spagnole nella regione, mentre i pochi indiani Guale e Timucuan che non erano morti o venduti come schiavi, avevano abbandonato la regione ed erano raccolti in pochi villaggi a ridosso dei presidi spagnoli. Dopo quasi un secolo di contese tra Spagna e Inghilterra su quest’area, gli indiani avevano regalato il successo ai secondi, spinti dal desiderio di avere armi e merci europee, il cui prezzo potevano pagare con il loro valore guerriero e la vita di nemici tribali. Grazie agli alleati indiani gli Inglesi avevan scacciato gli Spagnoli dalle terre contese, ma a ovest c’erano vastità immense il cui sfruttamento era anch’esso legato ad una politica di alleanze indiane; nel 1684 al-


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cuni capi Cherokee, che fino allora avevano avuto solo pochissimi contatti con mercanti virginiani, firmarono un trattato con i coloni di Charlestown; i Cherokee vivevano lontani, alle pendici e tra le valli dei monti Appalachee, i loro contatti con gli Inglesi rimasero sporadici ancora per anni, ma erano potenziali alleati, dato che già da tempo lanciavano attacchi alle missioni spagnole, per fare bottino di armi di metallo e fucili; nel 1693 una loro delegazione visitò per la prima volta Charlestown, per chiedere esplicitamente armi da fuoco. Nel 1685 Henry Woddward, questa volta alla guida di una dozzina di mercanti di Charlestown, compì Una spedizione di razziatori in partenza dal posto commerciale di Okmulgee un viaggio nell’interno fino al fiume Chattahoochee, dove incontrò gli Appalachicola e altre tribù Upper e Lower Creek, per coinvolgerle nel commercio di pelli e schiavi e istigarle contro gli Spagnoli. Nei villaggi Creek ebbe anche modo di incontrare alcuni Chickasaw, le cui terre tribali erano molto più a ovest, sul basso corso del Mississipi, che in seguito sarebbero divenuti fedeli alleati . L’attività di Woodward non era comunque ignota agli Spagnoli, che inviarono una spedizione al comando del tenente Antonio Matheos, con un pugno di soldati e 200 guerrieri Appalachee armati di fucili a cercare di catturare l’agente inglese; Woodward riuscì a sfuggire agli Spagnoli, lasciando loro un biglietto in un villaggio indiano, nel quale si scusava per essersi sottratto all’incontro, non avendo un seguito adeguato all’occasione. L’anno successivo comunque Antonio Matheos e i suoi Appalachee ritornarono nella regione tra i fiumi Chattahoochee e Flint, visitando una dozzina di villaggi Lower Creek, sequestrando armi e pelli di cervo, bruciando quattro villaggi che non si erano subito arresi e imponendo a tutti il dominio spagnolo. Sempre nel tentativo di contrastare l’azione inglese, nel 1689 gli Spagnoli stabilirono un presidio militare sul medio corso del fiume Chattahochee, nei pressi dell’attuale Columbus,nelle vicinanze del villaggio di Coweta, uno dei principali centri degli Upper Creek, ma nel 1691 furono costretti ad abbandonarlo. Il desiderio di armi e merci che gli Inglesi potevano fornire in abbondanza, non poteva essere frenato con spedizioni punitive e presidi militari, e dopo la morte di Woodward nel 1690, i mercanti che l’avevano accompagnato continuarono ad operare nella zona, stabilendo una stazione commerciale sul fiume Okmulgee; questo trading post divenne la base da cui partivano le spedizioni dei Lower Creek contro le missioni spagnole: una guerriglia costante fatta di tante azioni non documentate, come fu invece il caso della distruzione nel 1691 della missione di San Juan de Guacara, sul fiume Suwanee, ad opera di razziatori Appalachicola. All’inizio degli anni ’90 del ‘600 gli Inglesi di Charlestown avevano di fatto ottenuto il sostegno di tutte le tribù della regione, le avevano coinvolte nel commercio di pelli di cervo e grazie ad esse si rifornivano di schiavi dalle missioni spagnole; attraverso gli indiani, gli Inglesi continuarono a combattere una guerra a bassa intensità contro gli Spagnoli, che durò fino ai primi del ‘700, quando il conflitto diretto tra le potenze europee, portò ad un drammatico inasprimento delle violenze. Ma mentre il conflitto tra Inglesi e Spagnoli faceva da scenario al dramma che causò la fine di tante tribù indiane, ridotte in schiavitù o sottomesse e condannate ad una lenta agonia, da questo dramma emersero anche le tribù protagoniste dei successivi centocinquant’anni di storia, in particolare la Confederazione dei Creek, che attraverso una complessa transizione, riuscì a costituirsi come entità politica e militare che per lungo tempo si confrontò quasi alla pari con i bianchi.

Dalla cultura del Mississipi, alla Confederazione Creek L’arrivo dei coloni inglesi sulle coste della Carolina era stato l’ultimo di una serie di eventi che nel corso


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di poco più di un secolo avevano notevolmente trasformato la condizione degli indiani del Sud-Est. Dal tempo in cui Hernando de Soto aveva attraversato la regione, c’erano state le spedizioni di Tristan de Luna e di Juan Pardo, un forte calo demografico dovuto alle malattie introdotte dai bianchi, l’attività dei missionari spagnoli che aveva influenzato, oltre alle tribù della Florida anche quelle stanziate immediatamente a nord, l’arrivo dal nord di tribù aggressive e ben armate; questi cambiamenti ebbero conseguenze principalmente sulla organizzazione sociale e politica degli indiani che nel corso di questo periodo si modificò in modo significativo. Dalle testimonianze di de Soto, sappiamo che alla metà del ‘500, al tempo in cui visitò la regione a nord della Florida, le popolazioni di lingua Muskogean vivevano in un gran numero di piccole comunità agricole, sottoposte all’autorità di grandi centri rituali, dove risiedevano le aristocrazie sacerdotali, che esercitavano il potere come garanti del rapporto con le potenze ultraterrene. Questi centri cerimoniali, con i loro templi su grandi tumuli di terra e le grandi plazas per i riti collettivi, non erano comunque vere e proprie città, dato che a parte sacerdoti e capi, con i loro parenti e il seguito, la gran parte degli indiani non vi risiedeva, ma dai villaggi satellite, portava ad essi tributi in mais e altro cibo e li visitava nelle occasioni cerimoniali. I centri cerimoniali erano quindi il cuore di strutture politiche teocratiche, esercitavano la loro autorità su territori anche vasti, ma mancavano dell’autonomia economica per sopravvivere senza il supporto delle piccole comunità agricole che li circondavano; tale supporto, era strettamente legato all’autorevolezza della guida delle elites sacerdotali, e la crisi di queste elites, portò naturalmente alla decadenza dei centri cerimoniali, e delle strutture politiche di cui essi erano il centro. Al tempo della prima colonizzazione, delle antiche culture Mississipi non v’era più traccia evidente, e al sistema di dominio delle caste sacerdotali, s’era sostituita la classica organizzazione sociale basata su clan matrilineari, anche se alcuni clan, ancora in tempi storici, avevano un maggiore prestigio e da essi venivano prescelti i capi spirituali e politici. Non abbiamo una documentazione su come effettivamente avvennero tali trasformazioni nell’organizzazione sociale e politica, ma è possibile oggi mettere in relazione le testimonianze della spedizione di de Soto, e i risultati delle scoperte archeologiche, per ricostruire la divisione politica della regione, i principali potentati teocratici e metterli in relazione alle tribù presenti nell’area nella seconda metà del ‘600. Nella Florida occidentale de Soto incontrò il potentato degli Appalachee, di lingua Muskogean, già visitati nel 1528 dagli uomini di Pamfilo de Narvaez; nel tempo intercorso tra la visita (e i conflitti) con gli uomini di Narvaez e la visita (e i conflitti) con de Soto qualcosa dovette accadere nella società Appalachee. In quel periodo fu abbandonata la capitale e principale centro cerimoniale, a sud del lago Jackson, dove erano stati edificati ben sette mounds cerimoniali, per il nuovo villaggio di Anhaica, nei pressi della capitale della Florida Tallahasse, dove però de Soto non vide alcuna di queste caratteristiche strutture, che neppure vennero edificate in seguito e di cui infatti non vi è traccia dalle ricerche archeologiche. L’arrivo di uomini aggressivi e sconosciuti, dotati di armi micidiali, in groppa ad animali mai visti, il cui passaggio era segnato dal diffondersi delle epidemie, può essere stata una ragione sufficiente a spiegare la perdita di credito delle caste sacerdotali, incapaci di spiegare tale evento, e quindi l’abbandono dei centri rituali, la cui sopravvivenza economica era legata al sostegno delle piccole comunità agricole che li circondavano. Se la mancata costruzione dei mounds, successiva al contatto con gli Spagnoli può essere conseguenza della decadenza delle elites sacerdotali, ciò potrebbe spiegare la positiva accoglienza che gli Appalachee fecero ai missionari spagnoli all’inizio del ‘600. A nord degli Appalachee de Soto incontrò il potentato di Ocute, in Georgia, il cui centro era nella regione dei fiumi Flint, Oconee e Okmulgee; in quest’area sono stati trovati i resti di due grandi centri cerimoniali, quello di Okmulgee, più antico e attivo tra il X e il XIII secolo, e a poca distanza quello di Lamar, più recente, attivo tra il XIV secolo e l’inizio del ‘600. E’ questa l’area in cui vivevano diverse tribù Muskogean che parlavano la stessa lingua, l’Hitchiti e che saranno successivamente note come Lower Creek; l’abbandono del centro cerimoniale di Lamar è successivo al contatto con la spedizione di de Soto e coincide con l’intensificarsi della presenza spagnola lungo le vicine regioni costiere. Il potentato di Ocute andò in crisi come quello di Appalachee, ma la disgregazione politica dovette essere più profonda; alcune comunità indiane che forse erano state sotto l’influenza di Ocute, furono attratte dalle missioni spagnole sulla costa e in Florida, altre rimasero lontane e tendenzialmente ostili. Questi gruppi subirono l’aggressione dei Westo, quando essi giunsero nella regione intorno al 1660 ed entrarono in relazione con i mercanti inglesi, appena essi si spinsero nell’interno. E’ interessante notare che la stessa regione dove era posto il sito di Lamar, luogo di pellegrinaggio e di raduno per molti indiani dell’area, divenne nel 1690 la sede della prima stazione commerciale inglese nell’interno, e qui diverse comunità vi si tra-


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sferirono per fare scambi: le ragioni del commercio si erano sovrapposte a quelle religiose e cerimoniali, ma la zona rimaneva il centro di interesse per le diverse tribù Lower Creek. La stazione commerciale era stata stabilità su un corso d’acqua denominato Ocheese creek, e gli indiani con cui gli Inglesi commerciavano furono chiamati Ocheese Creek, abbreviato poi in Creek, il nome che designerà gran parte delle tribù Muskogean del territorio. Cofitachequi, a nord-est di Ocute era stata la successiva tappa di de Soto: si trattava di un sito cerimoniale recente, risalente al XIV secolo, edificato da genti Muskogean che si erano spinte a nord, in una terra abitata da tribù di lingua Siouan, sulle quali i Muskogean si erano imposti, grazie al loro modello sociale più avanzato e complesso. Le genti di Cofitachequi non erano in rapporti amichevoli con quelle di Ocute, e forse ciò può spiegare il loro spostamento a nord. Cofitachequi declinò progressivamente dopo la visita di de Soto e quella di Juan Pardo, anche se James Woodward, che lo visitò alla metà degli anni ‘70 del ‘600, reputava che potesse mettere in campo “1000 arcieri. Questa fu l’ultima testimonianza di Cofitachequi, che prima della fine del secolo era stato abbandonato. Dei popoli che l’avevano fondato, rimase la piccola tribù dei Congaree, che non parlava una lingua una lingua Siouan come le genti vicine, ma all’inizio del ‘700 si fuse con esse. Da Cofitachequi de Soto si spostò nell’interno, nel potentato di Coosa, visitato poi successivamente da Tristan de Luna e da Juan Pardo; le genti di Coosa erano sicuramente della tribù Muskogee e di tribù affini (Alibamu, Koasati, Tuskegee ecc), più tardi note come Upper Creek. Anche qui prima dell’inizio del ‘600 i principali centri cerimoniali furono abbandonati e con essi l’uso di costruire tumuli, ma è probabile che il prestigio delle elites si sia in qualche modo perpetuato, benchè ridotto, attraverso la preminenza di alcuni clan famigliari su altri. La decadenza del potentato di Coosa ebbe conseguenze sui vicini Cherokee, probabilmente prima sottomessi e tributari, ma che in un’epoca indefinita, forse prima della fine del ‘500, iniziarono a espandersi dalle loro valli montane, verso le pendici dei monti Appalachee, scacciando i Muskogee e obbligandoli a ricollocarsi più a sud di dove li aveva incontrati de Soto. Il centro di Etowah, sede di vestigia della cultura Mississipi, fu a lungo ritenuto un insediamento Cherokee, dato che i Muskogee i tempi storici vivevano più a sud. Forse la guerra contro i Cherokee obbligò i Muskogee a mantenere una qualche forma di alleanza, e certamente i minori contatti con gli Europei che operavano sulla costa, contribuì a impedire la dissoluzione delle relazioni tra le diverse comunità. I Muskogee veri e propri, ancora in tempi storici, avevano forti legami rituali, riconoscevano la preminenza di alcuni villaggi, considerate “città madri”, probabilmente eredi dei centri cerimoniali ormai abbandonati, e i capi di queste città madri godevano di prestigio e autorevolezza; non casualmente una di queste “città madri” era quella di Coosa, la cui collocazione geografica fu più volte trasferita, ma che mantenne sempre il suo nome, fino alla metà dell’800. L’ultimo potentato della regione visitato da de Soto, era quello di Tuscaloosa, a sud-ovest di Coosa, anch’esso abitato da genti Muskogean, ma di lingua diversa (Mobile, Tohome ecc…), forse più vicina a quella dei Choctaw e Chickasaw che vivevano a ovest; in questa regione era il sito di Moundville, il più grande centro cerimonmiale della cultura Mississipi, dopo Cahokia, abbandonato nel corso del ‘500, forse proprio dopo il passaggio di de Soto, che in questa zona fu particolarmente sanguinoso; a poca distanza da Moundville si combattè la terribile battaglia di Mabila, finita con il massacro di centinaia e forse migliaia di indiani da parte degli Spagnoli. Al tempo del contatto in quest’area non vi era alcuna significativa entità politica e le tribù che vi vivevano erano deboli e scarsamente coese, e furono presto assorbite dalle più forti tribù vicine nel corso del ‘700. Alla luce di questa sommaria panoramica, risulta evidente che di tutte le entità politiche precedenti al contatto con i bianchi, l’unica che pur in decadenza, aveva lasciato un’eredità, era il potentato di Coosa, e la tribù dei Muskogee, forte di questa eredità , per tutto il ‘600 continuò ad esercitare un ruolo influente e autorevole fra le tribù vicine e affini. A differenza dei Lower Creek, i Muskogee e le altre tribù Upper Creek, vivevano lontane dagli insediamenti inglesi e pur avendo con essi rapporti di scambio, nel commercio di schiavi e pelli, mantennero una loro autonomia ed evitarono di farsi coinvolgere in un’alleanza subalterna con i bianchi. Essi rifiutarono anche i rapporti con i missionari spagnoli, che li visitarono nel 1679, ne gli Spagnoli riuscirono ad esercitare alcun controllo quando nel 1689 stabilirono un presidio militare, nei pressi dell’importante villaggio di Coweta. Al pari di quanto aveva fatto la Lega Iroquois a nord, i Muskogee e le altre tribù Upper Creek, nel corso del ‘600 costituirono un’alleanza, meno definita sul piano politico, ma fortemente condivisa sul piano religioso e cerimoniale, che rese questo popolo impermeabile alle guerre intestine fomentate dal traffico degli schiavi e autonoma dagli Inglesi, con i quali però commerciava, ostile agli Spagnoli, ma senza trasformarsi nel braccio armato inglese, come invece accadeva ai Lower Creek. Nasceva in questo


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modo l’embrione della Confederazione Creek, una labile struttura politica, che nel secolo successivo avrebbe raccolto gran parte delle tribù della regione: i Lower Creek, che quando i loro rapporti con gli Inglesi si faranno più difficili, spesso si porranno sotto la protezione degli Upper Creek dell’interno, ma anche gruppi etnicamente e linguisticamente diversi, come gli Yuchi del Tennessee, i superstiti Westo, le bande Shawnee che vivevano sul Savannah. L’eterogeneità della Confederazione Creek e il suo spontaneo formarsi intorno ai Muskogee, non diede sempre all’alleanza la sufficiente coesione interna, e nei decenni successivi essa fu attraversata dalle divisioni, prima fra fazioni filoinglesi e filofrancesi, poi dopo la nascita degli Stati Uniti, tra quanti erano pronti a cedere terre e chi si opponeva; in ogni caso la Confederazione Creek fu per oltre un secolo e mezzo, la principale realtà politica indiana della regione, più numerosi dei Cherokee che però seppero agire con maggiore coesione, con un territorio vasto che comprendeva gran parte degli attuali stati della Georgia e dell’Alabama. Approfittando del commercio con i bianchi i Creek arricchirono il loro stile di vita, modificarono abitudini, introducendo l’allevamento e potenziando l’agricoltura, favorendo i matrimoni misti e accettando la presenza di meticci, essendo probabilmente la prima tribù della regione a dare l’avvio a quel processo che avrebbe portato alla nascita delle cosiddette “5 tribù civilizzate” (Creek, Cherokee, Seminole, Choctaw e Chickasaw), l’unico significativo tentativo di integrazione con la cultura europea, prodotto dagli indiani del Nord America. Dal potentato di Coosa risalente a X o all’XI secolo, fino alla Confederazione Creek ancora attiva nel primi decenni dell’800, questa fu la vicenda della più longeva realtà politica degli indiani del Nord America.


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50 anni di “pacifica convivenza” La colonizzazione del New England era iniziata nel 1621, con l’arrivo di uno sparuto gruppo di dissidenti religiosi, senza alcun sostegno dall’Europa, senza alcuna esperienza di quelle terre, senza nemmeno la forza militare per resistere ad una eventuale ostilità da parte degli indiani. Dopo un terribile primo inverno, in cui metà dei coloni morirono, le poche decine di superstiti, riuscirono a sopravvivere e addirittura a imporsi come una comunità forte, autorevole e rispettata tra le diverse tribù della regione. Ciò fu possibile grazie ad una attenta diplomazia, che se da un lato tendeva ad evitare ogni ragione di conflitto con gli indiani, dall’altra non temeva di agire con decisione nelle crisi che si producevano con il contatto tra popoli così diversi. Il successo di tale politica è addebitabile ad una serie di fattori coincidenti, che permisero lo sviluppo pacifico della colonia per oltre mezzo secolo. Certamente un fattore importante nei primi anni di vita della colonia, fu la tempra dei Padri Pellegrini, fondata su convinzioni religiose e morali, che impediva loro di assumere quei comportamenti apertamente sprezzanti, offensivi e violenti nei confronti degli indiani, che tanto contribuirono a trasformare le tensioni in aperti conflitti; i Padri Pellegrini poi non erano mossi dall’avidità di guadagno, ma cercavano solo una terra in cui vivere in pace, con la loro fede e il loro lavoro. C’era poi la obbiettiva condizioni di debolezza degli indiani della regione, che negli anni precedenti l’arrivo dei Padri Pellegrini, erano stati piagati da una serie di distruttive epidemie che li avevano decimati; di fatto le terre di cui disponevano eccedevano le necessità della limitata popolazione, e l’accoglienza ad un piccolo gruppo di coloni con le loro famiglie, non metteva a rischio la loro sopravvivenza. Infine c’era stata l’opera di indiani come Squanto e Massassoit, che avevano operato con convinzione a collaborare con gli Inglesi: il primo, tornato nella sua terra dopo essere stato rapito dai bianchi e portato in Europa, fu determinante nei primi mesi di vita della colonia, come “mediatore culturale”, ma morì poco dopo la fondazione di Plymouth; il secondo, capo della tribù dei Wampanoag, i diretti vicini dei coloni, fu fino alla sua morte nel 1661 amico e alleato dei coloni di Plymouth. Grazie a questi fattori, malgrado le tensioni la pace si mantenne tra indiani e bianchi, e l’unico grave conflitto che si produsse, quello con i Pequot nel 1636, coinvolse una tribù che era in pessimi rapporti con le altre tribù della regione, e gli Inglesi poterono sconfiggerli anche per l’aiuto degli alleati indiani. La colonia aveva potuto così crescere e svilupparsi in pace, ma la pace al di la del suo valore di bene supremo, aveva avuto un significato diverso per bianchi e indiani e la semplice elencazione di pochi numeri, rende chiare le ragioni del perché tale bene supremo, si fosse trasformato per gli indiani in una vera e propria iattura. Nel giro di mezzo secolo dalla fondazione di Plymouth, gli insediamenti dei coloni erano divenuti oltre un centinaio, la metà dei quali nella zona di Massacchusset Bay, altri nella baia di Rhode Island, lungo le coste del Connecticut e del sud del Maine, fin nell’interno lungo il corso del fiume Connecticut e tra questa e la baia di Massacchusset; gli insediamenti facevano riferimento a quattro autonomi governi coloniali, quello di Plymouth, quello di Boston e della baia di Massacchusset, quello di New Haven e del Connecticut e quello di Providence e del Rhode Island. La popolazione com-


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plessiva aveva raggiunto la raguardevole cifra di circa 80.000 individui, e gran parte degli uomini che erano in età per usare le armi, era organizzata in piccole milizie locali che malgrado la “pacifica convivenza”, si mantenevano in efficienza e avevano la base in case coloniche fortificate che punteggiavano il territorio. Al contrario la popolazione indiana era continuata a declinare, riducendosi a poco più di 15.000 individui, in gran parte Narraganset, circa 4.000 insieme a quanto rimaneva dei Niantic; questa tribù aveva meno sofferto delle malattie epidemiche di inizio secolo, ed era in buoni relazioni con i coloni locali, che seguendo le indicazioni del dissidente religioso Roger Williams, continuava a cercare di mantenere rapporti corretti con gli indiani. C’erano poi circa 2.500 Nipmuc nelle regioni interne della baia di Massacchusset, e altrettanti indiani convertiti i Il New England alla vigilia della Guerra di Re Filippo “Praying Indians”, per lo più superstiti della tribù dei Massacchusset, con gruppi di Nipmuc, Pennacook e Wampanoag, raccolti in comunità ai margine dei villaggi dei bianchi, dove conducevano vita stentata. I Wampanoag di Massassoit, pur essendo ancora la tribù più autorevole, anche per la sua tradizionale alleanza con i coloni, erano ridotti a poco più di un migliaio; infine alcune centinaia di Nauset che vivevano sulla penisola di Cape Cod, di scarso interesse per i coloni, e i Mohegan, alleati e mercenari degli Inglesi, che con i resti delle tribù sconfitte dei Pequot e dei Niantic, erano circa 2.000. Più lontani a ovest e a nord, i Pokuntuk e i Pennacook, da anni sfibrati dall’incessante guerra con la Lega Iroquois, rifornita di armi dai mercanti inglesi, molti dei quali erano stati costretti ad abbandonare la regione e a cercare rifugio a nord tra i Sokoki e gli Abnaki. Di fatto mezzo secolo di “convivenza pacifica”, aveva trasformato gli indiani in ospiti marginali e maltollerati sulle loro proprie terre; la “pacifica convivenza” aveva poi prodotto un fenomeno peculiare, che mai più si riproporrà nella storia dei rapporti tra bianchi e indiani: l’assenza di una “frontiera”. A differenza di quanto era accaduto in Virginia, dove a causa di tre sanguinosi conflitti, gli Inglesi stabilirono un vero e proprio confine tra terre indiane e aree aperte alla colonizzazione, nel New England la pace e la disposizione amichevole degli indiani, fece si che la colonizzazione avanzasse penetrando nelle terre degli indiani, senza però la loro cacciata. I coloni, con trattati, corrompendo i capi, semplicemente imponendo la loro presenza, si insediavano sulle terre indiane, prendendosi le migliori, mentre gli indiani semplicemente accettavano i nuovi vicini, con preoccupazione ma all’inizio anche con curiosità e la speranza di commerci. Accadeva così che a breve distanza, fattorie e villaggi dei bianchi sorgessero a fianco a villaggi indiani e ovviamente, fin quando i coloni erano pochi, la cosa creò scarsi problemi, ma quando il loro numero crebbe, gli indiani si trovarono circondati da gente ostile. I coloni giunti a partire dagli anni ’30 non erano infatti dello stesso genere dei Padri Pellegrini: mossi da ignoranza, pregiudizio e avidità, si comportavano in modo sprezzante e violento, non si facevano scrupoli di truffare gli indiani negli scambi, di vendere loro alcool, di ostacolarli nei loro spostamenti per cacciare o pescare.


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La “convivenza pacifica” che i primi Padri Pellegrini avevano cercato, si era trasformata così nella progressiva spoliazione degli indiani delle loro terre e nella loro riduzione in miseria, mentre i coloni crescevano di numero e si comportavano come i veri padroni della regione. A questo quadro già critico, va poi aggiunta l’alleanza commerciale tra Inglesi e Lega Iroquois, quest’ultima storica nemica degli indiani del New England, che malgrado la “protezione” inglese si dovevano anche difendere dagli attacchi condotti periodicamente dagli Iroquois, con le armi vendute loro dagli Inglesi. La presenza della Lega scoraggiava anche gli indiani a cercare rifugio nelle zone interne, dove le spedizioni di guerra Iroquois rappresentavano un pericolo, come dimostrava la sorte subita dai Pokuntuk e dai Pennacook. Le condizioni per l’esplosione del conflitto vi erano tutte, ma fino alla morte del capo Massassoit nel 1661, il malessere degli indiani non esplose e anche i suoi figli Wamsutta e Metacomet, cui l’anziano capo aveva dato i nomi cristiani di Alessandro e Filippo, erano pronti a continuare nelle relazioni pacifiche; la sproporzione tra la forza degli indiani e quella degli Inglesi era tale, che ai primi non restava che rassegnarsi e sperare nella protezione che i ripetuti accordi di pace e alleanza con i governi delle colonie avrebbe dovuto garantire. Le cose invece andarono diversamente e alla fine gli indiani furono costretti alla guerra: la furia degli indiani, repressa per mezzo secolo, esplose sanguinosa, portando la colonia sull’orlo della distruzione.

Metacomet tra pace e guerra Metacomet, il capo dei Wampanoag e del villaggio di Pokanoket, che gli Inglesi chiamavano con l’altisonante titolo di “re Filippo”, l’uomo passato alla storia per la sanguinosa guerra che pose fine alla “coesistenza pacifica” in New England, per quel che sappiamo, non doveva essere un personaggio particolarmente bellicoso, un guerriero focoso o pregiudizialmente ostile ai coloni; come figlio di Massassoit, il capo che era sempre stato amico dei bianchi, era cresciuto in un ambiente in cui i rapporti con i coloni dovevano essere abituali e quasi certamente, la stessa autorità di Massassoit, che poi Metacomet erediterà, era almeno in parte dovuta ai suoi protettori inglesi. C’è poi da considerare che se i rapporti di “vicinato” tra bianchi e indiani, spesso erano caratterizzati da tensioni e diffidenze, ciò non impediva che le relazioni tra i due popoli fossero in qualche caso autenticamente positive, che rapporti personali di stima e di amicizia nascessero, che da una parte e dall’altra gli “uomini di buona volontà”, cercassero di mantenere la pace e il reciproco rispetto. Sta di fatto che dal momento in cui Metacomet divenne capo dei Wampanoag, al momento in cui egli si mise alla testa della sollevazioni degli indiani del New England, passarono ben tredici anni, durante i quali il capo continuò nella politica di suo padre; eppure non erano certo le ragioni di diffidenza verso gli Inglesi che mancavano, a partire dalla vicenda della morte del suo fratello maggiore Wamsutta, che era stato capo dei Wampanoag per pochi mesi alla morte di Massassoit, prima di morire anche lui in circostanze misteriose. Alla morte di Massassoit, Wamsutta (re Alessandro per gli Inglesi) aveva ereditato la guida di una tribù sempre più povera e indebolita, dipendente dagli Inglesi per una quantità di beni di cui gli indiani non potevano fare a meno, ma che ormai faticavano ad ottenere; i territori di caccia, sempre più ridotti e impoveriti, non offrivano più quelle pelli pregiate che erano l’unica ricchezza che gli indiani potevano offrire in cambio di ciò di cui ormai necessitavano. Forse fu per questa ragione che Wamsutta, poco dopo essere divenuto capo, decise di vendere una parte delle terre tribali ai coloni del Rhode Island, che in dissenso con tutti gli altri Inglesi, non contestavano la proprietà della terra agli indiani, ed erano disposti a pagare un giusto prezzo per ottenerla.Proprio questa diversa concezione dei diritti degli indiani, era stata una delle ragioni che aveva portato Roger Williams a fondare la colonia dissidente del Rhode Island, che se era in buoni rapporti con i vicini Narraganset, non lo era sempre altrettanto con i cittadini di Plymouth o di Boston. La possibilità che i Wampanoag potessero vendere terre ai dissidenti del Rhode Island, fu quindi considerato una minaccia dal governo di Plymouth, un pericoloso precedente che non solo negava il diritto del governo di Plymouth a disporre delle terre degli indiani e riaffermava il loro diritto a farne l’uso che volevano, ma poteva essere l’inizio di una alleanza tra Wampanoag e Narraganset, mediata dai coloni del Rhode Island; proprio l’ostilità tra Wampanoag e Narraganset era stata, fin dal tempo dei Padri Pellegrini, una delle ragioni dell’alleanza tra Wampanoag e Inglesi, e quindi il presupposto della loro sottomissione. La scelta di Wamsutta quindi, era apparsa come un atto ostile e una rottura della politica fino ad allora seguita da suo padre. Wamsutta poi aveva sposato Wetamoo, la figlia di Corbitant, capo


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del villaggio di Pocasset, che inizialmente si era opposto a Massassoit e alla sua alleanza con gli Inglesi; alla morte di Corbitant, Wetamoo era divenuta sachem di Pocasset , e con il suo matrimonio con Wamsutta, la tribù era di nuovo riunita. Non sappiamo se Wetamoo già provasse i sentimenti anti-inglesi che più tardi saranno espliciti, ma è probabile che la vecchia rivalità tra Corbitant e Massassoit, risolta dagli Inglesi in favore del secondo, abbia tenuto viva una fazione ostile tra gli abitanti di Pocasset, che oltretutto erano vicini dei Narraganset e in buoni rapporti con loro. Il timore che l’iniziativa di WamDue raffigurazioni postume di Metacomet sutta potesse divenire una minaccia per gli interessi di Plymouth, indusse il governo coloniale ad intervenire con durezza, con l’arresto di Wamsutta e l’accusa di aver violato i precedenti trattati di pace, nei quali la tribù si impegnava a mantenere rapporti di scambio solo ed esclusivamente con la colonia di Plymouth. L’arresto durò solo pochi giorni, durante i quali Wamsutta accettò di rinunciare ai suoi propositi, per ottenere la liberazione: poi pochi giorni dopo essere stato liberato un improvviso malore lo uccise. Il sospetto che Wamsutta fosse stato avvelenato si diffuse subito tra gli indiani e proprio sua moglie Wetamoo ne era la più convinta; l’acquisto di un quantitativo di veleno in quegli stessi giorni, risulta dagli archivi del governo di Plymouth col la sola motivazione di “rid ourself by a pest” (liberarsi di qualcosa di nocivo), e certo la coincidenza è quanto meno singolare. Non sappiamo se Metacomet condivideva i sospetti di sua cognata Wetamoo, ma certo se così era egli non lo diede a vedere e divenuto capo della tribù nel 1662, egli si mantenne fedele alla politica fino ad allora seguita da suo padre, senza assumere iniziative che potessero prestare il fianco ad accuse da parte degli Inglesi. Appena assunto il titolo di capo, Metacomet fu chiamato a Plymouth, dove ribadì la sua fedeltà al re d’ Inghilterra e la sua volontà di proseguire in amicizia con gli Inglesi. La prudenza di Metacomet non fu però sufficiente per i coloni: gli indiani che vivevano al loro fianco, potevano essere a malapena tollerati, e l’insofferenza contro di loro cresceva ogni giorno; malgrado ciò l’ipotesi di liberarsi di loro con un atto di forza, non era praticabile, o quantomeno avrebbe avuto un costo troppo alto da sopportare. I villaggi indiani, non erano oltre una linea di frontiera che poteva essere difesa, ma tra un insediamento e l’altro dei coloni, che sarebbero stati un facile obbiettivo delle ritorsioni in caso di guerra. Proprio per questa stessa ragione, era forte tra i coloni la preoccupazione di una rivolta, che proprio come era accaduto in Virginia per ben due volte, poteva portare al massacro di centinaia di bianchi; per loro sicurezza gli Inglesi tenevano sotto controllo l’attività di Metacomet e di altri capi, attraverso spie e informatori che trovavano tra gli indiani convertiti e ridotti al loro servizio. Le preoccupazioni per una rivolta, avevano ripercussioni sul commercio con gli indiani, per il timore che essi potessero ottenere armi, e quando dopo la fine della colonia olandese nel 1665, i mercanti inglesi poterono aprire un rapporto privilegiato con la Lega Iroquois, anche il poco commercio che gli indiani del New England potevano fare, non era più necessario e fu prima soggetto a restrizioni, poi vietato. Esaurito anche il ruolo di marginali partners commerciali, gli indiani vivevano sulle terre che ormai i coloni consideravano proprie, come una mina vagante, una minaccia da tenere sotto controllo, un pericolo. Non è chiaro se i sospetti degli Inglesi nei confronti di Metacomet, accusato di organizzare un complotto con altri capi, avessero un fondamento, ma è certo che tale situazione creava rabbia e malessere fra gli indiani: e questo ovviamente faceva crescere il sospetto dei coloni. La guerra comunque non era una soluzione considerata dal governo coloniale, che si stava liberando degli indiani, con molti minori rischi: tra il 1662 e il 1671, praticamente ogni anno, Metacomet vendette tratti di terra ai coloni, e ciò malgrado un accordo da lui stesso voluto, che bloccava ogni vendita di terra per sette anni: in realtà la tribù impoverita, esclusa dai commerci, e ormai abituata all’uso di beni


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e merci dei bianchi, non aveva più altra risorsa che vendere terra: e i compratori ovviamente, non mancavano. Il primo segnale della crisi si ebbe nel 1671, quando i sospetti che le vendite di terra servissero anche a rifornirsi clandestinamente di armi, sembrarono trovare conferma; nel marzo di quell’anno una forte e ben armata banda di guerrieri Wampanoag, guidata dallo stesso Metacomet, giunse alle porte dell’insediamento di Swansea, senza però attaccarlo. La minaccia però allertò il governo di Plymouth, che convocò Metacomet nel villaggio di Tauton, dove delegazioni delle due parti si incontrarono. All’inizio Metacomet negò ogni proposito ostile nei confronti degli Inglesi, e affermò che stava preparando la guerra ai Narraganset, ma infine ammise che stava organizzando un complotto contro di loro. I coloni di Plymouth di fronte a tale ammissione, imposero a Metacomet un nuovo trattato, nel quale oltre a riaffermare amicizia e fedeltà al re d’Inghilterra, i Wampanoag avrebbero dovuto consegnare tutte le loro armi da fuoco. Poi i mesi successivi passarono tra vani tentativi di ottenere le armi dagli indiani, convocazioni di Metacomet che si sottrasse sempre, invio di indiani cristiani a Metacomet, da parte del missionario John Elliot nella speranza di trovare una mediazione, fin quando in settembre, minacciando un intervento militare, non furono ottenute le armi dagli abitanti del vllaggio di Saconet; a capo di Saconet era la sachem Awashonk, che anche in seguito, si terrà fuori dai conflitti con gli Inglesi. Nel frattempo in agosto il governo di Plymouth pose sotto accusa Metacomet, dopo le informazioni ottenute dall’interprete John Sassacus, circa i suoi incontri con altri capi, tra cui alcuni Narraganset, in preparazione di una rivolta. Metacomet fu ancora una volta convocato il 13 settembre per rispondere delle accuse, con la minaccia di intervento militare in caso non si fosse presentato. Allo stesso tempo i coloni di Plymouth si rivolsero a quelli di Boston, per ottenere sostegno, dato che lo scatenersi di una guerra avrebbe coinvolto anche loro. Da Boston giunse una risposta prudente, che da un lato metteva in dubbio l’effettiva competenza di Plymouth a processare Metacomet, dall’altra sconsigliava la guerra. Metacomet fu allora convocato a Boston, nella stessa data in cui era stato convocato a Plymouth, ed egli vi si recò per riaffermare, che nei trattati egli aveva sempre ribadito amicizia per gli Inglesi non la sottomissione a loro, e che quindi egli non poteva essere giudicato da loro. Il consiglio di Boston ritenne che non vi erano le condizioni sufficienti per una guerra e propose a Plymouth di affidare la soluzione ad una commissione di mediatori, composta da bostoniani e coloni del Connecticut; da Plymouth giunse un rifiuto, e l’ultimatum per la consegna delle armi, entro il 24 settembre, alla presenza di garanti di Boston e del Connecticut, come unica via per evitare la guerra. Probabilmente convinto dai mediatori, Metacomet si presentò all’incontro, ma trovò i rappresentanti delle tre colonie uniti nel minacciarlo di guerra, se non avesse firmato un ulteriore e punitivo trattato; i Wampanoag accettavano di essere sottomessi al governo di Plymouth, di non poter fare nulla senza la sua approvazione, cedevano le armi, pagavano una onerosa multa e si impegnavano a cacciare lupi al servizio della colonia. Era una umiliazione totale, ma Metacomet accettò; le vendite di terra degli anni precedenti dovevano aver lasciato ancora qualche risorsa ai Wampanoag, se è vero il sospetto che Metacomet da subito, riprese a rifornirsi clandestinamente di armi. Non sappiamo quale sia stato il travaglio di questo capo, da sempre abituato a confrontarsi con i bianchi, conscio del loro numero e della loro forza, timoroso di una resa dei conti che sembrava inevitabile, ma che si tentava di rimandare, preparandosi comunque ad essa. Evidenti sono invece i timori dei coloni di Plytmouth e di quelli di Boston, i primi preoccupati dalla vicinanza di indiani armati e ostili, i secondi dal rischio di un esplodere della guerra che avrebbe coinvolto tutto il New England, dopo mezzo secolo in cui, in pace e senza spargimenti di sangue (soprattutto quello inglese), i coloni avevano avuto tutto ciò che pretendevano. L’umiliante trattato del 1671, aveva momentaneamente rimandato l’esplodere della crisi, ma ormai tra le parti non vi era alcuna fiducia, l’alleanza tra Wampanoag e Inglesi era definitivamente conclusa, e da entrambe le parti ci si preparava a quella guerra che tutti temevano, ma che tutti sapevano inevitabile.

Il primo sangue versato Benchè i coloni di Plymouth sospettassero che Metacomet si preparasse alla guerra, stesse armando i suoi Wampanoag e sobillando le tribù vicine, nemmeno l’umiliante trattato che gli era stato imposto nel 1671 indusse il capo a guidare la sua tribù alla rivolta. Pure negli anni successivi al trattato non man-


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carono le tensioni, soprattutto dovute ai contenziosi legati alle cessioni di terra; l’anno prima dell’inizio della guerra un colono del Rhode Island, chiese ai Wampanoag un forte risarcimento per le mancate cessioni di terra concordate da Wamsutta nel 1661, cessioni che erano state impedite proprio dai coloni di Plymouth: agli indiani non mancavano le ragioni per una guerra contro gli Inglesi. Sicuramente gli indiani avevano preso a riarmarsi, e certo tra di loro molti erano convinti che la guerra agli Inglesi era necessaria: ciò non significa comunque che un vero e proprio piano fosse stabilito, che Metacomet stesse organizzando un vero e proprio complotto. Più probabilmente l’ostilità nei confronti degli Inglesi, doveva fare i conti con la realistica valutazione dei rapporti di forza: i coloni erano di gran lunga più numerosi, meglio armati, e oltretutto potevano far conto sugli indiani stessi, i “praying indians”e i fedeli alleati Nauset e Mohegan. Se tra gli indiani i dubbi sulla guerra erano numerosi, anche tra i coloni una soluzione di forza era vista con preoccupazione: da mezzo secolo, senza spargimenti di sangue, gli indiani erano stati indotti a cedere la loro terra per un tozzo di pane, e continuando così nel giro di pochi anni la questione indiana nel New England poteva chiudersi definitivamente e in modo incruento. Il prezzo dell’appezzamento di terra su cui fu costruito il villaggio di Freetown nel 1659, da l’idea dei vantaggi della “politica di pace”: venti cappotti, due tappeti, due tegami di metallo, tre pentole di metallo, otto paia di scarpe, sei paia di calze, una dozzina di zappe, una dozzina di asce e due yarde di tessuto; fin quando gli indiani potevano essere indotti a vendere la terra a simili condizioni, la guerra non sarebbe mai stata conveniente per i coloni. Perché la guerra divenisse inevitabile, c’era bisogno di sangue versato e malgrado tensioni e conflitti tanto i Wampanoag, quanto gli Inglesi, avevano evitato di giungere a tanto. Poi il 29 gennaio del 1675 il corpo di un indiano con il collo spezzato, fu ritrovato nello stagno di Assawompset, nei pressi del villaggio di Middlesborough: si trattava di John Sassamon, interprete nei rapporti fra Inglesi e Metacomet. La qualifica di interprete in realtà non dice tutto di John Sassamon, nato intorno al 1620 fra gli indiani Massacchusset, convertito al L’assassinio di John Sassamon; sullo sfondo il testimone indiano cristianesimo fin da bambino, scelto dal missionario John Elliot per essere inviato a studiare al college di Harward (fondato nel 1638), promotore e organizzatore, con il sostegno inglese, delle comunità dei “praying indians”, nel 1651 scelto da Elliot come maestro di scuola nella zona di Natick, tanto per gli indiani, che per i coloni, interprete e mediatore per conto del governo di Plymouth e infine informatore degli Inglesi, sulle attività potenzialmente ostili degli indiani. Una figura importante per gli Inglesi, almeno per quella parte dei coloni che più avevano puntato ad una relazione pacifica con gli indiani, ma anche per il governo coloniale, che in lui riponeva fiducia. Da mesi Sassamon allertava il governatore di Plymouth Josiah Winslow sui preparativi di guerra che Metacomet stava mettendo in atto, informazioni che portarono Metacomet sotto processo, anche se alla fine non si trovarono prove effettive del complotto, e Metacomet fu solo avvertito che di fronte a nuovi sospetti le terre tribali sarebbero state confiscate. Probabilmente il governo di Plymouth aveva sottovalutato gli avvertimenti di Sassamon, nella convinzione che gli indiani non avrebbero mai osato ribellarsi: ora però la sua morte non poteva essere sottovalutata e i suoi assassini dovevano essere trovati e puniti. Puntuale giunse la testimonianza oculare di un altro indiano convertito, che indicò i nomi dei tre indiani che avevano ucciso Sassamom e poi gettato il cadavere nello stagno di Assawompset: Tobias, Wampapaquam e e Mattashumanno, tutti e tre fedeli di Metacomet. I tre furono arrestati e pur continuando a proclamare la loro innocenza, finirono condannati e impiccati


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l’8 giugno del 1675 a Plymouth; nella giuria di diciotto membri che emanò il verdetto di condanna, gli Inglesi si premunirono di inserire sei anziani indiani, scelti da loro nelle comunità di “praying indians”. Nelle settimane successive, in due occasioni, coloni che erano in buoni rapporti con Metacom gli fecero visita nella speranza di evitare un conflitto, ma gli incontri non portarono a nulla; poi il 18 giugno alcuni indiani, forse senza l’autorizzazione di Metacomet, si introdussero in una casa vuota nei pressi di Swansea, e uno di loro venne ucciso dal giovano John Salisbury, che insieme a suo padre li asveva sorpresi. La risposta giunse il giorno successivo, quando dal villaggio di Pokanoket i guerrieri Wampanoag si diressero ancora una volta al vicino insediamento di Swansea, e questa volta non per minacciare: lungo la via due fattorie vennero saccheggiate e bruciate, nei pressi dell’odierna Warren (Rhode Island); poi il 23 giugno fu la volta delle fattorie fortificate Miller e Bourne, la prima centro della milizia di Swansea. I coloni fuggivano senza essere in grado di opporre resistenza: il 24 giugno il giovane John Salisbury fu ucciso insieme a sei compagni mentre era al lavoro nei campi, e altri due coloni, accorsi per le grida di aiuto, fecero la stessa fine; i cadaveri furono ritrovati solo il 30 giugno, appesi agli alberi, come monito a tutti gli Inglesi. A Swansea gli indiani erano comparsi all’improvviso, e avevano iniziato a sparare sui coloni che tornavano dalla funzione; e il 25 giugno tutte le abitazioni erano bruciate e saccheggiate e una settantina di superstiti fuggivano verso Tauton. L’ultima volta che i coloni del New England avevano dovuto temere attacchi indiani era stato al tempo della guerra dei Pequot, ed erano passati quarant’anni d’allora; e ora gli indiani vivevano fra di loro.

La Guerra di re Filippo Appena giunte le prime notizie degli attacchi indiani intorno a Swansea, il governatore di Plymouth Winslow, aveva iniziato a radunare gli uomini delle milizie locali, per intervenire, sedare la rivolta e punire i colpevoli; dal canto loro i coloni di Boston, preoccupati per una possibile estensione del conflitto, si prepararono ad iniziare negoziati con le tribù dei Nipmuc, dei Narraganset e dei Niantic; ma non era più tempo di negoziati e anche una eclisse di luna che giunse il 27 giugno, fu considerato da molti indiani il segno che l’ora fosse giunta e che era tempo di prendere le armi. Malgrado la speranza di poter ancora evitare la guerra, il governo di Boston inviò subito le sue milizie in sostegno dei coloni di Plymouth. Intanto lasciata in fiamme Swansea, Metacomet e i suoi guerrieri avevano continuato a depredare la regione, attaccando tra il 26 e il 29 di giugno, i villaggi di Tauton, Rehobot e Freetown, ovunque saccheggiando e incendiando le case, uccidendo i bianchi e costringendo chi scampava a riunirsi nelle fattorie fortificate e prepararsi all’assedio. Il 28 di giugno milizie provenienti da Boston e Plymouth erano giunte a Swansea, ma solo per aggiungere altre vittime: due sentinelle furono assassinate, mentre una compagnia al comando del capitano Prentice impegnata in una ricognizione, veniva attaccata dai Wampanoag. Le milizie inviate da Plymouth nulla potevano fare contro le bande di guerrieri che colpivano fulmineamente e poi scomparivano nei boschi, ma la posizione dei villaggi indiani era ben nota e lì si diressero le milizie inglesi: il 29 giugno il capitano Matthew Fuller con una quarantina di uomini, giunse al villaggio di Pocasset, sperando di poter impedire, con le trattative, che gli abitanti si unissero ai seguaci di Metacomet, ma la “sachem” del villaggio Wetamoo, la vedova di Wamsutta, non ebbe esitazioni e ordinò subito l’attacco, costringendo Fuller a ritirarsi. La sera del giorno successivo, il grosso della milizia, al comando del maggiore Thomas Savage, raggiunse Pokanoket, il villaggio di Metacomet, nei pressi della località di Mount Hope, ma non vi trovò nessuno e ai miliziani non rimase che dare fuoco al villaggio e distruggere e razziare i campi. Mentre i più ottimisti speravano che Metacomet dopo le prime razzieormai fosse in fuga verso l’interno, e festeggiavano la distruzione del suo villaggio, il capo aveva raggiunto Pocasset e a lui s’era unita Wetamoo, con altri duecento guerrieri. Intanto la notizia del conflitto si estendeva, e ai primi di luglio una delegazione di Mohegan giunse in visita a Boston, per offrire la propria alleanza e i propri servigi. Chi sperava che Metacomet fosse in fuga, dopo la distruzione del suo villaggio, fu amaramente smentito pochi giorni dopo, quando l’8 di luglio i Wampanoag attaccarono una compagnia di 30 uomini al comando del capitano Benjamin Church, nei pressi del villaggio di Pocasset (attuale Tiverton), poi quello stesso giorno i Wampanoag attaccarono e bruciarono il villaggio di Middlesborough, che gli abitanti avevano abbandonato per riunirsi in un fortino sul fiume Namasket, prima di trovare rifugio a Plymouth; il giorno successivo fu la volta di Darthmouth, dove alcuni coloni furono uccisi e 36 abitazioni bruciate, mentre i coloni si rifugiavano alla “Russel Garrison”, una fattoria fortificata. Dopo l’attacco a


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Darthmouth le autorità di Plymouth lanciarono un appello agli indiani amici, perché si mettessero sotto la protezione inglese e circa centosessanta indiani, tutti estranei alle violenze, si arresero: comunque qualche tempo dopo, il governo di Plymouth ritenne che per ragioni di sicurezza era meglio che fossero allontanati dalla regione, e cosi furono venduti come schiavi nelle Indie Occidentali. Al di la di queste defezioni, la notizia delle vittorie e del ricco bottino dei guerrieri di Metacomet, erano una miccia per l’esplodere della rabbia degli indiani, e il 14 di luglio i Nipmuc del capo Muttawamp scesero anch’essi sul senL’attacco a una “garrison”, una fattoria fortificata tiero di guerra attaccando il villaggio di Mendon, uccidendo sei coloni e bruciando gran parte delle case. Nei giorni successivi il governo di Boston tentò a più riprese di indurre i Nipmuc a cessare le ostilità, contando su quella parte della tribù che era ormai convertita, ma tali tentativi non daranno alcun frutto. I Narraganset, che erano la più potente e numerosa tribù della regione, per il momento si mantenevano neutrali e il 15 di luglio il governo del Connecticut si affrettò a rinnovare con loro il trattato di pace; comunque durante il mese di luglio anche alcuni coloni di Providence subirono molestie, mentre molti Narraganset mantenevano rapporti con i Wampanoag e offrivano loro sostegno e rifugio. I Narraganset avevano sempre mantenuto pacifici rapporti con i seguaci di Roger Williams, e gli Inglesi speravano che essi potessero essere indotti a schierarsi al loro fianco, ma Roger Williams, rinunziò ad unire la sua colonia a quelle di Plymouth, Boston e del Connecticut e gli stessi capi Narraganset erano fortemente restii ad un alleanza che li vedesse al fianco dei Mohegan, con cui l’ostilità durava da decenni. Tanto i Narraganset, quanto Roger Williams, si mantennero in una difficile neutralità, mentre al limite delle loro terre la guerra ormai divampava. Era ormai un mese che gli indiani seminavano il terrore, e le milizie inglesi, non solo non li avevano puniti, ma nemmeno erano riuscite a entrare in contatto con loro. Il 19 di luglio le milizie di Boston e Plymouth si spinsero verso il villaggio di Pocasset, ma giunti nelle vicinanze si incontrarono con un gruppo di esploratori Wampanoag e ne uccisero due, prima che gli altri riuscissero a fuggire e dare l’allarme; quando gli Inglesi raggiunsero il villaggio lo trovarono vuoto e abbandonato e non rimase loro che bruciarlo: Metacomet, insieme a Wetamoo e a tutti i Wampanoag era sfuggito di nuovo allo scontro aperto. Dopo Pocasset una parte dei non combattenti prese la via del nord per cercare rifugio presso i Nipmuc, ma il 29 di luglio al guado del fiume Tauton, furono individuati, costretti alla resa e inviati a Plymouth dove furono venduti come schiavi. Intanto Metacomet, Wetamoo e il gruppo principale si dirigeva verso le terre dei Narraganset, nelle zone paludose a nord di Providence, dove probabilmente voleva stabilire una nuova base e nelle speranza di coinvolgere anche i potenti Narraganset. I loro movimenti furono però intercettati dagli scout Mohegan; gli Inglesi si posero subito sulle loro tracce, fin quando non riuscirono a catturare un Wampanoag isolato, che fu costretto a guidarli nel nuovo accampamento nella località di Nipsachuk. Qui il 1 agosto finalmente venivano fatte convergere le milizie coloniali, ma malgrado le perdite subite da Metacomet, lo scontro non fu decisivo, gli indiani riuscirono a sganciarsi e l’unico risultato fu solo una loro ulteriore divisione: Wetamoo con un centinaio di indiani al seguito, tra cui molte donne e bambini prese la via del sud per cercare rifugio tra i Narraganset, mentre Metacomet e gran parte dei guerrieri si spingeva a nord verso il territorio dei Nipmuc. Proprio in quegli stessi giorni i Nipmuc stavano compiendo il passo decisivo che li avrebbe posti al fianco dei Wampanoag. Dopo l’attacco a Mendon, il governo di Boston avevano tentato di aprire trattative con i Nipmuc, e il 2 agosto il capitano Edward Hutchinson fu inviato con una compagnia ad incontrare un gruppo di capi che si erano dichiarati neutrali; lungo la via la compagnia fu invece attaccata all’improvviso da Muttawamp e i suoi guerrieri, in un punto in cui la pista correva tra paludi imprati-


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cabili e un ripido versante collinoso; i Nipmuc erano armati di fucili e gli Inglesi ebbero otto morti, prima di riuscire a uscire dalla trappola e trovare rifugio in una casa fortificata di Brookfield, uno dei villaggi più avanzati e isolati. Qui si erano raccolti i circa ottanta coloni della zona, e qui furono raggiunti dai Nipmuc di Muttawamp, che posero l’assedio per due giorni, usando frecce incendiare nel tentativo di bruciare la casa fortificata. Solo il 4 agosto da Lancaster giunse soccorso agli assediati, ma nel frattempo gli indiani avevano bruciato ogni casa e razziato ogni cosa, prima di scompa- Coloni difendono le loro case dagli indiani rire. I coloni abbandoneranno la regione e Brookfiel fu ricostruita solo dopo dodici anni. Il 5 agosto Metacomet e i suoi Wampanoag raggiunsero il principale villaggio Nipmuc di Nemaneset, e qui si riunirono ai guerrieri di Muttawamp di ritorno dalla distruzione di Brookfield. Metacomet aveva dovuto lasciare le sue basi, ma ora nell’interno era pronto a riprendere l’iniziativa, contando su una forza di guerrieri che cresceva ogni giorno. Alla metà di agosto, per impedire che anche tra i convertiti potesse diffondersi il seme della rivolta, gli Inglesi imposero ai Praying Indians di non uscire dalle loro comunità, dove potevano essere controllati, e in qualche misura protetti, vista la montante rabbia dei coloni contro gli indiani, pacifici o ostili. Poi il 22 agosto i Nashua del capo Monoco, una banda meridionale dei Pennacook si unirono anch’essi agli ostili; i Nashua da anni erano in rapporti con gli Inglesi, ed erano con loro fortemente indebitati per l’acquisto di merci europee, che potevano pagare solo vendendo terra; dopo anni di cessioni di terra la rabbia indiana non aspettava che un occasione per esplodere, e a farne le spese fu il villaggio di Lancaster, dove sette coloni persero la vita. Anche i Pocuntuk che ancora vivevano nella regione furono coinvolti, quando il 25 agosto il capitano Thomas Lathrop fu inviato a disarmare gli abitanti del villaggio di Norwottuck, poco a nord del villaggio di Hatfield: ne seguì uno scontro in cui una quarantina di indiani furono uccisi e anche i bianchi ebbero molte perdite; quello stesso giorno i Nipmuc lanciavano un raid contro Springfield. Molti Pocuntuk avevano abbandonato la regione anni prima a causa degli attacchi dei Mohawk, ma una parte della tribù vi era rimasta e probabilmente all’inizio della guerra, gruppi di guerrieri ritornarono nella loro terra, per vendicarsi e fare bottino. Tra il 30 agosto e il 2 settembre i guerrieri Wampanoag e Nipmuc colpirono i villaggi di Deerfield, Hadley e Northfield, con un bilancio di otto coloni uccisi e decine di case bruciate, oltre al bottino fatto dagli indiani. Il 4 settembre una compagnia della milizia al comando del capitano Richard Beer, in viaggio per dare soccorso agli abitanti di Northfield, cadde in un agguato e i caduti furono ventuno, più della metà del reparto; i superstiti si unirono ad un’altra colonna e raggiunsero Nortfield, i cui abitanti furono evacuati, lasciando il villaggio lungo la cui via principale gli indiani avevano posto le teste dei coloni uccisi in cima a dei pali. Ma oltre agli attacchi ai villaggi, l’esplodere di tensioni tanto a lungo represse stava trasformando tutto il New England in un campo di battaglia, anche laddove i guerrieri di Metacomet non giungevano: nel New Hampshire i Pennacook si continuavano a mantenere in maggioranza fuori dalla guerra, ma ormai i coloni erano a rischio se rimanevano isolati o se si mettevano in viaggio. Nei dintorni di Exeter il colono John Robinson fu il primo assassinato dagli indiani, durante il mese di settembre e altri fatti simili accadevano ovunque; in questo clima avevano buon gioco anche quei bianchi che odiavano tutti gli indiani e non si curavano di sapere se fossero ostili o amici: sempre nel New Hampshire il capitano della milizia Samuel Moseley, inviato alla ricerca dei Pennacook, che per timore della guerra si erano spostati nell’interno, il 2 settembre attaccò senza provocazione un loro villaggio pacifico, nelle vicinanze di Concord, e i governanti di Boston dovettero inviare una delegazione a cercare di ricucire il grave strappo; lo stesso Moseley sempre durante il mese di settembre, invio una dozzina di indiani a Boston perché fossero giustiziati, ma le autorità li rilasciarono, non avendo trovato alcun riscontro alle accuse loro fatte.


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La guerra di fatto si combatteva sia negli scontri tra milizie e spedizioni di guerra indiane, ma anche nell’azione inattesa di indiani esasperati, fino ad allora pacifici e sottomessi, o in quelle di coloni che finalmente potevano agire contro gli indiani vicini, che da tempo mal sopportavano. D’altra parte non mancavano i casi in cui i legami che si erano prodotti negli anni di pace tra coloni e indiani permanevano: a Rynham, la famiglia Leonard, che aveva una fucina ed era sempre stata in rapporto amichevole con gli indiani, pare abbia ottenuto da Metacomet che il villaggio fosse risparmiato dagli attacchi, in cambio delle ri- Un’immagine della battaglia di Broody Brook parazioni che i Leonard facevano dei fucili indiani. Fu comunque solo il 9 settembre, che dopo Plymouth, anche le altre colonie (ad esclusione del Rhode Island) dichiararono formalmente guerra agli indiani; fino a quel momento si era continuato a sperare che il focolaio acceso, potesse essere isolato e spento. Il 12 settembre, un convoglio che da Deerfield portava il raccolto a Hadley, scortata dai miliziani del Massacchusset al comando del capitano Thomas Lathrop, fu attaccato da centinaia di guerrieri Nipmuc e Pocuntuk guidati da Muttawamp, e le vittime furono decine tra miliziani e civili addetti al carico e tra queste lo stesso capitano Lathrop. Il massacro sarebbe stato completo, se un reparto al comando del capitano Moseley non fosse giunto in soccorso, avendo udito gli spari, e impegnato gli indiani in un combattimento di ore, fino all’arrivo di un altro centinaio di uomini, tra cui un gruppo di guerrieri Mohegan, che indussero i Nipmuc e i Pocuntuk a ritirarsi. Le milizie si diressero quindi a Deerfield, dove la popolazione fu evacuata, prima che il villaggio fosse bruciato dagli indiani. Gli indiani fecero un ricco bottino in grano, una scorta per l’inverno per gli indiani, i cui campi erano stati distrutti. Il luogo dello scontro fu da allora chiamato Bloody Brook (ruscello insanguinato). Con l’evacuazione di Deerfiel e Nortfield, la parte settentrionale della valle del Connecticut era tornata in mano indiana, ma ovunque nella regione le bande di indiani colpivano e poi scomparivano, senza che le milizie riuscissero a impegnarli in battaglia, se non quando gli indiani lo volevano: nei dintorni di Springfield mulini e abitazioni furono incendiate il 25 settembre, il 28 due coloni furono uccisi e scotennati mentre tagliavano legna. Il 4 di ottobre da Springfield, il principale villaggio dell’interno, la milizia partì alla volta di Hadley, per unirsi ad altri reparti e mettersi in campagna contro gli indiani; la notizia che la città era sguarnita giunse ai Pocuntuk del vicino villaggio di Agawam, che chiamati rinforzi si prepararono ad attaccare la città. Se il massacro non fu completo fu per l’intervento di un indiano amico, che informò gli Inglesi dell’attacco in preparazione, ma comunque il giorno successivo i guerrieri Nipmuc e Pokuntuk bruciarono decine di case e seminarono il terrore. La situazione era praticamente fuori controllo e in questo clima di timore e frustrazione, le milizie volontarie si mostravano indisciplinate, preoccupate più che altro della difesa delle loro case e dei loro famigliari, con scarsa fiducia nei capi, che tra l’altro erano spesso divisi da rivalità, non essendo nemmeno chiare le linee di comando delle milizie volontarie. In questa situazione già difficile, le milizie del Connecticut decisero di far ritorno a Hartford, dove si temeva un imminente attacco indiano. Nel clima di caos e paura ad andarci di mezzo furono i Praying Indians: il 13 di ottobre il governo di Boston decise che essi dovevano essere tutti trasferiti in mezzo al mare, a Deer Island, dove gli indiani furono abbandonati senza viveri, passando un inverno durissimo che ne uccise a centinaia. Il 19 di ottobre gli indiani tentarono di attaccare il villaggio di Hatfield, ma questa volta il la milizia comandata dal capitano Moseley, riuscì a respingerli: fu in questa occasione che Moseley finì un prigioniero, facendolo sbranare dai cani. A Hatfield per la prima volta un villaggio era sfuggito senza danni ad un attacco indiano, e questo era quanto di più simile ad una vittoria gli Inglesi avevano ottenuto nel conflitto, ma il quadro generale rimaneva devastato: gran parte della valle del Connecticut in mano agli indiani, granai, fattorie e abitazioni distrutte a centinaia, la popolazione in balia degli indiani che erano


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ovunque e potevano essere ovunque. Il 23 di ottobre il mulino di del maggiore Pynchon, nei pressi di Suffield, veniva bruciato, e prima della fine dell’anno il villaggio veniva evacuato, due giorni dopo a Northampton gli indiani colpivano ancora uccidendo tre coloni e bruciando alcune case, poi il 26 un convoglio che da Springfield, il cui mulino era stato bruciato dagli indiani, portava grano verso Westfield fu attaccato e ci furono altre tre vittime. La guerra, iniziata nelle zone più Attacchi ai villaggi e combattimenti durante l’estate e l’autunno 1675 densamente colonizzata, si era ora spostata nelle zone di frontiera e nella valle del Connecticut, da cui i coloni iniziavano a fuggire; poi all’inizio di settembre un nuovo focolaio aveva raggiunto gli insediamenti del Maine, al confine settentrionale delle colonie inglesi, dove le difficili relazioni con gli Abnaki sarebbero giunte alla rottura.

L’incendio si estende a nord A nord della colonia del Massacchusset, lungo le coste meridionali del Maine, la presenza inglese risaliva almeno all’inizio del ‘600, con il fallito tentativo della colonia di Sagahadoc; poi a partire dagli anni ’20 diversi insediamenti erano nati, per iniziativa di sir Ferdinad Gorges, che aveva ottenuto dal re concessioni su quell’area, quindi dalla metà degli anni ’40, la regione era di fatto divenuta un appendice della colonia del Massacchusset e sottoposta di fatto al governo di Boston. I coloni che vi si erano insediati avevano stabilito fattorie e piccole piantagioni, segherie e mulini e parte dei loro interessi economici era legato al commercio con gli indiani locali, gli Abnaki, con cui però i rapporti non erano mai stati semplici. La ragione di tali difficoltà era legata alla presenza dei rivali Francesi nelle zone più a nord della costa del Maine, dalla foce del fiume Penobscot fino alla Nova Scotia, in Acadia la prima colonia francese in America. Gli Abnaki si trovavano loro malgrado al centro della competizione commerciale e delle rivalità politiche tra Francesi e Inglesi e per decenni si erano barcamenati trattando con i due rivali sulla base dell’opportunità, con i gruppi che risiedevano a nord che si recavano a commerciare alla stazione francese di Ft.Pentagoet, mentre le bande meridionali commerciavano con gli Inglesi a Ft.Pemaquid e negli altri insediamenti lungo la costa. Le relazione tra Abnaki e Inglesi erano però fortemente condizionate dal sospetto reciproco, dato che gli Inglesi , a differenza dei Francesi non si limitavano al commercio, ma si insediavano numerosi sulle migliori terre indiane, suscitando la preoccupazione degli Abnaki; dal canto loro gli Inglesi diffidavano degli Abnaki per i loro rapporti con i Francesi; altro motivo di tensione erano i rapporti che gli Inglesi avevano con la Lega Iroquois, nemica degli Abnaki, che ben armata di fucili aveva spesso attaccato la tribù durante la I Guerra del Castoro. I rapporti commerciali con gli Inglesi erano però necessari data la precarietà della presenza francese nella regione, dovuta tanto ai conflitti interni (tra il 1640 e il 1645 una guerra civile aveva diviso i coloni dell’Acadia francese), quanto all’ostilità inglese (Ft.Pentagoet era stato occupato dagli Inglesi tra il 1629 e il 1635, poi ancora tra il 1654 e il 1670). Nel 1670 a Ft.Pentagoet era giunto Jean Vincent d’Abbadie de St.Castin, un militare francese che aveva partecipato alle spedizioni contro i Mohawk che avevano concluso la I Guerra del Castoro: il suo incarico era di ristabilire il controllo francese nella regione, attraverso l’alleanza con le tribù locali, e St.Castin lo realizzò con pieno successo. Sposatosi con la figlia del capo dei Penobscot Madokawando, St.Castin divenne un personaggio di massimo rilievo nella tribù, legandola agli interessi francesi e facendone il perno di un’alleanza di tribù Algonquian, che in breve giunse a raccogliere oltre ai Penobscot, i tradizionali alleati della Francia che vivevano più a nord, i Passamaquody, i Malecite, i Micmac, attirando anche gli Abnaki e i Sokoki che vivevano a sud. Questa alleanza, che sarà nota come Confederazione Wabanaki, si costituiva in quegli anni e sarebbe divenuta una spina nel fianco inglese, durante tutti i conflitti coloniali successivi.


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Questo era il difficile quadro in cui si collocavano i rapporti tra Inglesi e Abnaki alla vigilia dell’esplodere della guerra di re Filippo, ma ad essi si aggiungevano ulteriori motivi di tensione, legati alle restrizioni al commercio, dato che gli Inglesi non si fidavano a vendere armi, e alla riduzione dei prezzi delle pelli di alce. C’era poi la questione della terra: gli Abnaki, a differenza degli indiani del New England, dipendevano meno dall’agricoltura ed erano meno sedentari; il loro modello di sussistenza era molto flessibile e prevedeva un uso estensivo del territorio, con spostamenti stagionali sulla zona costiera, e inverni nelle zone interne. Quando essi tornavano nei luoghi in cui erano usi fermarsi e vi trovavano fattorie o mulini le tensioni erano inevitabili: stazioni di pesca occupate, bestiame dei coloni che sconfinava nei campi indiani e che gli indiani uccidevano, l’alcool che spesso i coloni vendevano agli indiani. Così quando nell’estate del 1675 cominciarono a giungere le notizie delle vittorie di Metacomet contro gli Inglesi, la latente frustrazione degli Abnaki, fomenJean-Vincente d’Abbadie, barone di St.Castin tata e sostenuto dai Francesi, era pronta ad esplodere. Come se non bastasse, quella stessa estate un fatto grave scatenò la rabbia degli indiani: nella regione del fiume Saco, dove gli Abnaki del capo Squando non si erano mai mostrati ostili, un gruppo di marinai decise di risolvere una disputa sulla naturale capacità dei bambini indiani di nuotare, gettando nel fiume il piccolo figlio del capo Squando. Non passarono molti giorni prima che i coloni inglesi dovessero pagare il prezzo per l’atroce misfatto. Le ostilità iniziarono in modo incruento con l’attacco il 5 settembre alla fattoria di Thomas Purchase, nella zona dell’attuale Brunswick, dove gli indiani si limitarono ad uccidere e razziare il bestiame, poi una settimana dopo i guerrieri di Squando massacravano l’intera famiglia Wakeley, che viveva in una fattoria isolata nei pressi di Falmouth; tre giorni dopo, nella zona della baia di Casco, alcuni coloni che stavano raccogliendo il mais, spararono senza provocazione a tre indiani Penobscot, uccidendone uno e ferendone un altro: il superstite ritornò poco dopo con i rinforzi che scacciarono gli Inglesi e si impossessarono del raccolto caricato su due imbarcazioni. Nei giorni successivi, sul fiume Oyster, nei pressi dell’attuale Durham la fattoria Chelsey fu data alle fiamme, due uomini furono uccisi mentre tentavano di fuggire attraversando il fiume, altri due furono presi prigionieri, poi altri attacchi avvennero nelle località di Salmon Falls e ancora sul fiume Oyster, dove alcune case furono bruciate. Il 18 di settembre il maggiore Bonython la cui fattoria era sulla sponda nord del fiume Saco, fu avvisato da un indiano amico dell’imminente attacco dei guerrieri di Squando, e si ritirò sull’altra sponda del fiume, nella casa fortificata del maggiore Philips, nei pressi di Biddleford; qui si radunarono una cinquantina di coloni, ma dopo aver bruciato tutte le vicine fattorie, gli Abnaki strinsero d’assedio la casa di Philips, i cui difensori però riuscirono a respingerli, dopo che gli indiani ebbero sei morti e una quindicina di feriti. Due giorni dopo fu la volta di Durham dove due coloni furono uccisi, altri presi prigionieri e le abitazioni bruciate, quindi a ovest di Scarborough, dove la casa fortificata dei fratelli Alger fu distrutta e loro uccisi, poi lungo il fiume Saco altri cinque coloni venivano ammazzati. Verso la fine di settembre il capitano Wincoll e sedici uomini furono attaccati nei pressi di Winter Harbor, una zona che i coloni avevano già evacuato; gli Inglesi opposero una dura resistenza infliggendo gravi perdite agli Abnaki, che alla fine furono costretti a ritirarsi, ma undici coloni di Saco che tentavano di soccorrere Wincoll e i suoi uomini, furono massacrati. Gli attacchi indiani proseguirono durante il mese di ottobre, quando nella zona di Berwick il primo del mese fu attaccata la fattoria di Richard Tozer, dove s’erano rifugiati una quindicina di coloni, poi il 16 di ottobre gli Abnaki ritornarono e uccisero lo stesso Richard Tozer e suo figlio, quindi due giorni dopo, in una fattoria vicina, era la volta di Roger Plaisted, di due suoi figli e di alcuni collaboratori, tutti uccisi . Nella stessa zona, a Newichawannock, il 23 ottobre veniva bruciato il mulino di Great Work; gli Abnaki si ritirarono quindi bruciando ogni casa che incontravano, e uccidendo lungo il cammino altri due Inglesi. Prima della fine del mese sette abitazioni furono bruciate e alcuni coloni uccisi a Blackpoint (Scarborough), poi toccò a Wells dove tre coloni furono uccisi e una casa distrutta; tutti gli attacchi si concludevano con vittime e prigionieri tra i coloni, case bruciate e razzie di merci e bestiame, ma tra i principali obbiettivi vi erano segherie e mulini ad acqua che erano particolarmente invisi agli indiani.


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Le segherie producevano il legname con cui venivano costruiti i battelli per la pesca che a centinaia operavano lungo le coste del Maine; così gli Abnaki vedevano le loro foreste ridursi per lo sfruttamento intensivo di legname e contestualmente crescere la concorrenza inglese nella pesca, che era una loro importante attività di sussistenza. I mulini posti nelle vicinanze delle rapide per sfruttare l’energia dell’acqua, occupavano proprio i luoghi migliori per la pesca, dove era possibile catturare salmoni e altri pesci che risalivano i fiumi per la riproduzione. Segherie e mulini, poi attiravano i coloni nella regione, e divenivano i punti di riferimento per le sparse fattorie. L’offensiva degli Abnaki era un susseguirsi di azioni di piccole bande di guerrieri, che agivano indisturbati colpendo le fattorie isolate, spesso senza quasi trovare resistenza; alla fine del mese di ottobre tutti gli insediamenti più settentrionali erano stati abbandonati, i morti si contavano a decine, nessuna resistenza organizzata era stata concepita e soprattutto nessun sostegno era venuto dal New England, dove i governi di Boston e di Plymouth, erano sotto scacco dei guerrieri di Metacomet e Muttawamp. Gli Abnaki comunque non approfittarono del vantaggio, e come era loro costume si ritirarono nell’interno per svernare e festeggiare, carichi di bottino e con molti prigionieri; la guerra rimaneva per gli indiani una attività stagionale, Attacchi degli Abnaki lungo la frontiera del Maine la cui condotta non seguiva una precisa strategia, e dopo l’esplosione della furia, gli indiani momentaneamente placati, tornavano alle loro attività. Gli Inglesi dal canto loro utilizzarono la pausa invernale per tentare una soluzione diplomatica a nord, mentre un altro focolaio di guerra veniva proprio da loro innescato a sud: ora toccava ai Narraganset.

La guerra coinvolge i Narraganset Con l’inizio dell’inverno anche gli Wampanoag e le altre tribù ostili del Massacchusset ridussero gli attacchi, mentre le milizie coloniali, dopo aver subito tanti scacchi e senza essere state in grado di difendere i coloni, erano in difficoltà per l’assenza di una comando unificato e per la indisciplina degli stessi miliziani. I miliziani non erano soldati ma semplici coloni, principalmente desiderosi di difendere le proprie case e le proprie famiglie, stanchi di lunghi inseguimenti tra le foreste, in cerca di indiani che sfuggivano sempre al confronto diretto e attaccavano quando volevano e dove volevano. Ma se gli indiani nei loro villaggi potevano festeggiare i loro successi e prepararsi per una nuova offensiva a primavera, l’odio e la paura dei coloni non potevano essere placati e cercavano il nemico anche laddove non c’era, o forse avrebbe potuto non esserci: i “praying indians” e i Narraganset. Molti “praying indians” appartenevano alla tribù dei Pennacook, il cui capo Passaconaway, come aveva fatto Massassoit dei Wampanoag, aveva accolto pacificamente i Puritani: nei decenni successivi i Pennacook avevano seguito l’insegnamento del missionario John Elliot, avevano continuato a vendere terra, fino al punto di chiedere ai coloni di concedere loro un luogo in cui vivere, mentre la tribù subiva gli attacchi dei Mohawk e dei loro fucili forniti da mercanti olandesi e inglesi. Malgrado i frequenti incidenti, Passaconaway era convinto dell’impossibilità di opporsi agli Inglesi, aveva preso atto che nessun “Grande Spirito” era in grado di cacciarli; aveva quindi accettato il messaggio di pace cristiano, come l’unica speranza per la sua gente. In vecchiaia rinunciò al suo ruolo di capo tribale in favore del figlio Wannacelet, e passò gli ultimi anni di vita girando di villaggio in villaggio per predicare la pace e per combattere la diffusione dell’alcool. Quando poi la guerra iniziò e i pacifici Pennacook furono attaccati a freddo dai miliziani del capitano Moseley, la tribù non reagì in modo coeso: Wannacelet e parte della tribù si spostò a nord, cercando rifugio tra i Sokoki, per tenersi fuori dai guai, i Nashua e altri gruppi meridionali si unirono agli ostili, mentre una parte rimase nel villaggio di Wamesit, sul fiume Merrimac,


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nelle vicinanze del villaggio di Chelmsford. I Pennaccok di Wamesit si trovarono così sottoposti alle misure imposte dai coloni che sospettavano di ogni indiano, con restrizioni al commercio, lo scioglimento di una compagnia di scout ausiliari e l’obbligo di non spostarsi dal loro villaggio; al tempo stesso gli indiani cristiani dovevano temere gli indiani ostili, che tra la fine di ottobre e i primi di novembre, assassinarono alcuni di loro perché considerati spie e traditori. Nella zona di Chelmsford non c’erano stati attacchi diretti, ma piccole bande di guerrieri ostili, colpivano quando potevano. Il 15 di ottobre il granaio di un colono di nome Richardson fu bruciato, e benchè lo stesso Richrdson non accusasse gli indiani di Wamesit, tutti i 145 abitanti maschi del villaggio furono portati a Boston per essere processati; alla fine dopo un primo verdetto di condanna per 33 di loro, solo tre ebbero conferma delle accuse e vennero venduti come schiavi. Riconosciuti innocenti i Pennacook stavano per essere accompagnati di nuovo a Wamesit, ma sulla via del ritorno gli abitanti del villaggio di Woburn li aggredirono a sassate e uno di loro fu ucciso da un colpo di fucile: gli Inglesi intentarono subito un processo all’assassino, ma ovviamente la giuria lo mandò assolto. Intanto dalla fine di ottobre gli Inglesi avevano iniziato a deportare gli abitanti di Natick e di altri villaggi di “praying indians” a Deer Island, e pressioni vennero fatte anche sui Pennacook di Wamesit. Poi il 15 novembre, ancora una volta il granaio di Richardson fu incendiato e questa volta gli abitanti di Chelmsford decisero di farsi giustizia da se: una banda di coloni si presentò a Wamesit di sorpresa e uccise un giovane e ferì altri cinque indiani, prima di essere ricacciati; dopo questa vicenda anche i Pennaccok di Wamesit fuggirono a nord per raggiungere Wannacelet. Se il panico della popolazione civile si sfogava sugli indiani pacifici che vivevano nelle vicinanze, i timori dei governi di Boston, Plymouth e del Connecticut erano tutti per i Narraganset, ancora neutrali, ma di cui si sospettava fortemente, specialmente dopo che tra di loro era giunta Wetamoo, la vedova di Wamsutta e cognata di Metacomet, che era sempre stata ostile agli Inglesi. Durante il mese di settembre un nuovo trattato di pace era stato fatto dal governo di Boston con i Narraganset del capo Canochet, ma le ragioni di tensione e sospetti erano tante, e rimanevano. Grazie ai loro rapporti pacifici con gli indiani, i coloni dissidenti del Rhode Island, guidati da Roger Williams, erano rimasti indenni dalla guerra, mentre ovunque i coloni venivano uccisi e i loro villaggi distrutti: la neutralità del Rhode Island era quindi guardata con sospetto, anche perchè i Narraganset offrivano rifugio ai Wampanoag ostili di Wetamoo; Wetamoo dal canto suo non si era limitata a cercare rifugio tra i Narraganset, ma operava apertamente per convincerli a entrare in guerra. Questa donna, che le testimonianze dell’epoca ricordano per la grande attenzione che dedicava alla sua immagine e alla sua bellezza, era sempre stata ostile agli Inglesi, probabilmente ereditando tale propensione da suo padre Corbitant, il capo rivale di Massassoit, che aveva tentato di opporsi ai Padri Pellegrini più di mezzo secolo prima. Era andata poi sposa in seconde nozze con Wamsutta, morto probabilmente per volontà degli Inglesi, s’era poi sposata con un terzo marito, di cui non si sa nulla, quindi con un quarto, che abbandonò allo scoppio della guerra, perché contrario a combattere gli Inglesi, e infine s’era sposata per la quinta volta, con Quinnapim nipote del capo dei Narraganset Canochet, dopo essersi trasferita presso di lui. Il matrimonio tra un parente di Canochet e Wetamoo ovviamente induceva gli Inglesi a sospettare che i Narraganset fossero pronti a entrare in guerra, e il mese di ottobre passò tra i tentativi inglesi di farsi consegnare Wetamoo e i profu- L’attacco al villaggio Narraganset di Great Swamp


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ghi Wampanoag. Alla fine di fronte ai rifiuti, ai primi di novembre, i governi del New England decisero di raccogliere una milizia di un migliaio di uomini, per colpire preventivamente i Narraganset. Le notizie dei preparativi di guerra giunsero però ai Narraganset, fra i quali la fazione ostile prese l’iniziativa: il 12 dicembre una spedizione di guerra attaccò Bull Garrison, una fattoria fortificata presso South Kingston, Rhode Island, massacrando tutti i 15 abitanti, compresi donne e bambini. Una settimana dopo, viaggiando tra la neve, l’armata coloniale guidata da governatore di Plymouth Josiah Winslow, si presentò al principale villaggio Narraganset a Great Swamp, nei pressi del villaggio di Kingston. Il villaggio era grande, abitato da migliaia di indiani, circondato da un’alta palizzata, e gli indiani erano pronti alla difesa, così dopo un primo tentativo di introdursi all’interno, gli Inglesi furono ricacciati, ma dopo tre ore di durissimi combattimenti alla fine le milizie ebbero il sopravvento, distrussero e incendiarono centinaia di wigwams, mentre gli indiani cercavano rifugio nelle paludi circostanti. Il bilancio finale fu di oltre 200 perdite tra gli Inglesi e di un migliaio tra i Narraganset, tra cui ovviamente anche un gran numero di donne, bambini e anziani non combattenti. Nel villaggio dei Narraganset era presente anche un Inglese, Joshua Tefft, che sposato ad un indiana, prese parte al combattimento; fuggito e poi catturato prima della fine di dicembre, Tefft fu accusato di aver ucciso un ufficiale della milizia, e condannato all’impiccagione per alto tradimento. Tefft è stato l’unico cittadino del New England a subire tale accusa, fino ai giorni nostri. Nelle settimane successive alla battaglia di Narraganset, tanto gli Inglesi, quanto la fazione pacifica dei Narraganset, tentarono di stabilire contatti per aprire trattative diplomatiche, con l’intermediazione del capo dei Niantic, Nigrinet, ma la richiesta di consegna dei profughi Wampanoag era irricevibile e ogni tentativo fu vano. L’azione che avrebbe dovuto eliminare il pericolo dei Narraganset, in realtà aveva definitivamente portato la tribù dalla parte degli ostili; le migliaia di Narraganset in fuga dal villaggio, senza viveri, esposti al rigido inverno del New England, nascosti tra le paludi, ora avevano come unica speranza, quella di unirsi a Metacomet e agli altri ribelli. Come era già accaduto nel Massacchusset anche nel Rhode Island i coloni iniziavano ad abbandonare i villaggi isolati, mentre le bande di indiani bruciavano case e rubavano bestiame. Dopo più di un mese dalla battagli di Great Swamp, i Narraganset diedero notizia di loro con l’attacco al villaggio di Pawtuxet, poco a sud di Provendence il 27 gennaio del 1676; i Narraganset stavano fuggendo verso nord, colpendo i coloni quando potevano, e il governatore Winslow si rese conto che la vittoria di Great Swamp sarebbe stata inutile, se non fosse riuscito a catturare i Narraganset in fuga, e impedire il loro ricongiungimento a nord con i Wampanoag, i Nipmuc, e i Pocuntuk. Alla fine di gennaio una forza di 1400 miliziani, con guide Mohegan, si pose all’inseguimento dei Narraganset , che però erano introvabili e dispersi; il 29 di gennaio due coloni furono uccisi a Norwich, nel Connecticut e l’unica risposta possibile fu l’esecuzione di due prigionieri per rappresaglia. Dopo quasi un mese di inseguimento, durante il quale si ebbero solo piccole scaramucce con le retroguardie indiane, gli uomini erano ridotti alla fame, costretti ad uccidere i propri cavalli per sfamarsi e molti di loro preferirono disertare; questa spedizione, che verrà ricordata come “marcia della fame”, si concluse poco prima della fine di febbraio in un fallimento. Giunta nella città di Marlborough, la milizia fu sciolta, salvo una piccola guarnigione che rimase sul posto, lasciando di fatto indifesa gran parte della regione, proprio alla vigilia della primavera, quando la ripresa delle ostilità era certamente prevedibile. A indurre Winslow al difficile inseguimento nei confronti Il New England nell’inverno 1675-1676


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dei Narraganset, c’era anche la speranza che trovando loro, avrebbe potuto trovare anche Metacomet, da cui certamente Wetamoo e Canochet si stavano recando. In realtà già in dicembre Metacome era molto più a nord, nel villaggio di Shagticoke, sull’alto corso del fiume Hudson, al margine del territorio dei Mohawk. Il viaggio di Metacomet a Shagticoke viene interpretato con la volontà del capo di ottenere l’alleanza dei potenti Mohawk contro gli Inglesi; tale ipotesi però risulta poco convincente: i Mohawk erano antichi nemici delle tribù del New England, alleati e parteners commerciali degli Inglesi, e avevano già collaborato con loro nel sedare rivolte indiane, al tempo della Guerra dei Pequot e nei conflitti con i Lenape nella valle dell’Hudson; pensare che Metacomet potesse sperare nel loro aiuto è poco credibile. Più probabile è un’altra ipotesi: Shagticoke era un villaggio dei Mahican, una tribù di lingua Algonquian come i Wampanoag, che era stata obbligata dopo diverse sconfitte, ad una alleanza subalterna con i Mohawk; la stessa Shagticoke, e l’alta valle del fiume Hausatonic, stavano divenendo rifugio per indiani Mattabisec e Wappinger, che dalla valle dell’Hudson e dal Connecticut, si ritiravano davanti all’avanzare dei bianchi, accettando la sottomissione ai Mohawk, come avevano fatto i Mahican. E’ quindi probabile che Metacomet cercasse l’alleanza dei Mahican e di altri Algonquian, e fomentasse la loro ribellione ai Mohawk, che rappresentavano una minaccia e controllavano le regioni dell’interno, impedendo agli indiani ostili di trovarvi rifugio. Da Shagticoke comununque Metacomet poteva certamente cercare di rifornirsi dai mercanti olandesi della valle dell’Hudson, che non si facevano molti scrupoli a fare affari anche con gli indiani ostili, ne è possibile escludere che egli tentasse anche un contatto con i Francesi del Canada. Questa sono ipotesi, ciò che è certo è che i capi Mohawk appena seppero della presenza di Metacomet nella regione, informarono il governatore di New York Edmund Andros, e gli offrirono la propria alleanza; Andros ovviamente accettò, e intervenì sui commercianti olandesi, mentre in gennaio i Mohawk attaccarono Metacomet e i suoi seguaci, lo costrinsero ad abbandonare la regione e lo inseguirono fin nel Massacchusset. La speranza di Metacomet era stata delusa, e ora gli indiani ostili si trovavano a doversi confrontare con i nemici inglesi a est e a sud, sapendo che a ovest, nell’interno, c’era un nemico altrettanto pericoloso.

L’offensiva di primavera La fine dell’inverno per gli indiani era sempre il momento più critico dell’anno, quando le scorte di mais dell’anno precedente erano ormai esaurite, e la caccia era ancora difficile per la difficoltà a spostarsi nella neve; quell’anno il bottino delle razzie dell’autunno aveva compensato la perdita dei raccolti dovuti alla guerra, ma alla fine di gennaio nei villaggi dell’interno dove gli indiani avevano svernato, la fame iniziava a farsi sentire. Ripresero così le incursioni contro i coloni, la risorsa principale per rifornirsi di cibo prima del prossimo raccolto. Il primo di febbraio poco a sud di Sudbury, la fattoria della famiglia Eames fu attaccata e bruciata, il capo famiglia ucciso e i suoi familiari presi prigionieri; l’attacco riapriva le ostilità dopo la pausa invernale, mentre gli Inglesi avevano appena smobilitato la milizia di 1.400 uomini che avevano inutilmente inseguito i Narraganset, e solo una guarnigione era rimasta a presidiare il villaggio di Marlborough, nella zona dove più si temevano gli attacchi. Una nuova milizia di 600 uomini fu organizzata durante il mese di febbraio, chiedendo il contributo a tutte le colonie, con l’obbiettivo di colpire gli ostili nei loro principali villaggi, Wachusset e Quabaug, ma prima che la spedizione fosse pronta, gli indiani assestarono il loro colpo. Dopo la prima avvisaglia della ripresa degli attacchi, indiani cristiano allertarono gli abitanti di Lancaster, poco a nord di Sudbury, di un imminente attacco; Lancaster era già stata colpita durante l’estate, e i coloni presero sul serio la minaccia, inviando subito alcuni di loro a chiedere aiuto a Boston, ma prima che la colonna degli aiuti fosse pronta, il 10 febbraio, circa 400 guerrieri Nipmuc, Pokuntuk, Wampanoag e Pennacook, guidati dal capo dei Nashua Monoco (conosciuto dagli Inglesi cone “Un Occhio”), avevano dato Il diario di Mary Rowlandson, importante l’assalto al villaggio. Il primo atto degli indiani fu distruggere il fonte di informazioni sulla Guerra di Re ponte lungo la via da cui avrebbero potuto giungere rinforzi, poi le case furono bruciate e iniziò l’assedio della casa fortificata in cui Filippo


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i coloni s’erano rifugiati; alla fine i morti furono una quindicina, oltre una ventina i prigionieri, che erano riusciti a sopravvivere all’incendio del loro rifugio. Tra i prigionieri vi era anche Mary Rowlandson la figlia del locale pastore che era partito in cerca d’aiuto, che tenne un diario della sua prigionia, prima di essere liberata. I rinforzi a Lancaster giunsero troppo tardi e non poterono porsi all’inseguimento degli indiani; Lancaster fu abbandonata fino alla fine della guerra. Due giorni dopo nei pressi di Concord, Jacob Shepperd e suo figlio Isaac, furono uccisi da una banda di indiani Nashua mentre raccoglievano il fieno, e la figlia tredicenne rapita; la piccola Mary riuscì comunque a fuggire durante la notte, rubando un cavallo e una sella agli indiani. Il raid degli indiani nella zona continuò, da Lancaster i guerrieri si spostarono a Medfield , attaccata il 21 febbraio dai Nipmuc; dopo aver bruciato decine di abitazioni, sparato sui coloni e fatto 18 vittime, i Nipmuc bruciarono il ponte che collegava la città, e si spostarono su una vicina collina, dove festeggiarono mangiando un bue arrostito e danzando per ore, mentre i cittadini di Medfeld potevano vederli, senza poter tentare nulla contro di loro a causa del fiume che li divideva. Il giorno successivo la fattoria Boggestowe veniva distrutta a Millis, poco distante da Medfield, quindi gli indiani si spinsero a sud nei pressi di Wrentham, dove ci fu uno scontro con i coloni e il 25 di febbraio la guerra arrivava fin sulla costa, con l’attacco al villaggio di Weymouth, parzialmente bruciata.. Intanto la nuova spedizione che avrebbe dovuto colpire i villaggi indiani, moveva da Northfield al comando del capitano Savage, per raggiungere Quabaug ai primi di marzo, riuscendo solo a distruggere i wigwam abbandonati, mentre anziani, donne e bambini (con cui era Mary Rowlandson), sfuggivano alla cattura e un gruppo di guerrieri si tirava dietro gli Inglesi su una falsa pista. Dopo l’insuccesso su Quabaug, Savage rinunciò ad attacare Wachusset, e si diresse su Hadley, per tentare di proteggere quanto restava degli insediamenti della valle del Connecticut. Liberi da ogni minaccia i Nipmuc e i Nashua di Wachusset guidati da Monoco avevano iniziato a molestare il villaggio di Groton, rubando bovini e bruciando delle case il 2 di marzo, poi il 9 uccidendo un colono e rapendone un altro, poi ancora il 13 di marzo attirando la piccola milizia locale guidata dal capitano Parker fuori dal villaggio in un agguato, e quindi attaccando lo stesso villaggio e bruciandolo; i profughi in fuga furono ancora attaccati il giorno dopo e ci furono altre due vittime. Negli stessi giorni in cui gli Inglesi fallivano la loro impresa su Quabaug, Metacomet e Canochet si incontravano nei pressi di Norhfield, e qui il 9 di marzo si tenne un importante consiglio di guerra a cui oltre a Metacomet e Canochet, parteciparono Wetamoo, Annawam capo di guerra di Pocasset, il capo dei Pokuntuk Sancumachu e diversi capi dei Nipmuc. Durante il mese di febbraio migliaia di Narraganset si erano spostati nelle regioni dell’interno, e dopo una iniziale diffidenza, dovuta al loro precedente atteggiamento di neutralità, erano stati accolti dagli ostili. Ma il loro arrivo metteva a rischio le già limitate scorte alimentari e i capi si trovarono a discutere un piano per affrontare la situazione: l’obbiettivo era quello di tenere al riparo da attacchi Inglesi la valle del Connecticut, dove era necessario seminare il mais, e a questo scopo fu deciso di continuare a colpire gli Inglesi a est per obbligarli sulla difensiva, mentre Canochet, con 50 guerrieri, sarebbe dovuto tornare nel Rhode Island per recuperare scorte e sementi che erano stati abbandonati dopo l’attacco al villaggio dei Narraganset. Il piano degli indiani ebbe la sua immediata attuazione nei giorni e nelle settimane successive, e già il 12 di marzo una banda di indiani guidata dal capo Totoson, si spinse fino ai sobborghi di Plymouth, dove attaccò la fattoria fortificata Clark, facendo una dozzina di vittime tra cui donne e bambini e prendendo un ricco bottino di armi e munizioni. Per i coloni fu uno shock, dato che Plymouth non era mai stata minacciata fino ad allora; gli indiani avevano dimostrato di poter colpire in profondità e il panico nelle colonie continuò a crescere. Il 14 di marzo gli indiani tornarono a colpire nella bassa valle del Connecticut, dove erano concentrate gran parte delle forze inglesi, al comando del maggiore Savage a Hadley, con i miliziani del Connecticut del capitano Treat tra Norhampton e Westfield, la compagnia di 70 uomini del capitano Turner che si stava dirigendo a Northampton e quella di Moseley a Hatfield. Gli indiani portarono l’attacco a Northampton, ma dopo aver ucciso 4 donne e due uomini e bruciato cinque fienili, inseguirono i coloni fin dentro la palizzata, dove si scontrarono con gli uomini di Turner e con i cannoni che difendevano il villaggio; gli indiani ebbero perdite e si ritirarono, prima che la milizia di Treat giungesse in soccorso e riuscisse a intrappolarli. Il 17 di marzo i Narraganset di Canochet che tornavano nel Rhode Island, bruciarono il villaggio di Warwick, da cui la popolazione era già fuggita, poi il 26 di marzo altri attacchi si ebbero a Simsbury, Marlborough e Longmeadow. A Simsbury, nel Connecticut il villaggio fu dato alle fiamme e due coloni uccisi, e l’azione fu condotta probabilmente dai Podunk, un gruppo dei Mattabisec che era sempre stato in pace; a Longmeadows, una piccolo gruppo di coloni, scortati da alcuni militari e con donne e bambini al seguito, furono attaccati mentre si


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recavano a Springfield per un battesimo; gli indiani erano solo una decina, ma coloni e fuggirono nel panico lasciando diverse vittime sul terreno, poi fu la volta di Marlborough che fu attaccata dai Nipmuc quando i coloni erano riuniti in chiesa; l’attacco costò il solito prezzo in case e granai bruciati e una vittima, ma questa volta la milizia del capitano Jacob, giunta dalla vicina Sudbury, fu in grado di inseguire gli indiani e sorprendere il loro accampamento quella stessa notte, uccidendone alcune decine. Ma gli Inglesi avevano poco da essere soddisfatti perché in quello stesso giorno essi subivano un’altra grave sconfitta: quel La lapide posta a ricordo del massacro degli uomini di Samuel Pierce giorno la compagnia di 60 uomini del capitano Samuel Pierce, con una ventina di Wampanoag cristiani, partiti da Plymouth per mettersi sulle tracce dei Narraganset di Canochet che avevano appena incendiato Warwick, cadde in una imboscata nella località di Central Falls, nei pressi di Cumberland, Rhode Island; quasi tutti i miliziani e gli indiani cristiani furono uccisi, alcuni presi prigionieri e di questi nove furono torturati a morte poco dopo la battaglia che si protrasse per ore, e in cui i Narraganset ebbero scarse perdite. Dopo questa grande vittoria i Narraganset continuarono a devastare la regione, dando alle fiamme prima il villaggio di Rehobot il 28 marzo, poi distruggendo Providence, la capitale del Rhode Island da cui gli abitanti erano fuggiti. Di fronte all’offensiva degli indiani i governi coloniali reagirono diversamente: il Connecticut richiamò la milizia del capitano Treat dalla valle del Connecticut, perchè dopo l’attacco a Simsbury, nemmeno la capitale Hartford era al sicuro, e contestualmente tentò di aprire trattative con i capi Narraganset, che però non si fidavano di loro; da Boston invece fu inviato l’ordine al maggiore Savage di lasciare solo 150 uomini a difesa della valle del Conncticut, evacuando tutti i villaggi, tranne Hadley e Springfield, per portare il grosso delle truppe alla difesa dei villaggi più a est. Savage rimandò l’esecuzione dell’ordine, anche perché i coloni si rifiutavano di lasciare le loro case e chiedevano protezione; proprio nelle vicinanze di Hadley, dove Savage aveva la sua base, il 1 aprile tre coloni erano stati assassinati e uno rapito. Il 7 di aprile comunque di fronte alle pressioni dei suoi superiori Savage dovette abbandonare Hadley, lasciando solo i 150 uomini di Turner a difesa della valle; a Savage fu data licenza di attaccare il villaggio di Wachusset, lungo la via del ritorno a est, ma alla fine egli ritenne di non avere viveri e forze sufficienti. Il piano degli indiani sembrava funzionare, di fronte agli attacchi che colpivano in profondità la colonia, le milizie lasciavano la valle del Connecticut, dove ormai i coloni non osavano nemmeno più uscire dalle proprie case per recarsi al lavoro nei campi. Gran parte della valle del Connecticut era stata liberata dagli Inglesi, e gli indiani ne avevano fatto la loro retrovia, mentre il villaggio di Wachusset più a est era la base per gli attacchi contro i villaggi della baia di Massacchusset, il cuore della colonia del New England, ma a fronte di questi risultati positivi, ai primi di aprile gli indiani subirono un grave colpo nel Rhode Island. Qui alla fine di marzo una truppa di 80 uomini del Connecticut, con ausiliari indiani Mohegan e Niantic, si erano radunati nel borgo di Norwich, per dare la caccia ai Narraganset di Canochet che avevano bruciato Providence; il 3 di aprile gli ausiliari Mohegan riuscirono ad individuare l’accampamento di Canochet a Pawtucket, nei pressi di Providence, il 9 lo raggiunsero e gli indiani presi di sorpresa cercarono di fuggire, ma tra quanti furono presi prigionieri c’era Canochet catturato dopo una caduta mentre tentava di guadare un corso d’acqua, e subito riconosciuto dai Mohegan. Dopo la cattura tra gli Inglesi vi era chi sperava di poter indurre il capo a trattare la resa della sua tribù, ma il giovane capo rispose con dignità che avrebbe preferito la morte, e che neanche la sua morte avrebbe fatto cessare la guerra; il destino di Canochet fu infine deciso dai Mohegan e dai Niantic, che temevano che se il capo sopravviveva e faceva pace con gli Inglesi, per loro sarebbe stato comunque un pericoloso nemico. Canochet fu ucciso nella località di Stonnington dal figlio di Uncas, Oneko il capo dei Mohegan, poi il suo corpo fu smembrato e bruciato, tranne la testa, che fu inviata a Hartford come pegno di amicizia. La morte di Canochet, figlio di Canonicus, il capo dei Narraganset ostile ai coloni di Plymouth e Boston, giungeva proprio nel momento in cui le sorti della guerra sembravano volgere a favore degli indiani, e


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in qualche modo rappresenta per loro l’inizio della fine. Come Canochet aveva previsto la guerra non si sarebbe conclusa con la sua morte, ma il nodo di un rapporto di forze strutturalmente squilibrato stava venendo al pettine: gli indiani potevano uccidere, bruciare e seminare il terrore, ma i numeri erano loro contrari e uccidere tutti i coloni non era possibile, come ormai non era più possibile trovare con loro un accordo.

Sudbury: l’ultima vittoria La guerra dei Wampanoag e delle altre tribù del New England, non poteva concludersi con un accordo di pace ormai impossibile, ma solo con la sconfitta definitiva di una delle due parti: e sul piano dei numeri e dei rapporti di forza, i coloni inglesi erano indubbiamente i favoriti. Non solo i bianchi numericamente sovrastavano gli indiani della regione, ma potevano anche contare su una parte di essi come loro alleati; a differenza degli indiani, i coloni potevano sostituire i raccolti persi a causa della guerra, grazie ai commerci e agli aiuti dall’Europa; in aggiunta, l’alleanza Inglese con i Mohawk e le altre tribù della Lega, che controllavano i territori dell’ovest, stringeva gli indiani del New England in una morsa, togliendo loro la possibilità di rifugiarsi e riorganizzarsi nelle zone dell’interno, fuori dal raggio d’azione delle milizie coloniali. Eppure benchè i fattori oggettivi fossero tutti a favore dei bianchi, da quasi un anno la vita delle colonie era sconvolta dalle distruzioni, dai saccheggi e dai massacri compiuti dagli indiani; sul piano strettamente militare, la capacità di difendere gli insediamenti coloniali da parte delle milizie si era dimostrata assolutamente inadeguata. I governi coloniali erano in difficoltà, ed è difficile immaginare cosa sarebbe accaduto nella primavera del 1676, se in coincidenza con l’offensiva dei guerrieri di Metacomet, la minaccia di attacchi indiani, magari con il sostegno francese, si fosse presentata anche a nord, dove gli Abnaki avevano combattuto gli Inglesi, prima dell’inizio dell’inverno. Non è possibile escludere che un attacco coincidente, sia dall’interno della colonia, da parte di Metacomet e dei suoi alleati, sia dall’esterno, lungo la frontiera settentrionale, da parte degli Abnaki, dei Sokoki, dei Penobscot e altre tribù settentrionali, avrebbe potuto scatenare ulteriormente il panico, dividere ulteriormente i governi coloniali, obbligando Boston a difendersi dalla minaccia che giungeva da nord, e forse addirittura indurre parte dei coloni a lasciare la regione o addirittura il continente. Le cose comunque non andarono così e a primavera mentre il fumo degli incendi si levava dai villaggi del New England, a nord lungo la frontiera del Maine la situazione rimase abbastanza tranquilla. Durante l’inverno gli Abnaki s’erano ritirati nell’interno per svernare, carichi di bottino e prigionieri, e a primavera quando tornarono sulla costa, gli Inglesi che non erano già fuggiti, iniziarono a cercare di aprire trattative con l’obbiettivo prioritario di riscattare i propri prigionieri. Per gli Abnaki, si trattava di decidere se riprendere la guerra in sostegno alle tribù del New England, o iniziare le trattative per il rilascio dei prigionieri, ottenendo in cambio quelle merci e quei beni, che non si erano potuti ottenere con il commercio a causa della guerra: è comunque probabile che tale alternativa non si sia mai posta. I capi Abnaki non erano in rapporto con Metacomet e i suoi Wampanoag, e agirono secondo i loro usi e i loro interessi, non come parte di una coalizione, che di fatto non esisteva. Gli Abnaki avevano fatto pagare agli Inglesi i loro abusi e la loro arroganza, li avevano scacciati da molte località, dove non c’erano più mulini, segherie e granai e dove gli indiani ora potevano accamparsi per pescare e cacciare, avevano fatto un ricco bottino ed ora potevano scambiare i prigionieri, per ottenere merci inglesi: secondo la tradizionale visione della guerra degli indiani, essi potevano dirsi soddisfatti e disponibili a parlare di pace, da una posizione di forza. E’ probabile che tra le bande settentrionali e tra i Penobscot, l’influenza francese tenesse vivo un partito favorevole alla guerra, ma più a sud, nelle terre degli Abnaki aveva trovato rifugio il capo dei Pennacook Wannacelet, che sempre contrario alla guerra, lì aveva raccolto una parte della sua tribù, e durante la primavera fece da mediatore tra Inglesi e Abnaki. D’altra parte la condizione degli Abnaki era diversa da quella delle tribù del New England, e diverse le ragioni del conflitto: gli Wampanoag avevano iniziato una guerra senza speranza, perché obbligati dall’invasiva presenza dei bianchi che ormai stava togliendo loro ogni risorsa per vivere; per gli Abnaki non era in gioco la sopravvivenza, e la guerra era il frutto delle tensioni che si producevano nelle zone di contatto tra bianchi e indiani. Fu così che nel momento in cui gli indiani del New England iniziavano la loro massima pressione sulla colonia, gli Inglesi poterono difendersi senza subire minacce dalle tribù settentrionali. Se l’azione diplomatica nei confronti degli Abnaki rassicurava gli Inglesi sul confine del Maine, la cat-


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tura e l’uccisione di Canochet in Rhode Island ridavano fiducia sulle prospettive della guerra. Per gli Inglesi la cattura e l’uccisione del capo dei Narraganset, seppur non aveva avuto immediate conseguenze sulla guerra, certo era di importanza politica, perché toglieva di mezzo un importante alleato di Metacomet; tale perdita ebbe probabilmente conseguenze nelle settimane successive, quando la leadership e l’autorevolezza di Metacomet, iniziarono ad essere messe in discussione, ma probabilmente la notizia non giunse subito agli indiani raccolti al campo di Wachusset, che durante il mese di aprile assestarono uno dei colpi più duri ai coloni. Lo stesso giorno in cui Canochet veniva ucciso, Billerica a nord-ovest di Boston, veniva assalita dagli indiani che facevano una vittima e incendiavano alcune case; poi la settimana successiva probabilmente lo stesso gruppo di guerra, attaccava Chelmsford il 15 aprile, uccidendo due coloni e bruciando 15 case, quindi sulla via del ritorno il 17, distruggeva quanto ancora rimaneva in piedi di Marlborough. Il 19 aprile due gruppi di guerra colpirono Andover a nord di Boston e Weymouth e Hingham sulla costa a sud: in tutte e tre le località il bilancio fu di una vittima, e gli indiani avevano fatto bottino di bestiame e cibo. Gli attacchi agli insediamenti erano evidentemente parte di un piano che mirava a tenere sulla difensiva gli Inglesi, per impedire loro di colpire i campi indiani al tempo della semina del mais, ma certo essi erano anche indotti dalla fame, dato che alla fine dell’inverno le provviste erano ormai esaurite e solo le razzie ai danni dei coloni, potevano garantire agli indiani di sopravvivere. Gran parte dei Wampanoag e dei Narraganset profughi erano riuniti nella zona di Wachusset, nel territorio Nipmuc, e certamente la grande concentrazione di indiani non poteva reggere a lungo senza adeguate risorse di cibo. Prima però che gli indiani fossero costretti a dividersi, un altro duro colpo fu assestato ai coloni e alla loro milizia. Con l’abbandono di diversi villaggi lungo la frontiera, Sudbury era diventato uno dei punti avanzati per mantenere i collegamenti con la valle del Connecticut, oltre ad essere al all’incrocio delle strade che collegavano Boston alle zone dell’interno; all’inizio della primavera era divenuto punto di concentrazione e di passaggio per le milizie, e qui fu radunata la compagnia del capitano Wadworth, che a ranghi ridotti per le numerose defezioni tra i coloni, doveva raggiungere Marlborough, e liberare la piccola guarnigione locale assediata dagli indiani. Sottovalutando i segnali della presenza di indiani nelle vicinanze della città (case bruciate, aggressioni a coloni isolati), il 20 aprile Wadworth lasciò Subdury e si mise in marcia verso Marlborough con il suo reparto; all’alba del 21, gli indiani, oltre 500 probabilmente guidati da Metacomet, strisciarono fino alle case del villagio indifeso e le incendiarono mentre i coloni ancora dormivano. Molti coloni trovarono rifugio nella casa di Deacon Haynes, sulla sponda occidentale del fiume che divideva la città, e lì resistettero all’assedio fino a mezzogiorno, mentre un piccolo reparto di diciotto uomini al comando del capitano Cowell che era nelle vicinanze sulla via per Boston, cadde in una imboscata e perse quattro uomini, prima di riuscire a trovare rifugio tra le case di Sudbury. Alla notizia dell’attacco dalle vicine Concord e Watertown gruppi di volontari si misero in viaggio per portare soccorso, ma gli undici uomini giunti da Concord, furono massacrati davanti alla casa di Deacon Haynes, dagli indiani spuntati all’improvviso dall’erba. Alla fine gli uomini di Watertown, guidati dal capitano L’attacco a Subdury nell’aprile del 1676


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Mason, riuscirono a cacciare gli indiani oltre la sponda occidentale del fiume, fino alla vicina di collina di Green Hill, dove sentirono una sparatoria in corso. Qui gli indiani li fermarono, impedendo loro di raggiungere la collina. Mentre Mason e i suoi uomini erano costretti ad attestarsi in una casa fortificata, la sparatoria a Green Hill continuò tutto il pomeriggio; poi al cessare degli spari fu chiaro che ciò che si temeva era accaduto: giunto a Marlborough, Wadworth si era reso conto dell’attacco a Sudbury e Battaglie e attacchi ai coloni tra il febbraio e l’aprile del 1676 con una cinquantina di uomini, era ripartito per la città, ma prima di giungervi fu attirato da un gruppo esca a Green Hill, e li intrappolato. Solo una dozzina di uomini riuscirono a scampare, trovando rifugio in un vicino mulino, dove furono trovati al mattino dopo dalla colonna di soccorso del capitano Hunting e dei suoi scout Mohegan. Alla fine della giornata gli indiani si ritirarono a ovest verso Wachusset, e al mattino dopo passando davanti al piccolo presidio di Marlborough, spararono in aria, gridando “74 volte”, a indicare gli Inglesi uccisi. Nei giorni successivi due gruppi di guerra colpirono in profondità, a Braintree nelle vicinanze di Boston e a Attleborough, al confine con il Rhode Island, ma secondo la testimonianza della prigioniera Mary Rowlandoson, la vittoria di Sudbury non fu festeggiata nell’accampamento indiano. Nei suoi ricordi gli indiani avevano un’espressione seria e pensierosa, e a lei non parve a causa delle perdite subite: evidentemente c’era altro che preoccupava i capi e i guerrieri indiani e soprattutto le loro famiglie.

La crisi della coalizione indiana Non sappiamo cosa accadde a Wachusset e negli altri villaggi indiani, durante il mese di aprile mentre i gruppi di guerra seminavano il terrore lungo la frontiera del Massacchusset, ma è certo che la discordia faceva la sua comparsa all’interno della coalizione indiana: esaurite le scorte invernali e in attesa dei successivi raccolti di mais, un gran numero di indiani era raccolto sulle terre dei Nipmuc, soffrendo la fame con la sola risorsa rappresentata dalla scarsa selvaggina, dalla pesca e dalle razzie ai danni dei coloni. Tra i Nipmuc il malessere nei confronti dei profughi Wampanoag e Narraganset, alimentato anche da quanti erano stati contrari alla guerra ed erano in contatto con gli indiani cristiani, iniziò a serpeggiare, insieme all’accusa a Metacomet di essere la causa di tutti i problemi. La notizia della morte di Canochet e il fallimento della sua spedizione a sud che avrebbe dovuto recuperare le scorte e le sementi abbandonate dai Narraganset in fuga, contribuì ovviamente a peggiorare la situazione. Gli Inglesi per il momento non erano in condizione di approfittare della situazione, anche se dopo la sconfitta di Sudbury, i governi coloniali iniziarono a mettere da parte diffidenze e pregiudizi, rendendosi conto della necessità di un più continuo e massiccio impiego degli ausiliari indiani, il cui intervento si era mostrato in più occasioni determinante; i “praying indians” del villaggio di Natick, i Mohegan e gli Niantic, da questo momento costituiranno una buona parte della forza militare schierata dalle colonie. Comunque nel mese di aprile invece che operazioni militari, dalle colonie giunse una iniziativa diplomatica, con l’invio a Wachusset di un indiano cristiano a proporre trattative di pace. E’ piuttosto improbabile che i governi coloniali potessero veramente credere un accordo possibile, al punto in cui le cose erano giunte, ed è invece certo che l’iniziativa fu conseguenza delle pressioni delle famiglie dei prigionieri, sostenuti da religiosi, che speravano di poter riscattare i loro famigliari. La liberazione dei prigionieri, a fronte di un riscatto in merci, era ovviamente la premessa di ogni accordo di pace, ma oltre tale premessa non si andò. L’iniziativa diplomatica inglese, fece però esplodere le contraddizioni nel campo indiano, con i Nipmuc speranzosi di poter concludere una guerra di cui erano stanchi e in cui non vedevano prospettive, che erano disposti a cedere i prigionieri, mentre Metacomet con i Wampanoag e i Narraganset, convinti


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che non ci fosse alcuna speranza di pace, erano contrari. Infine il 2 di maggio Mary Rowlandson fu liberata e nei giorni successivi le trattative portarono alla liberazione di altri prigionieri; questo fu probabilmente l’atto che sancì la frattura all’interno della coalizione indiana e quindi la divisione delle tribù alleate. A partire da questo momento la frontiera a ovest di Boston, dove si erano concentrati gli attacchi indiani di primavera, non subì più aggressioni, mentre le azioni di guerriglia si spostarono alla periferia, nella zona di Plymouth e nella valle del Connecticut: evidentemente dopo i dissensi interni le tribù si erano divise, e ognuna aveva preso una via diversa. Nelle zone a ovest e nord-ovest di Boston fino al New Hampshire, le terre abitate dai Nipmuc e dai Pennacook, le ultime azioni ostili si registrarono il 2 di maggio, con l’uccisione di un giovane colono ad Haverhill mentre a poca distanza presso Bradford, la fattoria Kimball veniva attaccata, il capofamiglia ucciso e tutta la famiglia rapita. Dopo questi ultimi fatti di sangue nella regione le azioni ostili da parte degli indiani cessarono, mentre diversi capi Nipmuc cercavano di entrare in contatto con gli Inglesi per intavolare trattative di pace. E’ probabile che in questo periodo la tribù, divisa tra quanti temevano la vendetta inglese e quanti speravano nel loro perdono, iniziò a traferirsi verso nord, per unirsi ai Pennacook e agli Abnaki, e forse le ultime aggressioni a Haverill e Bradford furono opera di un gruppo ostile in fuga verso nord. I Nipmuc che si attardarono nella regione furono ancora vittime di attacchi della milizia nel mese successivo, prima da parte di un reparto al comando del maggiore Talcot, poi il 7 giugno quando un indiano cristiano del villaggio di Natick, scout della colonna del capitano Henchman diretta nella valle del Connecticut, trovò un accampamento di Nipmuc impegnati nella pesca a Weshacom Pond, nei pressi di Lancaster; sette indiani furono uccisi, mentre una trentina per lo più donne e bambini furono presi prigionieri, e questo fu probabilmente l’ultimo atto di guerra che coinvolse i Nipmuc. Non è chiaro con precisione quando Metacomet e i Wampanoag e i Narraganset lasciarono le terre dei Nipmuc, ne se essi si spostarono nella valle del Connecticut, prima di tornare a sud nelle loro terre tradizionali alla fine di giugno, ma è certo che i gruppi di guerra Wampanoag e Narrganset, guidati dal capo Tupasquim, dall’inizio di maggio riportarono gli attacchi nella regione di Plymouth. L’8 maggio fu la volta del villaggio di Bridgewater dove una quindicina di case furono bruciate, il 13 gli indiani giunsero a Halifax alla periferia di Plymouth, dove le case bruciate furono una ventina, e i coloni si salvarono trovando rifugio alla fattoria fortificata Clarke; i guerrieri indiani continuarono la loro scorreria fino a Scituate, a nord lungo la costa, dove però la reazione degli abitanti li costrinse a ritirarsi, prima di poter fare danni gravi. Durante il mese di maggio la presenza di indiani in questa zona è segnalata ancora il 5 maggio, quando un indiano di Natick scoprì un gruppo di ostili a sud di Medfield, impegnato in una caccia all’orso, informando subito il reparto che stava guidando in cerca degli indiani; presi di sorpresa gli indiani ebbero diverse vittime e 16 di loro furono catturati; ancora il 24 maggio il capitano Thomas Brattle, che aveva preso parte allo scontro vicino Medfield, con i suoi uomini e guerrieri Natick, individuò un altro gruppo di Wampanoag nei pressi del fiume Pawtucket in Rhode Island, riuscendo ad ucciderne alcuni e prendendone prigionieri altri. Evidentemente i Wampanoag e i Narraganset stavano tornando nelle loro terre, cercando rifugio nelle foreste, senza aver potuto seminare i campi e ridotti alla fame; nel mese successivo al raid di Tupasquim non si registrarono altre azioni offensive da parte degli indiani, probabilmente più impegnati a nascondersi e a cercare cibo, che desiderosi di guerra. Nuovi atti ostili si ebbero solo dopo la metà di giugno nella regione di Swansea, laddove la guerra era iniziata, e probabilmente coincisero con il ritorno di Metacomet: il 19 Swansea fu attaccata e cinque case ancora in piedi furono bruciate, poi il 26 il figlio di un capo della locale milizia fu ucciso dagli indiani. E’ difficile immaginare quale speranza avessero i Wampanoag e i Narraganset che tornavano nelle loro terre, ed è probabile che molti di loro fossero pronti al destino che li aspettava e abbiano deciso di attenderlo nella loro terra, piuttosto che fuggire come profughi, tra l’ostilità non solo dei bianchi ma anche degli indiani che erano stati loro alleati, e ora li consideravano la causa delle loro disgrazie. L’alta valle del Connecticut rappresentava la retrovia dello schieramento indiano, una regione da cui i bianchi erano stati evacuati e in cui gli indiani avevano potuto seminare e dove si attendeva il momento del raccolto; questa era la terra dei Pocuntuk, ma dall’inizio di maggio, quando la coalizione indiana si divise, qui si raccolsero gruppi di ostili di tutte le tribù, Wampanoag, Narraganset, Nipmuc e anche qualche gruppo di Sokoki e Abnaki provenienti da nord, ed è possibile che anche Metacomet sia giunto qui dopo aver lasciato Wachusset e prima del ritorno a sud. Contro questa concentrazione di indiani, l’unica difesa era rappresentato da poco più di un centinaio di uomini divisi nei presidi di Hadley, Springfield e Northampton, al comando del capitano Turner; Turner era malato e le sue scarse forze non erano in grado ne di difendere ne di controllare il territorio, e di ciò gli indiani approfittavano so-


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prattutto con furti di bestiame, che servivano a sfamare i loro villaggi. La principale concentrazione di indiani era costituita da tre villaggi nella località di Peskeompscut (ora Turner Fallas) un luogo abitualmente usato dagli indiani come stazione di pesca; da Peskeompscut una spedizione di guerra raggiunse il 13 maggio il villaggio di Hatfield per una razzia in cui furono rubati oltre settanta capi di bestiame, tra cavalli e buoi, mentre i coloni fuggivano dal villaggio; l’entità del furto fece esplodere il malcontento dei coloni che da tempo lamentavano la mancanza d’efficacia e l’inazione delle milizie locali, induL’attacco al villaggio di Peskeompskut in un dipinto contemporaneo cendo Turner, pur malato a mettersi in campagna con quasi 180 uomini, tra miliziani e coloni volontari, tra cui molti giovani e inesperti. Contando sulle informazioni ottenute da un prigioniero fuggito da Peskeompscut e cosciente che gli indiani avrebbero ripreso l’iniziativa non appena finito il raccolto del mais e la essiccatura del pesce, Turner la sera del 18 maggio partì da Hatfield, viaggiando di notte e approfittando del maltempo evitò che gli indiani si accorgessero dei suoi movimenti; all’alba del giorno dopo gli Inglesi raggiungevano il primo dei tre villaggi di Peskeompscut e lo attaccavano di sorpresa, facendo un numero imprecisato di vittime, almeno un centinaio, forse duecento, come al solito in maggioranza donne e bambini. Quando gli abitanti degli altri villaggi si resero conto dell’attacco, presto si scagliarono sugli Inglesi, che costretti a ritirarsi furono inseguiti a lungo, perdendo infine una quarantina di uomini lungo la via del ritorno, tra cui lo stesso capitano Turner. Malgrado la reazione e le perdite inflitte agli Inglesi, la battaglia di Peskeompscut era un campanello d’allarme per gli indiani, colpiti fin nella loro più sicura roccaforte; la risposta indiana non si fece comunque attendere e ancora una volta Hatfield venne attaccata il 30 maggio, e questa volta oltre a razziare il bestiame e bruciare le case uccisero sette miliziani tra quelli giunti in soccorso da Hadley e Northampton. Di fronte a quanto stava accadendo nella valle del Connecticut, i governi di Hartford e di Boston decisero l’invio di rinforzi al comando dei maggiori Talcott e Henchman; le due colonne avrebbero dovuto unirsi presso Brookfield, per poi rastrellare la regione a nord e colpire il villaggio di Wachusset, dove si riteneva fosse la base degli ostili . Talcott partì il 2 giugno dalla sua base a Norwich in Rhode Island con 250 miliziani e 200 guerrieri Mohegan e lungo la via distrusse il villaggio di Wabaquasset, abbandonato dagli indiani (probabilmente Wogunk, un gruppo Mattabisec), poi il 5 giugno trovò un piccolo insediamento di Nipmuc, uccidendone diciannove e prendendo molti prigionieri, ma giunto a Brookfield non vi trovò gli uomini di Henchman, che si erano fermati per attaccare un altro villaggio Nipmuc a Weshacom Pond. Non ritenendo di avere forze sufficienti per attaccare Wachusset, Talcott riparti quindi per la valle del Connecticut, giungendo l’8 giugno ad Hadley; ignari dell’arrivo di una simile forza l’11 giugno gli indiani attaccavano Hadley ma erano facilmente respinti. Tre giorni dopo anche la colonna di Henchman era Hadley e le milizie del Massacchusset e del Connecticut unite presero la via del nord, risalendo il Connecticut decisi a infliggere agli indiani il colpo definitivo; la marcia però non diede alcun frutto, gli indiani sembravano scomparsi dalla regione e i miliziani ridotti alla fame e stanchi dopo giorni di avanzata tra le terre selvagge, ritornarono alla base con il solo risultato di aver distrutto i campi di mais degli indiani e averli obbligati a un altro anno senza raccolti. I Pocuntuk avevano definitivamente abbandonato la regione e cercato rifugio a nord tra i Sokoki, con i quali poi si fusero, mentre è probabile che Metacomet e i suoi seguaci abbiano preso la via del sud


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in quegli stessi giorni; prima della fine del mese un reparto di 30 uomini, al comando del capitano Swaine tornò a Peskeopscut e sull’isola di Smead distrusse un altro villaggio, decine di canoe e le scorte di cibo nascoste sotto terra: gli indiani però erano scomparsi. Non sappiamo se e quanto l’azione dei Mohawk abbia determinato l’abbandono della regione poco prima del raccolto, ma è certo che in primavera la loro ostilità si era rinnovata, ed essi erano più temuti delle milizie coloniali. La guerra nella valle del Connecticut si concludeva in questo modo, ma i Pocuntuk, insieme agli alleati Sokoki, ritornarono ancora una volta a colpire Hatfield più di un anno dopo, il 19 settembre Battaglie e attacchi ai coloni tra maggio e giugno 1676 del 1677, bruciando diverse case uccidendo coloni e prendendo 17 prigionieri, prima di fuggire a nord. Alla fine della primavera, dopo la devastante offensiva tra febbraio e aprile, le sorti della guerra non favorivano più gli indiani; certo le divisioni in seno alla coalizione, le divergenze tra i capi, la speranza di poter concludere il conflitto con un accordo di pace, erano stati determinanti nel preparare la sconfitta, ma oltre a questo fattore soggettivo, i fattori oggettivi di debolezza degli indiani dopo un anno di guerra erano emersi drammaticamente. La questione delle scorte alimentari, la difficoltà ad approvvigionarsi di armi da fuoco e munizioni, l’ostilità dei Mohawk, il sostegno dei Mohegan e di altri indiani alle milizie coloniali, e infine e soprattutto la questione ineludibile del confronto numerico tra indiani e bianchi. Mentre le perdite subite dai bianchi sono ampiamente documentate, più difficile è valutare le perdite indiane; le uniche fonti sono quelle inglesi e come è naturale in ogni guerra, secondo tali fonti le perdite indiane sono abbondantemente sovrastimate. Comunque anche ipotizzando che i guerrieri indiani caduti fossero pari alle perdite tra le milizie coloniali, rimane il fatto che ogni miliziano ucciso poteva essere sostituito, mentre un guerriero indiano morto lasciava un vuoto incolmabile: e questo ovviamente faceva la differenza. All’inizio dell’estate i Nipmuc e i Pocuntuk erano ormai in fuga verso nord, alcuni ancora ostili, altri pronti ad arrendersi agli Inglesi e a collaborare con loro, e per i Wampanoag e i Narraganset non rimaneva che unirsi a loro, o tornare nelle loro terre per l’ultima inutile resistenza: questa fu la scelta di Metacomet e di Wetamoo, di Puman e Pessacus, il principale capo Narraganset.

La fine di Metacomet Alla fine di giugno 1676, con la fuga degli indiani e la fine delle operazione nella valle del Connecticut, gran parte delle milizie inglesi abbandonarono la regione, richiamati dai governi di Boston e Hartford. Le milizie di Boston ritornarono alla base, in parte furono sciolte mentre i capitani Brattle e Moseley con i loro uomini furono inviati a sud, per supportare la milizia di Plymouh contro i Wampanoag e i Narraganset al al confine con il Rhode Island; gran parte del Massacchusset era ormai al sicuro dagli attacchi, e ormai si trattava solo di catturare gli indiani in fuga. Da Boston comunque ai primi di luglio, giunse un invito a tutti gli indiani che non si erano macchiati del sangue dei coloni, ad arrendersi, promettendo loro clemenza: circa 300 Nipmuc raccolsero l’appello e si arresero, ma lo stesso non potevano fare i capi, ai quali gli Inglesi non erano disposti a fare sconti: Muttawamp, il primo capo dei Nipmuc a scendere sul sentiero di guerra, Sagamore Sam, che aveva avuto un ruolo centrale nella liberazione dei prigionieri a maggio, cercarono inutilmente un accordo con gli Inglesi, anche offrendo il loro aiuto contro gli ex alleati indiani, ma non ricevendo risposta ai loro appelli, fuggirono a nord, presso il capo Wannacelet. Il 27 di luglio, dopo la firma di un trattato da parte di Wannacelet, John Sagamore, con un seguito di 180 guerrieri si presentò a Dover sulla frontiera del Maine, portando prigioniero il capo Mattoonas, che era rimasto fedele a Metacomet, e per mostrare la sua fedeltà, non esitò a torturarlo. Tutto ciò fu comunque inutile e di fronte alla volontà di vendetta deli Inglesi, i capi Nipmuc passarono l’estate nella terra dei Pennacook insieme agli altri rifugiati. Anche gli uomini del Connecticut al comando del maggiore Talcot tornarono alla loro base a Norwich,


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nel Rhode Island, per dare manforte alle milizie di Plymouth che davano la caccia ai Wampanoag e ai Narraganset ritornati nelle loro terre . Gli indiani dal canto loro erano impegnati principalmente a cercare cibo e a nascondersi nelle vaste paludi, per sfuggire ai rastrellamenti degli Inglesi, che ormai potevano contare su un gran numero di spie e traditori. Il 28 di giugno uno di questi traditori si presentò a Rehobot, per offrirsi agli Inglesi come guida al villaggio di Metacomet, presso Mount Hope, dove non aveva con se che una trentina di guerrieri; il capitano Brattle con 70 uomini e la guida dell’indiano trovò il campo il 1 luglio, ma Metacomet l’aveva appena abbandonato. Il giorno dopo comunque la colonna del maggiore Talcot, con gli alleati Mohegan, trovò un accampamento dei Narraganset del capo Pessacus nelle paludi di Nipsachuk e fu un massacro: il vecchio capo morì insieme a circa 140 dei suoi, per due terzi donne e bambini e oltre una quarantina furono i prigionieri. La sorpresa e le condizioni di debolezza degli indiani impedirono loro qualsiasi resistenza, e gli Inglesi non ebbero vittime; l’orrore comunque non era finito e il 3 luglio, nei pressi di Warwick, circa 70 Narraganset, sfuggiti al massacro di Nipsachuk, furono ammazzati dai miliziani di Talcot, mentre tentavano di arrendersi ai coloni del Rhode Island di cui un tempo erano stati amici. Durante la marcia di Talcot per tornare a Norwich, avvenne un episodio che spiega a quale punto fosse giunto ormai l’odio: uno dei prigionieri senza alcun timore si vantò di aver ucciso con la sua pistola 19 Inglesi, poi non avendone più incontrati e non volendo sprecare una carica già pronta, con l’ultimo colpo aveva ammazzato un Mohegan; ora era soddisfatto e poteva morire sereno: gli Inglesi lo consegnarono ai Mohegan che lo torturarono a morte. Ai primi di luglio il comando delle milizie di Plymouth fu assunto da Benjamin Church, uno dei protagonisti della sconfitta dei Narraganset nella battaglia di Great Swamp, che era rimasto poi fuori dalla guerra per le ferite ricevute in combattimento, e soprattutto per il dissenso nei confronti del governo di Plymouth, poco incline all’arruolamento degli indiani, che Church riteneva necessario. Egli organizzò quindi il primo corpo di ranger americano, una milizia di bianchi e indiani esperta nella guerriglia tra i boschi, e subito ottenne l’appoggio della sachem Awaashonk del villaggio Wampanoag di Saconet, che fino a quel momento si era mantenuta neutrale, malgrado molti suoi guerrieri si fossero uniti a Metacomet. Oltre a Church a guidare le milizie di Plymouth c’era il capitano Bradford che controllava i guadi del fiume Tauton e impediva la fuga a nord, mentre i miliziani del Massacchusset di Brattle e Moseley e quelli del Connecticut di Talcot continuavano a perlustrare la regione. Di fronte a tale schieramento di forze e soprattutto al tradimento del suo stesso popolo, Metacomet era ormai solo, ma l’11 di luglio, forse solo per sollevare il morale dei suoi seguaci, sferrò ancora un altro attacco al villaggio di Tauton; gli indiani furono però costretti a ritirarsi per l’intervento di Church, avvertito da un servo negro rapito dagli indiani a Swansea e riuscito a fuggire; le vittime indiane furono una decina. Ancora un tentativo fu fatto pochi giorni dopo a Bridgewater, ma senza successo, dato che nel villaggio era rimasto un pugno di giovani uomini decisi, che aveva evitato l’evacuazione e si era preparato alla difesa. Da questo momento gli indiani non fecero che fuggire e nascondersi; la guerra si era trasformata in una caccia all’indiano e il cerchio intorno a Metacomet si stava chiudendo. Il 20 di luglio gli uomini di Church riuscirono a rintracciare l’accampamento di Metacomet nelle paludi intorno a Dartmouth e l’attaccarono, e ancora una volta Metacomet riuscì a sfuggire alla cattura, ma agli indiani non rimaneva che dividersi in piccoli gruppi e cercare di nascondersi tra paludi e foreste. Il 26 di luglio Church con una quarantina di uomini, più della metà indiani, catturò una banda di Narraganset a Momposet Pond, nei pressi di Middleborough. Il giorno dopo il vecchio capo di guerra di Pocasset Pumam, fu intrappolato nei pressi di Deedham insieme a poche decine di guerrieri, dal reparto misto di Inglesi e Mohegan del capitano Hunting; il vecchio capo rifiutò la resa e morì combattendo fino all’ultimo, e i Wampanoag ebbero altre quindici vittime, mentre il resto della banda fu preso prigioniero. Prima della fine del mese Church, che era stato informato della presenza nelle vicinanze di Metacomet e di Tupasquim, catturò lungo il fiume Acushnet, un gruppo di Saconet che avevano abbandonato il villaggio dopo cha la loro sachem Awashonk si era schierata con gli Inglesi. Da una squaw prigioniera seppero che Metacomet e Tupasquim era a due chilometri di distanza e divise in due le sue forze, si pose all’inseguimento; quando i reparti si riunirono presso una casa colonica, essi avevano ucciso tre indiani, preso oltre 60 prigionieri, ma Metacomet e Tupasquim erano ancora liberi e lungo la fuga avevano massacrato un colono di nome Tyask con la moglie e il figlio, e si erano anche riforniti di armi e munizioni. E’ difficile capire quali furono le ragioni che indussero Metacomet a guidare la sua gente nelle loro terre tradizionali, piuttosto che tentare la fuga a nord, come facevano i Nipmuc e i Pocuntuk: forse sperava di poter meglio nascondersi e sopravvivere in un territorio a lui noto, o forse temeva il tradimento dei suoi ex alleati che avrebbero potuto venderlo agli Inglesi. Comunque di fronte alle colonne che ra-


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strellavano la regione, per i Wampanoag e i Narraganset ostili, non vi era più speranza e alla fine di luglio essi si riportarono verso il fiume Tauton, sperando di poterlo guadare per fuggire al nord. La concentrazione di indiani fu però individuata dai coloni di Bridgewater, che subito informarono il capitano Church, nel frattempo tornato a Plymouth con i prigionieri catturati. Prima però che Church riuscisse a giungere sul posto, il 31 luglio gli indiani tentarono di attraversare il fiume su un albero che era stato abbattuto per fare da ponte. Qui li sorpresero una ventina di coloni di Bridgewater che li attaccarono nel momento in cui erano più esposti; gli indiani dovettero rinunciare e lasciarono dietro di se molti prigionieri. La milizia di Church che era giunta a Bridgewater alla fine dello scontro al guado, la mattina dopo si mise in caccia degli indiani, e dopo averli individuati e ricacciati mentre ancora tentavano il passaggio sul tronco d’albero, attraversò il fiume e si pose al loro inseguimento. Seguì una caccia durante la quale Church riuscì a catturare un gran numero di prigionieri, compresi la moglie e il figlio di Metacomet, mentre il capo reagiva con imboscate e azioni di retroguardia per ostacolare il nemico e tentare di far perdere le tracce. Alla fine, con scarsi rifornimenti e un gran numero di prigionieri, Church fu costretto a tornare a Tauton, dove diede ordine di trattare i prigionieri in modo umano: Metacomet e Tupasquin erano riusciti a sfuggire alla cattura. La cattura della moglie e del figlio di nove anni Wetamoo tenta di guadare il fiume Tauton di Metacomet, fu occasione per un dibattito “teologico”, per decidere, in base ai precedenti biblici, se la donna e il bambino dovessero essere giustiziati, per le colpe del marito e padre, o se si dovesse avere con loro un atteggiamento più misericordioso. Alla fine prevalse il parere del reverendo Elliot e i due non furono giustiziati, ma venduti come schiavi nelle Indie Occidentali, dove di lì a poco entrambi morirono. Tra quanti erano riusciti a sfuggire all’inseguimento vi era Wetamoo, che ai primi di agosto con un altro gruppo si era nascosta in una palude vicino Tauton; una spia indiana però informo i coloni di Tauton, che sorpresero gli indiani e li catturarono tutti tranne Wetamoo; il giorno successivo il corpo nudo di una squaw fu portato a riva dalla corrente del fiume e fu riconosciuto il cadavere di Wetamoo, evidentemente morta nel tentativo di attraversare il fiume. Il cadavere fu straziato e la sua testa mozzata e portata a Tauton per essere esposta sulla via. Church si era nel frattempo rimesso in caccia e il 7 agosto aveva intrappolato presso Assawompset Pond la banda del capo Totoson, che però scomparve insieme a suo figlio malato; Totoson riuscì a fuggire a nord, trovando rifugio presso una vecchia squaw che viveva sola nella foresta, e lì il suo bambino morì, e del capo di guerra non si ebbero più notizie. Tra i guerrieri di Totoson catturati, vi era un indiano cristiano unitosi agli ostili di nome Sam Barrow, che era stato riconosciuto tra i colpevoli del massacro alla fattoria Clarke di alcuni mesi prima; senza alcuna speranza, il guerriero chiese di poter fare due boccate di tabacco, poi si dichiarò pronto a morire: uno dei mercenari indiani di Church, gli fracassò il cranio con il tomahawk. Le paludi di Assawompset Pond non erano più un luogo in cui nascondersi e a Metacomet non rimaneva che fuggire a sud, verso la zona di Mount Hope, laddove era stato il suo villaggio di Pokanoket, la terra per cui aveva combattuto e in cui ormai si preparava a morire. Infatti neanche nella sua terra Metacomet era al sicuro da spie e traditori, e l’11 di agosto un indiano Wampanoag informò Church della presenza di Metacomet e si offrì di guidarli al suo campo; l’esperto Church questa volta non si fece sfuggire l’occasione e all’alba del 13 ago- La morte di Metacomet, mentre tenta di fuggire dall’accampento


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sto agendo silenziosamente, aveva circondato l’accampamento di Metacomet. Quando un colpo d’arma da fuoco risvegliò il campo, Metacomet si armò e cerco di fuggire ancora una volta, ma un indiano di Saconet di nome John Alderman che era con Church, gli sparò e l’uccise. Gran parte dei Wampanoag riuscirono a fuggire, e Church vide un vecchio indiano chiamare i suoi a difendersi e a non arrendersi: si trattava di Annawon, un capo che era stato collaboratore di Massassoit, al tempi in cui gli Il teatro dell’ultima resistenza dei Wampanoag e dei Narraganset Inglesi erano amici, e ora era l’ultimo capo libero dei Wampanoag. La morte di Metacomet ovviamente fece passare in secondo piano la fuga di gran parte della sua banda, e i miliziani e mercenari indiani, decapitarono il capo e ne smembrarono il corpo in quattro parti. Issata su una picca la sua testa decapitata, fu portata a Plymouth dove rimase pubblicamente esposta per ben venticinque anni; il suo corpo squartato fu appeso agli alberi e lasciato in pasto agli uccelli rapaci; la sua mano fu regalata al suo assassinio, come un trofeo di cui poter fare mostra. I cristianissimi e puritani governanti del New England, fecero scempio del cadavere del loro nemico, forse per esorcizzare il terrore che egli aveva provocato, seguendo una modalità non dissimile dalle pratiche “barbare” dei loro odiati nemici indiani. Mentre si consumavano gli ultimi giorni di Metacomet, altri Wampanoag e Narraganset superstiti, affidavano la loro ’ultima speranza all’alta valle dell’Housatonic, nella zona di Stockbridge, dove vivevano sotto il controllo dei Mohawk, i resti delle tribù Mattabisec e Wappinger che erano rimasti estranei al conflitto; l’11 di agosto i cittadini di Westfield individuarono un gruppo di oltre 200 indiani fuggitivi che si dirigeva verso questa regione, e informarono il maggiore Talcot che subito si pose all’inseguimento. Il 15 Talcot individuò l’accampamento indiano sulla sponda occidentale dell’Housatonic, presso l’attuale Great Barrington e divise in suoi uomini per accerchiare il campo; uno dei due gruppi incontrò un indiano impegnato a pescare, che fu subito ucciso, ma il colpo sparato raggiunse l’accampamento e rovinò la sorpresa: malgrado ciò circa 35 indiani furono uccisi e un’altra ventina presi prigionieri, prima che gli indiani riuscissero a fuggire. Nei giorni successivi furono i Mohawk e mettersi in caccia degli ostili, ma alla fine fu loro permesso di unirsi agli altri indiani della regione. Il 21 agosto Quinnapin, marito di Wetamoo era stato catturato e fu giustiziato tre giorni dopo a Plymouth; rimanevano ancora liberi il capo dei Wampanoag Annawon e quello dei Narraganset Tupasquim e sulle loro tracce si mise il capitano Church. La banda di Annawom fu rintracciata presso Assawompset Pond e si arrese senza fare resistenza; il capo Annawon consegnò a Church le cinture di wampum che erano state di Metacomet e si trattanne a lungo durante la notte a parlare con lui, mostrando grave e dignitosa tristezza per quanto era accaduto. Church gli assicurò che avrebbe avuto salva la vita. Pochi giorni dopo Church ottenne anche la resa di Tupasquim, cui fece sapere che avrebbe avuto salva la vita se si fosse unito a lui per combattere gli indiani a nord. Senza tenere conto degli impegni presi da Church, tanto Annawon che Tupasquim furono giustiziati dalle autorità di Plymouth. Ora non c’erano più capi di guerra, le milizie furono sciolte, ma i mercenari indiani continuarono ancora per mesi a catturare indiani che da soli o a piccoli gruppi, continuavano a nascondersi nelle foreste; ancora a dicembre una sessantina di indiani furono catturati presso Rehobot. Alla fine del mese di agosto del 1676 la guerra nelle colonie era conclusa, ma l’odio che era esploso non si era placato e viaggiando nel cuore degli indiani in fuga, s’era spostato a nord.

Gli Abnaki: la guerra continua al nord Per i Pennacook, i Nipmuc, i Pocuntuk, che fuggivano dalle loro terre ridotti alla fame e stanchi della guerra contro gli Inglesi, c’erano solo due possibilità: o unirsi ai Mahican e agli indiani di Stockbridge e porsi sotto il controllo degli antichi nemici Mohawk, o cercare rifugio tra gli Abnaki, i Sokoki e altre tribù del nord nelle terre del Maine, e questa seconda scelta fu quella che fecero in molti, sia tra quanti


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continuavano a covare ostilità contro gli Inglesi, sia tra quelli che volevano tenersi fuori dalla guerra. Tra questi ultimi c’era il capo dei Pennacook Wannacelet, che durante la primavera, mentre a sud la guerra infuriava, era divenuto il tramite tra i coloni inglesi e gli Abnaki, con cui la precaria pace era costantemente a rischio, per le reciproche e non immotivate diffidenze. Gli Inglesi non dimenticavano le ostilità dell’anno prima, vedevano gli Abnaki accogliere i guerrieri che avevano massacrato i coloni, e sospettavano dei rapporti che gli Abnaki avevano con i Francesi; gli Abnaki dal canto loro non dimenticavano che solo con la guerra avevano potuto riprendersi il diritto a pescare e a cacciare sulle loro terre, ne ritenevano di dover rendere conto di chi accoglievano nei loro villaggi e soprattutto erano infuriati per il divieto di acquisto di armi e munizioni dai mercanti. C’erano poi i Francesi, che stabilitisi tra i Penobscot soffiavano sul malumore degli Abnaki e soprattutto i tanti rifugiati, che portavano con se i racconti delle atrocità della guerra e il desiderio di vendetta; la precaria pace lungo la frontiera settentrionale, che aveva retto durante la primavera, permettendo agli inglesi di concentrarsi contro Metacomet e i suoi guerrieri, non era destinata a durare. All’inizio dell’estate gli sforzi di pace di Wannacelet sembravano produrre qualche risultato, quando il capo si presentò a Dover, alla frontiera tra New Hampshire e Maine, con un vasto seguito di indiani, tra cui i capi degli Abnaki Squando e Simon e i Nipmuc Sagamore Sam e Muttawamp, che speravano nel perdono inglese, portando molti prigionieri bianchi che tornavano liberi. Tra gli indiani presenti, furono però riconosciuti i responsabili dell’ultima aggressione a danno dei coloni, avvenuta ai primi di maggio a Bradford, che vennero arrestati e portati in carcere a York; gli indiani arrestati riuscirono poi a fuggire, ma certo l’episodio raffreddò i propositi di pace dei capi Abnaki, soprattutto di Simon, che secondo alcune fonti potrebbe essere stato tra gli arrestati. Wannacelet continuò comunque a tessere la sua tela diplomatica e iI 27 di luglio firmò un trattato a Boston, che doveva stabilizzare la precaria pace. Di li a pochi giorni fu però chiaro che la sua attività non era condivisa da molti indiani della regione: l’11 agosto il capo Abnaki Simon sferrò un attacco al villaggio di Falmouth, uccidendo e prendendo prigionieri 34 bianchi. Evidentemente la fazione ostile nei villaggi indiani, non era disposta a lasciare al capo dei Pennacook il diritto di parlare a nome di tutti, e gli arresti di indiani erano stati la classica goccia; la guerra riprese contro i coloni del Maine, ancora lasciati senza protezione dal governo di Boston, che si era da poco liberato della minaccia dei Wampanoag e dei Narraganset. Il 13 agosto un altro attacco colpì i posti commerciali di Nehumkeag e quello di Richard Hammond, nei pressi di Woolwich e quattordici tra membri della famiglia Hammond e collaboratori, furono uccisi o presi prigionieri; il giorno successivo i guerrieri Abnaki colpirono la principale e più sicura stazione commerciale della zona, a Arrowsic island, dove i mercanti Thomas Lake e Thomas Clarke, avevano avviato una fiorente impresa, che oltre che nel commercio con gli indiani era attiva nella pesca, nell’industria del legname e nell’allevamento: qui i morti furono trenta, tra cui lo stesso Thomas Lake. Nei giorni successivi gli indiani posero l’assedio a Ft.Pemaquid, che fu evacuato dagli Inglesi senza combattere e distrutto dagli indiani, poi raggiunsero e attaccarono Sheepscot dove i coloni che si erano rifugiati a Ft.Ann, furono salvati da William Phipps, futuro governatore del Massacchusset, che abbandonò il suo carico di legname e il suo piccolo cantiere navale, e caricò i coloni sulla sua nave per portarli a Boston. Per Phipps fu la rovina economica, dato che perse tanto il carico che il cantiere, distrutto dagli indiani, ma accolto come un eroe a Boston, pose le basi del suo futuro successo politico. Ancora il 2 settembre gli indiani attaccarono un forte a Jewel Island, dove i coloni che vi si erano rifugiati riuscirono a ricacciarli, poi il giorno successivo sulla vicina Munjoi Island un gruppo di coloni che erano usciti a cercare cibo per le proprie famiglie, fu massacrato dopo aver trovato rifugio in una fattoria abbandonata; nei giorni successivi anche Jewel Island fu evacuata. Di fronte all’offensiva indiana, da Boston non giunse alcun sostegno concreto: evidentemente i coloni del Massacchusset dopo un terribile anno di guerra, erano più interessati a tornare ai loro villaggi distrutti, piuttosto che arruolarsi nella milizia per andare a combattere sulla frontiera settentrionale. L'unica iniziativa fu quella di affidare il comando militare e l’arruolamento di una milizia ad un ricco possidente di Dover, Richard Waldron, che nelle vicinanze della cittadina, nella località di Cocheco, aveva una vasta tenuta e commerciava con gli indiani. Benchè considerato un integerrimo puritano, Waldron non s’era mai fatto troppi scrupoli nel commercio, e in più di un’occasione fu sorpreso dagli indiani a manomettere personalmente la bilancia con cui venivano pesate le pelli o a “dimenticare” di cancellare dal libro mastro i debiti degli indiani, quando essi li pagavano in pelli. Comunque queste piccole truffe erano nulla in confronto alla sua prima iniziativa per riportare l’ordine nella regione. Assunto l’incarico Waldron si mise subito in contatto con Wannacelet, invitandolo a Cocheco con tutta


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la sua gente, per una festa nella quale si sarebbe parlato di pace e del riscatto dei prigionieri. Il 7 settembre Wannacelet e oltre 400 indiani si presentarono a Cocheco, convinti che la pace era ancora possibile: con Wannacelet c’erano i Pennacook, i capi Sagamore Sam, Muttawamp, con i loro Nipmuc, Monoco dei Nashua e gruppi di Abnaki non ostili. Secondo il rituale i guerrieri indiani appena giunti sul luogo dell’incontro, scaricarono in aria Gli indiani catturati con l’inganno a Cocheco da Richard Waldron i loro fucili in segno di pace, ma a quel punto furono circondati e messi sotto tiro dai miliziani di Waldron, che li presero prigionieri. Furono poi divisi tra quanti risiedevano da tempo nella regione e quanti vi erano giunti negli ultimi mesi, dopo aver preso parte alla guerra al sud: i primi furono liberati, gli altri, circa 200, furono trasferiti a Boston per essere processati. Alla fine alcune decine di loro furono imprigionati, poi il 26 settembre i capi Sagamore Sam, Muttawamp, Monoco e altri cinque guerrieri finirono impiccati e tutti gli altri, compresi donne e bambini, vennero venduti come schiavi. Il risultato di questo tradimento fu che anche gli indiani disposti alla pace, persero ogni residua fiducia negli Inglesi e Wannacelet perse ogni credibilità e fu messo da parte come capo; quanto a Waldron, la punizione che meritava sarebbe giunta anni dopo, perché gli indiani avevano la memoria lunga. La guerra ovviamente continuava. La reazione degli Abnaki giunse il 24 settembre a York, attaccata due volte in due giorni, dove vi furono tre vittime, e poi ancora più sanguinosa il giorno dopo a Wells, dove i morti furono una quarantina. Dopo gli attacchi del mese precedente tutti gli insediamenti inglesi sulla costa settentrionale del Maine erano stati abbandonati, ma a sulla baia di Saco vi era l’importante villaggio di Blackpoint (Scarborough), con un centinaio di abitazioni e un forte ben difeso. Qui il 12 ottobre il capo Abnaki Mog, portò oltre un centinaio di guerrieri che posero l’assedio al forte, dove tutti gli abitanti del villaggio avevano trovato rifugio; l’attacco alla postazione inglese sarebbe certo costato molte perdite agli indiani, così quando il capitano Jocelin, comandante del forte, propose un colloquio a Mog, questi accettò. I colloqui andarono per le lunghe, ma quando alla fine Jocelin tornò al forte vi trovò solo i suoi famigliari: tutti gli altri coloni erano scomparsi; era accaduto che mentre Jocelin trattava con Mog, approfittando della buona posizione del forte, e della mancanza di controllo degli indiani, i coloni vi avevano portato alcune imbarcazioni, vi avevano caricato i loro beni ed erano fuggiti alla chetichella, lasciando sola la famiglia del comandante. Il capo Mog fu più corretto dei coloni, e presi prigionieri Jocelin e i suoi famigliari li trattò benevolmente; quasi certamente il capo, soddisfatto della vittoria incruenta e del ricco bottino, doveva essere di buon umore. La prigionia di Jocelin e della sua famiglia durò meno di due settimane, perché il 25 ottobre Mog si recò a Boston per accordarsi sul rilascio dei prigionieri; gli Inglesi comunque, approfittando della sua assenza inviarono una guarnigione a rioccupare il forte di Blackpoint; anche parte dei residenti vi tornarono, contrariati però dalla presenza della guarnigione, perché convinti che la presenza della milizia avrebbe impedito un accordo con gli indiani. Dopo il rilascio dei prigionieri, gli Inglesi che non erano riusciti a cogliere un solo successo contro gli Abnaki, tentarono di riprendere le trattative con i loro capi, convincendo il 6 novembre Mog e il capo dei Penobscot Madockawando a recarsi a Boston per ratificare un nuovo trattato di pace; i due capi probabilmente speravano di ottenere merci e regali in cambio della pace, prima di ritirarsi a svernare nell’interno, ma il trattato proposto era fortemente punitivo, dato che prevedeva il rilascio di tutti i prigionieri e il ristabilimento delle proprietà dei coloni. I due capi firmarono il trattato ma è difficile credere che fossero intenzionati a rispettarlo; più probabile e che gli indiani volessero solo tornare alla loro terra e temessero di essere trattenuti se rifiutavano l’accordo. Comunque a dicembre due navi raggiunsero il villaggio di Madockawando, consegnando merci e ottenendo la li-


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berazione di alcuni prigionieri, poi proseguirono a sud lungo la costa incontrando altri indiani e liberando altri prigionieri. Da uno dei coloni liberati, giunse però la notizia che Mog, continuava a mostrarsi ostile. Oltre all’attività diplomatica, il governo di Boston tentò anche una iniziativa militare, organizzando quello stesso mese una spedizione guidata dal capitano Moseley, che avrebbe dovuto colpire gli indiani nei loro villaggi invernali dell’interno; i miliziani tornarono a gennaio, stanchi e affamati, dopo due mesi passati a vagare nelle foreste tra la neve, nella regione a nord del lago Ossipee, senza aver incontrato un solo indiano, ma solo qualche villaggio abbandonato. Molti Abnaki per sfuggire all’offensiva inglese si erano spostati a nord, verso la valle del San Lorenzo, trovando ospitalità tra i Francesi e ottenendo da loro le armi per continuare a colpire le colonie inglesi. Come se agli Inglesi non bastassero i guai che già avevano, anche i Micmac furono coinvolti nelle ostilità; in ottobre Waldron aveva autorizzato all’uccisione o alla messa in schiavitù di tutti gli indiani del nord, considerati responsabili degli attacchi dell’estate, così un reparto della milizia navigò fino alla località di Machias, al confine con l’Acadia francese, dove il 9 novembre catturarono nove Micmac ignari, poi il 19 raggiunsero Cape Sable in Nova Scotia, dove ne furono catturati altri sedici. Tutti i prigionieri furono venduti come schiavi ai Portoghesi delle Azzorre. Evidentemente per molti la guerra era solo un’occasione per facili guadagni; qualche tempo dopo lo stesso Waldron fu incarcerato per un breve periodo, per il traffico illegale di schiavi. I Micmac, benchè alleati dei Francesi non erano mai stati in conflitto con gli Iglesi, ma negli anni e nei decenni a venire, sarebbero divenuti irriducibili nemici. Durante l’inverno molti Abnaki si ritirarono nell’interno e cessarono le ostilità, poi in febbraio Waldron, tentò di nuovo l’inganno della falsa conferenza di pace. Questa volta gli indiani non caddero nel tranello, ma i Pennacook che vivevano nelle vicinanze di Cocheco iniziarono ad abbandonare la regione, cercando rifugio lontano, tra i Francesi del San Lorenzo; qui si stabilirono nel villaggio di St.Francois, che divenne la base di devastanti raids contro le colonie inglesi, fino alla sua distruzione nel 1759. Fallita la “diplomazia” Waldron organizzò un’altra spedizione, che via mare il 18 febbraio raggiunse la baia di Casco, nella zona di Brunswich; qui gli Inglesi ebbero una breve trattativa con i capi Squando e Simon, che però si risolse in uno scontro senza conseguenze. Waldron si diresse allora verso Pemaquid, dove il 27 febbraio ancora una volta tentò di ottenere la liberazione di prigionieri con le trattative, ma anche questa volta in breve la parola passò alle armi: cinque Abnaki furono uccisi, tra cui il capo Mattahando. Sulla via del ritorno Waldron si fermò a Arrowsic island, dove uccise due indiani e recuperò il corpo del mercante Thomas Lake, preservato dal freddo dopo quasi un anno dalla sua morte. Con la primavera gli attacchi Abnaki ripresero guidati dal capo Simon che nel mese di aprile colpì i villaggi di York e Wells, uccidendo dieci coloni. In maggio anche Mog scese sul sentiero di guerra, ponendo di nuovo l’assedio a Blackpoint: questa volta la guarnigione oppose una dura resistenza, nel corso della quale tre soldati furono uccisi e uno preso prigioniero, mentre non sappiamo quali furono le perdite indiane; l’assedio si concluse il 14 maggio, dopo tre giorni, quando un tiro preciso dalla palizzata del forte uccise il capo Abnaki, inducendo i suoi guerrieri a ritirarsi. Prima della fine del mese altri sette coloni furono uccisi a York e a Wells, poi a giugno il governo di Boston riuscì a raccogliere una milizia di bianchi e indiani alleati da inviare a nord. Una forza di oltre un centinaio di miliziani, insieme a una cinquantina di indiani alleati del Massacchusset, prese la via per Blackpoint, viaggiando una parte via terra, l’altra via mare, ma gli Abnaki del capo Squando erano sull’avviso e li aspettavano. Il 29 giugno il reparto riunito a Blackpoint individuò un gruppo di indiani e uscì per catturarli, ma l’inseguimento si trasformò in una trappola dato che gli Abnaki avevano teso un agguato nei pressi di un corso d’acqua noto come Moore’s Brook. Alla fine la milizia inglese riuscì a sganciarsi, ma solo dopo aver perso metà dei suoi effettivi, sia bianchi che indiani. Questa era stata la prima significativa operazione militare per soffocare l’ostilità degli Abnaki e si era risolta in un disastro. Durante l’estate gli Abnaki catturarono una ventina di pescherecci inglesi che continuavano a frequentare la costa, poi il 18 luglio sei vascelli impegnati a pescare presso Port La Tour, in Nova Sir Edmund Andros, governatore Scotia, furono attaccati da quasi un centinaio di Micmac, che pre- di New York


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sero prigionieri ventisei pescatori inglesi, li denudarono e poi si apprestavano a portarli alla baia di Penobscot, quando gli Inglesi riuscirono a liberarsi, riprendere il controllo delle navi e catturare una parte degli assalitori. I prigionieri indiani furono portati a Marblehead, nei pressi di Salem in Massacchusset, dove furono torturati a morte dalle donne del villaggio. Infine il 19 settembre una cinquantina di guerrieri Pocuntuk e Sokoki tornarono a colpire il villaggio di Hatfiel, nella valle del Connecticut, uccidendo dodici coloni e prendendo diciassette prigionieri. A più un anno di distanza dalla fine della guerra in Massacchusset, le terre del Maine erano ancora fuori controllo, i pochi insediamenti che non erano stati abbandonati vivevano nel terrore, le attività economiche bloccate, mentre la ri- Attacchi indiani e villaggi distrutti luno la costa del Maine sposta militare del governo di Boston si era risolta in un fiasco totale. Fu così che durante l’inverno la corona d’Inghilterra, che aveva la responsabilità formale sulle terre, nel timore di perderle per una possibili iniziativa francese, decise di affidare il problema un suo uomo di fiducia, il governatore di New York Edmund Andros. I rapporti tra Andros e i governanti del New England erano a dir poco freddi: c’era stata una disputa di confine tra New York e il Connecticut, poi quando era scoppiata la guerra di re Filippo e Andros si era offerto di inviare una milizia in supporto, dal Connecticut era giunto un rifiuto, per timore di avere i vicini e rivali in armi sulle loro terre. Andros era poi guardato con sospetto per il suo sostegno ai mercanti olandesi di Albany, accusati di vendere armi agli ostili, e anche per la sua politica pragmatica nei confronti degli indiani e in particolare della Lega Iroquois, con cui aveva una stretta alleanza. Quando poi dal New England giunse la richiesta di sostegno militare, Andros si rifiutò, vista la reazione negativa alla sua precedente offerta. Le terre del Maine venivano ora affidate all’amministrazione di New York e l’intervento di Andros era un palese smacco per i governanti delle colonie del New England e i personaggi come Richard Waldron a cui si erano affidati. Nella primavera del 1678 Andros raggiunse Blackpoint dove vi trovò gli indiani disponibili a discutere di pace e un accordo fu raggiunto: gli indiani avrebbero rilasciato i loro prigionieri senza riscatto e riconosciuto le proprietà dei coloni; gli Abnaki comunque vedevano riconosciuto la sovranità sulle loro terre, dato che ogni famiglia che vi risiedeva, avrebbe dovuto pagare annualmente un tributo, con un piccolo quantitativo di mais. Andros aveva rinunciato a punire gli indiani per gli atti di guerra e aveva riconosciuto loro il diritto a imporre un tributo, e ciò poteva forse essere la premessa di una pace duratura; ma l’idea di pagare un tributo agli indiani, non era cosa facile da far accettare ai coloni che vivevano sulla frontiera. Il trattato firmato alla baia di Casco nella primavera del 1678, pose fine alla Guerra di re Filippo, ma rimase lettera morta; non sarebbero passati molti anni prima che le ostilità con gli Abnaki avessero di nuovo inizio, per durare ancora quasi un secolo.

La soluzione del problema indiano nel New England A parte l’ostilità lungo la frontiera con il Maine, la Guerra di re Filippo chiuse definitivamente la questione indiana nel New England: più di due terzi degli indiani che l’abitavano erano morti, venduti come schiavi o fuggiti al nord o all’ovest. Le poche migliaia di indiani che rimanevano nella regione erano per più della metà Mohegan (con i sottoposti Pequot) e Niantic, alleati degli Inglesi, oltre a un migliaio di “praying indians” in gran parte Nipmuc o discendenti dei Massacchusset, poche centinaia di Nauset a Cape Cod, una piccola comunità di Wampanoag sull’isola di Marta’s Vineyard, che si era tenuta fuori dalla guerra, poche centinaia di Paugusset e altre comunità Mattabisec, sul basso corso


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dell’Housatonic in Connecticut. Solo poche centinaia di Narraganset sopravvissero unendosi ai Niantic, e un gruppo ancor più piccolo di Wampanoag, in gran parte del villaggio di Saconet, costituì una comunità nella località di Mashpee in Massacchusset. Insediamenti più numerosi erano a Stockbrige e Shagticoke, al confine tra Massacchusset e New York, occupati dai Mahican e da gruppi di Wappinger, Mattabisec e profughi della guerra; gli indiani di Shagticoke e Stockbridge erano comunque sotto il controllo della Lega Iroquois e mantenevano rapporti con i mercanti della valle dell’Hudson e con il governatore di New York Andros. Tutte queste comunità non La presenza indiana nel New England alla fine della Guerra di re Filippo saranno più protagoniste di atti di ribellione o di ostilità, ma continueranno a declinare sul piano demografico, vivendo ai margini del mondo dei bianchi, continuando a vendere le poche terre di cui ancora disponevano e fornendo truppe ausiliarie durante le guerre coloniali con la Francia nel corso del ‘700. Con l’indipendenza degli Stati Uniti e la fine delle guerre coloniali, anche il contributo dei guerrieri indiani non serviva più e le pressioni dei coloni per prendersi le ultime terre indiane continuarono; una parte dei Mohegan, dei Pequot e dei Praying indians, noti come Brothertown, dopo la Rivoluzione Americana, si trasferirono a ovest, prima nello stato di New York, presso gli Oneida, poi nel 1830, insieme agli indiani di Stockbridge, e a una parte dei Munsee (Lenape) raggiunsero il lontano Wisconsin, dove ancora vivono i discendenti di queste tribù. Per quanti rimasero in New England il destino fu quello di un lento declino demografico, la diffusione dell’alcool, solo parzialmente contrastato dall’adesione al cristianesimo, scadenzato dalle periodiche vendita delle ultime terre rimaste. In anni recenti, quanto rimane degli indiani del New England è raccolto in alcune piccole comunità, fortemente meticciate e integrate, e conserva alcune minuscole riserve (da poco più di un ettaro a pochi chilometri quadrati), usate solo per periodici incontri in occasioni sociali o culturali. Negli ultimi anni la riscoperta delle proprie radici e tradizioni, ha fatto si che molti discendenti delle comunità di Praying Indians (Massacchusset, Nipmuc, Wampanoag), vissute per secoli fra la popolazione bianca, si siano organizzati in comunità e associazioni, attraverso le quali rivendicare la propria identità. Negli anni in cui ill New England rischiava di essere travolto dalla furia indiana, nelle regioni a più a sud, dalla valle dell’Hudson a quella del Susquehanna, il governatore Andros, che agiva per conto del duca di York, cui il re d’Inghilterra aveva concesso quelle terre, riuscì ad evitare ogni conflitto centrando la sua politica indiana sulla relazione con la Lega Iroquois, che dopo aver sconfitto i rivali Susquehannock intorno al 1675, dominava su tutte le tribù della regione. I rapporti commerciali che da più di mezzo secolo avevano aperto i mercanti olandesi con gli Iroquois furono rafforzati, mentre la presenza di coloni rimase contenuta e limitata alla media valle dell’Hudson e del Delaware. All’inizio degli anni ‘70 del ‘600 nella valle del Delaware tensioni si erano avute tra gli Unaimi (Lenape) e i coloni, e nel 1671 Naaman’s Blockhouse, quasi alla foce del Delaware, nella località di Claymont era stato attaccato e distrutto; l’intervento del governatore Andros riuscì comunque ad evitare l’esplodere di un conflitto. E’ in questi anni che con il sostegno inglese, la Lega Iroquois diede vita al Covenant Chain l’alleanza subalterna tra diverse tribù Algonchine e Siouan e la Lega Iroquois, che assumendone la guida si arrogava il diritto di trattare per conto di tutti con gli Inglesi. I Mahican erano stati i primi a essere costretti a questa alleanza subalterna e a loro s’erano uniti i resti dei Wappinger e dei Mattabisec, i Munsee (Lenape) e indiani del New England in fuga dopo la Guerra di re Filippo; era stata poi la volta degli Unaimi (Lenape), presso cui avevano trovato rifugio molti profughi Powhatan dopo le tre guerre combattute e perse in Virginia, e gruppi di Wappinger e Piscataway. Gli Unaimi avevano sostenuto i Susquehannock


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durante la prima Guerra del Castoro contro la Lega, ma a differenza dei Susquehannock che erano stati costretti ad abbandonare la regione e spostarsi a sud, fu loro concesso di rimanere; dopo alcuni conflitti con i coloni del Maryland, nel 1677 anche agli ultimi Susquehannock fu concesso di tornare e furono inseriti anch’essi nel Covenant Chain. Fu a partire da questi anni Riserve indiane negli stati del New England oggi che la regione a ovest del fiume Delaware e la valle del Susquehanna che la Lega aveva conquistato con la 1° Guerra del Castoro, divenne fino all’indipendenza degli Stati Uniti una terra di rifugio per gli indiani scacciati dall’avanzare dei coloni; la Lega controllava l’attività dei rifugiati, svolgeva il ruolo di intermediario nel commercio con i bianchi, impediva atti di ostilità, e richiedeva il supporto di guerrieri per le proprie iniziative militari, ma in cambio con la sua forza e il suo prestigio, teneva lontani i coloni Nel 1682, senza l’autorizzazione della Lega, gli Unaimi e i Susquehannock vendettero un tratto di terra nella valle del Delaware al riformatore quacchero William Penn che vi fondò la colonia della Pennsylvania. Penn che aveva ottenuto dal re il trasferimento a se di parte delle concessioni del duca di York , era un personaggio illuminato, dai rigidi principi pacifisti, riconosceva il diritto degli indiani alla terra e tentò quello che fu definito il “Sacro esperimento”, con una colonia fondata su principi democratici, umanitari e di profonda tolleranza religiosa. Per qualche anno la cosa sembrò funzionare e anche gli indiani non ebbero problemi: il capo dei Lenape Tammany, che aveva concordato con William Penn la cessione di terra, divenne una figura quasi leggendaria, a cui fu intitolata una società filantropica ancora oggi esistente. Gli eredi di Penn comunque non avevano la sua rigida moralità, e anche in questa regione le pretese di terra dei coloni presto avrebbero portato a contrasti. Dove invece la guerra non si interruppe praticamente mai fu nelle regioni del nord, al confine tra Maine e New Hampshire e anche nell’ovest del Massacchusset , nella valle del Connecticut, che continuarono a subire gli attacchi degli Abnaki, dei Sokoki, degli indiani di St.Francis ancora per quasi un secolo; queste tribù, con i Penobscot, i Malecite, i Passamaquody e i Micmac, avevano costituito la Confederazione Wabanaki, che sostenuta dai Francesi di Montreal e Quebec, avrebbe raccolto il testimone di Metacomet, e contrastato l’avanzata dei coloni inglesi.

Guerra civile? C’è un particolare che rende chiaro quale fu l’impatto traumatico della sollevazione indiana guidata da Metacomet sui coloni del New England: la testa mozzata del capo, esposta all’ingresso della città di Plymouth per un quarto di secolo. Non si trattava certo di una minaccia agli indiani, che non erano loro ad entrare e uscire dalla città ogni giorno: piuttosto un monito ai bianchi, per ricordare loro quale pericolo rappresentasse l’ indiano, anche quando appariva sconfitto e rassegnato, abbrutito dall’alcool o “civilizzato” dal cristianesimo, anche quando per mezzo secolo s’era adattato a ogni imposizione, aveva subito ogni umiliazione; anche quando per più di due generazioni, aveva vissuto al fianco dei bianchi e s’era mostrato amico. Un monito da cui si doveva trarre una lezione, che mai più i bianchi in America avrebbero dimenticato: non si convive con gli indiani. La speranza o l’illusione di una possibile pacifica convivenza tra bianchi e indiani, di un processo lento di integrazione tra due popoli e due mondi così diversi, iniziò e si concluse tra i cristianissimi puritani del New England; dopo d’allora nessun tentativo fu più compiuto e anche quando gli indiani non furono semplicemente eliminati o cacciati dalle loro terre, il loro destino fu la segregazione in aree sempre più limitate, le riserve, dove essi potevano essere controllati e se necessario puniti. Anche per gli indiani la Guerra di re Filippo fu un insegnamento da non dimenticare e quasi un secolo e mezzo dopo, all’inizio dell’800, il capo degli Shawnee Tecumseh, forse il più grande tra i leader politici


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degli indiani d’America, in un suo celebre discorso ricordava il destino di Metacomet e dei suoi Wampanoag, per avvertire gli indiani di quale minaccia rappresentassero i bianchi ,e come non fosse possibile con loro alcuna convivenza, se non tenendoli lontani dalle proprie terre. Di fatto dopo l’esperienza del New England mai più indiani e bianchi vissero liberamente e pacificamente fianco a fianco per periodi prolungati. Il tentativo compiuto nel New England era stato quello di affrontare il problema indiano con il formalismo legalitario e il paternalismo cristiano, che facevano da paravento all’interesse economico e alla razzistica presunzione di superiorità. Non a caso la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dell’esasperazione indiana, era stata la sentenza di morte per tre indiani accusati d’omicidio, emessa da una giuria di cui un terzo dei membri erano indiani, a riprova che tutto era fatto secondo legge: la legge dei bianchi ovviamente. Dal punto di vista dei governi coloniali, gli indiani erano traditori, che si ribellavano alle leggi della comunità di cui erano parte, che scatenavano la violenza contro i loro vicini, che rifiutavano la sottomissione alle legittime autorità e che forse operavano in rapporto con nemici stranieri, i Francesi. A garantire tale verità formale c’era anche il fatto che non tutti gli indiani erano con i traditori, e che anzi una parte di essi rimase fedele ai governi coloniali e si arruolò al fianco dei coloni bianchi, per combattere contro i ribelli. Sulla base di tali presupposti, alcuni storici hanno voluto dare della Guerra di re Filippo, una interpretazione come “guerra civile”, che lacera una comunità costituitasi in mezzo secolo di convivenza; tale interpretazione, probabilmente risente di un approccio prodottosi nei tanti conflitti etnici della storia degli Stati Uniti d’America, dove il confronto tra i WASP (White Anglo-Saxon Protestant) eredi dei primi coloni, e gli africani, gli irlandesi, i messicani, e le tante altre minoranze emigrate, hanno prodotto tensioni, la cui composizione poteva e doveva essere affrontata nella costruzione di una comune identità politica e culturale, in cui ognuno potesse avere il suo proprio riconoscimento. Questo approccio però non tiene conto di quello che potrebbe essere il punto di vista indiano, o almeno del punto di vista indiano così come Metacomet lo interpreta. E l’interpretazione di Metacomet si presenta con chiarezza, quando egli spiega ai governanti di Boston perché egli si rifiuta di farsi processare dai governanti di Plymouth: Metacomet si dichiara amico degli Inglesi, ma non riconosce la loro autorità a giudicare i suoi comportamenti, rivendicando la propria indipendenza dal governo di Plymouth, quindi in sostanza la sua non appartenenza alla stessa comunità politica; ed è interessante notare che a Boston, seppur con riluttanza, si da ragione a Metacomet e si dubita del diritto del tribunale di Plymouth di processarlo. E qui sta il carattere assolutamente peculiare della vicenda degli indiani, rispetto a tutte le altre minoranze etniche in America: essi non chiedono diritti e riconoscimenti nella società americana; essi non chiedono integrazione; di fatto tutta la loro vicenda storica è una lunga lotta, condotta prima con le armi, poi con la legge, per poter conservare la propria indipendenza e per poter vivere secondo la propria cultura. E va ricordato che almeno fino al 1871, prima i governi coloniali, poi gli stessi Stati Uniti d’America, si rapportarono alle diverse tribù indiane come “nazioni indipendenti”, i cui rapporti erano regolati non dalla legge ordinaria, ma da trattati. La categoria della “guerra civile” non regge nemmeno se riferita alle lacerazioni all’interno delle tribù indiane. E’ un fatto che almeno nei primi mesi di guerra, la rivolta di Metacomet diede espressione al malessere e alla rabbia della gran parte degli indiani, che presero con lui le armi o lo sostennero più o meno apertamente, compresi tantissimi indiani convertiti, che abbandonarono le loro comunità per unirsi all’armata indiana. All’inizio a schierarsi con i bianchi furono solo quelle tribù come i Mohegan di Uncas o i Niantic di Nigrinet, che fecero compattamente una scelta politica di alleanze, coerente con la loro storia e con le storiche inimicizie tribali; d’altra parte anche i “praying indians” rimasti fedeli, all’inizio furono trattati dai coloni con sospetto, come potenziali nemici, a dimostrazione del fatto che tanto i bianchi quanto gli indiani, operavano come comunità sostanzialmente coese e contrapposte. Solo la durezza della guerra scompaginò e rimescolò l’iniziale chiara contrapposizione, da un lato inducendo molti indiani ad arrendersi e collaborare con l’avversario, dall’altra inducendo i bianchi ad accettare il sostegno degli indiani, in una guerra che essi non erano in grado di vincere da soli. Se altri fattori fossero intervenuti a rafforzare l’armata di Metacomet (l’intervento delle tribù del nord, il sostegno francese), è probabile che il fronte indiano si sarebbe mantenuto più a lungo compatto. La Guerra di re Filippo più che una guerra civile all’interno di una comunità, fu la dimostrazione che tale comunità non era mai esistita, se non come paravento legalitario per la spoliazione incruenta e poco costosa degli indiani. Per i pratici e prudenti Puritani del New England, “l’integrazione” era solo un mezzo per risolvere il problema indiano senza eccessivi costi umani ed economici: ma non funzionò, e alla fine la storia volle il suo tributo di sangue da chi pretendeva di esserne il vincitore. E fu un tributo


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esoso, pochi numeri bastano a mostrarlo: circa un migliaio di morti tra i coloni, seicento dei quali miliziani o comunque uomini in grado di portare armi, i restanti donne e bambini; oltre cinquanta villaggi attaccati e depredati, di cui una quindicina rasi al suolo e ricostruiti solo dopo molti anni; centinaia di case andate in fumo, insieme a mulini, segherie, attività artigiane; un numero non quantificabile ma elevatissimo di capi di bestiame rubato, quasi l’intero raccolto di una stagione perso, le attività economiche delle colonie completamente interrotte, con un costo stimato da alcuni storici alla cifra di oltre 100.000 sterline (quasi 15 milioni di sterline attuali), una cifra importante per una piccola comunità. E’ anche alla luce di questi dati che la politica indiana nelle colonie del New England nel mezzo secolo precedente, era stata assolutamente “razionale”. Non c’erano scelte razionali per Metacomet invece, la cui unica certezza era il vedere le terre del suo popolo occupate e il suo stesso popolo declinare, con la sola alternativa dell’oblio e dell’abbrutimento dell’alcool, o la rinuncia alla propria identità in favore di un dio che rendeva servi e rassegnati. Non c’era razionalità per pagare il prezzo estremo con cui si paga la dignità, ma quel prezzo fu pagato, con gli interessi che si impongono ai perdenti e che negano ogni speranza di futuro. Per gli indiani basta un solo dato a quantificare la catastrofe prodottasi in un solo anno di guerra: dei circa 15.000 indiani che popolavano il New England, alla fine della guerra ne erano rimasti poco più di 4.000, di cui poche centinaia erano i Wampanoag e i Narraganset, gli altri Mohegan, “praying indians” o di altre tribù alleate degli Inglesi o rimaste neutrali. Degli oltre 10.000 indiani che scomparirono dalla regione, non sappiamo quanti furono i morti, uccisi in combattimento o dalla fame, quanti furono venduti come schiavi, finendo nelle Indie Occidentali, alle Azzorre, fino in Spagna e Portogallo: risulta che solo da Plymouth furono oltre 500 quelli venduti come schiavi e solo lo stato del Rhode Island, confermando il suo diverso approccio alla questione indiana, punì i ribelli in suo possesso, con un periodo di schiavitù a termine e da scontare in loco. Gli indiani che non morirono o non finirono in schiavitù, trovarono rifugio in piccola parte a Stockbridge e Shagtigoke, al confine tra il Massacchusset e la colonia di New York, presso i Mahican e altri gruppi Algonchini soggetti ai Mohawk, mentre la maggior parte si unirono agli Abnaki e ai Sokoki o cercarono rifugio nella valle del San Lorenzo tra i Francesi, dove nel villaggio di St.Francois si riunirono molti Pennacook e Pocuntuk. Questi profughi, la cui identità tribale si perse negli anni successivi, continuarono a combattere gli Inglesi in alleanza con la Francia e proprio gli indiani di St.Francois rappresentarono la più grave minaccia sulla frontiera del Maine fino al 1759, quando il reparto di rangers del maggiore Robert Rogers assestò loro un colpo decisivo, durante una celebre e drammatica spedizione punitiva. Parlando di rangers va rilevato come proprio nella Guerra di re Filippo per la prima volta fanno la comparsa reparti di combattenti esperti di guerriglia, formati anche da indiani alleati inseriti nei ranghi come effettivi; i rangers erano combattenti con una grande autonomia, capaci di azioni audaci che anticipano quelle dei moderni “commandos”, refrattari ai formalismi militari e la loro presenza, spesso invisa alle gerarchia militari, fece la differenza in diverse situazioni nei due secoli successivi. Per quanto riguarda l’uso degli indiani per combattere gli indiani, ancora quasi alla fine dell’800 era questione che suscitava dispute e contrasti; negli ultimi anni delle guerre Apache, il generale Crook che aveva assoldato un gran numero di guerrieri Apache, seguendo il principio che “solo un Apache può prendere un Apache”, fu estromesso dal comando e sostituito dal generale Miles, che disprezzava gli indiani e riteneva di poterne fare a meno: inutile dire che Miles fu smentito dai fatti. L’uomo a cui si devono tali innovazioni nella guerra contro gli indiani, Benjamin Church è egli stesso una figura nuova, che anticipa quella di altri combattenti indiani, resi popolari dalla cinematografia e dalla letteratura western: esperto nella guerriglia e grande conoscitore degli indiani, egli li combatte con determinazione se nemici, ma li rispetta se alleati, evita inutili crudeltà con i vinti e cerca sempre una soluzione pacifica, prima di usare le armi, a volte anche a costo di scontrarsi con le gerarchie politiche o militari. Quanto questa figura di combattente sia stata reale o quanto essa sia frutto di una narrazione ideologica è discutibile, ma è un fatto che Church, il cui contributo alla conclusione della guerra fu deBenjamin Church a cui si deve la costituterminante, riuscì a ottenere la resa di importanti capi guerrieri of- zione del primo corpo di rangers


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frendo condizioni accettabili (che però i suoi superiori non rispettarono) e non si macchiò di crudeltà nei confronti di inermi prigionieri. La Guerra di re Filippo fu una delle più importanti vicende nella storia dei rapporti tra bianchi e indiani, perché in essa si espressero tutti i temi che si riproporranno nei successivi conflitti: il terrore che i guerrieri indiani erano in grado di scatenare, le divisioni che quasi sempre erano la maggiore debolezza degli indiani, l’impossibilità di una pacifica convivenza tra i due popoli e infine la necessità di combatterli imparando da loro le tecniche di guerriglia, imponendo ai bianchi l’unico rispetto che essi potevano riconoscere agli indiani: quello che si deve ai guerrieri.


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Gli sconfitti Negli stessi anni in cui in New England gli indiani e i coloni giungevano alla resa dei conti finale, anche in Virginia riesplodeva la violenza, anche se qui gli indiani più che protagonisti, furono le vittime di un conflitto che attraversava la colonia e di cui essi non avevano alcuna responsabilità. Di fatto in Virginia gli indiani avevano cessato da tempo di essere un problema, a parte qualche occasionale tensione nelle zone di frontiera. A differenza di quanto era accaduto in New England dove i villaggi indiani e quelli dei coloni erano cresciuti gli uni vicini agli altri, l’esperienza di ben tre guerre contro la Confederazione Powhatan nella prima metà del ‘600, aveva indotto i governi coloniali a separare quanto più possibile gli indiani dai coloni. Non solo quindi gli indiani non potevano penetrare nelle zone colonizzate, se non con un salvacondotto rilasciato dalle autorità, ma nemmeno i bianchi potevano ne occupare ne visitare, le terre indiane, salvo quei pochi mercanti che detenevano il monopolio del commercio di pelli. A differenza di quanto facevano i Francesi, le cui esplorazioni raggiungevano le regioni più lontane, fin oltre i Grandi Laghi, o i coloni del New England, la cui avanzata nelle terre indiane era più lenta, ma si caratterizzava per la progressiva occupazione delle terre indiane, in Virginia i pesanti costi delle tre guerre contro i Powhatan in meno di trent’anni, avevano indotto i governi coloniali a una più prudente politica. D’altra parte il costo delle guerre era stato ben più pesante per gli indiani della ormai disciolta confederazione Powhatan: delle circa 30 tribù che ne facevano parte all’inizio del ‘600, al tempo della fondazione di Jamestown, quasi due terzi erano scomparse e quelle rimanenti indebolite e con una popolazione ridotta di più della metà, che mai superava le poche centinaia di individui ognuna, pur avendo accolto al loro interno i superstiti delle tribù scomparse. Vivendo a ridosso della frontiera della colonia, dovevano spesso subire vessazioni da parte dei coloni, ma continuavano a confidare nella tutela del governo coloniale e non osavano più opporsi con la forza. Più a nord lungo il corso del fiume Potomac al confine con la colonia del Maryland, la situazione era meno definita; in questa regione l’influenza della confederazione Powhatan era minore, e gli indiani furono solo marginalmente coinvolti dal sanguinosi conflitti, che aveva sconvolto la regione meridionale. Così i Patawakomet che erano stati parte della Confederazione Powhatan, ne avevano preso le distanze, preferendo allearsi con gli Inglesi; oltre il fiume le diverse tribù Piscataway avevano fatto la stessa scelta, nella speranza di tutelarsi dagli attacchi da nord dei nemici Susquehannock. Gli indiani quindi accolsero amichevolmente i coloni che si insediavano nella regione, anche se essi portavano alcool e malattie che mietevano vittime nei villaggi, e non erano di alcun aiuto contro i nemici Susquehannock. Nel 1655 gli Svedesi che commerciavano sul fiume Delaware con i Susquehannock, furono cacciati dagli Olandesi e a quel punto gli Inglesi si sostituirono a essi rifornendo i Susquehannock di armi e aggiungendo nuove ragioni di tensione nei rapporti con i Piscataway. Alla lunga la situazione non poteva non


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deteriorarsi e nel corso degli anni ’60 del ‘600 le tensioni sfociarono in una serie di incidenti tra indiani e coloni, che però il governo del Maryland impedì che si trasformasse in guerra aperta, stabilendo alcune piccole riserve per gli indiani. Nel frattempo delle otto tribù Piscataway ne sopravvivevano quattro, mentre i Patawakomet erano stati costretti a spostarsi a sud e unirsi ai Rapahannock. Meno numerosa era stata la penetrazione dei coloni sulla sponda orientale della baia di Chesapeake, nella penisola di Delmarva, dove le diverse tribù Nanticoke difendevano con determinazione i loro diritti con una guerriglia costante ma di bassa intensità. Dopo un inutile trattato nel 1661, nel 1669 il governo del Maryland fu costretto a firmare un atro trattato con i Nanticoke, che impegnava i coloni che risiedevano sulle loro terre a pagare un tributo agli indiani. I conflitti e le tensioni comunque non cessarono fino ai primi anni del ‘700. Solo nel sud della penisola, le tribù Accomac e Accohannoc, che erano state parte della Confederazione Powhatan uscendone all’inizio dei conflitti con i bianchi, rimanevano in rapporti amichevoli; malLa Virginia intorno al 1670; la linea tratteggiata indica i confini della grado ciò in questa regione un ricco e colonia dopo la 3° Guerra Powhatan influente proprietario terriero di nome Edmund Scarborough, che gia aveva massacrato un villaggio dei Pocomoke nel 1651 e nel 1659 aveva guidato una fallita spedizione contro gli Assateaque, nel 1671 invitò gli indiani locali ad una festa nella sua tenuta nella contea di Northampton (Virginia) e li massacrò con un cannone caricato a mitraglia. Nelle regioni interne, lontani dai confini della colonia, le tribù Siouan che vi vivevano consumavano un dramma di cui abbiamo scarse testimonianze, legato alle I Guerra del Castoro. Qui sui due versanti dei monti Appalachee le spedizioni di guerra della Lega Iroquois a partire dalla metà del ‘600 iniziarono a lanciare i loro raids distruttivi e dalle conseguenze non facilmente valutabili. E’ certo che le tribù che abitavano sulle pendici occidentali dei monti abbandonarono la regione, per cercare rifugio a est come i Tutelo o scomparirono come i Moneton, la cui ultima citazione risale al 1674 e i cui superstiti fuggirono anch’essi a est per unirsi agli affini Tutelo. Nemmeno la catena montuosa comunque offriva rifugio dalla terribile guerra, e i Manahoac, una potente confederazione Siouan che viveva sull’alto corso del Potomac, all’inizio degli anni ‘70 iniziò a spostarsi a sud per trovare rifugio tra i Monacan sul fiume James, non sappiamo se a causa degli attacchi degli Iroquois o dei Susquehannock; tanto i primi che i secondi erano riforniti di armi di metallo e fucili, di cui le tribù Siouan, lontane dai bianchi, erano sprovvisti. Altre tribù Siouan come i Saponi e i Nahiassan che vivevano alle sorgenti del James, fuggirono ancora più a sud per sfuggire agli attacchi dei guerrieri armati di fucili, e si insediarono al confine tra Virginia e North Carolina, lungo i fiumi Dan e Tauton, vicini agli affini Okaneechi, dove furono raggiunti anche dai Tutelo. Queste tribù dovevano aver subito perdite pesanti, se nessuna di esse occupava più di due villaggi di poche centinaia di abitanti. Di fatto la condizione degli indiani in Maryland e Virginia non era tale da poter produrre una significativa resistenza armata e tante erano le ragioni della loro decadenza: le guerre devastanti contro gli Inglesi della prima metà del ‘600, gli attacchi degli Iroquois, le malattie che avevano già colpito le tribù, la diffusione dell’alcool che ne aveva minato l’anima; gli indiani erano di fatto gia sconfitti e sottomessi, pronti a subire ogni altro abuso loro imposto. Il loro destino era quello di ritrarsi davanti all’inevitabile


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avanzata dei bianchi e fuggire all’ovest come profughi o adattarsi a vivere ai margini del loro mondo, per poi progressivamente scomparire: un destino triste e drammatico, ma che poteva almeno essere incruento. Non andò così e negli stessi mesi in cui si consumava nel sangue l’ultima resistenza indiana nel New England, in Virginia pacifici indiani venivano massacrati dalla furia di un conflitto di cui non avevano alcuna responsabilità.

Questione indiana e tensioni sociali A differenza di quanto era accaduto nel New England, dove il collante di una comune adesione al medesimo impianto religioso, aveva prodotto una comunità sostanzialmente coesa, caratterizzata dalla presenza di piccola e media proprietà contadina, di artigiani e mercanti, con diritti almeno formalmente eguali, priva di significative contraddizioni interne e divisa al più su questioni religiose e sull’interpretazione dei precetti della morale puritana, la Virginia alla metà del ‘600 era una terra attraversata da gravi tensioni sociali. A differenza dei coloni che giungevano in New England, abitualmente liberi di cominciare una nuova vita contando sulle proprie forze, in Viginia dopo i primi coloni a cui s’era dovuta la fondazione di Jamestown e della colonia, erano giunti un gran numero di emigranti, tra cui molti di origine africana, legati a contratti di lavoro servile che li impegnavano per diversi anni per riscattare i costi del loro trasferimento. Con il tempo si era così giunti ad una netta frattura sociale tra il nucleo dei primi coloni, divenuti nel frattempo grandi proprietari terrieri, impegnati in particolare nella produzione di tabacco, e un gran numero di ex lavoratori a riscatto, finalmente liberatisi dei loro obblighi, che cercavano di trovare le loro opportunità di arricchimento o quanto meno di benessere, nelle terre di frontiera. Di fatto il nucleo dei coloni fondatori si costituì in una sorta di aristocrazia coloniale, che poi rimase un tratto fondante della storia della Virginia, che si estese poi in tutto il sud degli Stati Uniti, la cui economia rimase caratterizzata dal grande latifondo, dalle piantagioni, prima di tabacco e poi di cotone, proprietà di una vera e propria aristocrazia agraria. A questa aristocrazia in nuce, si opponeva la gran massa di coloni poveri, esclusi anche formalmente dai diritti politici e dalla possibilità di eleggere rappresentanti nelle istituzioni coloniali, sottoposti ad una imposizione fiscale su cui non avevano controllo, esclusi dal grande commercio con gli indiani, rigidamente sottoposto a controllo e monopolio di pochi grandi possidenti. Questi coloni poveri erano però quelli che vivevano sulla frontiera, a più diretto contatto con gli indiani, con cui avevano piccoli commerci e occasioni di tensione; ed erano ovviamente ostili agli indiani. In questo quadro di tensioni il tema della politica coloniale nei confronti degli indiani divenne la miccia che avrebbe fatto esplodere una vera e propria guerra civile. Il governo coloniale e i più ricchi possidenti scarsamente interessati a una estensione della colonizzazione verso le regioni dell’interno e preoccupati dei costi economici di una guerra indiana, limitavano l’intraprendenza dei coloni più poveri, che nelle terre indiane cercavano opportunità per il loro futuro. Il governo coloniale, sempre per evitare più costosi conflitti, spendeva denaro per mantenere piccoli presidi di frontiera e magari fare qualche regalo ai capi tribali più affidabili, e i costi di tale politica ricadevano sulla fiscalità generale, sostenuta anche dai coloni poveri; infine il commercio, a cui i coloni poveri erano interessati, ma che dava grandi profitti solo a pochi ricchi commercianti autorizzati a spingersi nell’interno, e che era l’occasione per l’accusa al governo di essere “in combutta” con gli indiani, di rifornirli di armi, di favorire la loro presenza. La prospettiva di terre vergini e della libertà, che fu la molla che motivò l’espansione a ovest guidata spesso da pionieri forniti solo della speranza, del coraggio e di un fucile, era di fatto inibita in Virginia e anche l’attività di esplorazione e conquista, che in quegli stessi anni portava Francesi e Spagnoli a spingersi in terre sconosciute fin nel cuore del continente, fu estremamente più limitata e non si spinse oltre il limite naturale rappresentato dai monti Appalachee. Il più attivo in questa attività di esplorazione fu il ricco commerciante Abraham Wood, la cui base era nell’avamposto di Ft.Henry, sul fiume Appomatox, uno dei presidi costruiti dopo la 3° Guerra Powhatan ancora attivo intorno al 1670; Ft. Henry era anche l’unico luogo in cui era possibile per gli indiani ottenere l’accesso alle regioni colonizzate, e per i bianchi spingersi in territorio indiano, e così Wood di fatto esercitava il quasi totale monopolio del commercio di pelli di castoro e di cervo con l’interno, contando sul rapporto con la vicina tribù degli Appomatoc. Giunto nel 1620 ancora bambino in Virginia, Wood si fece una solida posizione, acquisì terre e nel 1650, insieme ad un altro possidente di nome Edward Bland, risalì il fiume James, spingendosi poi a sud-ovest fino all’alto corso del fiume Roanoke, in North Carolina, dove venne in contatto con la tribù Siouan degli Okaneechi. Dopo questo primo viaggio esplo-


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rativo gli Okaneechi divennero i principali partners commerciali di Wood, raccogliendo pelli dalle tribù dell’interno, che poi attraverso l’intermediazione della tribù Iroquaian dei Nottoway, raggiungevano Ft.Henry. Nel 1671 Wood con l’autorizzazine del governo della Virginia, organizzò una nuova spedizione esplorativa, guidata da Thomas Batts, Robert Fallam e dal figlio di Wood Thomas, che con la guida di un indiano Appomatoc, partì il 1 settembre e riuscì a valicare gli Appalachee per discendere il New River, le cui acque attraverso il Kanawha raggiungono il fiume Ohio. Questa spedizione aveva l’obbiettivo di trovare il Mare Occidentale e la via per la Cina, ma dopo un mese di viaggio e la morte di Thomas Wood, fece ritorno a Ft.Henry; co- L’area interessanta dalle attività eplorative in Virginia munque sulla base di questo primo affacciarsi alla valle dell’Ohio, gli Inglesi della Virginia avanzarono le loro pretese sulla regione, allora dominio della Lega Iroquois . Due anni dopo Wood inviò il suo collaboratore John Needham, insieme al suo servo Gabriel Arthur e otto indiani a ritentare l’impresa, e partiti il 10 aprile del 1673, dopo essere penetrati nell’interno, essi incontrarono un gruppo di indiani “Tomahitan” (certamente Cherokee), che ansiosi di commerciare li guidarono al loro villaggio. Needham stabilì cordiali rapporti con i Cherokee, poi ripartì per Ft.Henry per organizzare i primi invii di merci, ma sulla via del ritorno fu ucciso da una guida Okaneechi; non è chiaro quali siano le ragioni del suo assassinio, ma è probabile che gli Okaneechi temessero che un rapporto diretto tra Cherokee e Inglesi, avrebbe reso la loro intermediazione inutile. Gabriel Arthur, ignaro del destino del suo padrone, rimase per oltre un anno tra i Cherokee, prima rischiando la morte, poi dopo essere stato adottato nella tribù, partecipando a spedizioni di guerra fino alle colonie spagnole della Florida a sud e al fiume Ohio a nord, primo bianco a spingersi così a ovest; durante una di queste spedizioni di guerra fu preso prigioniero dagli Shawnee, che però scoprendo che era un bianco lo liberarono. Arthur fu il primo uomo bianco a incontrare i Cherokee e a vivere tra di loro, e dopo il suo ritorno a Ft.Henry nel giugno del 1674, gli Inglesi iniziarono ad interessarsi di questa potente tribù che viveva fra i monti. La ricerca di del Mare Occidentale indusse il governo coloniale a sostenere altre tre brevi missioni esplorative guidate dallo studioso tedesco Johan Lederer tra il 1669 e il 1670. La prima di queste spedizioni partì il 9 marzo 1669 e durò due settimane, nel corso delle quali Lederer e le sue guide, partiti dal villaggio indiano di Chickahominy, raggiunsero la catena dei Blue Ridge e la valle di Shenandoha. L’anno successivo, sempre su incarico del governo coloniale, Lederer, venti uomini bianchi e alcune guide Susquehannock partirono in maggio da Ft.Charles (Richmond) e si spinsero a sud-ovest, lungo le pendici degli Appalachee, in North Carolina, fino a raggiungereil fiume Catawba, prima di tornare a Ft. Henry nel luglio dello stesso anno. Il mese successivo Lederer partì dalla casa di Robert Tagliaferro (eminente famiglia di origine italiana, emigrata prima in Inghilterra, poi in Virginia) sul fiume Rapahannock, lo risalì fino alle pendici delle Blue Ridge, dove lasciò i cavalli per proseguire a piedi fino in cima ai monti, e poi fare ritorno. La possibilità di uno sviluppo oltre gli Appalachee dell’influenza della Virginia, aveva un suo limite nell’attività della Lega, che in quegli stessi anni stava imponendosi come la principale potenza regionale, nel conflitto della I Guerra del Castoro. La stessa attività della Lega era una minaccia per la sicurezza della colonia della Virginia, dato che le spedizioni Iroquois, dei Seneca in particolare, valicavano i monti per colpire le tribù Algonquian e Siouan, spingendosi a sud fino alla North Carolina, e inducendo molti indiani a trasferirsi e fuggire, in un clima di instabilità, che faceva aumentare le tensiono con i coloni.


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La situazione era particolarmente difficile lungo il fiume Potomac, al confine con il Maryland, dove i Piscataway vedevano giungere nuovi coloni che si insediavano sulle loro terre senza autorizzazioni, erano costretti a difendersi dagli attacchi degli Iroquois, e obbligati ad accogliere gli antichi nemici Susquehannock, che sconfitti dalla Lega, lasciavano le loro terre e accettavano l’ospitalità del governo del Maryland, che dava loro terre in cambio di aiuto a difendere i confini. Nel 1675 i Piscataway sconfissero in battaglia i Susquehannock superstiti della guerra contro la Lega, ma ciò non bastò a cacciarli; la frustrazione e la rabbia tra gli indiani della regione cresceva e sarebbe bastata una scintilla per dar fuoco alle polveri. I coloni dal canto loro sollecitavano il governo a tutelare le loro pretese, a cacciare gli indiani dalle loro terre e minacciavano di fare da soli ciò il governo non voleva fare. A queste dinamiche interne si aggiungevano poi altri problemi, come il calo del prezzo del tabacco, l’aumento dei manufatti importati dalla madrepatria, la concorrenza delle vicine colonie del Maryland e della Carolina, tutti elementi che contribuivano a far crescere il malessere sociale, e che attendevano solo un’occasione per esplodere. Poi nell’estate del 1675 un piccolo incidente senza importanza e l’odio latente avrebbe riacceso la violenza.

La guerra inizia a nord Il Northern Neck, la terra tra il Rapahannock e il Potomac, nel nord della Virginia, quasi al confine con il Maryland, era a quell’epoca una regione piuttosto autonoma dal governo di Jamestown, dove i coloni si erano insediati, inizialmente ben accolti dagli indiani; da anni però la situazione si era deteriorata, e le tensioni con i Piscataway erano frequenti. Il 17 luglio del 1675 il colono e commerciante Thomas Matthews di Cherry Point, nella contea di Northumbeland, ebbe i suoi maiali rubati; si trattava della rivalsa di un gruppo di indiani Doeg (Piscataway), per il mancato pagamento di alcune pellicce. La risposta di Thomas Matthews fu più che decisa: raccolto un gruppo di coloni si pose sulle tracce dei razziatori, li inseguì fin oltre il Potomac, nel Maryland, e riuscì ad ucciderne alcuni; la reazione dei Doeg fu un raid che pochi giorni dopo colpì la fattoria di Matthews, dove furono uccisi il figlio e due servitori. Malgrado il sangue versato, forse evitare la guerra sarebbe ancora stato possibile, ma è probabile che le prime notizie sulla rivolta indiana nel New England, iniziata solo poche settimane prima, abbiano contribuito a far crescere l’ostilità dei coloni e indurli ad assumere l’iniziativa. All’inizio di agosto la locale milizia al comando dei capitani George Mason e George Brent, si mise in campagna per punire i responsabili dell’omicidio dei bianchi, e i due reparti attraversato il Potomac, trovarono due piccoli villaggi indiani e li attaccarono. Il primo era un villaggio di Piscataway, il cui capo fu ucciso a tradimento durante un colloquio con Brent, e in cui furono ammazzati altri dieci indiani; poco distante gli uomini di Mason avevano circondato un gruppo di Susquehannock ancora nel sonno, e quando questi si svegliarono allarmati dai colpi d’arma da fuoco provenienti dal vicino villaggio Piscataway, furono a loro volta attaccati; le vittime furono quattordici, prima che Mason si rendesse conto che si trattava di indiani amici e alleati, e riuscisse a far cessare il fuoco. All’inizio di settembre tanto i Susquehannock, che i Piscataway lanciarono piccole azioni contro i coloni, quindi in settembre le notizie del rischio di una vera e propria guerra indiana, imposero al governo di Jamestown di assumere l’iniziativa. Un reparto della milizia al comando del colonello George Washington (nonno del primo presidente degli Stati Uniti) raggiunse la regione all’inizio di settembre, con l’incarico affidato dal governatore Berkley di condurre un’inchiesta per individuare i colpevoli delle violenze indiane. Washington comunque doveva avere le idee già chiare sugli avvenimenti, giacchè invece di condurre l’inchiesta, raccolse tutti gli uomini disponibili, compresi 250 inviati dal Maryland, e si mise in caccia degli indiani. Il 26 settembre i miliziani individuarono un grande e ben fortificato villaggio dei Susquehannock e lo circondarono; cinque capi Susquehannock, ufficialmente alleati dagli Inglesi, uscirono sotto la protezione della bandiera bianca per chiedere conto di quella minaccia, ma vennero uccisi a tradimento dai miliziani; per questo atto disonorevole ci saranno poi inchieste, in cui i Virginiani e gli uomini del Maryland si scaricheranno reciprocamente le responsabilità: alla fine nessun colpevole ovviamente. L’assassinio a tradimento dei cinque capi fu forse l’unico atto di rilievo della campagna militari: i miliziani posero l’assedio per giorni, senza tentare un vero e proprio attacco, per timore degli indiani allertati e delle difese del villaggio, poi una notte i Susquehannock riuscirono a rompere l’accerchiamento uccidendo nel sonno dieci miliziani, e quindi sgusciarono via in silenzio, portando con se donne e bambini. I Susquehannock furiosi si spostarono a sud del Potomac e nei giorni successivi si scatenarono attaccando gli insediamenti lungo la frontiera e uccidendo trentasei coloni; poi avendo riscattato con il sangue il sangue versato, fe-


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cero sapere al governatore Berkley, che erano pronti a parlare di pace e a cessare le ostilità. Per Berkley e il governo di Jamestown accordarsi con gli indiani senza aver dato soddisfazione piena ai coloni era impossibile; ne d’altra parte era possibile immaginare una nuova e dispendiosa guerra indiana. Le notizie della sanguinosa ribellione in New England suscitavano i timori dei coloni di frontiera, i primi a rischiare la vita, ma anche le preoccupa- Nathaniel Bacon e il governatore della Vitginia William Berkley zioni dei governanti, che temevano una situazione fuori controllo. Quella stessa estate sul confine meridionale, intorno a Albemarle Sound, altri incidenti coinvolgevano i Chowan e i locali coloni. Nel dubbio su come affrontare la situazione Berkley decise la convocazione in marzo, di una grande assemblea che avrebbe dovuto prendere le decisioni per affrontare la crisi. L’assemblea fu però accusata di corruzione, e i provvedimenti che prese, in particolare sulla questione del commercio indiano, non fecero che peggiorare la situazione: costruzione di una serie di fortini, a difesa dei coloni, e il controllo totale del commercio con gli indiani per evitare che ottenessero armi. Ovviamente il costo di costruzione e mantenimento dei fortini, sarebbe stato pagato dalle tasse dei coloni, mentre a gestire in monopolio il commercio erano autorizzati solo pochi mercanti amici di Berkley. Non era questo che chiedevano i coloni della frontiera, che non desideravano pagare tasse per ottenere protezione, ma solo il diritto a proteggersi da se e cacciare o uccidere ogni indiano. I mesi invernali e la primavera, passarono in una sorta di “drole de guerre” non voluta ne da gran parte degli indiani, ne dal governo coloniale, ma durante la quale uccisioni di coloni e incendi di fattorie, raggiunsero anche le regioni dei fiumi York e James; gli incidenti avvenuti a nord producevano in tutta la regione la rabbia degli indiani, ma più che una vera e propria guerra, si trattava di azioni fuori controllo di piccole bande di guerrieri, spesso mosse da rancori e frustrazione. Una guerra vera e propria covava invece tra i coloni della Virginia, la cui ostilità nei confronti del governo cresceva di pari passo con quella nei confronti degli indiani. Nessuna azione militare offensiva, nessun diritto dei coloni a costituire milizie autonome, nuove tasse per pagare la costruzione dei forti e infine divieto di commercio con gli indiani, autorizzato solo per gli amici del governatore: i piccoli proprietari terrieri, gli ex lavoratori a riscatto, sia bianchi che neri che sulla frontiera vivevano liberamente, forse avrebbero continuato semplicemente a mugugnare contro il governo e a commerciare di nascosto con gli indiani (magari truffandoli, come aveva fatto Matthews), ma in questa situazione già tesa giunse l’uomo che l’avrebbe fatta esplodere: Nathaniel Bacon.

La rivolta di Bacon Natahaniel Bacon aveva meno di trent’anni quando giunse in Virginia, inviatovi dal padre con una bella somma e la speranza che “mettesse la testa a posto”. Bacon proveniva da una buona famiglia, aveva studiato, visitato l’Europa, ma il suo carattere di testa calda e piantagrane, avevano indotto il padre a spedirlo in America. In Virginia Bacon fu accolto dal governatore Berkley, suo cugino acquisito, che gli affidò due concessioni di terra sul fiume James e un posto garantito nella elite politica della colonia. Buon oratore, ambizioso, nemico degli indiani e capace di ottenere consenso da parte dei coloni (anche offrendo generose bevute di brandy) Bacon giunse nella colonia nel pieno delle tensioni sociali e della disputa sulla politica indiana, e subito si schierò contro il suo cugino governatore, accusandolo in particolare di gestire a proprio vantaggio il commercio con gli indiani. Nella primavera del 1676


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Bacon si pose alla testa dei coloni più ostili al governo, organizzando una campagna che avrebbe dovuto colpire gli indiani ostili, ma il cui unico risultato fu la distruzione di un villaggio e dei campi degli Appomatoc e dei Mattapony, che da anni erano alleati degli Inglesi; in maggio venuto a conoscenza della presenza di un villaggio di Susquehannock sul fiume Roanoke (probabilmente profughi in fuga dal nord), Bacon si pose alla testa di un gruppo di coloni, di cui si era guadagnato il consenso con una generosa distribuzione di brandy, per attaccare gli indiani. Comunque la banda di ubriachi di cui si era posto alla guida, non doveva far sentire sicuro Bacon, che giunto nei pressi del villaggio degli Okaneechi chiese il sostegno della tribù, fedele alleata degli Inglesi; i guerrieri Okaneechi attaccarono il piccolo villaggio Susquehannock, uccidendone alcuni e facendo diversi prigionieri, ma dopo l’azione, una disputa sorse con gli uomini di Bacon, che volevano impossessarsi dei prigionieri senza pagare alcun riscatto a chi li aveva catturati. Bacon e i suoi uomini presero di sorpresa gli Okaneechi che li avevano accolti nel loro villaggio, compiendo un massacro in cui non furono risparmiati donne e bambini; dopo il massacro gli uomini di Bacon si impossessarono di un grande quantitativo di pelli pregiate, che gli Okaneechi avevano raccolto dalle tribù vicine per commerciare con gli Inglesi. Gli Okaneechi supersti fuggirono a sud, fino a raggiungere il fiume Eno in Norh Carolina, e il loro ruolo di intermediari commerciali si concluse definitivamente. Con questo genere di azioni Bacon si era guadagnato popolarità tra i coloni della frontiera, ma i suoi rapporti con il governatore Berkley giunsero alla rottura; durante i mesi successivi un confuso conflitto avvenne all’interno della colonia, Bacon fu estromesso dal consiglio della colonia, dichiarato ribelle e contro di lui fu inviato un contingente di uomini armati, fu arrestato e poi liberato, poi si giunse ad un confronto diretto quando Bacon con 500 uomini si presentò a Jamestown, circondò minacciosamente l’edificio in cui si riuniva il consiglio coloniale, obbligando Berkley a fuggire e a cercare rifugio nel sud della penisola di Delmarva. Durante l’estate Bacon si trovò alla guida del governo della colonia, e in agosto lanciò una nuova campagna contro gli indiani, colpendo questa volta i Pamunkey, che da decenni erano fedeli alleati. Guidati da Cockacoeske, la vedova del capo Totopomoi, morto nel 1656 combattendo a fianco degli Inglesi nella battaglia di Bloody Run, i Pamunkey avevano abbandonato la loro piccola riserva all’inizio dei disordini, cercando rifugio nelle Dragoon Swamp, un area paludosa a sud del fiume Piankatank, ma qui furono raggiunti da circa 600 miliziani; i Pamunkey evitarono di opporre ogni resistenza e riuscirono a darsi alla fuga disperdendosi nelle paludi, ma quarantacinque di loro furono presi prigionieri e otto uccisi. Nel clima generale prodotto dalle iniziative di Bacon, molti furono i coloni che si sentirono autorizzati a compiere violenze contro gli indiani, abitualmente pacifici e non in condizione di difendersi. Lungo il confine meridionale, nella zona di Albemarle Sound le tensioni con i Chowan esplosero in una vera e propria guerra, che si protrasse fino alla fine dell’anno, mentre nella penisola di Delmarva i Nanticoke ripresero le azioni ostili contro i coloni. La breve vicenda di demagogo e cacciatore di indiani di Nathaniel Bacon si interruppe nel settembre del 1676, quando di fronte al ritorno del governatore Berkley e dei suoi sostenitori, egli fu costretto ad abbandonare Jamestown, non prima di aver comandato l’incendio e la distruzione della città; un mese dopo, in ottobre Bacon moriva colpito da un fulmineo attacco di febbre, lasciando senza guida i ribelli. Nel corso dell’autunno le notizie dalla Virginia indussero la corona d’Inghilterra ad intervenire per riportare l’ordine, e in gennaio delle truppe giunsero dall’Europa per dare la caccia alle bande di ribelli che ancora si nasconI ribelli di Bacon lasciano Jamestown dopo averla incendiata devano nelle regioni di frontiera; lo stesso Berkley


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dovette rispondere del suo operato davanti al re, ma morì a Londra prima di poter difendere le sue ragioni. La guerra che gli indiani non avevano mai voluto e che non erano in grado di sostenere, si concluse senza apparenti vinti ne vincitori, ma con il solo risultato di rendere chiaro che nessun indiano era al sicuro vivendo nelle vicinanze dei bianchi: tutte le tribù che erano state vittime di attacchi, erano alleate del governo della Virginia, commerciavano con gli Inglesi, offrivano il sostegno dei loro uomini come guide e guerrieri, da decenni si astenevano da qualsiasi atto ostile, eppure malgrado ciò, gli indiani continua- I conflitti con gli indiani durante la rivolta di Bacon vano ad essere considerati come una minaccia, e bastava un poco di brandy per agitare gli spiriti e trasformare gli avventori di una taverna di frontiera, in una spedizione di avventurieri senza scrupoli e senza pietà. Se nel New England l’ipocrisia del paternalismo puritano era stata spazzata via dopo mezzo secolo di “coesistenza pacifica”, in Virginia nemmeno la resa e la totale sottomissione erano state sufficienti per dare agli indiani un po’ di pace.

Il destino degli indiani della Virginia Benchè gli indiani siano stati le principali vittime delle violenze scatenatesi con la Rivolta di Bacon, la vicenda non può certo essere inquadrata come una guerra indiana, ma come un conflitto sociale tutto interno alla colonia della Virginia; essa fu addirittura, da alcuni storici, considerata come un’anticipazione delle volontà di indipendenza dei coloni, che un secolo dopo porterà alla Rivoluzione Americana. In realtà Bacon e i suoi sostenitori, non si opponevano al dominio inglese, ma alle elites locali che mantenevano il controllo politico e il monopolio commerciale, a scapito della maggioranza della popolazione, e rispetto a tali problemi, la sollevazione non ottenne alcun risultato: i grandi proprietari terrieri eredi dei primi coloni, continuarono a mantenere poteri e privilegi, e la rabbia dei coloni poveri, indirizzata principalmente contro gli indiani, non produsse alcun avanzamento sociale. La vicenda però non fu senza conseguenze e da essa le elites dominanti trassero insegnamenti che ebbero conseguenze importanti. La prima di tali conseguenze fu la fine della pratica di portare nel Nuovo Mondo lavoratori “a riscatto”, che una volta liberati dal loro vincolo servile avrebbero potuto rappresentare una minaccia al sistema di potere. Dopo la Rivolta di Bacon la necessità di forza lavoro per le piantagioni di tabacco (e poi di cotone) sarebbe stata coperta da schiavi africani, senza alcuna possibilità di riscatto, condannati per tutta la vita: la possibilità che bianchi e neri poveri potessero unirsi per reclamare diritti, non si produsse mai più, e il tema delle differenze di diritti e di condizione economica, si produsse da allora in poi lungo il crinale del colore della pelle. Dalla fine del ‘600 e per tutto il ‘700 gli africani furono portati a forza dalle navi negriere sulle coste americane, e la loro presenza divenne l’opportunità per i bianchi poveri di non sentirsi più gli ultimi, ma di considerarsi anch’essi parte di un sistema di poteri e privilegi. Se la schiavitù dei neri fu uno dei modi per affrontare le tensioni sociali interne alla colonia, l’altro fu la definitiva perdita di ogni diritto da parte degli indiani. Il timore di cruenti e dispendiosi conflitti con i nativi era stata una delle ragioni che aveva prodotto il contrasto tra governo coloniale e coloni della frontiera, ma quando le fiamme di Jamestown resero evidenti quali erano i pericoli che la colonia correva, il rischio di un conflitto con i nativi fu considerato il male minore e nessun freno fu più posto alla sottrazione delle terre agli indiani; l’ovest era la naturale valvola di sfogo delle tensioni sociali tra i bianchi, e così fu sempre usato da allora.


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Dopo la Rivolta di Bacon la questione indiana in Virginia non si pose più e i coloni in breve avanzarono fino ai crinali dei monti Appalachee, obbligando le ormai deboli comunità indiane a farsi definitivamente da parte. Ancora il 30 agosto del 1704 una spedizione di una decina di guerrieri Nantaughtacund (ex Confederazione Powhatan), nella zona a sud del Rapahannock uccise un colono e la sua famiglia, dopo che le loro denunce per l’illegittimità delUn gruppo di indiani Pamunkey in abiti tradizionali, fotografati alla fine dell’800 l’occupazione delle terre era nel corso di una rievocazione in onore di Pocahontas rimasta inascoltata. La risposta fu la cattura di una cinquantina di membri della tribù, praticamente tutti, l’impiccagione di otto di loro e la vendita come schiavi nelle Indie Occidentali per tutti gli altri; nel 1742 alcuni Nanticoke sospettati di organizzare un complotto contro i coloni furono arrestati, a dimostrazione di quanto le tensioni tra bianchi e indiani si protrassero negli anni, ma di fatto il tempo delle guerre indiane in Virginia si concluse con il Trattato di Middle Plantation nel maggio del 1677, ultimo atto della Rivolta di Bacon. Il trattato sanciva la fine del conflitto e fu firmato da quanto rimaneva delle tribù Powhatan (Pamunkey, Appomatoc, Nansemond, Weanoke, Nantaughtacund), dalle tribù Iroquaian dei Nottoway e dei Meherrin, e dai Siouan Monacan e Saponi, e garantiva il diritto degli indiani a cacciare e a pescare e a portare armi, in cambio della loro sottomissione e ubbidienza al re d’Inghilterra, oltre che al pagamento di tributi in pelli. Nei decenni successivi comunque e fino alla metà del ‘700, il destino degli indiani della Virginia e del Maryland fu quello della progressiva perdita di identità tribale, sia per la diaspora conseguenza dei continui trasferimenti, sia per il calo demografico dovuto ad alcool e malattie, sia per i matrimoni misti, fra membri di tribù diverse, ma anche con i bianchi e gli africani. Alcune piccole comunità indiane, eredi della antica confederazione Powhatan (Chickahominy, Pamunkey, Mattapony, Nansemond, Patawomeck, Rapahannock) riuscirono a sopravvivere fino ai giorni nostri sulle loro terre, adattandosi al mondo dei bianchi e vivendone ai margini, e oggi hanno un loro status legale riconosciuto dallo stato della Virginia; due di esse (Mattapony e Pamunkey), mantengono ancora piccole riserve nelle terre tradizionali. Anche gli Accohannock del sud della penisola di Delmarva, sopravvivono con una piccola comunità poco oltre il confine con il Maryland. Diverso fu il destino dei Piscataway, cui la colonia del Maryland all’inizio del ‘700 negò loro ogni diritto alla terra, obbligandoli alla diaspora; dopo il 1720 gran parte di ciò che rimaneva delle diverse tribù Piscataway, forse 150 individui, si spostò a nord del fiume Susquehanna, in Pennsylvania, unendosi agli affini Lenape e facendo parte con essi del Covenant Chain, l’alleanza indiana dominata dalla Lega Iroquois; un piccolo gruppo si spostò a sud, trovando rifugio fra i Meherrin e unendosi a loro, mentre tre piccole comunità riuscirono a sopravvivere nel Maryland, ottenendo in tempi recenti il riconoscimento di uno status legale, senza però alcuna riserva. Simile fu la vicenda dei Nanticoke, in gran parte spostatisi a nord insieme ai Piscataway nel corso del ‘700, ma di cui ancora sopravvivono tre piccole comunità (Neuse, Assateaque e Pokomoke) nella penisola di Delmarva in Maryland. I Chowan, dopo essere stati sconfitti nel 1676, l’anno successivo furono relegati in una riserva sul Bennet creek, che però continuò a ridursi nel corso del secolo successivo, fin quando nel 1821 fu venduto anche l’ultimo fazzoletto di terra comune. Dopo d’allora alcune piccole comunità fortemente meticciate con la popolazione di origine africana sopravvissero fino ai giorni nostri, ma solo di recente alcune iniziative sono state assunte per mantenere viva l’antica cultura. Nulla è invece rimasto dei Weapemoc, i cui ultimi superstiti alla fine del ‘700 si fusero definitivamente con la popolazione bianca e africana della North Carolina. I Meherrin e i Nottoway erano due piccole tribù di lingua Iroquaian, che vivevano sui fiumi omonimi, presso il confine tra Virginia e North Carolina; entrambe avevano evitato ogni conflitto con i bianchi e anzi i Nottoway avevano acquisito un ruolo importante nella rete commerciale che collegava la stazione


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di Ft.Henry, sul fiume Appomatox, con gli Okaneechi, che raccoglievano le pelli pregiate dalle tribù dell’ovest. Con l’avanzare dei coloni i Meherrin spostarono il loro villaggio a sud del confine della Carolina e all’inizio del ‘700 il governo della Virginia, garantì loro una piccola riserva in un’area contesa con il governo della Carolina; i coloni della Carolina, ovviamente non considerarono legittima la concessione, e nell’agosto del 1707 una sessantina di miliziani della Carolina attaccarono il villaggio Meherrin, distrussero i campi e presero trentacinque prigionieri. Solo l’intervento del governo della Virginia riuscì a garantire ai Meherrin una piccola riserva, che comunque nel corso del ‘700 si ridusse sempre più fino a scomparire; una parte dei superstiti si unì quindi ai Tuscarora e prese la via del nord, per trasferirsi nelle terre della Lega Iroquois, mentre poche comunità rimasero nelle terre ancestrali, preservando una propria identità; alla fine degli anni ’70, del ‘900 gli ultimi Meherrin hanno riorganizzato la loro comunità, ottenendo il riconoscimento legale dallo stato del North Carolina, senza però avere alcuna riserva propria. Non molto diverso fu il destino dei Nottoway, una parte dei quali si traferì al nord con i Tuscarora dopo il 1720, mentre altri rimasero in Virginia pur perdendo progressivamente le loro terre; i Nottoway comunque, pur ridotti di numero dalle malattie, riuscirono a mantenere una certa coesione e la memoria delle loro tradizioni, e ancora oggi due loro comunità sono ufficialmente riconosciute in Virginia. Più complesso e confuso fu il destino delle diverse tribù Siouan che occupavano le pendici orientali degli Appalachee in Virginia, i Saponi, i Monacan, i Manahoac, i Tutelo, Nahyassan e gli Okaneechi; già da anni vittime degli attacchi degli Iroquois, numericamente ridotte e costrette a periodici trasferimenti, queste tribù che parlavano dialetti simili e avevano la medesima cultura, più volte si unirono e separarono, fino a perdere completamente la loro identità etnica e quasi ogni rapporto con le terre tradizionali. Dopo aver subito il massacro ad opera degli uomini di Bacon, gli Okaneechi si trasferirono a sud, in North Carolina sul torrente Eno, rimanendovi fino al 1713, quando insieme ai Saponi, Tutelo e altre tribù Siouan, fu permesso loro di stabilirsi presso la stazione commerciale di Ft.Christianna, nelle loro terre originarie. Ft. Christianna chiuse nel 1717 per gli scarsi affari, ma gli indiani rimasero nella regione fino al 1740, quando si spostarono a nord, nella località di Shamokin in Pennsylvania per essere accolti e poi adottati all’interno della Lega Iroquois. Simile fu la vicenda dei Nahyassan, dei Tutelo, dei Saponi, anch’essi fuggiti in North Carolina dopo la rivolta di Bacon, poi riunitesi intorno a Ft. Christianna e quindi successivamente trasferitesi a Shamokin. I Manahoac, che all’inizio del ‘600 erano una potente confederazione nel nord della Virginia, già alla metà del secolo erano stati decimati dagli attacchi dei Susquehannock e degli Iroquois e costretti a cercare rifugio a sud, sul fiume James, con gli affini Monacan. Alla fine del ‘600 però anche le terre dei Monacan furono occupate da coloni ugonotti, e anche queste due tribù furono raccolte a Ft.Chistianna, dove si fusero con le altre tribù Siouan, genericamente note come Saponi-Tutelo. Benchè la maggior parte dei superstiti di queste tribù si trasferì a nord, seguendo il destino della Lega, fino a trovare rifugio in Canada, dopo la sconfitta della Lega durante la Rivoluzione Americana, piccoli gruppi e singoli nuclei famigliari di queste tribù continuarono a vivere sulle pendici degli Appalachee in North Carolina e Virginia, altri vi tornarono dal nord, e in tempi recenti una significativa comunità presente nella contea di Amherst in Virginia, ha orrenuto il riconoscimento federale come tribù dei Monacan. Il destino più drammatico fu quello dei Susquehannock, la potente confederazione Iroquaian, che per quasi tutto il ‘600 si era opposta all’espansionismo della Lega Iroquois, aveva commerciato con Svedesi, Olandesi e Inglesi, aveva dominato le vicine tribù Algonquian. Sconfitti dalla Lega alla metà degli anni ’70, quanto rimaneva dei Susquehannock era stata accolta in Maryland, Comunità e riserve indiane in Virginia e nel Maryland


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come alleata, ma durante la rivolta di Bacon i Susquehannock si trovarono a dover subire l’ostilità dei coloni, senza essere più nelle condizioni di difendersi. Nel 1677 parte della tribù fu obbligata a chiedere aiuto agli acerrimi nemici della Lega, che permisero loro di trasferirsi in Pennsylvania, dove cessarono di esistere come tribù autonoma; altri fuggirono a sud, accolti tra i Meherrin e i Nottoway; l’ultimo gruppo autonomo di Susquehannock, ormai cristianizzati, viveva ancora con il nome di Conestoga in Pennsylvania nel 1763, dove furono tutti massacrati da un gruppo di coloni, durante la Guerra di Pontiac. Come nel New England anche in Virginia la questione indiana era risolta; nel corso del ‘700 le malattie e l’alcool, diedero il colpo finale agli indiani, mentre i coloni si appropriavano delle loro terre, a volte con la forza, a volte vantando crediti, spesso comprandola a poco prezzo da chi ormai non aveva più risorse per vivere. La costa dell’Atlantico dal fiume Penobscot a nord, alla Florida a sud si stava costituendo come una rete di autonome e ricche colonie inglesi, abitate da decine di migliaia di bianchi, in cui la presenza indiana era divenuta ormai marginale: le colonie inglesi, embrione dei futuri Stati Uniti erano ormai stabilite tra la costa e i monti Appalachee. A est dei monti rimanevano ancora delle enclaves, in cui l’uomo bianco non era ancora giunto, nel Maine, o nelle due Caroline, e li nel corso della prima metà del ‘700 i guerrieri indiani ancora avrebbero opposto una dura resistenza; ma già i mercanti, i contadini senza terra, gli avventurieri di ogni risma, guardavano alle terre oltre i monti, ancora inesplorate; le stesse terre dove già gli intraprendenti mercanti ed esploratori francesi portavamo il vessillo gigliato del loro re.


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Una vicenda unica Nella storia della resistenza indiana all’avanzata dei bianchi, benchè non manchino le vittorie militari degli indiani, ne i successi nell’arrestare, anche per lunghi periodi, l’avanzata dei bianchi, ciò che è difficile da registrare è la capacità degli indiani di riuscire a cacciare gli invasori bianchi dalle terre su cui ormai s’erano insediati. La ragione di ciò va forse cercata nello stile di vita e nel modello di sussistenza degli indiani, nel loro rapporto con il territorio, diverso da quello dei bianchi: non essendo vincolati a insediamenti stabili o addirittura a veri e propri centri urbani, gli indiani una volta sconfitti, piuttosto che rimanere sulle loro terre in una condizione di subalternità e sottomissione, spostavano i loro villaggi di capanne, cercavano altre terre in cui seminare se erano agricoltori e prendevano la via dell’ovest per sfuggire al contatto con i bianchi; dopo di ciò le terre abbandonate venivano occupate saldamente dai bianchi, che numerosi vi si insediavano, spesso modificando in tal modo l’ambiente, da renderlo inutilizzabile per il modello di sussistenza degli indiani. Così, spesso un pugno di pionieri audaci e determinati, a volte sostenuti da forze militari non irresistibili, apriva la strada ad un fiume di emigranti che si stabilivano sulle terre indiane abbandonate dopo una sconfitta militare; il lavoro iniziato da pochi uomini armati, veniva completato da famiglie con donne e bambini, e le terre erano perse defintivamente. Forse solo Metacomet in New England tentò la disperata impresa di cacciare i bianchi quando essi ormai si erano stabiliti sulle terre indiane da più di mezzo secolo, ma alla fine dovette cedere di fronte all’oggettiva forza rappresentata dal numero dei coloni, che superava di gran lunga quello degli indiani che ancora risiedevano nella regione. L’unico caso in cui la resistenza indiana riuscì nell’impresa di cancellare, per un periodo di tempo significativo, ogni presenza dei bianchi dopo che questi si erano stabilmente insediati su terre indiane, si realizzò nella terra dei pacifici Pueblo del Sud-Ovest nel 1680, quando i dominatori Spagnoli furono costretti alla fuga, e per ben dodici anni non riuscirono più a ritornarvi. Quella della Rivolta dei Pueblo fu quindi una vicenda unica e peculiare nella storia delle guerre indiane, così come furono uniche e peculiari le condizioni che la produssero. In primo luogo lo stile dei vita dei Pueblo, i più legati ad una vita sedentaria tra tutti gli indiani, con i loro villaggi di pietra e di “adobe” (mattoni di fango e paglia); a differenza di quanto accadde in tutto il Nord America, dove all’avanzare dei bianchi gli indiani preferivano spostarsi per mantenere la loro libertà e il loro stile di vita, i Pueblo legati ai loro villaggi di pietra e ai loro campi, accettarono per circa 80 anni di vivere in una condizione di subalternità e servitù, imposta loro dai dominatori spagnoli con la forza delle armi; in nessuna altra parte del Nord America gli indiani furono costretti ad accettare una simile condizione, almeno fin quando furono in numero tale da opporre resistenza, e ovunque essi preferirono lasciare le loro terre piuttosto che vivere da schiavi. Un secondo fattore è rappresentato dal rapporto numerico tra bianchi


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e indiani che nelle terre del Sud-Ovest, rimase sempre favorevole agli indiani: mentre nelle colonie inglesi sull’Atlantico, tra i primi anni del ‘600 e la rivolta di Metacomet del 1675, i coloni bianchi erano giunti a decine di migliaia, e la popolazione indiana era andata costantemente declinando, nella colonia spagnola del Nuevo Mexico nello stesso periodo, i coloni erano poco più di un paio di migliaia, mentre la popolazione indiana dei Pueblo, benchè più che dimezzata da guerre e malattie, era ancora di alcune decine di migliaia di individui. Gli indiani non solo non avevano abbandonato le loro terre, ma ne rappresentavano ancora gli occupanti più numerosi, a differenza di quanto accadeva nello stesso periodo nelle colonie inglesi del New England e della Virginia. Le ragioni di questa mancata sostituzione demografica, sono certamente nella natura delle terre del Sud-Ovest, semi-aride, povere di risorse e non certo in grado di attrarre una emigrazione di massa, ma anche e forse soprattutto nelle caratteristiche del modello coloniale spagnolo. Tale modello coloniale che si basava sul sistema dell’encomienda, cioè dello sfruttamento del lavoro servile degli indiani, ridotti allo stati di servi della gleba, non favoriva l’iniziativa e l’intraprendenza dei singoli coloni che contando sulle proprie braccia e sul proprio coraggio si appropriavano delle terre indiane e li scacciavano, ma garantiva gli interessi di pochi possidenti che ottenevano concessioni terriere dalle autorità, e con esse il diritto allo sfruttamento degli indiani che su quelle terre risiedevano. Per questi “encomienderos” gli indiani, purchè sottomessi, rappresentavano una risorsa, e quindi essi non solo non erano interessati a scacciarli, ma tentavano anche di impedire la loro fuga dai villaggi sottomessi. Va poi aggiunto che il cuore della dominazione spagnola era rappresentato dalle missioni religiose, il cui obbiettivo non era quello di cacciare o eliminare gli indiani, ma di trasformarli in cristiani timorosi di Dio e sudditi obbedienti al re. Fu così che per 80 anni gli indiani Pueblo vissero come servi, ma non persero l’uso delle loro terre, come invece accadeva nelle colonie inglesi. Per 80 anni essi furono costretti al lavoro servile, nei campi, nell’allevamento, nei laboratori artigiani, o nell’edificazione di chiese e altri edifici, furono obbligati ad abbandonare i loro usi e la loro religione, a vestirsi come i bianchi desideravano, e pregare il dio loro imposto, sottoposti a rigidi controlli e a severe punizioni, costretti ad arruolarsi come ausiliari nelle guerre che gli Spagnoli conducevano contro i nomadi Apache e Navajo, e a subire le sanguinose incursioni che questi lanciavano contro i loro villaggi per vendetta. Durante questi anni essi acquisirono molti usi dell’uomo bianco, appresero la lingua dei loro dominatori e usarono i nomi che essi imponevano, impararono a coltivare piante sconosciute, conobbero l’allevamento di animali a loro ignoti, applicarono la loro abilità di costruttori all’edificazione di chiese e cattedrali ancora oggi esistenti. Ma malgrado i rigidi controlli e l’apparente sottomissione i Pueblo non erano stati domati: nel segreto dei loro kivas, le celle circolari a pozzo destinate ai riti sacri, essi continuavano a riunirsi, sfidando i missionari e le loro spie, periodicamente la furia esplodeva con l’assassinio di preti, e più volte solo gli indiani convertiti che agivano da spie avevano potuto allertare gli Spagnoli per i complotti e le congiure; impiccagioni, condanne al rogo, frustate e l’invio in schiavitù nelle miniere del Messico, non erano sufficienti a placare il desiderio di libertà, ma solo a far crescere l’odio per i dominatori. Molti piuttosto che vivere in queste condizioni non esitavano a fuggire e a cercare rifugio tra i nomadi Apache e Navajo, spesso facendo da collegamento tra questi e gli abitanti dei villaggi, nel tentativo di favorire un’alleanza contro gli Spagnoli. Più che una terra colonizzata il Nuevo Mexico era in realtà una terra occupata, dove un pugno di bianchi armati della spada e della croce, viveva sfruttando il lavoro della popolazione nativa; a parte Santa Fè, capitale della colonia, dove viveva buona parte della popolazione spagnola, non vi erano altri centri abitati; alcuni bianchi vivevano nelle “haciendas” (fattorie) disperse sul territorio; altri vivevano nei pricipali pueblo, collaborando con i missionari e i piccoli presidi militari ivi presenti. Dopo 80 anni di presenza spagnola, erano ancora gli indiani a occupare le loro terre, e il fuoco della ribellione che tante volte era stato spento con la violenza, prima o poi avrebbe trovato le condizione per infiammare il cuore dei pacifici Pueblo.

Le condizioni per la rivolta Tra gli indiani d’America, o almeno in molte della culture native, la guerra era intesa secondo una modalità particolare, a bassa intesità, ma organica alla vita sociale della comunità; in gran parte delle culture native la guerra è l’occasione per gli uomini, e soprattutto i giovani uomini, di mettersi in mostra, acquisire prestigio e autorevolezza. Ma i Pueblo non erano un popolo di guerrieri, anche se nel corso


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della loro storia, guerre e conflitti non erano mancati; ma per lo stile di vita dei Pueblo, vincolati all’aspro e spesso ingrato lavoro dei campi, non c’era tempo di cercar gloria bellica. Così essi non opposero l’eroica e disperata resistenza di tante tribù indiane, ma il loro desiderio di libertà e l’odio verso gli oppressori, presero altre vie. La Rivolta dei Pueblo quindi più che una “guerra indiana”, con la sua estenuante guerri- La terra dei Pueblo alla metà del ‘600 glia e con le bande di guerrieri che lanciano sanguinose incursioni, fu una vera e propria sollevazione popolare, in cui un intero popolo si ribella ai suoi oppressori e li spazza via con un colpo di maglio in un solo giorno. Ma tali eventi insurrezionali, non si verificano, e soprattutto non hanno possibilità di successo, senza una direzione d’avanguardia, che da un lato tesse le fila delle relazioni, allarga i consensi, predispone i piani, dall’altra costruisce una sovrastruttura ideologica, che compatta il risentimento popolare e lo indirizza verso un obbiettivo definito. Altro elemento necessario è il prodursi di condizioni di squilibrio nel contesto e nei rapporti di potere contro cui l’evento insurrezionale è diretto. Si tratta in sostanza delle condizioni soggettive e oggettive che spiegano ogni evento rivoluzionario, oltre a renderlo possibile. Tra i Pueblo del Nuevo Mexico, tali condizioni vi erano entrambe. La storia dell’occupazione spagnola era stata punteggiata da falliti tentativi di sollevazione, da congiure scoperte o solo sospettate, da atti di ribellione dietro cui si intuiva il sostegno di reti di solidarietà e complicità; erano in primo luogo gli uomini di medicina, gli anziani dei clan e in generale tutti coloro che nell’asservimento agli Spagnoli, oltre al peggiorare delle loro condizioni di vita, scontavano la perdita d’autorità, il sospetto dei missionari, la marginalizzazione dalla comunità. Costoro costituirono il nerbo di una resistenza sotterranea, che viveva nel segreto dei kivas o nelle danze e nei riti celebrati di nascosto in canion sperduti, e che periodicamente pagava il prezzo di condanne, deportazioni, esecuzioni. Costoro continuavano a tener vivo il ricordo dell’antica tradizione, di un ritorno al passato, come unica fuga da un presente di dolore, e speranza per un futuro di riscatto. Nel corso di oltre mezzo secolo l’azione di questi uomini tenne viva una speranza nel popolo Pueblo, ma perché la speranza si trasformasse in azione, perché il progetto di insurrezione, non solo trovasse simpatie, ma ottenesse l’appoggio determinato delle masse, era necessario che si producessero le condizioni oggettive, che la situazione generale divenisse a tal punto insostenibile, da indurre anche i più prudenti all’azione; tali condizioni si produssero alla fine degli anni ’60 e nel corso degli anni ’70 del ‘600. Anni di siccità e di cattivi raccolti, quando la fame nei villaggi indeboliva i corpi e li rendeva inermi di fronte ai germi dell’uomo bianco, sempre presenti dove egli giungeva; anni in cui le preghiere e i canti in latino di cui non si conosceva il senso e la ragione, non portavano nubi di pioggia e in cui i missionari con i loro sai e i loro tabernacoli, nulla potevano contro gli irati spiriti di un tempo; anni di violenza quando gli Apache a cui era impedito visitare i pueblo per fare scambi, che vedevano i Pueblo arruolati come ausiliari dagli Spagnoli per dar loro la caccia, si vendicarono con violente incursioni, la distruzione di interi villaggi, il rapimento di donne e bambini, il furto di centinaia di capi di bestiame. La crisi della colonia spagnola era profonda, i preti con le loro preghiere erano incapaci di sconfiggere la siccità, mentre i soldati non erano in grado di difendere dai nomadi l’unica risorsa della colonia, i contadini Pueblo sul cui lavoro tutto si reggeva. Gli attacchi più distruttivi furono portati dagli Apache Mescalero contro i Pueblo meridionali, quelli dei Piro e dei Tompiro; qui gli indiano dopo l’ultima rivolta erano stati obbligati a marciare al seguito degli Spagnoli e certo questo bastò per scatenare la furia degli Apache. E’ probabile che gli attacchi in questa regione mirassero anche a colpire i nemici Jumanos, anch’essi nomadi delle pianure, ma etnica-


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mente e linguisticamente affini ai Pueblo, con cui commerciavano abitualmente; i Jumanos erano sempre stati in termini amichevoli con gli Spagnoli, e qualche anno dopo li chiameranno in Texas, per averli alleati contro gli Apache. Le distruzioni Apache in questa zona furono gravissime e portarono all’abbandono del principale Pueblo, Gran Quivira, centro del commercio con i Jumanos, e di gran parte dei villaggi; i Pueblo superstiti non ebbero altra speranza che cercare la protezione spagnola. Tale protezione però era inadeguata: nel 1669 il governatore Juan Medrano y Mesia aveva lanciato una campagna contro i Navajo, e aveva attaccato alcuni villaggi, ma i Navajo avevano reagito colpendo i Pueblo indiscriminatamente; tre anni dopo per punire gli Apache del Gila che avevano attaccato il Pueblo Zuni di Hawiikuh e ucciso il missionario, il governatore Juan de Miranda guidò una spedizione militare con scarsi risultati. A fronte della debole risposta Spagnola gli Apache si fecero sempre più aggressivi e nel 1675 compirono il massacro di centinaia di abitanti del Pueblo Piro di Senecu, uno dei più meridionali. Gli Spagnoli, che non contavano più di 170 soldati, oltre a quegli uomini in grado di portare le armi, non solo dovevano contenere gli attacchi Apache, ma anche tenere sotto controllo i Pueblo, specialmente quelli del nord, dove il sentimento di ribellione non si era mai placato; nel 1675 voci di un complotto giunsero al nuovo governatore Juan Francisco de Trevino, che organizzata una spedizione attraversò diversi pueblo, distruggendo kivas, sequestrando e bruciando feticci e simboli religiosi, imprigionando quarantasette uomini di medicina e anziani dei villaggi, sospettati di aderire alla congiura. I quatantasette furono portati alla capitale Santa Fè, tre furono subito giustiziati, gli altri avrebbero dovuto essere venduti come schiavi in Messico, ma qui avvenne un fatto che avrebbe dovuto mettere sull’allarme gli Spagnoli: un corpo di una settantina di guerrieri Pueblo, entrati in Santa Fè, penetrarono nel palazzo del governatore, per chiedere con decisione il rilascio dei capi imprigionati. Trevino, che evidentemente si rese conto che gli indiani avevano già occupato il suo palazzo, decise di mostrare clemenza, e alla fine tranne uno che morì suicida in carcere, tutti gli altri, dopo la frusta, furono liberati. La liberazione “pacifica” dei capi e degli uomini di medicina, ottenuta con l’intervento degli indiani in armi, mostrava come le forze che lavoravano all’insurrezione fossero ormai determinate e coese; quello che mancava era solo un capo che le sapesse guidare: quell’uomo già c’era tra i quarantatre arrestati e liberati dalla mobilitazione popolare: Popay del pueblo Tewa di San Juan.

Popay guida la rivolta Non sappiamo molto di Popay prima del suo arresto nel complotto del 1675; doveva avere allora meno di 40 anni, ed era nato e vissuto sotto la dominazione spagnola. Dalle scarse testimonianze doveva apparire come un personaggio autorevole e determinato, in grado di imporre timore negli interlocutori, e della sua determinazione diede prova subito dopo la sua liberazione, rifugiandosi nel pueblo di Taos, il più settentrionale dei villaggi, da sempre focolaio di ribellione e spesso di contatto con i nomadi Apache. Da li Popay riprese a tessere la sua trama, contando su quella rete di relazioni e complicità, che gli Spagnoli non erano mai riusciti a distruggere definitivamente; il suo messaggio era semplice: con l’arrivo di Gesù, la “Madre del Mais” è fuggita; se i Pueblo non volevano morire di stenti, dovevano rigettare la religione cristiana, uccidere o cacciare gli Spagnoli, distruggere ogni cosa che ricordasse la loro presenza e fare ritorno alle antiche tradizioni. Non sappiamo quanto tempo durò questo lavorio, ma quasi tutti i villaggi furono raggiunti, compresi quelli dei lontani Hopi, e ovunque Popay trovò uomini pronti a unirsi a lui; solo fra i Tiwa del Sud Popay non trovò grandi consensi, mentre i Piro che vivevano ancora più a sud probabilmente non furono nemmeno coinvolti; i Tompiro, dopo l’abbandono di Gran Quivira erano già dissolti come tribù. Statua commemorativa di Popay


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Nei cinque anni tra l’arresto di Popay e l’esplodere della rivolta non vi furono altri incidenti con i Pueblo e l’azione degli Spagnoli si rivolse contro i nomadi Apache e Navajo, con alcune brevi campagne militari guidate dall’esperto soldato di frontiera Juan Donguez de Mendoza, la prima contro gli Apache a est di Pecos nel 1675, la seconda contro i Navajo a ovest del pueblo di Zia nell’estate del 1678; i Navajo ebbero i campi bruciati, ma le due spedizioni non fermarono gli attacchi dei nomadi. Intato il progetto di Popay si estendeva, ma la tela intessuta aveva il suo principale nemico nelle delazioni, nelle informazioni che a volte anche inconsapevolmente qualcuno poteva far giungere ai padroni spagnoli; per mantenere il massimo della segretezza le donne furono tenute all’oscuro di quanto si preparava, e quando lo stesso Popay ebbe dei sospetti nei confronti del genero, non esitò a farlo uccidere. Quando la preparazione giunse a buon punto e fu fissata la data per la sollevazione, il 13 agosto del 1680, emissari furono inviati in tutti i villaggi, recando cordicelle con un numero di nodi pari ai giorni che mancavano alla data fatidica, ma ancora una volta gli Spagnoli furono ad un passo dallo scoprire il complotto: le cordicelle annodate, trovate nelle mani di un emissario indiano, suscitarono sospetti e certo un’inchiesta sarebbe partita, per scoprire il significato di quegli oggetti, con gli interrogatori e magari la tortura, fino ad ottenere la confessione e la denuncia dei congiurati. Prima che gli Spagnoli potessero assumere qualsiasi iniziativa, Popay decise di anticipare il giorno dell’insurrezione e il 10 di agosto, le prime notizie dell’assassinio di un missionario in un vicino pueblo raggiunsero Santa Fè; poi da haciendas e missioni della regione gruppi di fuggitivi raggiunsero la città portando la notizia: gli indiani ovunque s’erano ribellati assassinando gli Spagnoli, distruggendo le missioni, attaccando le haciendas. Il giorno successivo fu la volta degli Hopi e degli Zuni, che vivendo più lontani non erano stati informati dell’anticipazione della data, mentre è quasi certo che gruppi di Apache, sapendo di quanto si preparava, approfittarono della situazione per colpire i bianchi ovunque. Nei primi due giorni circa 400 Spagnoli, tra cui una ventina di missionari, furono ammazzati, e praticamente la presenza spagnola nella regione si ridusse alla sola città di Santa Fè, dove alla metà d’agosto oltre un migliaio di profughi spagnoli e di loro servitori indiani cercarono rifugio; altri raggiunsero il pueblo di Isleta dei Tiwa meridionali, che erano rimasti estranei alla rivolta. I Pueblo, dopo aver scacciato gli Spagnoli dai loro villaggi iniziarono a convergere su Santa Fè, dove il governatore Antonio de Otermin, iniziò ad organizzare la difesa, non potendo contare che su poco più di 150 soldati, a cavallo e ben armati, ma non sufficienti a fronteggiare il pericolo. Santa Fè poi non era una città fortificata e gli Spagnoli furono costretti a concentrarsi intorno al palazzo del governatore, senza poter impedire agli indiani di entrare in città. II 14 di agosto un indiano chiese di poter parlare al governatore, offrendogli due croci, una rossa e una bianca: se la croce bianca fosse stata accettata allora Santa Fè doveva essere abbandonata e gli Spagnoli avrebbero avuto salva la vita; la croce rossa significava solo guerra e morte. Otermin ovviamente rifiutò la resa, ma nel giro di un paio di giorni i circa 500 guerrieri che per primi avevano circondato Santa Fè, erano divenuti oltre 2.000. Gli indiani bloccarono l’afflusso di acqua alla città, incendiarono diversi edifici, tra cui la chiesa, colpivano con le loro frecce chiunque si esponesse sulle fortificazioni; rinunciando ad un attacco diretto, che sarebbe costato molte vite, gli indiani si preparavano all’assedio degli Spagnoli, ridotti senz’acqua, nella torrida estate del New Mexico, tra il fumo acre degli incendi e il puzzo dei cadaveri abbandonati nelle strade. Di fronte a questa prospettiva il governatore Otermin decise che era il momento di tentare il tutto per tutto, pur di rompere l’assedio e cacciare gli indiani: il 20 agosto oltre un centinaio di soldati a cavallo, quasi tutti quelli disponibili, lanciarono una sortita contro gli assedianti. Meglio ar- Gli indiani festeggiano la distruzione di una missione


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mati e cogliendo di sorpresa gli indiani, gli Spagnoli condussero un attacco distruttivo, che costò ai Pueblo forse centinaia di vittime; gli indiani fuggivano a nascondersi nei campi davanti ai soldati a cavallo, ma poi ritornavano, determinati a non mollare l’assedio. Alla fine della giornata la vittoria sul campo degli Spagnoli era risultata inutile, l’assedio rimaneva e anzi gli indiani che si raccoglievano intorno a Santa Fè continuavano ad aumentare; a Otermin a quel punto non rimase che la povera soddisfazione di giustiziare i quarantasette prigionieri presi durante la battaglia e decidere l’evacuazione della città. Al mattino del 21 agosto 1680 da Santa Fè circondata da migliaia di guerrieri indiani, una colonna composta da civili, donne, anziani, bambini, molti feriti e ammalati, iniziò a muovere verso sud; ai lati della colonna, quasi tutta appiedata dato che i cavalli servivano ai feriti, i soldati cavalcavano guardinghi attendendo il momento in cui gli indiani avrebbero attaccato. I Pueblo non attaccarono e la lunga e mesta carovana potè prendere la via del sud; passando attraversando i pueblo, le haciendas e le missioni distrutte e bruciate, ai primi di settembre Otermin e la sua gente arrivarono al pueblo Tiwa di Isleta, dove erano raccolti altre centinaia di profughi. Comunque nemmeno Isleta pareva un luogo sicuro per i disperati che avevano perso ogni privilegio e ricchezza e a malapena avevano scampato la vita; con centinaia di altri profughi, più i Tiwa meridionali che temevano la guerra, la colonna riprese a discendere la valle del Rio Grande verso sud; lungo la via fu evacuato anche il pueblo di Senecu, dove vivevano gli ultimi superstiti della tribù dei Piro. Gli Apache Mescalero, che non avevano sottoscritto alcun patto con gli Spagnoli, continuarono a molestare la colonna per tutto il viaggio. Il primo avamposto spagnolo era quello del piccolo villaggio di El Paso de Norte, al guado del Rio Grande, nel territorio degli indiani Manso, e qui sulla sponda meridionale del fiume si fermò la colonna di profughi, stabilendo la base da cui gli Spagnoli avrebbero poi tentato la riconquista; poco a monte di El Paso lungo il Rio Grande, sorsero i due villaggi di Socorro e Senecu do Sur, dove si riunirono gli indiani unitisi agli Spagnoli. La ribellione guidata da Popay era durata pochi giorni, durante i quali i morti da ambo le parti furono forse quasi un migliaio; ma il piano aveva funzionato e dopo quasi ottanta anni di dominazione i Pueblo erano finalmente liberi. Per gli Spagnoli si trattò di una grande umiliazione: nello scacchiere geopolitico della potenza spagnola, la perdita delle remote e povere colonie del Nuevo Mexico poteva essere irrilevante; ma una sconfitta così clamorosa, una umiliazione così cocente rischiavano di minare il prestigio delle autorità spagnole e della chiesa in tutto il Messico. E così in effetti fu: nelle selvagge e mai pienamente controllate terre del Messico settentrionale, la notizia della vittoria dei Pueblo si diffuse in fretta, fomentando il malessere delle popolazioni locali, i Concho, i Tarahumara, i Toboso. Si aprì così una fase confusa di nuovi conflitti, che coinvolsero tribù diverse, ma la cui soluzione rimaneva nelle terre dei Pueblo, dove la resistenza indiana aveva dimostrato che liberarsi dai bianchi era possibile. Così, pur circondati da tribù in rivolta, gli Spagnoli non rinunciarono all’idea di tornare nella terra dei Pueblo e far dimenticare l’umiliazione subita.

Il sogno di Popay La libertà ottenuta dai Pueblo doveva misurarsi con molte insidie e il tentativo di rivincita degli Spagnoli era solo la prima e la più prevedibile. Il governatore Otermin, già nel novembre del 1681, guidò una piccola armata di 150 soldati e di poco più di un centinaio di alleati indiani lungo il Rio Grande, raggiungendo il pueblo di Isleta e occupando un certo numero di villaggi nelle terre dei Piro e dei Tiwa meridionali, senza trovare resistenza. Stabilita la base a Isleta, Otermin inviò il fidato ed esperto Juan Dominguez de Mendoza con una parte dei soldati e degli ausiliari verso nord, nel cuore delle terre insorte; qui però gli indiani si erano preparati all’arrivo degli Spagnoli e un gran numero di guerrieri guidati da Katiti, un luogotenente di Popay, sbarrò la strada all’avanzata di Mendoza; questi, preoccupato del gran numero di nemici, ritenne opportuno ritirarsi, subendo poi per questo accuse e critiche. All’inizio di gennaio del 1682, lo stesso Otermin, temendo un attacco indiano in forze, fu costretto ad abbandonare Isleta e a far ritorno a El Paso. I circa 400 Tiwa che abitavano a Isleta, furono tutti deportati a El Paso, e quasi un centinaio di loro perirono durante il viaggio; i sopravvissuti costituirono il villaggio di Senecu so Sur, vicino ai due insediamenti di Socorro e Senecu so Sur. Nel frattempo Popay e i suoi più fidi seguaci dovevano attuare il loro progetto politico, di cui l’insurrezione era stata solo la premessa: si trattava di estirpare dalla vita quotidiana degli indiani, ottanta anni di condizionamenti e abitudini frutto del contatto con i bianchi e la loro religione. Girando di villaggio in villaggio Popay e i suoi si impegnarono nella difficile missione di far dimenticare i nomi cat-


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tolici che molti indiani si erano abituati a usare e la lingua spag n o l a ormai diffusa, di rinunciare a tecniche e strumenti introdotti dai bianchi, così come a molte col- Villaggio di “adobe” in una stampa antica ture agricole e all’allevamento. E’ probabile che questa “rivoluzione culturale” abbia trovato diverse resistenze, sia perché lo zelo ideologico di Popay era in contrasto con le esigenze di tanti, che non volevano rinunciare ai miglioramenti pratici introdotti dagli Spagnoli, sia perché non mancavano settori della popolazione che si erano maggiormente compromessi con i dominatori bianchi e si mostravano refrattari alla volontà di Popay. E’ probabile che nei villaggi vi siano anche state vendette e rese dei conti nei confronti di spie e di informatori, e che i sostenitori di Popay possano essersi comportati con eccessiva intolleranza. Il disegno di Popay, che tentava di riformare in senso tradizionalista tutta la società dei Pueblo corrotta dai bianchi, già difficile in se, si scontrava anche con gli usi democratici degli indiani che mai erano stati guidati da un unico capo e che mal sopportavano la pretesa di Popay di essere l’unica guida spirituale e politica. Sappiamo che verso la metà degli anni ’80, l’autorità di Popay fu contestata e molte comunità rivendicarono il loro diritto all’autogoverno, obbligando lo stesso Popay a farsi da parte e cedere il posto al suo luogotenente Luis Tupatu, del pueblo di Picuris. A queste difficoltà si aggiungeva il fatto che il ritorno alle antiche credenze, non era bastato a far giungere la pioggia e ci vollero anni perché la siccità finisse; nel frattempo gli Apache, che si erano appropriati di un gran numero di cavalli abbandonati dagli Spagnoli, erano tornati a predare i villaggi e in più ad essi si erano aggiunti gli Ute da nord. Comunque malgrado le difficoltà interne. la vittoria dei Pueblo era ancora un esempio per altre tribù e nella primavera del 1684 il nuovo governatore Domingo Jironza de Cruzate, dovette reprimere una rivolta tra i cristiani Manso della zona di El Paso e giustiziarne dieci; i Manso erano stanchi dei missionari e della loro religione, e volevano fare come i Pueblo di Popay. Quello stesso anno Jironza condusse una campagna contro gli Apache e nel mese di novembre portò un contingente di 60 soldati, più gli ausiliari indiani, fino nelle terre dei Pueblo, da cui però dovette ritirarsi per l’ostilità degli indiani. L’anno dopo un nuovo tentativo di riconquistare il Nuevo Mexico fu condotto dal governatore Pedro Reneros de Posada, che giunse a distruggere e il pueblo di Santa Ana, i cui abitanti furono costretti a fuggire sui monti e in parte ridotti in schiavitù; comunque dopo questo successo Renero dovette poi far ritorno alla base, dopo il fallito tentativo di attacco al pueblo di Zia. I tentativi spagnoli di riconquista del Nuevo Mexico, probabilmente erano dettati più dalla necessità di giustificare la nomina ad un incarico di governatore quasi simbolica, che non ad una convinta strategia, dato che i mezzi e gli uomini investiti nelle diverse spedizioni erano obbiettivamente inadeguati. D’altra parte a El Paso le preoccupazioni erano tante, e oltre alle tribù ribelli che circondavano l’avamposto, si era aggiunta addirittura la minaccia dei Francesi, che in quegli stessi anni si insediavano sulle coste del Texas, rivendicate dalla Spagna. Nell’immenso possedimento spagnolo in America, la perdita di una remota e povera provincia non era certo la preoccupazione prioritaria, anche se il prestigio e l’autorità spagnola non potevano dimenticare l’onta della sconfitta e della fuga. Nel 1688 Popay tornò a ristabilire la sua autorità sui Pueblo, ma ormai l’unità che intorno a lui s’era prodotta era in crisi: il ritorno agli usi antichi non aveva prodotto miracoli, la vita era sempre difficile e


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se in tanti erano felici di essersi liberati dagli Spagnoli, altri si chiedevano se non fosse stato un errore offendere il loro dio potente e vendicativo. Di fatto il sogno di Popay s’era svelato per quello che era e nei villaggi pueblo, tanti erano confusi, delusi e preoccupati: ancor più che le azioni militari a mettere a rischio la libertà dei Pueblo erano loro stessi, di fronte al fatto evidente che il ritorno ai tempi antichi (di cui i più giovani nemmeno avevano chiara memoria), non era quel paradiso che in molti avevano sognato. In questa situazione di crisi nel 1689 Jironza de Cruzate, ripreso l’incarico di governatore, potè ottenere la prima vittoria contro i Pueblo, quando il 29 agosto attaccò il villaggio di Zia e trucidò centinaia dei suoi abitanti, prese 90 prigionieri e li giustiziò quasi tutti lungo la via del ritorno a El Paso. Il massacro di Zia, era avvenuto perché gli indiani non erano più in grado di agire uniti e mettere in campo una forza di guerrieri tale da contrastare gli Spagnoli, inferiori di numero ma meglio armati, e segna l’inizio della fine della lotta dei Pueblo per la libertà. L’anno successivo moriva Popay, senza dover subire la delusione del ritorno degli Spagnoli e dei missionari sulla sua terra; ancora una volta lo sostituì Luis Tupatu, ma la situazione rimaneva difficile, i Pueblo divisi e gli stessi uomini di medicina e anziani, in crisi di credibilità: pare che per la prima e unica volta un sacrificio umano si sia tenuto tra i pacifici pueblo, a dimostrazione di quale dovesse essere la crisi spirituale che attraversava le comunità. I tempi erano ormai maturi per il ritorno degli Spagnoli e nel 1691 Jironza de Cruzate si preparava ad una nuova spedizione militare, a cui però dovette rinunciare per difendere El Paso dalle tribu nomadi vicine, i Suma, i Jano , i Jocome. Non sarebbe spettato a lui l’onore della “riconquista” ma al suo successore, che sarebbe giunto a cogliere i frutti della crisi, in cui la società dei Pueblo era ormai caduto, divisa fra un impossibile ritorno al passato, e un futuro di asservimento e perdita della propria identità culturale.

La “riconquista senza sangue” di Diego de Vargas Diego de Vargas, l’uomo che avrebbe riportato gli Spagnoli nella terra dei Pueblo, era un personaggio abile e ambizioso, che giunto in America per fare fortuna e sfuggire ai debitori in Spagna, si era distinto nell’amministrazione della colonia del Messico e per questa ragione nel 1688 aveva ottenuto l’incarico di governatore del Nuevo Mexico. Gli ci vollero però quasi tre anni perché questioni burocratiche e lentezze amministrative, gli permettessero di assumere effettivamente l’incarico, e Vargas raggiunse El Paso, nuova capitale della provincia, solo alla fine del 1691. Come avevano fatto i suoi predecessori, anch’egli organizzò una spedizione per raggiungere le terre dei Pueblo e riconquistarle al dominio spagnolo. Con soli sessanta soldati e meno di 150 ausiliari indiani, sul piano strettamente militare, Vargas non aveva più possibilità di successo dei suoi predecessori; ma le cose erano molto cambiate tra gli indiani, e la sua iniziativa giungeva al momento giusto. Dopo la morte di Popay e la crisi del suo sogno di ristabilire le antiche credenze ed eliminare ogni retaggio della dominazione spagnola, gli indiani erano fra loro divisi in fazioni, mentre gli Apache e gli Ute, avevano continuato a portare attacchi ai villaggi, aumentando il caos e la paura. Nell’agosto del 1692 Diego de Vargas prese la via del Rio Grande con la sua piccola armata e raggiunse i villaggi Pueblo più meridionali, quelli dei Tiwa e dei Piro già abbandonati anni prima; poi senza incontrare alcuna resistenza, all’inizio di settembre raggiunse Santa Fè, la capitale abbandonata, dove vi trovò circa un migliaio di indiani, una forza in grado di resistere ad un eventuale attacco. Vargas iniziò quindi delle trattative puntando ad ottenere la resa pacifica degli indiani, anche quando questi rifiutarono di sottomettersi. Il passo successivo di Vargas fu quello di porre l’assedio alla città e di tagliare i rifornimenti idrici; dopo alcuni giorni la mossa risultò vincente, quando due indiani uscirono dalla città per cercare un accordo Don Diego de Vargas


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di pace, accettando il ritorno al dominio spagnolo. Il 14 settembre Vargas e la sua armata, accompagnati dagli immancabili frati, fecero il loro ingresso a Santa Fè, dove fu celebrata una messa, durante la quale 122 bambini, nati durante l’assenza spagnola, furono battezzati. La presa di Santa Fè, praticamente senza alcuna resistenza, mostra a qual punto i Pueblo dovevano essere divisi e privi di una leadership. Nel mese successivo Vargas visitò un’altra dozzina di villaggi, ottenendo sempre la resa dei suoi abitanti, raggiungendo anche il pueblo degli Zuni e Acoma, la fortezza Pueblo, essendo ovunque accolto senza dover far uso delle armi, ma operando sulle divisioni degli indiani e garantendo il perdono a chi si arrendeva. Anche Luis Tupatu, il successore di Popay, che era imparentato con uno spagnolo e alcuni meticci al seguito di Vargas, accettò la pace imposta da Vargas, garantendo il passaggio agli Spagnoli dei pueblo settentrionali di Pecos, Taos e Picuris e altri. Tupatu poi divenne collaboratore di Vargas, ottenendo l’autorità su una dozzina di pueblo settentrionali. Solo tra i lontani Hopi Vargas ebbe delle difficoltà, quando dopo aver occupato il villaggio di Awatowi, oltre un migliaio di Hopi in armi si prepararono al combattimento, inducendo gli Spagnoli a fare ritorno a est. Nel giro di poche settimane e approfittando della crisi e delle divisioni che attraversavano i Pueblo, Vargas aveva completato la riconquista della valle del Rio Grande e sottomesso i suoi abitanti, e la sua iniziativa fu poi ricordata come la “riconquista senza sangue”, perché condotta in modo sostanzialmente pacifico, usando più le armi della diplomazia e l’influenza dei preti, che non la spada. In dicembre dopo il tentativo di sottomissione degli Hopi, e la resa del villaggio di Zuni, Vargas faceva ritorno a El Paso, scontrandosi lungo la via con una banda di Apache, che provocarono le uniche due vittime della spedizione. Gli indiani erano stati sottomessi, ma per ristabilire la colonia c’era bisogno che gli Spagnoli tornassero a viverci e nell’ottobre del 1693, Vargas riportò a Santa Fe circa 800 persone, tra cui oltre 250 coloni spagnoli, un centinaio di soldati e centinaia di servi indiani; la città era però di nuovo occupata dagli ostili che vi si erano radunati per impedire il ritorno dei loro dominatori. Dopo aver stabilito il suo accampamento nelle vicinanze, ancora una volta Vargas dovette porre l’assedio a Santa Fè, ma questa volta gli indiani non cedettero e non accettarono trattative; solo il 16 dicembre con un sanguinoso assalto, Vargas riuscì a rioccupare la città, mentre gran parte dei guerrieri riusciva a fuggire: i settanta prigionieri catturati furono tutti passati a fil di spada, dopo aver ascoltato il “Te deum” recitato dai frati, e oltre 400 tra donne e bambini furono presi schiavi e divisi fra le famiglie dei coloni. La battaglia di Santa Fè dimostra che in realtà i primi successi di Vargas non esaurivano la vicenda della riconquista e benchè minoritaria e ormai priva di prospettive, la resistenza dei Pueblo continuò ancora per qualche tempo; in realtà con la prima spedizione Vargas aveva ottenuto come principale risultato l’alleanza di quegli indiani delusi dalle speranze suscitate da Popay, ma la fazione più ostile e determinata era ancora in campo, non era stata sconfitta e conservava ancora alcuni villaggi in mano propria. Il pueblo di San Idelfonso, dove avevano trovato rifugio molti scampati alla battaglia di Santa Fè, era uno dei centri degli ostili e fu attaccato il 24 febbraio 1694 da Vargas, ma gli abitanti del villaggio, a cui s’erano uniti ribelli di altre tribù Pueblo e gruppi di Navajo, resistette all’assedio fino al 20 marzo, quando Vargas fu obbligato a rinunciare e a fare ritorno a Santa Fè. Il mese successivo fu la volta della fazione ostile dei Keres, che si erano fortificati sulla mesa di La Cieneguilla, nei pressi del villaggio di Cochiti, attaccata il 17 aprile dai soldati e dagli alleati indiani, che risalirono da due versanti della mesa: dopo la battaglia diciannove prigionieri uomini furono trucidati e circa 340 tra donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Il 24 luglio fu la volta di Jemez, uno dei principali focolai di ogni rivolta e complotto, i cui abitanti erano alleati dei Navajo: il villaggio venne preso e saccheggiato dopo una furiosa battaglia in cui gli indiani ebbero settanta morti: alla fine oltre 360 donne e bambini finirono schiavi. Qualche tempo dopo la battaglia, una delegazione di Jemez si recò a Santa Fè per chiedere la liberazione dei propri famigliari, e Vargas si mostrò disponibile, ma chiese in cambio il sostegno dei Jemez contro il pueblo Tewa di San Idelfonso, dove era stato sconfitto pochi mesi prima: i Jemez non poterono che accettare, e con il loro aiuto anche San Idelfonso fu costretto alla resa dopo un attacco il 4 settembre. Alla fine dell’anno salvo che nei villaggi Hopi, ad Acoma, Zuni e in pochi villaggi della valle del Rio Grande, ovunque i missionari erano tornati e il dominio spagnolo era pienamente stabilito. In realtà, fomentati anche dai Navajo, gli indiani ostili preparavano un’altra sollevazione e nel giugno del 1695, sei frati e ventuno spagnoli furono uccisi nei pueblo North Tiwa di Taos e Picuris, tra i Tewa di San Idelfonso e tra i Keres di Cochiti e Santo Domingo, sollevatisi ancora una volta. Gli indiani tentarono anche l’attacco a Santa Fè, ma il 23 luglio prima di raggiungere la città, furono attaccati di sorpresa dagli Spagnoli e dispersi. Nei mesi successivi Vargas dovette continuare a rastrellare la regione per colpire i


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villaggi in cui i ribelli ancora si nascondevano. Il 15 agosto fu la volta di Acoma, dove gli Spagnoli giustiziarono cinque indiani, poi il 26 ottobre nel pueblo Tewa di San Juan, oltre ottanta tra donne e bambini furono ridotti in schiavitù per punire il villaggio sospettato di aiutare i ribelli. Quello stesso anno i pueblo Keses di Cochiti e Santo Domingo furono evacuati e la popolazione riunita nel nuovo villaggio di Laguna, fondato insieme ad una nuova missione francescana. La riconquista di Vargas non era stata “senza sangue”, ma certo la sua diplomazia, la capacità di operare sulle divisioni degli indiani, ottenendo da una parte di loro sostegno, era stata determinante, e dalla fine del ‘600 i Pueblo non tentarono più di scacciare i loro dominatori; solo gli Hopi, che vivevano lontani da Santa Fè e dalla valle del Rio Grande, riuscirono a mantenersi autonomi e indipendenti. Nel 1700 i

La resistenza dei Pueblo alla riconquista spagnola

missionari spagnoli tornarono al villaggio di Awatowi per costruirvi una chiesa, ma durante l’inverno guerrieri da altri villaggi Hopi, uccisero i preti e gli indiani che li avevano aiutati, poi distrussero il pueblo e divisero la popolazione negli altri villaggi; nel 1707 e poi nel 1716, altri due tentativi spagnoli di tornare fra gli Hopi, fallirono e la tribù continuò a vivere nell’isolamento per un altro secolo e mezzo. Erano passati circa 20 anni dall’insurrezione guidata da Popay, centinaia di indiani erano stati uccisi nella “riconquista senza sangue”, oltre un migliaio di donne e bambini ridotti in schiavitù, un numero indefinito era fuggito per unirsi soprattutto ai Navajo, eppure malgrado la sconfitta militare, la rivolta non era stata inutile e anzi in qualche modo è possibile affermare, che quella dei Pueblo fu l’unica resistenza che ottenne un successo, per quanto parziale, dato che dopo di essa la dominazione spagnola cambiò notevolmente rispetto al secolo precedente.

Le conseguenze della rivolta tra i Pueblo La rivolta del 1680 fu un evento di grande rilevanza che fa da spartiacque nella storia dei Pueblo, che da allora non presero più le armi contro i bianchi, salvo per una breve sollevazione, quando nel 1847 gli Americani presero possesso della regione; mai più il sogno di un ritorno al passato e della totale liberazione dagli invasori, fecero breccia tra questi pacifici contadini, che avevano dovuto comprendere che nemmeno il ritorno alle divinità tradizionali, era una garanzia contro le principali calamità della loro terra: la scarsità di piogge e l’aggressività dei nomadi. E se contro la siccità il dio dei preti e gli spiriti della tradizione erano entrambi inefficaci, almeno contro gli Apache, che il cavallo aveva reso invincibili, le armi spagnole potevano essere d’aiuto. Mai più un profeta sarebbe giunto a suscitare speranze e a istigare alla rivolta, e i Pueblo ripresero la loro vita di contadini, allevatori e artigiani, accettando di essere sudditi del re di Spagna e i tributi e i doveri che tale condizione imponeva. Ma gli indiani non erano gli unici ad aver imparato qualcosa da quanto accaduto, e anche per gli Spagnoli l’insegnamento era stato severo ed efficace: una umiliante sconfitta, un esilio durato oltre dieci anni, una sollevazione che dai Pueblo si era estesa su gran parte della frontiera del Messico e che si protrasse per anni, coinvolgendo anche tribù che si riteneva ormai sottomesse e pacificate. Non è chiaro se


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tali insegnamenti produssero delle convinte scelte politiche, o se più semplicemente i timori che la Rivolta evocava, indussero gli Spagnoli a maggior prudenza, ma è un fatto dopo la riconquista di Vargas il controllo e la dominazione sugli indiani si fecero molto meno opprimenti, specialmente per quanto riguarda la tolleranza religiosa. I missionari continuarono nella loro opera di cristianizzazione, ma rinunciarono ad operare in modo repressivo nei confronti di chi rimaneva legato alle antiche credenze; fu così che i Pueblo poterono conser- Una danza rituale fotografata alla fine dell’800 nel pueblo di San Idelfonso vare in modo quasi integro il loro patrimonio tradizionale, arricchendolo a volte di quegli elementi della religione cristiana, che potevano inserirsi in una forma di sincretismo. Salvo che per i tributi che comunque gli Spagnoli imponevano, i Pueblo continuarono a vivere a modo loro, sulle loro terre, dove la presenza di coloni spagnoli non fu mai tale da produrre un grave impatto demografico. Gli stessi coloni d’altra parte necessitavano dei Pueblo anche per difendersi dagli Apache che spadroneggiavano nella regione. Nel corso dei due secoli successivi, la popolazione indiana continuò a ridursi, così come il numero dei villaggi ancora abitati, che attualmente nella valle del Rio Grande sono ancora una a una quindicina, più alcuni in Arizona sulle “mesas” degli Hopi, con una popolazione che varia dalle poche decine alle diverse migliaia di abitanti. E’ così che ancora oggi i turisti possono visitare gli antichi villaggi di adobe, da Acoma a Taos, a Zuni, fino ai villaggi Hopi dell’Arizona, dove l’artigianato indiano ancora viene coltivato, le feste tradizionali sono appuntamenti per tutta la comunità, e dove in qualche caso sopravvive anche la lingua tradizionale. Con la loro determinazione, pacifica ma ostinata, i Pueblo riuscirono a sfuggire al destino di altri popoli, deportati o costretti ad abbandonare le loro terre, privati della loro cultura e delle loro tradizioni, sopravvivendo sulle loro “mesas” alle drammatiche vicende storiche che avrebbero insanguinato le terre del Sud-Ovest nei due secoli successivi. Non tutti i Pueblo comunque accettarono il ritorno degli Spagnoli e un numero significativo preferì abbandonare le proprie comunità e cercare rifugio tra i Navajo, che da poco avevano abbandonato la vita nomade per dedicarsi all’agricoltura e all’allevamento. Con l’arrivo dei profughi Pueblo, i Navajo ridussero in parte la loro attitudine predatoria, per legarsi sempre di più all’allevamento e all’agricoltura, mentre venivano acquisite le tecniche di tessitura e altre attività artigiane introdotte dagli Spagnoli. E’ possibile affermare che la straordinaria adattabilità dei Navajo, che da predoni nomadi come i loro parenti Apache, si trasformarono in valenti artigiani dell’argento, tessitori, ricchi allevatori, sia dovuta anche al contributo di questi profughi Pueblo che in numero significativo vennero accolti nella tribù. A raggiungere i Navajo furono probabilmente profughi Jemez e Tewa, mentre sappiamo che dai villaggi North Tiwa di Taos e Picuris, dopo l’ultima sollevazione del 1695, e la repressione dell’anno successivo, diverse decine di indiani con le loro famiglie fuggirono nelle pianure, tra gli Apache Jicarilla, così come avevano fatto fin dal 1640 altri gruppi di indiani in fuga dal dominio spagnolo. A questi profughi si deve la vicenda del più settentrionale dei villaggi Pueblo, quello di El Quartelejo, nelle pianure del Kansas occidentale, nel cuore della terra dei bisonti. Non è chiaro se El Quartelejo sia stato fondata dai fuggitivi della riconquista di Vargas, o se esistesse già da prima, ma questo villaggio, a cavallo tra il ‘600 e il ‘700 divenne un importante centro di scambio con gli Apache delle Pianure, in cui probabilmente giungevano anche pregiati manufatti europei, tanto dalle colonie spagnole, che dagli avamposti francesi a est; è possibile che i Pueblo di El Quartelejo abbiano anche influenzato gli Apache della regione (cultura Dismail River), affini ai Jicarilla e che con essi infine si fusero, che proprio dalla metà del ‘600 pra-


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ticavano un po’ d’agricoltura nelle pianure tra il Kansas, il Nebraska e il Colorado; tra loro i Pueblo si insediarono costruendo un loro tipico villaggio di case di pietra, e portando il contributo delle loro conoscenze artigiane e agricole. Il 13 luglio 1706 una spedizione spagnola al comando di Juan de Uribarri, partì da Taos con l’obbiettivo di indurre i Pueblo a tornare nella loro terra; la partenza era sta rimandata per giorni a causa del timore di attacchi degli I resti del villaggio di El Quartelejo, rifugio degli ultimi Pueblo ribelli Ute e dei Comanche, e aveva l’obbiettivo di verificare anche l’eventuale presenza francese nelle Grandi Pianure, e a tale scopo era stato aggregato un prigioniero francese, superstite di una spedizione sulle coste del Texas. A quel tempo anche molti Jicarilla avevano iniziato a praticare un po’ d’agricoltura, e accolsero gli Spagholi amichevolmente, sperando di farne alleati contro gli Ute e i Comanche che avevano ottenuto cavalli e si facevano minacciosi. Uribari raggiunse senza incidenti El Quartelejo e altri piccoli insediamenti agricoli, raccolse una sessantina di indiani Pueblo che temevano i Comanche e tornò a sud, e il suo viaggio stabilì le basi per una duratura alleanza tra Jicarilla e Spagnoli, di cui i Pueblo forse furono intermediari. El Quartelejo fu abbandonato poco dopo la partenza di Uribarri, ma la località rimase un punto di incontro per i nomadi e fu visitata da mercanti francesi, quando questi iniziarono a spingersi a ovest, mettendo a rischio le pretese spagnole sulla regione.

Gli Apache dopo la Grande Rivolta La Grande Rivolta non ebbe conseguenze solo per i Pueblo, ma coinvolse anche i loro vicini, primi fra tutti gli Apache, quindi le tribù della frontiera del Messico che sul loro esempio s’erano sollevate, e infine gran parte degli indiani dell’Ovest , che nei due secoli successivi cambiarono la loro cultura in conseguenza di un avvenimento di grande importanza, frutto della cacciata degli Spagnoli. Fu infatti dopo la fuga degli Spagnoli nel 1680, che grandi mandrie di cavalli, di proprietà degli “hacienderos”, fuggirono dagli allevamenti spagnoli e tornarono allo stato brado, divenendo i famosi “mustang” i cavalli selvaggi del Nord America. Il cavallo, che allo stato selvaggio era scomparso dal Nord America alla fine del pleistocene, oltre 10.000 anni prima, ritornava a popolare ampie aree dell’ovest americano, trovandovi l’ambiente adatto per riprodursi e diffondersi in grandi mandrie, divenendo un protagonista dell’epopea del West. Fino al 1680 i cavalli erano diffusi solo fra gli Apache e i Navajo, che li rubavano agli Spagnoli, ma erano totalmente assenti tra le tribù che vivevano più a nord; nel 1679 i Francesi che commerciavano sul Mississipi ebbero notizie di guerrieri a cavallo nelle pianure di bisonti, da un guerriero Pawnee che portava uno zoccolo come trofeo, e l’aveva ottenuto combattendo gli Apache a ovest. Fino a quel momento gli Apache e i Navajo, erano le uniche tribù che potevano disporre di cavalli, ma la loro disponibilità era limitata al bestiame che poteva predare nei ranchos; tale disponibilità aumentò dopo il 1680, quando quando migliaia di cavalli si dispersero e tornarono allo stato brado, e grazie ad essi gli Apache raggiunsero l’apice della loro potenza e aggressività. Il popolo di poveri cacciatori e raccoglitori che pochi secoli prima, diviso in tante tribù e bande, era giunto nelle terre del Sud-Ovest, dove conduceva una vita precaria ai margini delle più ricche comunità Pueblo, era ormai divenuto, grazie al cavallo, padrone di quelle terre e ovunque si imponeva con le sue razzie. A nord gli Apache Jicarilla attaccavano i Pawnee e i Wichita delle pianure, più a sud i Lipan distruggevano i nomadi Jumano delle pianure del Texas, i Mescalero, i Chiricahua, gli Apache Occidentali, attaccavano i Pueblo e gli Spagnoli, mentre i


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Navajo spingevano le loro spedizioni fin nelle pianure e trafficavano in schiavi Pawnee e Wichita con gli Spagnoli, durante i brevi periodi di tregua. Ormai divenuti a tutti gli effetti un popolo di guerrieri a cavallo tra il 1680 e i primi anni del ‘700, gli Apache dominavano una vasta regione che dal Kansas occidentale giungeva al Texas e al Rio Grande a sud, e fino al fiume Gila a ovest. Di fatto gli Apache furono i veri beneficiari della cacciata degli Spangnoli, impossessandosi di una gran quantità di cavalli e divenendo padroni del territorio; fu in questo periodo che il “Camino Real”, la via che portava da El Paso a Santa Fè, prese il nome di “Jornada del Muerto” (viaggio del morto), per i pericoli che viaggiatori e convogli correvano. I Mescalero giunsero a portare le loro razzie fino a El Paso e a sud del Rio Grande in Chihuahua, mentre l’aggressività dei Jicarille e di altri Il Sud-Ovest e le Grandi Pianure meridionali alla fine del ‘600 Apache delle Pianure, portò all’abbandono di vaste aree in Kansas, Oklahoma e Colorado, da parte degli agricoltori Caddoan Pawnee e Wichita; quanto agli Apache Occidentali, malgrado la storica ostilità, si unirono agli agricoltori Pima della valle del Gila, quando questi nel 1695 si ribellarono agli Spagnoli. Di fronte agli attacchi Apache gli Spagnoli potevano solo tentare azioni di rappresaglia, che a volte avevano successo, come quella condotta nel 1682 dal governatore Otermin dopo un raid contro El Paso, che portò all’uccisione di ventidue indiani e alla cattura di altre decine, ma tali azioni spesso non riuscivano nemmeno a trovare il nemico, e comunque non erano in grado di contrastare il controllo Apache del territorio. Anche dopo il ritorno degli Spagnoli nella terra dei Pueblo, il Nuevo Mexico rimaneva una terra assediata, circondata dai nomadi ostili che mettevano a rischio ogni collegamento con il Messico; anche per contrastare questo pericolo, Spagnoli e Pueblo furono costretti ad una convivenza pacifica e a una alleanza di necessità, basata sulla maggiore tolleranza dei primi e sulla sottomissione dei secondi. Ma il dominio degli Apache non poteva che essere effimero, e si esaurì per le stesse ragioni del suo affermarsi; il monopolio del cavallo non poteva durare, e iniziò a declinare quando il gran numero di cavalli bradi cominciò a diffondersi nella Grandi Pianure e lungo le vallate delle Rocky Mountains e quando attraverso i furti e gli scambi anche altre tribù iniziarono a venirne in possesso. Dopo la cacciata degli Spagnoli, gli Ute un popolo di montanari, grazie al cavallo si fece sempre più aggressivo, mentre a partire dall’inizio del ‘700 da nord, dalle pianure del Wyoming, gruppi di Shoshone attratti dalla possibilità di ottenere cavalli, si spingevano sempre più a sud, e divenivano noti con il nome di Comanche; nel giro di pochi decenni i Comache sconfissero i Jicarilla, obbligandoli a cercare prima l’alleanza, poi la protezione degli Spagnoli, quindi si spinsero a sud, scacciando i Lipan, combattendo i Mescalero e insediandosi come i nuovi dominatori delle pianure del Texas. Le mandrie di cavalli intanto si spingevano sempre più a nord, raggiungendo il bacino e dei fiume Columbia e Snake e le Grandi Pianure fino al Canada e al fiume Saskatchewan, intorno al 1720; così nel giro di pochi decenni il cavallo entrava a far parte della vita quotidiana dell’ovest, diveniva elemento costituente di una nuova cultura indiana, la più famosa e pittoresca, quella dei nomadi cacciatori di bisonti delle Grandi Pianure: i Lakota e i Nakota, i Cheyenne, gli Arapaho, i Comanche, i Kiowa, i Crow, i Blackfoot, gli Atsina, gli Assiniboin, protagonisti dell’ultima e più nota fase della resistenza indiana.


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La vasta regione dei Grandi Laghi era stata per buona parte del ‘600, il teatro della drammatica 1° Guerra del Castoro, un evento che ebbe conseguenze su tutta la successiva storia dei popoli nativi delle regioni orientali del continente. La 1° Guerra del Castoro si era esaurita alla fine degli anni ‘60 del ‘600 per la sostanziale spossatezza dei principali contendenti ; iniziata negli anni ’20 come uno sviluppo dei tradizionali conflitti tribali, esasperati e aggravati dall’opportunità di ottenere armi da fuoco attraverso il commercio con i mercanti bianchi, e dalla necessità di sfruttare nuovi territori di caccia, la guerra aveva distrutto intere tribù e costretto molte altre alla fuga all’ovest. Dopo l’affermazione della Lega Iroquois, armata da Olandesi e Inglesi, contro gran parte delle tribù dei Grandi Laghi, la guerra si era trasformata in uno scontro diretto tra la Lega stessa e i Francesi, che nel territorio dei Grandi Laghi erano i protagonisti del commercio indiano. Alla fine, dopo oltre quarant’anni di conflitto, che avevano visto tutte le tribù che si opponevano alla Lega sconfitte, tanto i Francesi che la Lega avevano preferito rinunciare ad una guerra distruttiva, dividendosi di fatto le sfere di influenza commerciale: i Francesi continuavano a controllare il commercio nelle terre a ovest e a nord dei Grandi Laghi, dove erano fuggiti i loro alleati indiani, la Lega controllava i territori di caccia a sud, nella valle dell’Ohio, quasi totalmente spopolata dei suoi abitanti. I Francesi, ottenuta la pace con la Lega Iroquois, avevano potuto dedicarsi a rafforzare ed estendere le loro alleanze con gli indiani delle regioni dell’ovest, portando la loro influenza in terre mai visitate dall’uomo bianco. Grazie all’azione di mercanti come Nicolas Perrot e missionari gesuiti come Jean-Claude Allouette e Jacques Marquette, nel 1671 avevano organizzato un grande consiglio intertribale a Salt St.Marie, nel luogo dove i laghi Huron e Superiore si incontrano, rivendicando per se tutte le terre ignote dell’ovest e stabilendo un alleanza che univa i loro tradizionali partners commerciali (Wyandot, Ottawa, Ojibway), con le tribù che vivevano a ovest del lago Michigan (Menominee, Winnebago, Fox e Sauk, Potawatomi, Kikapoo, Mascoute, Miami), che erano le principali fornitrici di pelli pregiate. Mentre i mercanti erano ovunque benvenuti per i beni che portavano con se, i missionari francesi, a differenza dei loro colleghi spagnoli in Nuevo Mexico, ottenevano accoglienza nei villaggi e conversioni, mostrando tolleranza, flessibilità e rispetto verso le culture locali. Così quando padre Marquette nel 1673 visitò un villaggio di Mascoute, Kikapoo e Miami, dove già aveva operato padre Allouez, vi trovò una grande croce in legno, a cui gli indiani facevano offerte in pelli, cibo, armi e manufatti vari, e che consideravano rappresentazione di “Manito”, che è il termine con cui gli Algonquian definiscono il Grande Spirito che pervade ogni aspetto della realtà. Per molte tribù indiane il numero 4 aveva valore sacro e rappresentava i simboli cardinali, con ciò che essi significano, il freddo nord, il sole levante dell’est, il caldo del sud, il sole al tramonto all’ovest, e questa simbologia poteva essere ben rappresentata dalla croce. E se gli indiani potevano accettare elementi della simbologia cristiana e inserirli nella loro


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cultura, gli stessi missionari non avevano problemi a prendere parte alle fumate rituali con i calumet, le sacre pipe, ne a presenziare alle danze tradizionali. Ne i missionari tentavano di trasformare in pacifici contadini sedentari gli indiani, cosa che avrebbe contrastato con gli interessi dei mercanti che li accompagnavano. L’interesse religioso e quello commerciale viaggiavano così di pari passo, ed entrambi necessitavano di un buon rapporto con gli indiani, anche se la diffusione dell’alcool attraverso i commerci, era una costante ragione di contrasto tra mercanti e missionari. Dal canto suo la Lega in quegli stessi anni raccoglieva intorno a se i resti di tribù da essa sconfitte, o in fuga davanti all’avanzare dei coloni lungo le coste atlantiche, offrendo la sua protezione e imUn missionario in viaggio sui Grandi Laghi ponendo il suo dominio. I superstiti di molte tribù Iroquaian ormai scomparse si stanziarono a sud del lago Erie, formalmente sotto il controllo dei Seneca e più tardi furono noti come Mingo; nella valle del Susquhanna trovarono rifugio i Lenape Unaimi, insieme ai resti di altre tribu Algonchine della costa atlantica; più a est i Mahican erano anch’essi inseriti nell’alleanza, insieme ai Lenape Munsee e a molti indiani del New England profughi dopo la Guerra di Re Filippo. A queste tribù sottomesse la Lega garantiva una barriera contro l’avanzare dei coloni e chiedeva in cambio guerrieri e il controllo su tutti i commerci, che essa poi gestiva in monopolio, vendendo pelli ai mercanti inglesi e olandesi di Albany e della valle dell’Hudson. Questa alleanza guidata dalla Lega, fu formalizzata con il nome di Covenant Chain nel 1675 dal governatore di New York Edmund Andros, che ottenne il sostegno della Lega per garantire la pace, dopo la Guerra di Re Filippo in New England e i conflitti legati alla Rivolta di Bacon in Virginia. Confermata la pace con gli Inglesi, i guerrieri della Lega, insieme ai loro alleati sottomessi, si impegnavano poi in spedizioni di caccia e di guerra, in tutta la valle dell’Ohio disabitata, fino al fiume Mississippi a ovest, e alle terre dei Cherokee e al fiume Tennessee a sud, impedendo con la forza dei fucili inglesi, alle tribù Algonquian di tornare nelle terre da cui erano state cacciate. Il momentaneo equilibrio prodottosi alla fine della I Guerra del Castoro non era comunque destinato a durare: il grande e spopolato territorio della valle dell’Ohio, continuava ad essere un’attrazione per le tribù che erano state costrette ad abbandonarlo: gli Illinois che erano dovuti fuggire a ovest del Mississippi, gli Shawnee, dispersi dagli Iroquois, che avevano cercato rifugio a ovest tra i Miami, a sud tra i Creek e i Cherokee, a est tra i Lenape, grazie alla cui mediazione una parte di loro era entrato a far parte del Covenant Chain, e infine le tribù Algonquian che erano state cacciate a ovest del lago Michigan, che mai avevano considerato concluse le ostilità con gli Iroquois. Comunque fin quando i Francesi, che rifornivano di armi le tribù nemiche della Lega, si mostravano timorosi di un nuovo conflitto, il dominio Iroquois sulla valle dell’Ohio non fu messo in discussione. Il commercio francese aveva quindi un limite a sud, ma a partire dal 1670 anche la via del nord era stata preclusa all’espansione commerciale, e paradossalmente ciò accadeva proprio per l’iniziativa di due mercanti francesi, Pierre-Esprit Radisson e Medard de Groseilliers; i due mercanti pochi anni prima, per primi avevano esplorato le terre a nord del lago Superiore, ma al loro ritorno avevano visto confiscato il loro carico di pelli, ed erano stati incarcerati per aver commerciato senza autorizzazione. Durante il loro viaggio i due avevano compreso la ricchezza di pelli delle regioni del nord, abitate dagli indiani Cree, e avevano avuto notizie del mare a nord; avevano così concepito il progetto di aprire stazioni commerciali sulla costa a nord, per velocizzare il trasporto di merci verso l’Europa. Il loro progetto però tagliava fuori la lobby Il Covenant Chain rappresentato in un Wampum Iroquois


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dei mercanti di Montreal, che controllavano la via tradizionale del commercio, lungo i fiumi Ottawa e San Lorenzo, e i due una volta liberati, non trovando alcun appoggio, si erano così rivolti a mercanti di Boston per il loro progetto, giungendo infine a coinvolgere anche membri della famiglia reale inglese; fu così che nacque la Hudson Bay Company, che per i due secoli successivi fu la più potente compagnia per il traffico di pellicce del Nord America. Nel 1668 Groseilliers con una nave inglese raggiunse la Baia di James, all’estremità meridionale della Baia di Hudson (Radisson era partito con un’altra nave che era stata obbligata a tornare indietro), e lì aveva stabilito Ft.Charles, più noto come Ft.Rupert, dove ottenne un buon carico di pelli dagli indiani Cree; visto il successo negli anni successivi, la HBC stabilì altre due stazioni commerciali, Moose Factory (1673) e Ft.Albany (1679). I Cree che fino a quel momento per ottenere merci europee dovevano passare per l’intermediazione delle tribù in contatto con i Francesi, gli Ojibway, gli Ottawa, i Montagnais, divennero partners degli Inglesi. Gli immensi territori di caccia del Canada non erano più un monopolio esclusivo dei Francesi. Persa la possibilità di accedere alle sterminate foreste e paludi delle regioni più settentrionali, bloccata a sud dalla Lega Iroquois, l’espansione francese non poteva che puntare a ovest, verso le terre oltre il lago Superiore e le sorgenti del Mississippi. Ma anche lungo questa direttiva i problemi non mancavano, dato che queste erano le terre dei Dakota, nemici degli Ojibway e di tutte le tribù Algonquian alleate della Francia che vivevano tra il lago Superore e il Michigan. I Dakota (più noti come Sioux, adattamento francese del termine offensivo “Naoudowessioux”, usato contro di loro dagli Ojibway), erano una confederazione di sette trbù, i “sette fuochi”, che parlavano tre varianti dialettali della stessa lingua: il Santee (Mdkwanton, Sisseton, Whapeton, Whapekute), lo Yankton (Yankton, Yanktonay) e il Teton, parlato dalla sola tribù omonima. Queste tribù vivevano alle sorgenti del Mississippi, cacciando, pescando, raccogliendo riso selvatico, e forse praticando un po’ d’agricoltura; i Teton che erano i più poveri, vivevano al margine delle pianure e più degli altri dipendevano dai bisonti, cacciati ancora senza l’ausilio del cavallo. Da sempre in conflitto con gli Ojibway, i Dakota erano passati sulla difensiva quando questi avevano cominciato a essere riforniti di armi di metallo e fucili dai francesi nella prima metà del ‘600; erano poi giunte le tribù in fuga dall’avanzata della Lega Iroquois, anch’esse con armi europee, che stanziatesi a ovest del lago Michigan, premevano a sulle terre dei Dakota, per rifornirsi di pellicce da scambiare con i Francesi. In quegli stessi anni poi la confe-

La regione dei Grandi Laghi alla vigilia della 2° Guerra del Castoro


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derazione era stata lacerata da una grave divisione; una parte di Yankton o Yanktonay, si era separata, spostandosi a nord, dove verrà conosciuta con il nome di Assiniboin. Questi separatisti che da allora furono sempre nemici dei Dakota, dopo il 1670, si allearono con i Cree, commerciando anch’essi con i mercanti inglesi della Hudson Bay Co., e ottenendo armi di metallo e fucili. I Dakota si trovavano quindi in una condizione di difficoltà ed erano ansiosi di commerciare con i Francesi; i Francesi ovviamente non aspettavano di meglio, ma i loro alleati indiani erano fortemente contrari a permettere ai nemici Dakota di ottenere fucili e lame di metallo. I Francesi si trovavano così a lavorare in condizioni di difficoltà, dato che la loro espansione, era ostacolata dai loro stessi alleati e partners commerciali. Per tutti gli anni ’70 l’espansione commerciale francese fu bloccata, mentre alle sorgenti e lungo l’alto corso del Mississippi, la guerriglia indiana contro i Dakota, condotta in particolare da Fox e Ojibway (che combattevano anche fra di loro), impediva i commerci. In questo quadro la speranza che il Mississippi (Padre delle Acque in Algonquian), viaggiando verso sud potesse portare al Mare Occidentale, o a terre in cui trovare giacimenti minerari, o addirittura ai favolosi regni di Quivira o Taguayo , le cui leggende giungevano dai possedimenti spagnoli del Nuevo Mexico, ancora una volta indusse i Francesi di Montreal ad ulteriori esplorazioni. Ma benchè la loro iniziativa guardasse ben più a ovest delle terre rivendicate dalla Lega Iroquois, essa fu sufficiente ad innescare una serie di reazioni a catena, che in breve precipitò il precario scacchiere della regione in un violento conflitto, che dalle quasi inesplorate rive del Mississippi, attraverso la valle dell’Ohio, giunse ad insanguinare la valle del San Lorenzo e la stessa Montreal.

Il Padre delle Acque I rapporti tra la Lega Iroquois e i Francesi erano stati difficili fin dal 1609, quando Samuel Champlain, il fondatore della Nouvelle France era intervenuto con i suoi fucili a fianco degli Algonquin in una battaglia contro i guerrieri Iroquois. Malgrado ciò la Lega aveva sempre evitato di giungere allo scontro diretto con i Francesi, cercando di portare a casa i suoi obbiettivi con la via diplomatica; tali obbiettivi erano sostanzialmente due: cessazione di ogni rapporto commerciale e di ogni supporto alle tribù nemiche della Lega e imposizione ai Francesi di un monopolio nell’intermediazione delle pelli, come quello da loro esercitato nei confronti dei mercanti olandesi e inglesi. Solo quando la diplomazia non funzionò la Lega si decise al confronto militare diretto con i Francesi, ma alla fine della 1° Guerra del Castoro, tali obbiettivi non erano stati raggiunti: i Francesi continuavano a commerciare con i loro nemici e questo impediva loro di imporsi come unici intermediari. Malgrado ciò la Lega pragmaticamente non perse l’opportunità di approfittare del periodo di pace per commerciare, alle loro condizioni, anche con i Francesi; c’erano in questa disponibilità forse diverse ragioni, a partire dalla possibilità di non dipendere dai soli mercanti di Albany, per rifornirsi di merci, ma non è possibile escludere che all’interno della stessa Lega, vi fosse chi pensava di rendersi maggiormente autonomo dai Mohawk, che con la loro collocazione strategica nei confronti dei mercanti della valle dell’Hudson, svolgevano un ruolo obbiettivamente predominante. Infine c’era da considerare la presenza di un gran numero di adottati dalle tribù Huron, Tionontati e di altre tribù Iroquaian sconfitte, che in passato avevano avuto contatti con i Francesi, e in molti si erano anche fatti cristiani. I Seneca in particolare, erano i più lontani da Albany, quelli che al loro interno avevano il maggior numero di indiani adottati, e che quindi potevano essere più interessati al commercio con la Francia. I Seneca controllavano l’accesso alla valle dell’Ohio e ai suoi territori di caccia, e molti tra i membri adottati, occupavano proprio le terre tra l’alto corso dell’Ohio e il lago Erie, e proprio tra i Seneca alcuni missionari cattolici iniziarono a operare dopo la fine della 1° Guerra del Castoro. Aprire il commercio con loro significava rientrare nei territori caccia della valle dell’Ohio, da cui i mercanti francesi erano stati eclusi. Le opportunità del commercio con gli Iroquois, per aprire Robert Cavelier de La Salle


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nuove possibilità di espansione, ancor prima che dai mercanti di Montreal, che avevano già le loro relazioni e i loro itinerari commerciali, dal fiume Ottawa al lago Superiore, furono invece colte da un giovane e ambizioso avventuriero, di nome Robert Cavelier de La Salle, giunto in Canada proprio nel 1666, alla fine della 1° Guerra del Castoro. La Salle dall’età di quindici anni era entrato nell’ordine gesuita, e a ventidue era riuscito a farsi inviare in Canada, per raggiungere suo fratello maggiore, anch’egli missionario. Appena giunto a Montreal, comunque chiese all’ordine di poter essere sciolto dall’impegno, e ottenuta una concessione di terra nei pressi di Lachine, un sobborgo di Montreal, si diede subito a commerciare con i Mohawk, gli stessi indiani che pochi anni prima avevano portato il terrore fra i coloni francesi. Da loro venne probabilmente a sapere del fiume Ohio, e iniziò a concepire il progetto di cercare una via fluviale al Mare Occidentale e quindi alla Cina; spinto da questo progetto, oltre che dalla possibilità di commerci, nel 1669 La Salle giunse fino a Irondequoit Bay, sulla sponda sud del lago Ontario, in pieno territorio Iroquois, e lì cercò di ottenere aiuti e guide dai Seneca, per poter esplorare il fiume Ohio. I Seneca, molto diplomaticamente, lo sconsigliarono di spingersi in quelle terre, per timore di indiani ostili, e non offrirono ne guide ne aiuto: evidentemente non avevano alcun interesse a permettere a nessun bianco (e tanto meno a un Francese), di operare nei loro territori di caccia esclusivi. Malgrado alcune tesi che lo affermano, non ci sono prove che La Salle abbia comunque esplorato le terre del fiume Ohio, e per il momento egli dovette rinunciare ai suoi progetti. Comunque con la sua attività La Salle ottenne l’autorizzazione alla costruzione di un forte per fare concorrenza agli Inglesi nel commercio con gli Iroquois; il nuovo forte fu costruito nel 1672 con il nome di Ft.Cataraqui, dove oggi è la città di Kingston, all’estremità settentrionale del lago Ontario. Quello stesso anno giunse in Canada il nuovo governatore Louise de Buade de Frontenac, un personaggio autoritario e deciso, convinto della necessità di allargare i traffici e i presidi commerciali in tutta la regione dei Grandi Laghi; pur di ottenere tale risultato non si curò di entrare in conflitto con le autorità religiose, rinunziando ad ogni limitazione nel commercio di alcolici con gli indiani. Frontenac sostenne subito l’iniziativa di La Salle, che in suo onore cambiò nome al forte appena costruito, rinominandolo Ft.Frontenac; ovviamente Frontenac e La Salle divennero soci in affari. Comunque sempre nel 1672 prima dell’arrivo di Frontenac, una iniziativa fu assunta dall’intendente delle finanze della colonia Jean Talon, per espandere i commerci francesi e verificare la possibilità di una via fluviale al Mare Occidentale; esclusa la via dell’Ohio, su cui puntava La Salle, la speranza era nelle terre a ovest del lago Michigan, dove gli indiani erano amici e commercianti e missionari operavano da anni. Da quelle terre aveva origine un grande fiume che gli indiani chiamavano Mississippi “Padre delle acque”, e su quelle terre, dal consiglio di Salt St.Marie dell’anno prima, voluto proprio da Talon, la Francia aveva rivendicato il proprio controllo. Talon decise che era il momento di conoscere quelle terre e di verificare se esistesse una via per il Mare Occidentale, e affidò una prima esplorazione della regione e del grande fiume che la solcava, a un altro giovane mercante, Louis Jolliet. Nato a Quebec ventisette anni prima, come La Salle, Jolliet aveva avuto una educazione in seminario, che però aveva abbandonato per dedicarsi al commercio e all’avventura, operando nella regione di contatto tra i laghi Huron, Michiga e Superiore. Nel dicembre del 1672 a Michillimackinack, dove era la missione di Saint Ignace, stabilita per gli indiani Ottawa e Wyandot, Jolliet incontrò padre Jacques Marquette, a cui il vescovo aveva ordinato di partecipare alla spedizione; Marquette si unì con entusiasmo, dato che era ansioso di incontrare gli Illinois, una tribù che viveva lontana dagli avamposti francesi, ma che aveva inviato emissari fino a Green Bay, mostrando interesse a ricevere commercianti e missionari. Fino all’inizio del ‘600 gli Illinois Louis Jolliet e padre Jacques Marguette in viaggio sui Grandi Laghi erano stati la più importante con-


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federazione tribale della regione tra i Grandi Laghi e il Mississippi, ma poi erano stati costretti ad arretrare e spostarsi a ovest, prima a causa dell’arrivo dei profughi della 1° Guerra del Castoro, poi in seguito alle spedizioni di guerra degli Iroquois, tutti forniti di lame di metallo e fucili. A quel tempo vivevano a ovest del Mississippi, lontani dai posti commerciali francesi, in difficili rapporti con le tribù con cui i Francesi commerciavano, ed erano rimasti esclusi dall’alleanza sancita nel consiglio di Salt St.Marie del 1671. Essi comunque non disperavano di poter tornare nelle terre a est del Mississippi da cui erano stati cacciati, e alcuni gruppi già lo avevano fatto. Jolliet e Marquette partìrono nel maggio 1673 dalla missione di St.Ignace sugli stretti di Mackinack, e presero la via di Green Bay, facendo tappa tra i Menominee, poi risalirono il fiume Fox giungendo ai primi di giugno ad un grande villaggio di Mascoute, Miami e Kikapoo, in cui Marquette ebbe la sorpresa di trovare una croce a cui gli indiani facevano omaggi. Dal villaggio indiano, accompagnati da guide Miami, gli esploratori discesero il fiume Wisconsin fino al Mississippi, seguendone la corrente verso sud, fino ad un villaggio Illinois situato presso la foce di un affluente occidentale, il fiume Iowa o il Des Moines, raggiunto prima della fine di luglio. Mai nessun bianco s’era spinto così nell’interno e nessun bianco aveva visitato un villaggio Illinois. Gli indiani accolsero i Francesi con grande amicizia e rispetto, specialmente quando i Francesi parlarono di se come “vincitori degli Iroquois”. Dopo la sosta tra gli Illinois Marquette e Jolliet ripresero a discendere il Mississippi, fino alla confluenza col Missouri, mappando il territorio e prendendo nota delle tribù che l’abitavano. Alla confluenza con il grande fiume, Marquette intuì che quella era la via per l’ovest, la risalita del Missouri, e iniziò a temere che il Mississippi, nella sua corsa verso sud, sfociasse nel Golfo del Messico e non nell’ignoto Mare Occidentale. La spedizione continuò a viaggiare verso sud, oltre la confluenza dell’Ohio, fino a raggiungere una tribù ben munita di asce di metallo e di qualche fucile, che dopo un primo momento di tensione, accettò di incontrarli e dar loro informazioni; si trattava dei Chickasaw, una tribù Muskogean che più tardi sarebbe divenuta la spina nel fianco dei Francesi sul Mississippi. I Chickasaw fecero sapere ai Francesi che il mare era a solo dieci giorni di viaggio e che le armi e gli altri oggetti europei venivano dai bianchi che abitavano all’est, che usavano anch’essi croci e rosari e fra cui v’erano uomini vestiti di nero come Marquette; era chiaro che i Francesi si stavano avvicinando ai possedimenti spagnoli della Florida, e che tramite commerci e razzie, i manufatti europei erano giunti dove l’uomo bianco non era mai stato. Con la preoccupazione di finire nelle mani degli Spagnoli, Marquette e Jolliet continuarono a discendere il fiume, fino a giungere nei pressi di un villaggio chiamato Michigamea, dove vennero circondati da indiani ostili. Marquette sollevo più volte in alto il calumet, in segno di pace, fin quando un anziano non giunse a sedare gli animi e incontrare gli esploratori. Marquette tentò di comunicare usando una delle sei lingue indiane che conosceva, ma alla fine il dialogo fu possibile solo perché un anziano conosceva qualche parola della lingua degli Illinois. E’ difficile credere che questi indiani ostili fossero del villaggio di Michigamea citato nel diario, dato che i Michigamea erano una banda di Illinois che si era spinta molto a sud, i più meridionali tra i popoli di lingua Algonquian, e i Francesi non avrebbero avuto difficoltà a comprenderli. Più probabile che si trattasse di una spedizione di caccia o di guerra dei Quapaw, una tribù di lingua Siouan, assolutamente ignota a qualsiasi bianco; i Quapaw, insieme ad altre tribù Siouan, avevano abbandonato il fiume Ohio all’inizio della 1° Guerra Padre Marquette accolto dagli Illinois


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del Castoro, per spostarsi alla confluenza tra il fiume Arkansas e il Mississippi. In effetti una volta placata l’ostilità, questi indiani invitarono i Francesi a raggiungere proprio il villaggio Quapaw sull’Arkansas. I Quapaw accolsero i Francesi cordialmente, li informarono che ormai la foce del Mississippi era a soli cinque giorni, ma li sconsigliarono di continuare per l’ostilità degli indiani che erano in contatto con gli Spagnoli. E’ probabile che i Quapaw, giunti da poco nella regione, da cui avevano scacciato le tribù Tunican, fossero in guerra con i loro vicini, e il loro timore degli indiani che vivevano a valle, indusse Jolliet e Marquette a decidere il ritorno a nord. Ormai era chiaro che il Mississippi non era la via per il Mare Occidentale e continuare il viaggio significava solo rischiare l’ostilità con gli indiani o qualche incidente con gli Spagnoli. Dal punto di vista storico e geografico il viaggio di esplo- L’itinerario di Jolliet e Marquette razione di Jolliet e Marquette fu importantissimo, ma forse sul piano politico e commerciale, fu il viaggio di ritorno a produrre maggiori conseguenze. Risalendo il Mississippi in settembre la spedizione lasciò il grande fiume quando giunse alla confluenza del fiume Illinois, risalito il quale arrivò all’estremità meridionale del lago Michigan, da cui fece ritorno a Michillimackinack. Lungo il fiume Illinois i Francesi incontrarono villaggi della tribù omonima, con cui rinsaldarono i rapporti d’amicizia, venendo anche a conoscenza dei dissidi che li opponevano ai loro vicini settentrionali, i Miami, e agli Shawnee che essi ospitavano. L’anno dopo nel 1674, padre Marquette moriva a 38 anni mentre tentava di raggiungere gli Illinois per fondarvi una missione, mentre Jolliet tornato quello stesso anno anche lui tra gli Illinois per commerciare, non potè realizzare il suo progetto di stabilirsi nella regione, perché non ottenne l’autorizzazione dal governo guidato da Colbert. Comunque un fatto era accaduto: gli Illinois stavano tornando nelle terre rivendicate dalla Lega Iroquois e i Francesi si preparavano a sostenerli: questo non poteva non produrre conseguenze.

Il “casus belli”: La Salle e gli Illinois L’esplorazione del Mississippi, benchè non completata fino alla foce, aveva ormai reso chiaro che il Mare Occidentale rimaneva una chimera irragiungibile e per qualche anno nessuna iniziativa venne più assunta per espandere i commerci all’ovest. I commercianti che operavano tra il lago Superiore e il Michigan avevano già i loro problemi con i Dakota, la cui ostilità nei confronti delle tribù in rapporto con i Francesi, costituiva un limite alla possibilità di una ulteriore estensione dei traffici; nel 1677 i Dakota giunsero a colpire un villaggio dei Potawatomi, a sud di Green Bay, e tra i Potawatomi iniziò a formarsi


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una fazione antifrancese, per il sospetto che i Dakota ottenessero armi dai mercanti. Nell’autunno del 1678 era giunto a Salt St.Marie Daniel Greyson Du Luth, che pur essendo arrivato in America da pochi anni, e non avendo quindi una grande esperienza con gli indiani, nella primavera dell’anno successivo si spinse a ovest fino alla regione di Mille Lacs, alle sorgenti del Mississippi, dove fu accolto in un villaggio dei Dakota Mdkwanton, in cui il mer- Il governatore Frontenac incontra i capi della Lega Iroquois cante fece sventolare la bandiera gigliata della Francia. Nell’ottobre dello stesso anno Du Luth riescì a mediare una pace tra i Dakota e l’importante banda Ojibway dei Salteux , che resse per alcuni anni, e dopo tali iniziative i mercanti francesi iniziarono ad avere stabili rapporti con i Dakota. I Salteux comunque non erano tutti gli Ojibway, che in gran parte rimarero ostili ai Dakota, così come le altre tribù della regione; la conseguenza fu che a partire dal 1680 piccoli incidenti e malumori resero difficile il lavoro per gli emissari dei mercanti che visitavano le tribù. A est intanto, La Salle forte del sostegno di Frontenac e malgrado la freddezza della lobby dei mercanti di Montreal, continuava ad accrescere ricchezza e prestigio con i suoi commerci con gli Iroquois sui laghi Ontario e Erie; lo stesso Frontenac nel luglio del 1673 era giunto a Ft.Frontenac per incontrare i capi della Lega e convincerli a commerciare con la Francia. Forte dei suoi successi nel 1678 La Salle era tornato in Francia, per ottenere l’autorizzazione reale ad esplorare nuove terre, e al suo ritorno era con lui Henry Tonti (Enrico Tonti), un italiano figlio di esuli della rivolta antispagnola di Napoli, il cui padre era stato funzionario nel governo francese, dopo la fuga dall’Italia. Tonti era un soldato, che si era guadagnato il nome “Mano di Ferro”, per la protesi che sostituiva la mano, persa in una battaglia contro i Turchi al largo di Messina. Tonti non aveva l’ambizione ne la capacità per districarsi tra relazioni politiche e commerciali, ma più del suo socio dai grandi progetti, può essere considerato il vero fondatore della Louisiana francese, avendo passato tutta la sua vita sulla frontiera, impegnato ad esplorare la regione, commerciare con gli indiani o combatterli. Nel gennaio del 1679 La Salle costruì Ft.Conti sul fiume Niagara tra i laghi Ontario ed Erie, terminale per le merci che giungevano da Ft.Frontenac navigando sul lago, e base per il commercio in territorio Iroquois. Nella sua ambizione comunque egli continuava a sperare in una nuova via commerciale, senza dover dipendere dai mercanti di Montreal, ne subire i limiti che la Lega Iroquois imponeva per l’accesso ai suoi territori. Per perseguire il suo progetto a Ft.Conti costruì la prima nave mai varata in un cantiere sui Grandi Laghi, “Le Griffon”, con cui nella primavera del 1679, partì all’esplorazione del lago Erie, navigò sull’Huron e quindi sul Michigan fino a raggiungere ina agosto le sue coste meridionali. Qui si fermò presso l’attuale città di St.Joseph (Michigan), dove nell’autunno costruì Ft.Miami; obbiettivo erano le terre degli Illinois, gli indiani che avevano accolto amichevolmente Marquette e Jolliet, e che ancora erano isolati dai traffici. In novembre anche Tonti raggiunse La Salle a Ft.Miami, mentre dopo la partenza dei due, Ft.Conti veniva bruciato e abbandonato prima dell’inverno; dell’incendio furono accusati gli Iroquois ostili, ma a quel tempo la Lega era in pace ed è più probabile che gli uomini di La Salle, dopo la sua partenza abbiano deciso di abbandonare il forte per evitare un duro inverno nell’isolamento: non sarebbe stata l’unica occasione di disobbedienza da parte degli uomini al servizio di La Salle, dato che i rapporti tra lui e i suoi sottoposti furono spesso difficili. La Salle passò l’autunno a Ft.Miami a preparare il viaggio tra gli Illinois, ma i suoi concorrenti commerciali di Green Bay cercarono di allontanare i Miami dal forte da lui costruito, perché non gli offrissero la loro collaborazione. Malgrado le difficoltà nel gennaio del 1680 La Salle e Tonti erano sul fiume Illinois,


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dove costruirono Ft.Crevecoeur, nei pressi dell’attuale Peoria. Da Ft.Crevecoeur La Salle inviò in avanscoperta il francescano Louis Hennepin e altri due uomini, che in febbraio discesero l’Illinois fino alla confluenza con il Mississippi: qui però i tre furono catturati da una spedizione di guerra Dakota. Hennepin e gli altri furono portati in un villaggio presso le cascate di St.Antony sul Missis- Padre Louis Hennepin tra i Dakota alle cascate di St.Anthony sul Mississipi sippi in Minnesota, dove nel mese di settembre furono riscattati da Du Luth, che commerciava con i Dakota. A Ft.Crevecoeur La Salle iniziò a commerciare con gli Illinois, e in breve diverse bande si riunirono presso il forte attirate dalla possibilità di fare scambi; a marzo comunque La Salle riparti per caricare rifornimenti a Ft.Frontenac e lungo il viaggio individuò una migliore collocazione per la stazione commerciale. Tonti informato de La Salle della necessità di ricollocare il forte, era anch’egli partito da Ft.Crevecoeur per visionare il nuovo sito, ma in sua assenza i pochi Francesi rimasti al forte si ammutinarono e incendiarono la palizzata; è probabile che l’ammutinamento fosse causati da ritardi nella paga da parte di Lasalle, anche se è possibile che anche il timore degli attacchi Iroquois abbia causato la fuga. Tempo dopo fu lo stesso Tonti a catturare quasi tutti gli ammutinati, salvo il capo Martin Chartier, che sposatosi con una donna Shawnee, visse tutta la sua vita con la tribù, ricercato come traditore dai Francesi, guardato con sospetto dagli Inglesi, con cui negli anni successivi a volte collaborò. La preoccupazione degli ammutinati per gli attacchi dei guerrieri della Lega, non era immotivata, dato che le notizie del ritorno degli Illinois sulle loro terre, e soprattutto il sostegno che i Francesi offrivano loro, mise sull’avviso i capi Iroquois. Poi avvenne l’incidente che fece esplodere la situazione: nell’inverno del 1680 un capo Seneca impegnato con una spedizione di caccia nelle terre dell’ovest, fu catturato dai Winnebago, che lo portarono a Michillimackinak dove era presente anche Tonti; questi pensò che era l’occasione per aprire trattative ed evitare una guerra e organizzò un incontro con alcuni capi Illinois, nel villaggio degli Ottawa. La speranza di Tonti fu pero frustrata da un guerriero Illinois, che uccise il capo Seneca nel corso di un alterco: ora la guerra era inevitabile. Nell’agosto del 1680 i guerrieri Seneca e di altre tribù Iroquois invasero la regione del fiume Illinois, raccolsero l’alleanza dei Miami, da sempre rivali degli Illinois, e il 10 settembre posero l’assedio a Gran Kaskaskia, il principale villaggio della tribù; Tonti che era presente a Grand Kaskaskia con meno di mezza dozzina di uomini, uscì dal villaggio per tentare di parlare e di offrire merci, ma ci guadagnò solo una coltellata. Gli Iroquois imposero a Tonti e ai Francesi di lasciare le regione, e la ferita di Tonti impediva ogni opposizione; dopo un lungo viaggio e un naufragio sul lago Michigan i Francesi raggiunsero Green Bay, dove però non trovarono alcun aiuto tra i mercanti locali, a cui i progetti di espansione di La Salle apparivano come una pericolosa concorrenza. Tonti e i suoi svernarono tra i Potawatomi, che forse li accolsero anche per l’ostilità contro i mercanti della regione, dopo l’attacco subito ad opera dei Dakota tre anni prima. Intanto gli Iroquois, e gli alleati Miami, di fronte al rifiuto degli Illinois di Gran Kaskaskia di abbandonare il villaggio e lasciare la regione, avevano lanciato un attacco distruittivo, in cui gli Illinois morirono a centinaia, forse anche a migliaia; le donne e i bambini Illinois, che erano stati allontamati e nascosti su un isola in previsione della battaglia, furono anch’essi scoperti e uccisi. Quello di Grand Kaskaskia fu un massacro impressionante, da cui la tribù non si sarebbe mai più ripresa; qualche anno dopo La Salle e Tonti che passarano in quei luoghi, trovarono i resti di centinaia di cadaveri, bruciati, amputati, torturati. Una nuova guerra era iniziata e i Francesi e i loro alleati indiani erano divisi: i commercianti di


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Green Bay, ostili ai progetti di La Salle, evitarono di occuparsi di quanto succedeva agli Illinois, così come facevano i loro alleati indiani, che con gli Illinois avevano sempre avuto rapporti ostili, e che li accusavano dell’assassinio di un capo Iroquois. Tanto La Salle che gli Illinois se l’erano cercata, e nessuno era desideroso di una nuova guerra contro la Lega, per inseguire le ambizioni di un concorrente, o per soccorrere una tribù con cui non c’era L’attività di La Salle e l’itinerario di padre Hennepin alcuna amicizia. Ma pensare di circoscrivere il conflitto era un’illusione e quando la Lega iniziava una guerra contro nemici tribali, non si fermava fin quando non li aveva distrutti.

La Lousiana Con il massacro di Grand Kaskaskia gli Iroquois non avevano solo colpito i loro tradizionali nemici, ma avevano anche mandato un messaggio chiaro ai Francesi: nessuna espansione commerciale senza il loro consenso, e soprattutto nelle terre che consideravano proprie per diritto di conquista. La questione non era se accettare o meno che gruppi di indiani nemici di insediassero ai margini dei loro spopolati possedimenti: questo accadeva già da anni e non era ragione per rompere una tregua che durava da tempo, e di cui anche gli Iroquois beneficiavano. Ciò che non poteva essere tollerato era che un nuovo polo del commercio delle pellicce, nascesse sulle loro terre, senza il loro controllo; e questo accadeva per iniziativa dei Francesi. Per impedire la guerra il progetto di La Salle doveva essere interrotto, come molti mercanti di Montreal probabilmente avrebbero voluto, ma il governatore Frontenac era di diverso avviso, e continuò a sostenere il suo socio in affari. La ricostruzione in pietra di Ft.Frontenac, era stata fatta dal governatore, in cambio dell’impegno di La Salle a risarcire il costo, con i commerci che lì si organizzavano, e la postazione poteva essere la base per la nuova via commerciale che portava al Mississippi: Frontenac contava su La Salle, per rientrare dell’investimento. Nel giugno del 1681 La Salle tornò all’ovest per incontrare Tonti a Michillimackinack, poi i due partirono insieme per Montreal, da cui Tonti riparti subito per far ritorno a Ft.Miami, dove iniziò preparare una nuova spedizione. A Ft. Miami, dove giunse in settembre, Tonti trovò una nuova situazione: il mese prima gli Iroquois avevano lanciato un’altra spedizione di guerra contro gli Illinois, trovando però pochi nemici, dato che molti di loro erano fuggiti a ovest dopo il massacro dell’anno prima. Forse per non considerare il viaggio inutile, sulla via del ritorno gli Iroquois decisero che era il momento di punire i Miami, che avevano ospitato dei profughi Shawnee. Tonti ebbe a quel punto buon gioco nel mediare una pace tra Miami e Illinois, pacificando le due tribù più vicine e risaldando i legami con entrambe. La Salle tornò all’ovest all’inizio di gennaio 1682, e si incontrò con Tonti, che aveva preparato la spedizione, nei pressi dell’attuale Chicago: da lì i due mossero per raggiungere il fiume Illinois e discenderlo fino al Mississippi. La spedizione era composta da una cinquantina di persone, circa la metà indiani, con dieci donne e tre bambini al seguito, e viaggiò senza problemi lungo il Mississippi, giungendo in febbraio nei pressi dell’attuale Memphis, nella terra dei Chickasaw. Qui un uomo di nome Prohudomme scomparve, e temendo fosse caduto nelle mani dei Chickasaw, La Salle costruì una palizzata, che chiamò Ft.Prohudomme, per difendersi da eventuali attacchi mentre proseguivano le ricerche dello scomparso. Prohudomme ritornò qualche giorno dopo mezzo morto per la fame, e la spedizione proseguì fino al


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villaggio dei Michigamea, raggiunto il 14 marzo 1682; i Michigamea erano un gruppo separato e migrato a sud degli Illinois e accolsero amichevolmente i Francesi. Nel villaggio fu eretta una croce, mentre La Salle con una pubblica cerimonia, rivendicava alla Francia tutte le terre a ovest del Mississipi, denominate in nome del re di Francia, Louisiana. Fu quindi raggiunto il villaggio dei Quapaw, passato il quale la spedizione di La Salle andò oltre il punto raggiunto anni prima da Marquette e Jolliet; la sprdizione raggiunse infine la La Salle pianta una croce al villaggio dei Michigamea foce del Mississippi e il Golfo del Messico, il 7 aprile 1682. In queste terre in cui non si vedeva un uomo bianco almeno dai tempi della spedizione di Hernando de Soto, qusi un secolo e mezzo prima, La Salle ebbe contatti con i Natchez e i Taensa, di cui visitò i villaggi, incontrò gli Houma, di cui seppe che erano in guerra con i vicini Quinipissa, ci furono tensioni con gli stessi Quinipissa e infine ebbe contatti con i Washa e i Chawasha, che vivevano sul delta del Mississippi. Molte di queste tribù, e i Natchez sicuramente, continuavano a vivere secondo il modello della cultura del Mississippi, scomparso nei secoli precedenti quasi ovunque; qui ancora nei villaggi era possibile vedere le grandi piramidi di terra, sovrastate da templi e abitazioni di capi e sacerdoti, i capi avevano una grande autorità su tutti i membri della tribù, la società era fortemente stratificata con delle elite che vivevano riccamente, almeno rispetto agli altri membri della comunità. Il buon esito della spedizione fu santificato con una messa, celebrata nella località dove oggi sorge la cittadina di Venice sul delta del Mississippi, dopo di che la spedizione prese la via del nord. La Salle aveva garantito alla Francia pretese per un territorio immenso, ora si trattava di tornare a organizzare il commercio e lo sfruttamento economico di quei territori. In maggio, durante il viaggio di ritorno, La Salle si ammalò e tocco a Tonti muovere in avanguardia per far ritorno ed organizzare eventuali soccorsi; per Tonti il viaggio si concluse il 22 luglio con l’arrivo a Michillimackinack, poi in settembre anche La Salle lo raggiunse, quindi i due ripartirono subito verso sud, per tornare sul fiume Illinois e riprendere quei commerci, che erano stati la principale ragione della spedizione esplorativa. Un nuovo avamposto commerciale fu costruito prima della fine del 1682, nella località individuata qualche anno prima da La Salle, un punto strategico per il collegamento tra il fiume Illinois e e il lago Michigan, con in più il pregio di una posizione difendibile; situato nei pressi di Utica e chiamato Ft.St.Louis, soprannominato La Roche, per la sua posizione imprendibile, la località fu più tardi conosciuto come Starved Rock (Rocca degli affamati), quando fu teatro di un lungo assedio agli indiani Illinois molti anni dopo. Il nuovo fortino iniziò subito ad attirare indiani da tutta la regione, Illinois, Miami, Shawnee e gli affari andavano a gonfie vele, anche se nuvole si preparavano all’orizzonte. Durante la loro assenza il governatore Frontenac, che si era fatto molti nemici nel clero e anche tra i mercanti di Montreal, fu richia- La Salle accolto dal capo dei Taensa


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mato; il protettore politico di Lasalle non c’era più, e il nuovo governatore, Antoine Lefevbre de La Barre, inviato dal re per riportare l’ordine nella colonia ed evitare l’imminente guerra con gli Iroquois, non aveva la stessa buona disposizione di Frontenac. Proprio l’apertura dei commerci con gli Illinois aveva fatto saltare il precario equilibrio con la Lega, e la guerra iniziata contro gli Illinois, si stava estendendo ad altre tribù alleate della Francia, con il rischio di danni al commercio; già i guerrieri Iroquois avevano attaccato i Mascoute nel 1682 e nel 1683, uccidendo una settantina di persone nel corso del secondo attacco, poi in luglio i guerrieri Seneca giunsero fino Michillimackinack, per attaccare gli Ottawa. Per contrastare gli attacchi Iroquois sarebbe stato necessario che l’alleanza indiana promossa dalla Francia intervenisse compatta, ma le tribù indiane rimanevano ostili agli Illinois, e i mercanti di Montreal contrari ad una guerra per difendere gli interessi di La Salle. Il regno commerciale costruito in quegli anni da La Salle era a rischio e nell’estate del 1683, il governatore La Barre si impossessava di Ft.Frontenac e di tutte le merci che vi erano, a causa del mancato rispetto degli impegni presi per risarcire il governo della costruzione del forte a sue spese. Fu per questo che l’ambizioso esploratore decise di tentare la carta che l’avrebbe reso autonomo dal governatore della Nouvelle France e libero di operare come meglio credeva: costituire una nuova colonia nelle terre alla foce del Mississipi, su cui lui aveva imposto il diritto del re di Francia. Nel settembre del 1683 La Salle lasciò Tonti al comando di Ft.St.Louis e partì per la Francia, per ottenere dal re l’autorizzazione a una nuova colonia, e preparare la partenza di coloni e rifornirli di tutto ciò che ai coloni sarebbe servito, per sopravvivere ai primi mesi nella nuova terra.

L’incapace governatore La Barre Il nuovo governatore che sostituiva Frontenac, Antoine Lefevbre de la Barre era un militare e funzionario sessantenne, che si presentò come personaggio senza interessi personali nel commercio delle pelli, amico del clero, ben disposto verso i commercianti di Montreal, e pronto ad impegnarsi per potenziare l’agricoltura come una risorsa della colonia. La situazione che si trovava di fronte era piuttosto complessa: a prescindere dai problemi interni al governo coloniale, con le dispute tra clero e mercanti e quelle tra i mercanti stessi, era la questione indiana che stava esplodendo. Gli Iroquois erano già di fatto in guerra, almeno con gli alleati della Francia, ma anche più a ovest tra gli stessi alleati della Francia, la questione del commercio con i Dakota poteva portare a nuovi conflitti. Nel 1682, poco prima dell’arrivo di La Barre, guerrieri Ojibway e Menominee uccisero due mercanti francesi, e Du Luth che era il più autorevole personaggio nella regione, dovette desistere dal punire i colpevoli, per timore di una sollevazione degli Ojibway, la tribù più potente dei Grandi Laghi occidentali; alla fine per salvare la faccia, un indiano Menominee, una tribù poco numerosa, fu accusato dell’omicidio e giustiziato. Tra i Potawatomi iniziarono a circolare accuse di stregoneria contro i missionari, e il capo Onghanisse iniziò ad organizzare un complotto per cacciare i Francesi da Green Bay; nel 1683, per timore di stregoneria i Sauk uccisero due missionari; c’erano poi i Fox, in prima linea contro i Dakota, che si mostravano sempre più ostili ai Francesi, ai quali non riconoscevano alcuna autorità. In una situazione simile, la presenza delle stazioni commerciali inglesi sulla Baia di Hudson, poteva attirare gli indiani scontenti e le loro pelli pregiate, e mettere nei guai i mercanti di Montreal. Malgrado il suo dichiarato disinteresse per il commercio delle pelli, La Barre fondò una compagnia commerciale il cui scopo era contrastare gli Inglesi che operavano sulla Baia di Hudson, e nel febbraio del 1683 inviò Du Luth con una spedizione di quindici canoe a visitare gli Ojibway, i Dakota e le altre tribù che frequentavano l’alto corso del Mssissippi, per imporre loro la pace e il commercio con i Francesi; La Barre fu accusato di aver inviato merci proprie nel convoglio guidato da Du Luth. Difficile comprendere quale fu il risultato della missione, dato che il conflitto tra Dakota e Ojibway durò ancora per due secoli e i Fox continuarono a rimanere ostili; per le altre tribù è probabile che sia bastato il ritorno quello stesso anno di Nicolas Perrot, l’uomo che aveva organizzato il grande consiglio di Sault St.Marie del 1671; suo compito era rinsaldare l’alleanza contro i comuni nemici Iroquois, che preoccupavano tutti. La Lega era infatti il nemico più temibile, ma essa era anche stata il partners commerciale con cui La Salle aveva costruito la sua fortuna a Ft.Frontenac. Le indicazioni della corte di Parigi per La Barre erano state quelle di evitare tanto le avventure sul Mississippi di La Salle, quanto la guerra con la Lega. Con una interpretazione molto personale di tali indirizzi, La Barre ritenne che poteva mantenere la pace con gli Iroquois e commerciare con loro sostituendosi a La Salle: nell’agosto del 1683 Ft.Frontenac, e tutte le merci che vi erano stipate veniva sequestrato a La Salle. In quelle stesse settimane tra luglio e agosto,


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La Barre incontrava due volte a Montreal una delegazione di capi della Lega, per indurli alla pace e stabilire rapporti commerciali diretti. Gli Iroquois accettarono di non attaccare più gli Ottawa e i Wyandot, ma ribadirono la volontà di fare guerra agli Illinois, ai Miami e soprattutto la richiesta di chiusura di Ft.St.Louis, dove Tonti commerciava per conto di La Salle. La Barre si mostrò disponibile e giunse ad autorizzare gli Iroquois a sequestrare le merci di chiunque non poteva mostrare una regolare licenza da lui firmata. Una sorta di Starved Rock, il luogo in cui fu edificato Ft.St.Louis accordo fu stabilito e per il momento la guerra fu evitata. Comunque La Barre non accettò di chiudere Ft.St.Louis, e anzi in settembre vi inviò un suo uomo con l’ordine di destituire Tonti e prendere il comando della stazione commerciale: come a Ft.Frontenac, l’obbiettivo era far fuori definitivamente La Salle e appropriarsi delle sue attività. In quegli anni Ft.St.Louis aveva continuato a crescere d’importanza, attirando nelle vicinanze migliaia di indiani e divenendo il punto d’arrivo per le pelli che giungevano dalle terre a ovest del Mississippi, dove vivevano tribù fino ad allora ignote: gli Osage, i Missouri, gli Iowa. Oltre alle pelli poi aveva fatto la sua comparsa anche un significativo commercio di schiavi, alimentato dalle incursioni che gli Illinois e altre tribù in contatto con i Francesi, facevano nei villaggi dei Pawnee, nelle lontane pianure del Kansas e Nebraska: ovviamente il commercio di schiavi, vietato dalla chiesa, avveniva in forme illegali. L’accordo stipulato da La Barre più che a limitare i rischi di guerra e controllare gli Iroquois, sembrava puntare a garantire una sostituzione nel monopolio del commercio con loro; esso aveva comunque diversi sostenitori, il clero in particolare, impegnato con alcune missioni tra gli Iroquois, e quanti a Montreal non si sentivano pronti alla guerra e speravano che prima giungessero truppe dalla Francia, per sostenere lo sforzo. Per gli Iroquois era la conferma che nessuno metteva in discussione il loro diritto alla valle del’Illinois e ovviamente ne trassero le conseguenze; nella primavera del 1684 un gran numero di guerrieri Seneca e altri Iroquois e loro alleati, mosse nuovamente verso le terre degli Illinois e Ft.St.Louis. Lungo la via portarono il loro attacco ad alcuni villaggi Miami distruggendoli e mettendo in fuga i superstiti. Alla notizia dell’arrivo degli Iroquois, gli Illinois e gli altri indiani radunati a Ft.St.Louis fecero subito preparativi per abbandonare la regione, ma Tonti, pur non avendo più il comando del forte, riuscì a convincere molti indiani a rimanere. Riuniti a Ft.St.Louis Francesi e alleati indiani attesero l’arrivo degli Iroquois, e quando essi giunsero, resistettero per sei giorni all’assedio, infliggendo gravi perdite agli avversari, e alla fine obbligandoli a ritirarsi. Era la prima volta che gli Iroquois subivano una così cocente sconfitta e dopo di questa battaglia, l’egemonia della Lega nella regione si concluse. L’intervento di Tonti e dei Francesi di Ft.St.Louis era stato determinante nella sconfitta subita dai guerrieri della Lega, che reagì riprendendo le incursioni contro i convogli commerciali, senza ovviamente curarsi di appurare se avessero o meno la regolare licenza del governatore La Barre. Per lo stesso La Barre, i cui progetti di monopolio commerciale con la Lega venivano frustrati, era difficile non reagire ad un attacco portato contro Ft.St.Louis, una stazione commerciale francese, specialmente dopo che il controllo delle attività era tornato sotto il governatore; la corte di Francia fu informata dell’attacco Iroquois, e da essa giunse per La Barre l’autorizzazione all’intervento militare. Il 30 di luglio una truppa di 700 miliziani, 150 fanti di marina, giunti l’anno prima dalla Francia e 400 alleati indiani, lasciò Montreal per invadere il territorio Iroquois; ai primi di agosto la spedizione raggiunse la località di Oswego, sulla sponda meridionale del lago Ontario, in pieno territorio Iroquois e qui si accampò. I Francesi scelsero come base una zona paludosa e priva di difese; in aggiunta i rifornimenti e il cibo scarseggiavano, e molti soldati si ammalarono di febbri. Fu in queste condizioni che li trovò il capo degli Onondaga Garangula, che ritenne opportuno presentarsi con una proposta di pace, prima di giungere ad uno scontro, che poteva essere vincente, ma che, viste le forze dell’avversario, sa-


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rebbe comunque costato molte vittime. Garangula con un fiorito discorso in cui ammoniva La Barre a non tentare di distruggere l’Albero della Pace, accettò di cessare la guerra agli alleati indiani dei Francesi, compresi i Miami, ma non gli Illinois, che dovevano essere puniti e cacciati dalle loro terre; di fatto la Lega non rinunciava alle sue pretese e alla chiusura di Ft.St.Louis. La Barre preferì accettare le condizioni imposte, piuttosto che rischiare una battaglia da cui poteva uscire perdente, e la spedizione fu un fallimento, in cui il governatore perse ogni credibilità nei confronti dei Francesi del Canada, e i Francesi del Canada ogni credibilità nei confronti degli indiani alleati. Per gli Iroquois la dimostrazione di debolezza dei Francesi fu un lasciapassare a continuare la guerriglia contro i loro alleati, e nel 1685 i Mascoute, a causa degli attacchi Iroquois, furono costretti a spostarsi a ovest del Mississippi. Comunque neanche queste lontane regioni dovevano essere al sicuro degli attacchi degli Iroquois, se è vera una tradizione Dakota che fa riferimento ad una battaglia contro gli Iroquois, avvenuta a ovest del Mississippi quando la tribù non aveva ancora cavalli, cioè prima del 1690. Dopo il fallimento della spedizione, nel novembre del 1684, altri 350 fanti di marina giunsero dalla Francia per combattere gli Iroquois, ma il governatore La Barre, ormai screditato tra i coloni e gli indiani, non assunse più alcuna iniziativa fino alla sua rimozione nel marzo del 1685. Mentre La Barre concludeva la sua vicenda americana, La Salle era a Parigi per difendere i suoi diritti davanti al re, e preparare la rivincita.

L’ultima impresa di La Salle La Salle era tornato in Francia nel settembre del 1683, dopo che il governatore La Barre si era impossessato di Ft.Frontenac e i suoi grandiosi progetti per un impero commerciale tra la valle dell’Ohio e il Mississipi, erano sull’orlo del naufragio; ma l’uomo la cui ambizione aveva fatto saltare il precario equilibrio tra i Francesi e la Lega, aveva ora un nuovo progetto: la costruzione di una colonia alla foce del Mississippi, visitata dallo stesso La Salle due anni prima: la nuova colonia avrebbe potuto contrastare il dominio spagnolo sul Messico, i Caraibi e la Florida. Non si trattava più semplicemente di un progetto di espansione commerciale, ma di una iniziativa che poteva cambiare lo scenario politico e militare in America, e divenire una seria minaccia per la Spagna e per le sue ricche miniere d’argento in Messico; l’idea che un pugno di uomini potesse imporsi nella regione, ottenendo l’aiuto degli indiani stanchi del dominio spagnolo, non era priva di senso, vista le capacità dei Francesi di attrarre i nativi con il commercio. Fu probabilmente per questa ragione che La Salle, che aveva pochi amici in Canada, trovò invece il sostegno della corona di Francia, che autorizzò il suo progetto e mise a disposizione due navi e un centinaio di soldati; altre due navi furono comprate da La Salle, che arruolò circa 200 coloni, caricò le navi di tutto ciò che poteva servire e soprattutto delle merci necessarie per commerciare con gli indiani; tra i coloni vi erano artigiani, mercanti, una dozzina di donne e ovviamente alcuni missionari. La piccola flotta partì da La Rochelle nel luglio del 1684, per raggiungere in settembre l’isola di Santo Domingo nei Caraibi; qui avvenne il primo incidente, quando corsari spagnoli si impossessarono di una delle navi e delle merci e delle provviste di cui era carica; durante la sosta a Santo Domingo alcuni uomini disertarono e uno di loro, datosi alla pirateria e catturato qualche tempo dopo dagli Spagnoli, li avvisò dei progetti Francesi di insediarsi nella regione. In novembre da Santo Domingo le tre navi rimaste presero il mare per raggiungere la loro meta, ma a causa della scarsa conoscenza Una delle poche raffigurazioni degli indiani Karankawa, risalente delle correnti e della navigazione nel mar dei alla fine del ‘700, poco prima della totale estinzione della tribù


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Caraibi, e soprattutto per gli errori fatti da La Salle nel calcolare la latitudine della foce del Mississipi, la navigazione si protrasse per quasi tre mesi, e infine le navi raggiunsero il luogo sbagliato, la baia di Matagordo sulle coste del Texas, nel gennaio del 1685. Dopo aver navigato cercando una canale attraverso i banchi di sabbia che fronteggiano la costa, il 20 febbraio, dopo oltre tre mesi di navigazione, i coloni ormai spossati dal viaggio, riuscirono finalmente a prendere terra. La terra su cui era approdato La Salle era abitato da genti ben diverse da quelle incontrate alla foce del Mississipi; gli indiani Karankawa che abitavano la regione, non erano agricoltori che vivevano in villaggi stabili, non costruivano piramidi di terra, non avevano capi e sacerdoti autorevoli, non vivevano in comunità organizzate. Si trattava di poveri nomadi che riuniti in piccole bande, stagionalmente si spostavano dalla costa alle regioni dell’interno, pescando, cacciando, raccogliendo molluschi e vegetali selvatici; avevano poche pelli pregiate da offrire e nessuna ricchezza, e spesso soffrivano la fame e il freddo nei loro poveri ricoveri di frasche e arbusti, ma erano comunque abilissimi con i loro lunghi archi e avrebbero dato prova di essere guerrieri bellicosi. Si trattava di una tribù caratterizzata dall’alta statura dei suoi membri, maggiore della media degli indiani, che usava una lingua che non risulta avesse relazione con nessun’altra, anche se qualche studioso ha ipotizzato che sia i Karakawa che i Coahuiltec, abbiano forse lontani rapporti con gli indiani di lingua Hoka della California; quasi certamente erano antichissimi abitanti del continente, con uno stile di vita primitivo, che solo di recente (X secolo), avevano acquisito l’uso di terracotte. I primi uomini bianchi con cui i Karankawa erano entrati in contatto, erano stati Cabeza de Vaca gli altri naufraghi della spedizione di Pamfilo de Narvaez, nel 1529, che in quell’occasione erano stati accolti e aiutati. Dopo d’allora la loro disposizione nei confronti dei bianchi comunque cambiò, se nel 1554 un altro gruppo di un centinaio di naufraghi furono quasi tutti massacrati; oltre all’incontro con i naufraghi l’unico contatto diretto dei Karankawa con gli Spagnoli, che avevano colonie a sud del Rio Grande, risaliva al 1573, quando il cacciatore di schiavi Luis de Carbajal, condusse contro di loro una spedizione punitiva. Per oltre un secolo i Karankawa non avevano avuto altri contatti con gli Spagnoli, anche se merci e manufatti europei giungevano in qualche modo alla tribù e furono scoperti dai Francesi nei loro villaggi; secondo testimonianze Francesi, anche il cavallo aveva fatto la sua comparsa tra i Karankawa, anche se questa tribù non ne fece mai grande uso. E’ facile immaginare che quando scrutando dalla costa, all’orizzonte comparvero le vele francesi, i guerrieri Karankawa si siano preparati per fare bottino delle ricchezze che il mare portava loro. Delle tre navi della flotta, due si insinuarono nelle lagune lungo la costa sfidando i bassi fondali: ma mentre la seconda era ancora impegnata a cercare un passaggio, i Karankawa che avevano seguito gli avvenimenti, la circondarono con le loro canoe e riuscirono a rapire alcuni Francesi; impegnato a recuperare i rapiti, La Salle lasciò la responsabilità della nave al suo capitano, che la fece arenare su un banco di sabbia. Nei giorni successivi l’impegno dei coloni fu quello di recuperare il carico della nave arenata, prima che i Karankawa se ne potessero appropriare, ma il 7 di marzo, una bufera fece naufragare lo scafo, e il relitto fu preda del saccheggio dei Karankawa. I Francesi nel tentativo di recuperare quanto gli indiani avevano sottratto, cercarono e trovarono il loro accampamento deserto e oltre riprendersi quanto rubato, si impossessarono di pelli e di due canoe; i Karankawa che erano fuggiti all’arrivo dei Francesi, ma erano rimasti nelle vicinanze, a quel punto li attaccarono uccidendo due uomini e ferendone altri. A terra i Francesi si riunirono in un accampamento provvisorio, mentre già era evidente che l’impresa era fortemente a rischio; non si sapeva dove fosse il Mississippi, ne quale fosse la distanza dalle colonie spagnole, la terra lungo la costa era povera e desolata e gli indiani ostili; alla metà di marzo, una delle due navi rimaste, di Le navi di La Salle approdano sulla costa del Texas proprietà del re e il cui compito era


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solo quello di accompagnare i coloni, riprese il mare e fece ritorno in Francia; con essa partirono molti coloni, già stanchi di quella sfortunata avventura, e non rimasero più di 180 persone pronte a seguire ancora il sogno di La Salle. Il capitano della nave rientrata, portava un messaggio di La Salle al re di Francia, chiedendo aiuto e rifornimenti, ma nel frattempo c’era stato un riavvicinamento politico tra Francia e Spagna, e il sostegno all’iniziativa di La Ricostruzione di Ft.St.Louis, edificato Salle diveniva politicamente su un promontorio inopportuno: così lui e gli uosul Garcitas Creek mini che l’avevano seguito, fu(in alto) e i cannoni rono abbandonati. che difendevano Verso la fine di marzo La Salle l’avamposto (al lato) si diede a cercare un luogo adatto a costruire un insediamento stabile, e lo trovò un po’ nell’interno lungo il corso di quello che oggi è chiamato Garcitas Creek, nella contea di Victoria, Texas; il posto oltre all’acqua dolce e al pesce, forniva anche legname (inadatto però alla costruzione), e selvaggina, per la vicinanza di mandrie di bisonti; proprio per i bisonti, i Francesi chiamarono il fiume “Riviere aux Boeufs”. Durante il mese di giugno e fino a luglio, i coloni furono impegnati a trasbordare tutti i loro averi, compreso il carico dell’unica nave rimasta e suoi otto cannoni, del peso tra i i 3 i 5 quintali, dalla costa alla nuova base. Poi dovettero portare la legna per la costruzione di un edificio a due piani, magazzino e abitazione di La Salle, degli ufficiali e dei missionari, e per le abitazioni degli altri coloni. Mentre erano impegnati in questo sforzo, i coloni subirono febbri, malattie veneree, che unite alla fatica e alla scarsa alimentazione, in pochi mesi ne dimezzarono il numero. Il nuovo insediamento, noto come Ft.St.Louis, viveva come assediato dai Karankawa, che lo circondavano ma non osavano attaccarlo, per timore delle armi da fuoco. Stabilita la propria base rimaneva la necessità di raggiungere la foce del Mississippi, che era ad oltre 600 chilometri di distanza, in una terra ostile, sconosciuta e senza strade; d’altra parte La Salle non aveva neanche idea di dove si trovava e di quale fosse la direzione in cui cercare la foce del grande fiume. Comunque in ottobre, con gran parte degli uomini validi, La Salle cercò di esplorare la costa con le canoe, mentre l’ultima nave rimasta li accompagnava navigando più a largo. L’esplorazione non diede alcun esito, ma diversi Francesi morirono per intossicazione dopo aver mangiato una varietà di fichi d’india; altri furono uccisi dai Karankawa dopo che i Francesi avevano attaccato un loro villaggio. Da gennaio l’esplorazione continuò per via di terra, e i Francesi mossero a ovest, in direzione del Rio Grande, avendo contatti con i pacifici indiani Coahuiltec che abitavano la regione; i Francesi chiedevano notizie degli Spagnoli e cercavano di metterli in cattiva luce, proponendosi come amici e alleati. Le bande Coahuiltec del Texas meridionale, da almeno un secolo dovevano temere i cacciatori di schiavi spagnoli, ma è difficile credere che quegli uomini dispersi in una terra sconosciuta, malgrado i loro fucili e i loro coltelli, siano stati considerati dei potenziali alleati. Questa prima esplorazione si concluse nel marzo del 1686, quando La Salle e i suoi ritormnarono sulla costa, ma non trovarono più la loro nave; a piedi fecero ritorno a Ft.St.Louis, e da lì in aprile una nuova spedizione esplorativa, partì questa volta a est, nella giusta direzione.


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Dopo la sua partenza, un gruppo di marinai della nave scomparsa, fecero ritorno in canoa a Ft.St.Louis, raccontando che il capitano ubriaco, aveva fatto arenare la nave; con l’ultima nave ormai fuori uso, ogni speranza di ritornare in patria o di poter abbandonare quella terra, era sfumata; i Karankawa depredarono lo scafo arenato e uccisero gli uomini rimasti nelle vicinanze. L’esplorazione di La Salle a est, questa volta era nella giusta direzione, ma la distanza che separava Ft.St.Louis dal Mississippi era molto maggiore di quella immaginata. La Salle e i suoi uomini viaggiarono fino al fiume Neches, dove incontrarono gli Hasinay, una confederazione di tribù di lingue Caddoan, che vivevano in villaggi agricoli, e che erano influenzati dai vicini popoli di cultura Mississipi. Qui quattro uomini disertarono, e di loro non si seppe più nulla, ma gli Hasinay, erano in contatto con le tribù che vivevano sul Mississippi, e fornirono a La Salle una mappa della regione. Nei villaggi Hasinay erano presenti anche indiani Jumano, che facevano commerci attraverso le praterie del Texas, ed erano in contatto con gli Spagnoli sul Rio Grande; al loro ritorno a sud, anche gli Spagnoli seppero della presenza Francese nel Texas. La Salle comunque si ammalò e dovette fermarsi due mesi tra gli indiani, fino all’agosto, quando privo di rifornimenti e soprattutto di polvere da sparo, lui e gli otto uomini sopravvissuti che lo seguivano, furono obbligati a far ritorno a Ft.St.Louis. Durante l’inverno le condizioni dei coloni continuarono ad aggravarsi e i superstiti erano rimasti in meno di quarantacinque compresi alcune donne e alcuni bambini. Comunque La Salle aveva finalmente un’idea di dove si trovava e di quale poteva essere il luogo più vicino in cui trovare aiuto: l’Illinois, a migliaia di chilometri di distanza, nell’avamposto dove aveva lasciato il suo socio Enrico Tonti. Per quanto l’impresa poteva apparire disperata, solo raggiungendo quella lontana meta c’era speranza di salvezza. Nel gennaio del 1687 La Salle e altri sedici uomini, compresi due suoi nipoti e suo fratello, ripartirono per tentare di raggiungere il lontano Illinois, lasciando al forte una ventina di persone, donne, bambini, malati, tre missionari, e alcuni soldati già in lite con La Salle. Lungo la via comunque l’esasperazione a cui questi uomini disperati erano giunti fu fatale: il 18 marzo, nei pressi dell’attuale Navasota (Texas), una violenta risse esplose a causa della divisione della carne di un bisonte; quella stessa notte, un nipote di La Salle e altri due membri del gruppo furono assassinati nel sonno, poi il giorno dopo lo stesso La Salle fu attirato in un tranello e ucciso a tradimento. La faida continuò con altri morti, fin quando non rimasero che otto superstiti. Due di loro, responsabili dell’assassinio di La Salle, si unirono agli Hasinay che vivevano nella zona, mentre gli altri sei, guidati dal cronista della spedizione Henry Joutel, riuscirono a raggiungere Arkansas Post, la piccola stazione commerciale presso un villaggio Quapawcdove Jean Couture e altri cinque Francesi erano stati lasciati da Tonti, durante il suo tentatvo di trovare la colonia di La Salle sul Mississippi. Di lì outel e i suoi arrivarono nell’autunno Le esplorazioni di Robert Cavelier de La Salle


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1686 a Ft.St.Louis in Illinois; il viaggio di questi sei disperati dalle praterie del Texas fin quasi ai Grandi Laghi, spostandosi in terre ignote, tra indiani sconosciuti, a piedi e senza scorte di cibo, probabilmente avrebbe avuto un esito drammatico, senza la tappa presso la sperduta stazione di Arkansas Post. Joutel e i suoi evitarono di parlare con Tonti della morte di La Salle, e solo una volta giunti in Francia nel 1688, essi raccontarono al re il triste destino della colonia. A quel tempo a Ft.St.Louis in Texas, forse ancora una ventina di persone resisteva e sperava in un aiuto, che dalla Francia nessuno inviò. Prima della fine dell’anno, forse il giorno di natale del 1688, i Karankawa diedero l’assalto definitivo all’avamposto francese e ne massacrarono gli occupanti, risparmiando solo cinque bambini, che presi prigionieri, tempo dopo furono liberati dagli Spagnoli. Gli Spagnoli seppero poi che un gruppo di Karankawa si era presentato amichevolmente attirando l’attenzione dei Francesi, mentre altri di soppiatto entravano nel forte e coglievano di sorpresa i pochi difensori. Della colonia francese del Texas, nata dall’errore di un uomo la cui ambizione era forse più grande della sua capacità, nulla rimaneva, se non i bambini prigionieri tra i Karankawa, e pochi sbandati rimasti a vivere con gli indiani. Uno di loro un disertore di nome Jean Jerry, fu trovato dagli Spagnoli qualche anno dopo: era divenuto capo di una banda di Coahuiltec, a cui si era presentato come inviato da dio; le esperienze vissute dovevano averlo segnato, perché agli Spagnoli apparve pazzo, anche se fu lui che li portò dove erano i resti di Ft.St.Louis. Altri due, Jean L’Archeveque e Jacques Grollet, responsabili della morte di La Salle, vissero per qualche tempo con gli Hasinay, poi nel 1689, quando gli Spagnoli trovarono le rovine di Ft.St.Louis, vennero anche a sapere dei due Francesi superstiti e inviarono loro una lettera che li invitava a consegnarsi, cosa che i due fecero. L’Archeveque con le sue conoscenze del territorio e degli indiani, fu arruolato dagli Spagnoli e partecipò poi alla spedizione condotta fino al pueblo di El Quartelejo in Kansas del 1706, e morì ucciso dagli indiani nel 1720, durante la prima esplorazione del fiume Platte condotta da Pedro de Villasur. Dovettero passare quasi vent’anni prima che i Francesi riuscissero a stabilirsi alla foce del Mississippi, e quello che era stato il progetto di La Salle, divenisse realtà; l’ambizioso e visionario personaggio che malgrado i suoi tanti errori aveva donato alla Francia territori immensi e sconosciuti, era morto, ucciso dai suoi stessi uomini, senza che ne dalla Francia ne dal Canada, nessuno si preoccupasse di lui, salvo Enrico Tonti, l’unico uomo che gli era stato amico, oltre che socio.

Robert Cavelier de La Salle e Enrico Tonti Nella storia dell’esplorazione e della colonizzazione del Nord America, ed in particolare del ruolo svolto dai Francesi, la figura di Robert Cavelier de La Salle, è oggi riconosciuta in tutta la sua importanza, paragonabile a quella di Samuel de Champlain, il fondatore della Nouvelle France e l’uomo che aprì ai bianchi la regione dei Grandi Laghi; come Champlain, può essere considerato il padre della Nouvelle France La Salle fu il “padre” della Louisiana, un nome da lui stesso concepito per indicare i vasti territori della valle del Mississippi e delle terre a ovest del grande fiume ancora ignote, di cui rivendicò l’appartenenza al re di Francia. Le analogie tra i due personaggi però si esauriscono a questo punto, e se Samuel de Champlain visse tutta la sua vita con il pieno riconoscimento dei suoi compatrioti, governando le terre da lui scoperte, il destino di La Salle fu opposto: abbandonato dalla corte per evitare dissidi con la Spagna, sempre ostacolato dai mercanti di Montreal che in lui vedevano un pericoloso rivale, finì la sua vita in una impresa disperata, ucciso dai suoi stessi uomini. D’altra parte va rilevato che di fatto fu proprio il suo tentativo di aprire nuove vie commerciali, e costruire il suo personale impero, che fece esplodere la 2° Guerra del Castoro, e che mentre la colonia francese era messa a rischio dai guerrieri della Lega Iroquois, La Salle era altrove a inseguire i suoi sogni visionari: comprensibile che la sua sorte non abbia suscitato l’interesse e la compassione dei suoi compatrioti. Nella sua stessa morte è forse individuabile una caratteristica dell’uomo, la cui ambizione e l’attenzione all’interesse personale, spesso lo portò al conflitto anche con coloro che lo seguivano, come testimoniano i casi di ripetuti ammutinamenti, l’abbandono o la distruzione di avamposti da lui costruiti, da uomini che non ricevevano la paga o che erano lasciati a misurarsi con pericoli e difficoltà estreme, mentre La Salle era impegnato a curare le sue relazioni e a cercare appoggi politici. Anche la sua stessa capacità di misurarsi con le difficoltà che il suo ruolo e i suoi progetti imponevano, risulta inadeguata: per ben due volte, la prima durante il viaggio di ritorno dalla foce del Mississippi, la seconda durante il tentativo di raggiungere la stessa foce del Mississippi dal Texas, la sua fibra fisica lo portò ad ammalarsi, un “lusso” che un capo impegnato in una impresa rischiosa non poteva permettersi. Infine il clamoroso errore nel rilevare la foce del Mississippi, che causò il fallimento della sua ultima impresa e la morte di


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centinaia di persona che a lui s’erano affidate, chiude il quadro di questa figura contraddittoria e poco amata da coloro che lo conobbero. Proprio alla luce delle caratteristiche di questo personaggio, spicca maggiormente la figura dell’unico uomo che gli fu fedele compagno, quell’Enrico Tonti “Mano di Ferro”, che fu l’unico a sostenerlo mentre ogni altro l’abbandonava. Fu Enrico Tonti a rimanere a presidiare e a sviluppare i commerci di Ft.St.Louis, il cuore degli interessi economici di La Salle nell’Illinois, a stabilire La Salle e Tonti al “portage” tra il lagoMichigan e il fiume Illinois quelle relazioni con gli indiani che avrebbero permesso ai Francesi di operare nella regione, fu lui a resistere alle pressioni dei rivali di La Salle, almeno fin quando non fu destituito dal comando del forte dal governatore La Barre, e infine importante fu il suo ruolo nella difesa dello stesso forte dagli attacchi degli Iroquois, nella battaglia che avrebbe sancito la fine del dominio della Lega nella regione dell’Illinois. Questo soldato, che non aveva i sogni di potenza di La Salle, e che quando fu necessario collaborò lealmente anche con coloro che l’avevano osteggiato, fu l’unico a tentare per ben due volte, la quasi impossibile impresa di cercare un pugno di uomini di cui nessuno aveva più notizie, nell’immensità di un continente selvaggio, ostile e sconosciuto. All’inizio del 1685, al tempo in cui La Salle con la sua piccola flotta, approdava sulle coste del Texas, Tonti era Ft.St.Louis, privato del suo comando dal governatore La Barre e impossibilitato a realizzare gli accordi presi con La Salle prima della sua partenza per la Francia nel 1683; tali accordi prevedevano che Tonti sarebbe dovuto partire da Ft.St.Louis, discendere il Mississippi per la seconda volta, e raggiungere la colonia di La Salle alla foce del grande fiume. La colonia sulla costa sarebbe stata collegata agli altri possedimenti francesi a nord, divenendo il cuore dell’immenso territorio che si estendeva nelle regioni dell’interno e che già era definita come Louisiana. Tonti però non era nelle condizioni di poter assumere alcuna iniziativa, ne era a conoscenza di quanto in Francia stava facendo La Salle. Solo nella primavera del 1685, mentre La Salle cercava un luogo per stabilire il proprio avamposto sulle coste del Texas, il richiamo in Francia del governatore La Barre, nemico di La Salle, permise a Tonti di riprendere il progetto concordato con il suo socio. Nel maggio del 1685 Tonti viaggiò fino a Montreal, dove seppe che non c’erano più ostacoli alla sua attività, poi in novembre la notizia del ritorno di La Salle in America, riportata dal capitano della nave che aveva accompagnato i coloni e fatto immediato ritorno in Francia, arrivò fino alle lontananze estreme di Ft.St.Louis nell’Illinois. La nave era ripartita dalle coste del Texas alla metà di marzo, la notizia era giunta in Francia nel corso dell’estate, per arrivare a Montreal dopo un altro viaggio attraverso l’oceano: c’erano voluti quasi otto mesi. Ma la cosa grave era che la notizia era inesatta: il capitano della nave, come lo stesso La Salle, era convinto che il luogo del loro approdo non fosse distante dalla foce del Mississippi, e sulla base di questa convinzione Tonti organizzò una spedizione di rifornimenti per discendere il fiume e collegarsi con il suo socio. Tonti iniziò la seconda discesa del Mississipi nel febbraio del 1686, mentre in quegli stessi giorni La Salle vagava per le pianure a nord del Rio Grande, lontano quasi un migliaio di chilometri dal luogo dell’appuntamento; il viaggio proseguì senza incidenti e in aprile Tonti era sul delta del Mississippi: lungo la via si era fermato per cinque giorni tra gli indiani Houma, aveva ristabilito pacifiche relazioni con i Quinipissa, con cui c’erano state tensioni nel viaggio precedente, aveva ribadito l’amicizia con i Washa e i Chawasha che vivevano proprio sul delta, e questa sua attività facilitò molto il compito dei Francesi quando quindici anni dopo torneranno per stabilirsi definitivamente in quei luoghi. Di La Salle


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e della sua gente ovviamente non c’era traccia, ne gli indiani seppero dargli alcuna informazione; Tonti non si diede per vinto e continuo a cercare ed aspettare per quasi tre mesi, fin quando le scorte iniziarono a ridursi e l’approssimarsi della fine dell’estate, avrebbero reso difficili il viaggio di ritorno. Nel luglio del 1686 Tonti era alla confluenza tra l’Arkansas e il Mississipi, e qui uno dei suoi uomini, Jean Couture e altri cinque compagni attratti dalla bellezza della regione e dall’accoglienza degli indiani Quapaw, chiesero di potervisi stabilire: Tonti diede il suo consenso e fu stabilito l’avamposto di Akansas, il nome con cui gli Illinois chiamavano i Quapaw, poi conosciuto come Arkansas Post. Poco tempo dopo qui facevano tappa gli unici superstiti della sprdizioni di La Salle, sulla via del ritorno, dopo aver attraversato le pianure del Texas. Arkansas Post fu la prima stazione commerciale e il primo insediamento di bianchi sul basso corso del Mississipi, ma per molti anni esso fu dimenticato dalla Francia, come tutte le scoperte di Tonti e La Salle; il pugno di uomini bianchi che lì viveva, ebbe qualche contatto con altri europei solo qualche anno dopo, quando emissari del commerciante inglese Henry Woodward, dalla Carolina iniziarono occasionalmente a visitare gli indiani Chickasaw, che vivevano a est dei Quapaw. Al tempo in cui Tonti stabiliva Arkansas Post, La Salle era malato in un villaggio degli indiani Hasinay, alcune centinaia di chilometri a sud-ovest, e se ambedue si fossero fermati, prima o poi notizie della loro presenza sarebbero giunte all’uno o all’altro, portate dagli indiani. Dopo il suo ritorno nell’Illinois, nell’estate del 1686, Tonti collaborò con il nuovo governatore della Nouvelle France Denonville, nella guerra contro la Lega, e dovette rinunciare ad ogni progetto di ritrovare La Salle; nè seppe della sua morte nell’autunno del 1686, quando Henry Joutel e altri cinque uomini di La Salle dopo un incredibile viaggio attraverso il continente, riuscirono a raggiungere Ft.St.Louis. Della drammatica fine di La Salle fu informata prima la corte, quando nel 1688 i superstiti ritornarono in Francia e la notizia raggiunse Tonti, solo durante l’autunno del 1689; Mano di Ferro a quel punto non ebbe esitazioni e di sua spontanea iniziativa decise che era doveroso cercare di portare soccorso ai pochi superstiti che La Salle aveva lasciato in Texas; nel dicembre del 1689 ancora una volta Tonti ridiscese il Mississipi, abbandonandolo prima della foce per spingersi a ovest, oltre le terre dei Quapaw, e nella primavera del 1690 era ospite degli stessi Hasinay visitati da La Salle quattro anni prima, nell’attuale contea di Houston, Texas. Gli Hasinay questa volta però si mostrarono poco amichevoli e collaborativi, e Tonti fu costretto a fare ritorno; qualche mese prima, una spedizione spagnola guidata da Alonso de Leon aveva visitato la regione per indagare sull’attività dei Francesi, ed è probabile che gli Hasinay abbiano preferito tenersi fuori dalle dispute tra uomini bianchi. Il viaggio di Tonti era stato comunque inutile: gli ultimi superstiti della colonia di La Salle erano stati massacrati dai KaEnrico Tonti, soldato ed esploratore di origine italiana, rankawa, già un anno prima che Tonti organizzasse al servizio della Francia. la sua spedizione di soccorso. E’ comunque notevole che in un mondo in cui viaggi ed esplorazioni avevano come unica ragione il potere e la ricchezza, un uomo osasse spingersi oltre i confini delle terre note, alla ricerca di un amico o in soccorso a sconosciuti, abbandonati da tutti: basta forse questo a fare di Enrico Tonti una figura, che ben rappresenta quello spirito avventuroso, “l’eroe senza macchia e senza paura”, che ha fatto il successo di tanti eroi della Frontiera, esistiti solo nelle pagine di libri o fumetti o su una pellicola cinematografica.

Denonville e l’offensiva francese Al tempo in cui si consumava il dramma della colonia di La Salle in Texas, i Francesi del Canada avevano ben altro di cui preoccuparsi che del destino di meno di 200 disperati, portati da un ambizioso avventuriero oltre i confini del mondo conosciuto. Tutto il commercio era nuovamente messo a rischio


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dall’aggressività della Lega, che dopo la prova di debolezza del governatore La Barre, aveva ripreso a minacciare le tribù alleate della Francia e i convogli di pelli e merci. Gli Iroquois dopo la sconfitta di Ft.St.Louis del 1684, non erano più stati in grado di cacciare gli Illinois e le altre tribù, e anzi nei dintorni del forte si erano ormai radunati tra i 15 e i 20.000 indiani, che organizzavano spedizioni di caccia in tutta la valle dell’Ohio, fino ad allora monopolio esclusivo della Lega. La responsabilità di ciò era addebitata ai Francesi e nelle foreste dove si incontravano le spedizioni di caccia, lungo i fiumi in cui viaggiavano canoe cariche di pelli, i generici termini della pace stabiliti nell’agosto del 1684 con La Barre erano facilmente ignorati. Di fronte all’aggressività degli Iroquois, i Francesi rischiavano anche di perdere ogni prestigio con gli alleati indiani, e ciò poteva portare a conseguenze negative per il commercio. Fu così che il crescente malumore nei confronti di La Barre, portò finalmente al suo richiamo in Francia e alla sua sostituzione nell’agosto del 1685 con Jacques Renè de Denonville, la cui missione era quella di riaffermare l’autorità della Francia e contrastare tanto l’aggressività della Lega, quanto l’espansione commerciale inglese. Per realizzare questi obbiettivi, Denonville poteva contare oltre che sulla milizia locale e gli alleati indiani, anche su più di 500 fanti di marina giunti in Canada l’anno precedente: questi soldati professionisti, divennero il cuore della forza militare francese, e in breve impararono tutto ciò che c’era da imparare sulla “petite guerre”, la guerriglia che si combatteva nei boschi e in cui gli indiani erano esperti. In aggiunta il nuovo governatore promosse una grande alleanza indiana che raccolse tutte le tribù con cui i Francesi commerciavano (Ottawa, Wyandot, Ojibway, Algonquin, Potawatomi, Winnebago, Kikapoo, Mascoute, Miami, Illinois, Fox, Sauk e Menominee), e per convincere i guerrieri indiani a partecipare, facilitò e diede impulso al commercio di armi da fuoco. La sua prima iniziativa fu quella di inviare nel giugno del 1686 oltre un centinaio di soldati attraverso le inesplorate foreste del Canada fino alla Baia di James per impossessarsi delle stazioni commerciali Inglesi della Hudson Bay Company ed eliminare la concorrenza inglese; di fronte al colpo di mano, sferrato in un momento in cui Francia e Inghilterra erano in pace, i mercanti della Hudson Bay Co. presi di sorpresa non opposero alcuna resistenza; la Hudson Bay Co. mantenne comunque l’avamposto di York Factory, fondata nel 1684, il più occidentale che i Francesi non riuscirono a raggiungere. Con gli Iroquois invece Denonville evitò lo scontro diretto e agì con astuzia usando l’arma dell’inganno e del tradimento. Durante l’inverno tra il 1686 e il 1687 Denonville aveva continuato a rafforzare l’alleanza con le tribù indiane, contando sull’opera di uomini come Du Luth e Tonti; con qust’ultimo si era incontrato a Montreal nell’agosto del 1686, subito dopo il suo viaggio in cerca di La Salle alla foce del Mississipi, garantendo la protezione francese agli Illinois, fino a quel momento isolati. All’inizio dell’estate del 1687, dopo l’arrivo di altri soldati dall’Europa, i Francesi erano pronti a portare il loro colpo nel cuore delle terre Iroquois; all’inizio di giugno, mentre centinaia di soldati regolari, miliziani e alleati indiani si preparavano a partire da Montreal, per sviare l’attenzione e colpire di sorpresa i nemici, Denonville fece circolare la voce di un consiglio di pace da tenersi a Ft.Frontenac, che lui e il suo seguito si apprestavano a raggiungere. Una cinquantina di capi della Lega, tra cui quelli in migliori rapporti con i Francesi, con le loro famiglie al seguito si mi mise in viaggio per Ft.Frontenac, sotto la protezione di una bandiera bianca, ma una volta sul posto vennero arrestati e imprigionati, per impedire loro di allertare le loro tribù sull’imminente minaccia: in quegli stessi giorni Francesi e alleati indiani erano in viaggio per invadere le terre Iroquois. Alcuni capi e guerrieri furono imprigionati a Montreal come ostaggi, per eventuali scambi di prigionieri, altri furono imbarcati e spediti nella lontana Marsiglia, dove furono condannati al remo, sulle galee francesi nel Mediterraneo. Mentre il comandante di Ft.Frontenac consumava la sua infamia, Denonville risaliva il San Lo- Frontespizio del diario della spedizione di Denonville contro i renzo per raggiungere le sponde del lago Ontario, Seneca, redatto da un suo ufficiale


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Principali battaglie e spedizioni militari francesi contro la Lega Iroquois durante la 2° Guerra del Castoro

a bordo di quasi duecento canoe e barche, e prendeva terra a Sodus Bay l’8 di luglio; lì furono raggiunti da Du Luth e Tonti, con centinaia di guerrieri indiani, che erano partiti da Michillimackinack. Ora i Francesi potevano contare su oltre 2.000 uomini, una armata molto grande per gli standard delle guerre indiane, e il 12 di luglio erano a Irondequoit Bay, nel territorio dei Seneca. Costruita una palizzata a difesa dei rifornimenti e delle imbarcazioni, il piccolo esercito prese la via dell’interno, alla ricerca dei villaggi indiani: i Seneca a quel punto cercarono di affrontarli prima che essi giungessero ai loro villaggi e una forza di 800 guerrieri il giorno successivo si fece loro incontro, ma dopo aver subito una cinquantina di morti e ancor più feriti, fu costretta a ritirarsi. Ora i Francesi avevano campo libero e nei giorni successivi raggiunsero Ganondagan il principale villaggio dei Seneca, abbandonato dagli indiani in fuga. Il villaggio fu bruciato, distrutte tutte le scorte alimentari e massacrati centinaia di maiali abbandonati dagli indiani, poi il 19 i Francesi ripartirono fino al vicino villaggio di Totiakton, anch’esso abbandonato, che subì la medesima sorte. Entro la fine di luglio la spedizione faceva ritorno alle imbarcazioni, ma prima di tornate a Montreal Denonville costruì un forte alla foce del Niagara, lì dove era stato Ft.Conti, costruito da La Salle, dandogli il suo nome e lasciandovi una guarnigione di un centinaio di uomini. Non c’era stata alcuna definitiva vittoria militare e gli indiani come era loro solito si erano sottratti ad uno scontro con forze superiori, ma senza più scorte di cibo e con i villaggi distrutti a centinaia morirono di fame nell’inverno successivo; i Seneca non erano comunque sconfitti e durante lo stesso inverno, il nuovo Ft.Denonville fu posto sotto assedio, e la guarnigione ridotta alla fame; a primavera, quando giunsero rifornimenti da Montreal, non era rimasta che una dozzina di uomini. Una nuova guarnigione fu insediata, ma prima della fine del 1688, il forte fu demolito e abbandonato. Dopo i Seneca, in settembre la stessa armata si mise in campagna contro i Mohawk e disceso il fiume Richelieu e attraverso il lago Champlain, invase il territorio tribale; i Mohawk non si fecero sorprendere e si ritirarono, evitando perdite umane, ma anche per loro la distruzione di villaggi e scorte di mais fu un colpo grave, e durante l’inverno a centinaia morirono di fame. I guerrieri Mohawk, come i Seneca comunque non erano sconfitti e la loro reazione non si fece attendere, con la ripresa dei raids contro gli insediamenti francesi nella valle del San Lorenzo: il 30 settembre i Mohawk attaccarono Ft.St.Anne, nelle vicinanze di Montreal, dove uccisero cinque coloni, poi a novembre tentarono anche la presa di Ft.Chambly, il presidio che controllava l’accesso al fiume Richelieu e al lago Champlain, ma furono respinti. La guerra iniziata dalla Lega per difendere i propri diritti sulle lontane delle terre dell’Illinois, stava prendendo una piega imprevista, e ora i guerrieri Iroquois dovevano difendere i propri villaggi e le proprie famiglie dall’invasione delle loro terre tradizionali. Come ai tempi della spedizione Carignac-


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Sallieres i villaggi stabili degli Iroquois, le cui palizzate offrivano difesa nella classica guerriglia indiana, divenivano obbiettivi facilmente individuabili di fronte a grandi spedizioni militari; i Francesi comunque non avevano ottenuto ancora una vera e propria vittoria sul campo e anzi erano di nuovo sotto attacco proprio nei loro insediamenti nella valle del San Lorenzo. Comunque dopo il colpo subito nella Lega si aprivano contraddizioni: ancora una volta le armi non potevano bastare a chiudere la partita, e la diplomazia tornava a giocare le sue carte.

La trattativa avvelenata All’inizio del 1688 la guerra tra Francesi e Lega era ancora una volta ad un punto morto; i Francesi potevano colpire il territorio Iroquois, distruggere villaggi e campi, razziare scorte di mais, ma fin quando non erano in grado di assestare un colpo alla forza militare della Lega sconfiggendo e massacrando i suoi guerrieri in una vera e propria battaglia, gli Iroquois erano sempre in grado di tornare a colpire; nel corso del 1688 oltre cinquanta fattorie furono attaccate dai guerrieri Iroquois, un centinaio di coloni uccisi e altrettati rapiti, Ft.Frontenac fu mantenuto costantemente sotto assedio e il vicino villaggio di Cataraqui distrutto. La forza militare francese, che se operava al completo come durante le due spedizioni del luglio e del settembre 1687, rappresentava una minaccia formidabile per gli Iroquois, doveva essere divisa per presidiare e difendere un vasto territorio, perdendo così gran parte della sua efficacia. Ma neanche per gli Iroquois le cose andavano bene; non solo le due spedizioni di Denonville avevano ridotto i Mohawk e i Seneca alla fame, molti capi autorevoli erano stati imprigionati a Ft.Frontenac l’anno prima, e alcuni addirittura languivano al remo su una galea nel Mediterraneo, ma anche all’ovest l’alleanza indiana, armata e sostenuta dalla Francia, aveva preso ormai il sopravvento e portava la guerra ai margini delle terre Iroquois. Nel corso del 1688 alcune battaglie si svolsero sui laghi Erie e Saint Claire, coinvolgendo un gran numero di canoe, e gli Iroquois ebbero la peggio di fronte alle leggere e manegevoli imbarcazioni di scorza d’albero dei loro nemici Algonquian. Il conflitto tra Francesi e Iroquois che durava ormai da ottant’anni, non poteva trovare soluzione militare, almeno fin quando gli Iroquois erano abbondantemente riforniti di armi dagli Inglesi, e questi ormai, oltre alle pregiate pelli, avevano ben altre ragioni per garantire i rifornimenti. C‘erano voluti mesi perché la notizia del colpo di mano di Denonville contro le stazioni commerciali inglesi sulla baia di James fosse nota, ma quando ciò accadde, la tensione e la rivalità tra Francesi e Inglesi crebbero ulteriormente. Lungo la frontiera del Maine, dove Francesi e Inglesi erano quasi a contatto, il conflitto era sempre pronto a esplodere, dato che i Francesi commerciavano e rifornivano le tribù della Confederazione Wabanaki (Micmac, Malecite, Passamaquody, Penobscot, Abnaki e Sokoki), che la precaria tregua sancita alla fine della Guerra di re Filippo, non aveva reso meno ostili agli Inglesi. Per questa ragione i mercanti inglesi tenevano viva tra gli Iroquois la fiamma della guerra contro i Francesi, alimentandola con armi e alcool. In aggiunta lo scontro diretto tra Francia e Inghilterra era ormai alle porte, non solo per le tensioni nel marginale e remoto teatro del Nord America, ma anche per gli eventi europei. Nel 1688 Guglielmo d’Orange, sollecitato da dissidenti politici inglesi, aveva lasciato le Province Unite d’Olanda per invadere l’Inghilterra, dando l’avvio alla “Gloriosa Rivoluzione”, che portò alla cacciate del re Giacomo II e a una monarchia costituzionale che garantiva le prerogative del Parlamento; Giacome II fuggì in Francia presso re Luigi XIV, a sua volta impegnato contro gli Asburgo e i loro alleati riuniti nella Lega di Augusta; l’Inghilterra si trovò così schierata a fianco dei nemici del re Sole e alla fine del 1688 le rivalità tra potenze europee, portarono ad un vasto conflitto che si protrasse per nove anni. Nelle terre del Nord America, lontani dalle complesse vicende europee, Inglesi e Francesi avevano già le loro ragioni di tensioni, ma senza una formale dichiarazione di guerra decisa in Europa, il conflitto era combattuto in modo indiretto, con il sostegno ai rispettivi alleati indiani, istigati a combattere i rivali europei; comunque nell’aprile del 1688 Edmund Andros, già governatore di New York e dal 1686 del New England, aveva condotto un attacco ad un villaggio Penobscot nei pressi di Ft.Pentagoet, dove risiedeva l’influente barone Jean-Vincente de St.Castine, sposato con la figlia di un capo Penobscot e garante dell’alleanza tra Francesi e Wabanaki. Fu quindi in vista di un conflitto con gli Inglesi e per impedire il saldarsi dell’alleanza Anglo-Iroquois, che nell’estate del 1688 Denonville tentò di aprire trattative con le tribù della Lega, in particolare con gli Onondaga, i Cayuga e gli Oneida, che erano stati risparmiati dalle campagne militari francesi dell’anno prima, ma che avevano visto il costo pagato dai Seneca e dai Mohawk per la loro irriducibile ostilità. Cuore del trattato era l’impegno delle tre tribù a mantenersi neutrali in un conflitto fra Francia


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e Inghilterra, e certo i membri cattolici della tribù ebbero un ruolo nella definizione di questo accordo. L’effettiva efficacia di questo trattato fu di breve durata, e quando gli Onondaga, i Cayuga e gli Oneida ebbero la certezza dell’impegno diretto degli Inglesi contro i Francesi, anch’essi ripresero le armi. E’ possibile che il trattato sarebbe stato comunque di breve durata, ma certo esso fu definito in un quadro di diffidenza e timore di tradimento, causato dall’iniziativa di un importante capo dei Wyandot, Kondiaronk, che i Francesi chiamavano “Le Rat” (Il Topo). Nei giorni in cui si attendevano le delegazioni Iroquois per definire l’accordo, Kondiaronk, con un manipolo di guerrieri si presentò a Ft.Frontenac, mentre era sulla via del territorio Iroquìois a caccia di scalpi, ignaro dell’iniziativa diplomatica dei Francesi; giunto a Frontenac il comandante del forte lo informò delle trattative in corso, invitandolo a tornare al suo villaggio a Michillimackinack. Kondiaronk a quel punto temette, che come era già avvenuto in altri casi, i Francesi si preparassero ad una pace separata e li abbandonassero a vedersela da soli, contro i terribili Iroquois, e decise che ciò non sarebbe accaduto. Invece che tornare a ovest, raggiunse la zona di Oswego, sulla sponda sud del Il capo Wyandot Kondiaronk, Le Rat per i Francesi, interpretato dall’artista contemporaneo Nicolas Francoeur Lago Ontario e li tese un agguato alla delegazione di capi Onondaga, in viaggio per Ft.Frontenac. La delegagazione Onondaga cadde nell’agguato, un loro capo morì e anche un guerriero Wyandot, ma dopo la loro cattura Kondiaronk invitò i capi Onondaga a consiglio, informandoli che erano stati i Francesi a metterli al corrente del loro imminente arrivo; i capi Onondaga protestarono dichiarandosi inviati di pace, e a quel punto Kondiaronk maledisse i Francesi, che lo avevano usato come strumento del loro tradimento. Il consiglio finì con la liberazione dei capi Onondaga, a cui Kondiaronk fece regali in armi, polvere da sparo, piombo e tabacco; i capi Onondaga per gratitudine, diedero a Kondiaronk un prigioniero Shawnee da loro adottato, perché secondo l’usanza delle genti Iroquaian, potesse essere adottato dai Wyandot in sostituzione del guerriero morto durante l’incidente. Sulla via del ritorno Kondiaronk ripassò per Ft.Frontenac e si fece beffe dei Francesi e delle loro trattative di pace, poi tornò a Michillimackinack, dove completò il suo piano con astuto cinismo. A Michillimackinack lo Shawnee fu presentato al comandante francese come un prigioniero da punire, e questi, anche lui all’oscuro delle trattative in corso, non esitò a farlo fucilare; Kondiaronk fece in modo che all’esecuzione fosse presente un prigioniero Seneca, che poi liberò perché facesse ritorno alla sua tribù, e raccontasse di come i Francesi avevano rispetto dell’usanza tradizionale dell’adozione. Nelle settimane successive in tutte le comunità Iroquois la doppiezza e il tradimento dei Francesi furono a note, e il trattato che qualche capo aveva nel frattempo accettato era già di fatto lettera morta. Anni dopo Kondiaronk fu uno dei protagonisti dell’accordo che portò alla fine del conflitto con gli Iroquois, a dimostrazione che questo capo, cinico, astuto e privo di scrupoli, non era un guerriero sanguinario e bellicoso; questa vicenda è in realtà è emblematica dei rapporti tra indiani e i loro alleati europei, un’alleanza di necessità, in cui le parti sempre seguivano i loro specifici interessi, diffidando dei loro stessi alleati. Kondiaronk aveva ripreso la guerra contro gli Iroquois, perché i Francesi l’avevano convinto a combattere, con l’impegno a distruggere la Lega: in un modo o nell’altro Kondiaronk pretendeva il rispetto di tale impegno. Nel dicembre del 1688 lo scontro diretto tra Francia e Inghilterra iniziò sui campi di battaglia europei: a quel punto la 2° Guerra del Castoro, confluiva in un più ampio conflitto tra grandi potenze coloniali, noto in America come “Guerra di re Guglielmo”, la prima di quattro guerre che nei sessant’anni successivi, videro tutte le tribù indiane, tra i Grandi Laghi e il Golfo del Messico, combattere al servizio di Francesi o Inglesi che si contendevano il dominio del Nord America. Le Guerre del Castoro avevano disegnato una nuova geopolitica tribale, ricalcata sugli interessi commerciali europei: ora quegli stessi interessi entravano direttamente nella partita e alle tribù indiane non rimaneva che arruolarsi o perire.


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I vincitori A confronto con la 1° Guerra del Castoro, la 2° fu un evento di portata molto più limitata, che non produsse le drammatiche e irreversibili conseguenze dell’altra: non vi furono emigrazioni di massa, nè lo spopolamento di ampi territori, mentre il trauma dell’impatto con le merci e le armi dei bianchi e delle loro regolo commerciali, era stato ormai ampiamente assorbito, così come le sue nefaste conseguenze. Di fatto la 2° Guerra del Castoro può considerarsi l’epilogo della prima, almeno per quanto riguarda la Lega Iroquois, che dopo decenni di travolgenti vittorio contro tutte le tribù limitrofe, fu costretta a ridimensionare le sue pretese, e pur rimanendo la principale potenza tribale del Nord America, dovette rinunciare ad imporre il suo predominio sulle terre che pure aveva conquistato. Formalmente la vallata dell’Ohio continuò ad essere un territorio controllato dalla Lega, ma di fatto le spedizioni caccia di tribù nemiche non si facevano più scrupoli a visitarla e fare bottino di pregiate pelli. Gli Illinois che ne erano stati cacciati, erano tornati ad abitarla e così facevano anche gruppi di Shawnee, che dall’inizio del ‘700 tornarono ad essere tra i protagonisti delle vicende nella regione. Più a nord nella penisola del Michigan, gli Ottawa, i Potawatomi, i Miami, i Wyandot e soprattutto gli Ojibway, iniziavano lentamente a ricolonizzarla, e la Lega non poteva fare nulla per impedirlo. Nelle terre a nord dei laghi Ontario e Erie, dove comunità Iroquois avevano costruito villaggi durante gli anni successivi alla 1° Guerra del Castoro, furono costrette a ritirarsi davanti all’avanzata degli Ojibway Mississauga, che occuparono stabilmente quelle terre. La Lega stessa, indebolita da quasi un secolo di guerre continue, iniziava in quegli anni un processo di sempre maggiore dipendenza dagli Inglesi, che da partners commerciali, mantenuti in un rapporto di subalternità, divenivano sempre più un imprescindibile alleato politico-militare. Infine, la stessa coesione politica della Lega iniziava a mostrare le sue prime crepe, dopo un’espansione che l’aveva vista crescere attraverso l’adozione di massa di tribù affini sottomesse e l’inserimento nel Convenant Chain di di tribù Algonquian sconfitte o in fuga dal New England e dalla Virginia, a causa dell’avanzare dei coloni bianchi. Tra i gli adottati di lingua Iroquaian, molti dei quali si erano già convertiti al cattolicessimo nei primi decenni del ‘600, i missionari francesi avevano operato durante gli anni di pace tra le due Guerre del Castoro, e la loro azione era stato un oggettivo elemento di divisione interna; i Mohawk erano stati tra i più irriducibili nemici dei Francesi, ma una consistente parte di essi, i cattolici Caughnawaga, avevano abbandonato la tribù e vivevano sul San Lorenzo vicino ai Francesi; i Mingo, formalmente parte della tribù dei Seneca, che vivevano a sud del lago Erie, erano in larga parte indiani adottati, originari delle tribù Huron, Tionontati, Neutrali, Erie e Susquehannock, spesso convertiti al cattolicesimo, e in qualche caso avevano ancora rapporti e relazioni di parentela con i nemici Wyandot, e non erano insensibili alla possibilità di commercio e pace con i Francesi. C’erano poi le tribù del Convenant Chain, i Mahican e i Lenape Munsee, a cui s’erano aggiunti profughi Wappinger, Mattabisec e delle tribù del New England sconfitte durante la Guerra di Re Filippo, che occupavano l’alta valle dei fiumi Hudson e Delaware. I Mahican, dopo decenni di guerra erano divenuti alleati fedeli e rispettati, ma anche molto legati ai coloni Inglesi e Olandesi con cui erano in rapporto dall’inizio del ‘600. Al contrario nell’alta valle del Susquehanna, i Lenape Unaimi, insieme a profughi Piscataway, Nanticoke, Powhatan, Shawnee e a piccoli gruppi di Siouan in fuga dalla Virginia, venivano da una tradizionale ostilità ai coloni inglesi, solo momentaneamente sopita, grazie all’iniziativa di William Penn. Questi aveva ottenuto dai Lenape delle terre ed era impegnato a far avanzare la colonizzazione della regione, nel rispetto degli indiani: dopo la sua morte, i conflitti con i coloni si riproporranno e saranno un altro elemento di contraddizione all’interno della Lega, impegnata da un lato a difendere dai coloni i suoi sottomessi alleati, dall’altro a garantirsi l’alleanza inglese. Di fatto la Lega, che aveva iniziato le Guerre del Castore per imporre il suo primato tra le tribù della regione e nei confronti delle rivali potenze europee, le finiva attraversata da divisioni interne indotte proprio dagli alleati europei, e sempre più vincolata all’alleanza con uno di essi, l’Inghilterra. Per le tribù Algonquian e i Wyandot filo-Francesi, la 2° Guerra del Castoro rappresentò una parziale riscossa, dopo essere state costrette ad abbandonare le terre originarie e a fuggire a ovest del lago Michigan, vivendo in miseria e senza la possibilità di cacciare e commerciare. Le spedizioni di guerra Iroquois avevano cessato di rappresentare una minaccia, i territori di caccia erano nuovamente accessibili, gli alleati francesi li rifornivano di armi e merci, ed esse potevano continuare la guerra contro gli odiati Iroquois, mantenendo l’offensiva. Ma anche per loro nuovi e inattesi problemi si aprivano all’orizzonte,


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e proprio il momentaneo successo, rischiava di porre le basi per una nuova catastrofe. I territori da cui per lungo tempo erano stati esclusi, e in cui solo gli Iroquois avevano avuto accesso, erano stati per anni liberi da un’eccessiva pressione venatoria, ed erano ricchi di castori e di altra selvaggina dalla pelle pregiata; gli indiani potevano così fare un ricco bottino, fornendo immensi quantitativi di pellicce ai mercanti francesi, ignari però che leggi del mercato si basano sulla domanda e sull’offerta, e che quanto più una merce è abbondante, tanto più essa cala di valore. Se la Lega, con una gestione dei commerci prudente e centralizzata, aveva rifornito i mercanti inglesi evitando di far calare i prezzi, le diverse tribù filo-Francesi, ognuna in concorrenza con l’altra, non erano in grado di gestire la situazione e ognuna cercava di fare il maggior bottino e realizzare il maggior guadagno. Negli anni Le pretese delle potenze europee in Nord America alla fine del ‘600 successivi l’immensa quantità di pelli che giungevano in Europa avrebbe avuto conseguenze fatali per il commercio indiano e generato ulteriori conflitti. Per i Francesi la 2° Guerra del Castoro era stato un conflitto non voluto, causato in buona misura dall’iniziativa intraprendente di La Salle, e da molti non condivisa, che tentava di aprire nuove vie commerciali sfidando la volontà della Lega. Sul piano dei risultati militari la guerra era stata sostanzialmente inutile: la Lega non era stata sconfitta, e ancora una volta i guerrieri Iroquois insanguinavano gli insediamenti dei coloni nella valle del San Lorenzo, anche se non erano più in grado di limitare il commercio con gli alleati indiani, che anzi non era mai stato così ricco. Infine il conflitto non solo non si esauriva, ma addirittura diveniva parte di un ancor più impegnativo confronto militare con i rivali inglesi, che poteva mettere a rischio l’esistenza della colonia. Eppure paradossalmente, proprio durante la 2° Guerra del Castoro, la Francia giunse a rivendicare pretese su un territorio immenso, che dalla Baia di Hudson, attraverso i Grandi Laghi e la valle del Mississippi, giungeva fino al Golfo del Messico e si estendeva verso le ignote Grandi Praterie a ovest: una sorta di vasta cintura che attraversava gran parte del Nord America, e che circondava la stretta striscia di costa atlantica occupata dalle colonie inglesi. A garantire queste pretese c’era però solo un pugno di uomini, commercianti, missionari, cacciatori di pellicce e pochi soldati, impegnati a vedersela con tribù indiane che nulla sapevano del lontano sovrano, in nome del quale uomini come La Salle, Tonti, DuLuth e Perrot, piantavano la bandiera gigliata in remoti villaggi di capanne. Si trattava di un impero di carta, che si reggeva solo sul prestigio e l’autorevolezza di questi uomini, e sulle merci e le armi che grazie a loro giungevano agli indiani, per ottenerne il sostegno. Ancora fino alla fine del ‘600, la presenza francese nei nuovi possedimenti nella valle del Mississippi, consisteva in un piccolo avamposto di una dozzina di uomini alla confluenza del fiume Arkansas, dimenticati da tutti. Più a nord nella valle dell’Illinois, che era stata la causa dell’esplodere del conflitto, per Ft.St.Louis il centro dell’influenza francese nell’area, iniziava un periodo di crisi; il gran numero di indiani Illinois, Miami e Shawnee che si erano spostati nelle sue vicinanze attirati dal commercio, in pochi anni avevano esaurito la selvaggina e impoverito i terreni adatti all’agricoltura, e la riduzione di risorse produceva tensioni fra gli indiani. Nel 1688 i Miami abbandonarono l’area per dissidi con gli Illinois e si spostarono a est nella penisola del Michigan; l’anno dopo fu la volta degli Shawnee, che si spostarono a sud per unirsi agli Shawnne che vivevano nella valle del fiume Cumberland. Nel 1690 Tonti fu reintegrato al comando del forte, ma ormai la crisi era inarrestabile, e due anni dopo egli fu costretto ad abbandonare la stazione per costruirne un'altra più a valle lungo il fiume Illinois, Ft.Pimitoù, che però non produsse mai lo stesso volume d’affari. Nelle terre in cui La Salle aveva concepito il suo piccolo impero commerciale, la presenza e l’influenza francese si riducevano a questo


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unico avamposto e ai pochi uomini al comando di Tonti. Quanto alla regione tra il lago Michigan e le sorgenti del Mississippi, le tensioni conseguenti all’apertura di rapporti commerciali con i Dakota, nemici delle tribù alleate della Francia, si andavano lentamente placando, salvo che con i Fox, da sempre refrattari all’autorità francese. Alla fine degli anni ’80 le tensioni con i Fox si trasformarono in conflitto vero e proprio, quango i guerrieri della tribù bloccarono il commercio francese con i Dakota sull’alto corso del Mississippi; Perrot il cui prestigio tra gli indiani era sempre grande, riuscì a produrre una inedita e di breve durata alleanza tra Ojibway e Dakota, che nel 1690 cacciarono i Fox dalla regione del fiume St.Croix, nel nord-ovest del Wisconsin; i Fox si spostarono più a sud, nella valle del fiume che porta il loro nome, ma qui un loro villaggio fu distrutto da una spedizione di Francesi e Ojibway. Per il momento i Fox avevano avuto la peggio, ma il conflitto che si era aperto con i Francesi sarebbe durato nei decenni successivi. In sintesi è possibile dire che dopo quasi settant’anni di sanguinosi conflitti, nessuno dei protagonisti delle Guerre del Castoro poteva dirsi vincitore; indiani e Francesi si erano svenati in quasi settant’anni di guerra, e nel frattempo un convitato di pietra aveva continuato a fare profitti vendendo armi e acqua d fuoco, ad aumentare la propria influenza sugli alleati indiani, ad estendere e arricchire i propri possedimenti. Gli Inglesi sulla costa dell’Atlantico non avevano la pretesa di conquistare il continente, ma erano sempre più numerosi, più ricchi, determinati: se le Guerre del Castoro ebbero dei vincitori, furono sicuramente loro, che non le combatterono.


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Indiani e peones La linea di frontiera che separa gli attuali Stati Uniti d’America dal Messico, non divide semplicemente due nazioni, ma due mondi, due culture, due vicende storiche diverse; essa rappresenta infatti il limite raggiunto dalla colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo, che arrivò alla sua massima espansione a nord, lungo il corso dei fium Rio Grande e Gila. A sud di questa linea si praticò un particolare modello coloniale, il cui obbiettivo era integrare in forma subalterna e in un rapporto servile, le popolazioni native; entro questo limite geografico le popolazioni native, videro la loro cultura subire Peones in armi durante la Rivoluzione Messicana del 1910 drammatiche trasformazioni, sopportarono ogni genere di violenze e vessazioni, furono ridotte ad una condizione di soggezione al limite della perdita di dignità, ma comunque sopravvissero, e attraverso secoli di meticciato contribuirono al prodursi del popolo messicano così come è oggi. Strumento di questo processo, furono una amministrazione e una burocrazia coloniale lente e farraginose, ma ineluttabili, un apparato militare ne imponente, ne efficiente, ma brutale nella sua determinazione, e soprattutto l’apparato ideologico-religioso delle missioni, che furono determinanti per integrare la popolazione native nel modello sociale imposto dai dominatori europei. Erano questi gli strumenti di una monarchia, quella Spagnola, che non mirava solo ad appropriarsi delle risorse del Nuovo Mondo, come facevano i Francesi con le pellicce in Canada, ne desiderava solo appropriarsi delle terre, scacciandone i nativi, come facevano gli Inglesi sulla costa Atlantica, ma voleva, la terra, le sue risorse e i suoi abitanti, questi ultimi da trasformare in sudditi cristiani e servi, da sfruttare nei ranchos e nelle miniere: gli indiani divennero così i peones, e la loro lotta contro gli invasori, si trasformò infine in conflitto sociale contro i grandi proprietari. A nord di questa linea la colonizzazione spagnola fu limitata nello spazio o nel tempo: l’enclave di Santa Fè e della valle del Rio Grande in New Mexico, le zone costiere della California meridionale, rag-


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giunte dai missionari alla fine del ‘700, e successivamente anche da coloni spagnoli, il Texas dove fino ancora alla metà del ‘700 gli Spagnoli tentarono di estendere la loro rete di missioni, presidi e villaggi, con scarso successo. A nord di questa linea di frontiera la questione indiana si pose in tutt’altro modo e nessuno ebbe mai interesse a fare dei nativi dei sudditi o dei servi, ma solo di eliminarli, o al massimo rinchiuderli nei recinti delle riserve. Oltre questa linea di frontiera l’apparato burocratico e militare spagnolo si fermarono e l’attività dei missionari fu limitata, e benchè il re di Spagna vantasse pretese fino al fiume Platte e oltre a nord, l’influenza spagnola fu sostanzialmente irrilevante. A fermare l’espansione spagnola intervennero molti fattori, le immense distanze da poter attraversare con il solo aiuto del cavallo, le risorse minori e comunque non paragonabili ai ricchi giacimenti d’argento del Messico che erano stati la prima ragione dell’avanzata verso nord, ma certo fu determinante anche l’ostilità irriducibile dei popoli nomadi, gli Apache, i Navajo e poi successivamente i Comanche, indomabili guerrieri per i soldati, e refrattari a ogni influenza dei missionari. Questa linea di frontiera che ancora oggi è luogo di inIndiani Jumano contro e scontro tra mondi diversi, si produsse alla fine del ‘600, quando le ultime popolazioni nomadi a sud del Rio Grande furono domate, quando i tentativi di spingersi a nord del fiume resero chiaro quanto difficile e di scarso profitto era l’impresa, quando i missionari si resero conto che i popoli Apache, e poi i Comanche, rappresentavano un ostacolo insormontabile allo sviluppo della rete delle missioni. In quegli stessi anni il governo coloniale spagnolo dovette misurarsi con due pericoli, uno autentico e grave, l’altro più immaginario che reale. Il pericolo reale veniva da nord: dopo la Grande Rivolta dei Pueblo del 1680, il seme della ribellione e la speranza di liberarsi dei dominatori Spagnoli si sparsero a sud, coinvolgendo tanto le tribù nomadi come i Toboso, con cui dopo anni di ostilità si era giunti ad una precaria tregua, tanto le tribù sedentarie e agricole, che da decenni erano state inserite nel sistema delle missioni. Il pericolo immaginario veniva dal mare: nel 1685, per un drammatico errore nel calcolare la rotta, alcune centinaia di Francesi, guidati da Robert Cavelier de La Salle, erano approdati sulle coste del Texas e vi avevano costruito un primo insediament; era quella una terra su cui gli Spagnoli vantavano il proprio dominio, anche se non vi erano ne colonie ne missioni, e solo qualche naufrago aveva avuto la sventura di visitarle. Questi due eventi obbligarono gli Spagnoli a intervenire al margine settentrionale del dominio americano, per metterne al sicuro i confini, tanto dagli indiani ribelli, quanto da potenze straniere; dall’inizio del ‘700 questa linea di frontiera ormai definita, si mantenne nei secoli, dividendo per sempre quella che oggi è nota come America Latina, dagli Stati Uniti di cultura Anglo-Sassone. Per gli indiani questa linea di frontiera non era mai esistita, e da sempre influssi delle culture messicane raggiungevano le terre più a nord, mentre da nord popoli nomadi si spingevano a sud, come era stato per gli stessi Aztechi, linguisticamente imparentati agli agricoltori Pima dell’Arizona, ai poveri raccoglitori Pa-hute del deserto del Nevada, ai fieri predoni Comanche delle praterie del Texas. Quando questa linea fu inventata dall’uomo bianco, a nord gli indiani divennero i romantici e irriducibili guerrieri, celebrati da mille film e racconti del west, ma condannati a scomparire, a sud divennero i pezzenti peones senza speranza delle tante rivoluzioni messicane. Tra questi due estremi poi si collocano le vicende di tante tribù, che proprio alla fine del ‘600 fecero la loro breve comparsa nella storia, non avendo nemmeno il tempo di far conoscere il proprio nome, prima di essere distrutte dalle malattie e dalle violenze dell’uomo bianco.

Oltre il Rio Grande: Juan Sabeata e gli Jumano La bassa valle del Rio Grande, dal nord-est del Messico alle praterie del Texas, per tutto il ‘600 era rimasta un’area marginale del dominio spagnolo, e a nord del fiume non vi erano ne missioni ne villaggi.


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Una prima colonizzazione era iniziata a sud del Rio Grande nell’attuale stato di Nuevo Leon. nei primi anni ’80 del ‘500 da parte di Luis Carvajal de la Cueva, un “marrano”, ebreo convertito, di origine portoghese, che aveva operato principalmente come cacciatore di schiavi; la sua attività si concluse nel 1588 quando fu arrestato dalla Santa Inquisizione che lo accusava di proteggere parenti che continuavano a praticare la religione ebraica. Nello stesso periodo gli indiani Coahuiltecan della regione, riuscivano a cacciare le poche centinaia di coloni che avevano seguito Carvajal, e per nove anni, gli Spagnoli non si rifecero vivi. Nel 1597 una dozzina di famiglie al seguito di Diego de Montemayor, era tornata nella regione fondando il villaggio di Monter- La regione a nord del Rio Grande al tempo della spedizione rey, sul sito di un precedente insedia- do Dominguez de Mendoza mento e nei decenni successivi altri villaggi e ranchos erano sorti; agricoltura e allevamento erano le principali attività, e anche la ragione per il costante conflitto con gli indiani Coahuiltecan: gli Spagnoli avevano necessità di forza lavoro e la trovavano razziando schiavi tra gli indiani; gli indiani dal canto loro erano nomadi, abituati a vivere di caccia e di raccolta, approfittando di ogni risorsa che il territorio poteva offrire, compreso il bestiame dei ranchos spagnoli. I Coahuiltecan comunque non erano un popolo di bellicosi guerrieri, come i loro vicini del Bolsom de Mapimi, e solo la fame li spingeva occasionalmente a piccoli furti o razzie; in più essi erano divisi in una quantità di bande, e di fatto ancora non è chiaro se costituissero una singola etnia e parlassero lingue affini, o se fossero un amalgama di genti diverse, mentre è sicuro che spesso erano divisi da faide e guerre intestine. E’ probabile che già disponessero di qualche cavallo rubato agli Spagnoli, ma non in numero tale da cambiare le loro abitudini, e senza il cavallo anche il bisonte, le cui mandrie a quel tempo si spingevano anche sud del Rio Grande, non era una preda facile da trovare e da cacciare; indiani così poveri e dalle abitudini nomadi erano di scarso interesse anche per i missionari, che a quel tempo concentravano la loro attenzione sulle tribù agricole che vivevano a ovest. Un tentativo fu comunque compiuto da Fernando del Bosque, un soldato che su incarico del governatore di Coahuilla che risiedeva a Saltillo, nel 1674 aveva aiutato la fondazione di una missione nei pressi della futura Monclovia; l’anno successivo i missionari intenzionati ad allargare la loro attività a nord del Rio Grande, lo sollecitarono ad organizzare una spedizione in quelle terre, e l’11 maggio del Bosque e i missionari, attrversarono il Rio Grande, viaggiando per circa 150 chilometri, fino alla zona dell’Edward Plateau, nel Texas centrale. Durante il viaggio essi ebbero molti incontri con diverse bande di Coahuiltecam e tutte si mostrarono ansiose di ricevere i missionari e farsi cristiani, forse anche per essere tutelati dai cacciatori di schiavi che battevano la regione; al ritorno del Bosque riportò informazioni dettagliate sulla regione e la proposta di organizzare tre distretti missionari, ma il progettò cadde nell’oblio. Difficoltà interne alla colonia e soprattutto problemi con gli indiani nelle aree vicine, ne impedirono l’attuazione; perchè in realtà tutta la regione era in qualche modo isolata, a causa del conflitto che da decenni attraversava il vicino Bolsom de Mapimi, una terra desertica in cui gli Spagnoli non osavano penetrare, dominio di tribù nomadi di razziatori irriducibili. Le cose in qualche modo cambiarono dopo la Grande Rivolta dei Pueblo del 1680, quando costretti ad abbandonare Santa Fè, centinaia di coloni spagnoli e di loro servi indiani, si stabilirono a El Paso, fino ad allora solo un luogo di tappa lungo la via di Santa Fè. Da quel momento El Paso divenne un importante villaggio sul Rio Grande, che si affacciava tanto sulle terre dei Pueblo, che verso le pianure del Texas. Così nell’ottobre del 1683 si presentò a El Paso il capo degli Jumano Juan Sabeata, insieme ad alcuni indiani di La Junta, la località alla confluenza fra il fiume Concho e il Rio Grande, chiedendo l’invio di missionari per la sua gente; per gli Spagnoli, cacciati dal Nuevo Mexico, e soprattutto per i missionari


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che avevano dovuto rinunciare a migliaiadi “anime” dopo la rivolta dei Pueblo, la possibilità di nuovi adepti suscitò molti interessi. Sabeata che a quel tempo aveva circa quarant’anni, era probabilmente nato nelle vicinanze nel pueblo Tompiro di Gran Quivira, dove molte bande Jumano svernavano, commerciando pelli e carne di bisonte, con mais e merci provenienti dal Messico; i Jumanos molto probabilmente, fin verso la fine del’500 erano stati agricoltori nella valle del Rio Grande, stanziati a sud dei Piro e dei Tompiro e forse fino a La Junta, parte del complesso culturale Jornada Mogollon, affine a quello dei Pueblo, e forse parlavano la stessa lingua Tanoan di molte tribù Pueblo. In seguito a cambiamenti climatici e anni di cattivi raccolti, si erano dati alla vita nomade, come avevano fatto anche i Manso e i Suma a loro affini, ma a differenza di loro, che continuavano a gravitare lungo il Rio Grande, i Jumano si spinsero nelle pianure a nord e divennero cacciatori di bisonti. Come nomadi cacciatori di bisonti, i Jumano si spostavano attraverso le pianure centrali del Texas, dai villaggi agricoli di Gran Quivira e La Junta, fino agli agricoltori Hasinay e Wichita di lingua Caddoan del Texas orientale, e nel corso dei loro spostamenti, trafficavano con bande di indiani Coahuiltecan, Tonkawa e forse anche con i Karankawa della costa. Con questa ruolo di intermediari commerciali acquisirono grande prestigio e la loro posizione si rafforzò quando entrarono in possesso dei primi cavalli, che velocizzavano gli spostamenti; quando Sabeata si presentò a El Paso, citò una lista di trentaswttw tribù di cui i Jumano erano alleati, e certamente Sabeata esercitava la sua autorità su diverse bande Coahuiltecan, genericamente note come Cibolo. Gli Spagnoli avevano già avuto contatti amichevoli con i Jumano, prima nel 1629 quando alcuni missionari operarono per pochi mesi fra di loro nella regione del fiume Concho (fiume del Texas, da non confondere con il Concho che scorre in Messico), poi nel 1650 e 1654 quando due spedizioni avevano visitato la stessa regione, facendo un ricco bottino di pelli di bisonte e perle di fiume; Sabeata stesso aveva più volte visitato gli insediamenti spagnoli a sud del Rio Grande e in una di queste visite a Parral in Chihuahua era stato battezzato con il nome di Juan. Ora Sabeata si presentava agli Spagnoli con la richiesta di missionari per la sua gente, ma il suo vero intento era quello di ottenere il sostegno militare degli Spagnoli, contro gli Apache Lipan e Mescalero, con cui da più di mezzo secolo erano in guerra, e che negli ultimi anni stavano prendendo il sopravvento. Dopo la fine del pueblo di Gran Quivira e dei Tompiro che l’abitavano, a causa deli attacchi Apache, i Jumanos erano stati cacciati dalle pianure del Nuevo Mexico, e dopo la fuga degli Spagnoli da Santa Fè, l’aggressività Apache era aumentata e minacciava i Jumano anche nelle praterie del Texas. Conoscendo bene i missionari spagnoli, per convincerli a unirsi a loro, Sabeata raccontò la storia di una croce apparsa in cielo prima di una battaglia, che li aveva guidati fino alla vittoria, e si impegnò a costruire una grande chiesa a La Junta: ce ne era a sufficienza per convincere i missionari a misurarsi con l’impresa. Sabeata ovviamente sapeva, che con i missionari sarebbero giunti anche i soldati spagnoli, e questi erano il vero obbiettivo del suo piano. Il governatore del Nuevo Mexico, Domingo Jironza de Cruzate, che risiedeva a El Paso nella speranza di poter riconquistare Santa Fè e la colonia persa, colse la proposta di Sabeata come una possibilità di riscatto, rispetto agli insuccessi contro i Pueblo, e affidò a Domingo de Mendoza il compito di guidare una spedizione a La Junta e poi in Texas, per scortare i missionari. Mendoza era il più esperto militare di frontiera spagnolo, aveva combattuto Apache e Pueblo e in gioventù aveva già visitato il Texas durante la spedizione del 1654. Con i suoi uomini, tre missionari e la guida di Sabeata, nel dicembre del 1683 egli discese il Rio Grande fino a La Junta, dove lasciò un missionario che iniziò ad operare tra gli indiani locali, poi guidato da Sabeata mosse a nord verso il fiume Pecos e di lì al fiume Concho dove i suoi due rami si uniscono prima di confluire nel fiume Colorado. Giunto sul Concho, che chiamò San Clemente, Mendoza edificò un fortino per difendersi dagli Apache, mentre nella regione si riunivano migliaia di indiani Jumano e Cibolo, ansiosi di conoscere i visitatori spagnoli, il loro dio, le loro merci e le loro armi. I missionari si diedero subito a battezzare indiani, mentre Mendoza e i suoi uomini si dedicavano a cacciare bisonti, che in grandi mandrie frequentavano la zona, ma in breve i rapporti tra lui e Sabeata si deteriorarono. Sabeata continuava a sollevare il timore degli Apache, sperando che gli Spagnoli prendessero una iniziativa, ma gli Apache non si facevano vedere e Mendoza si rifiutava mettersi in guerra e continuava a raccogliere pelli di bisonti. Alla fine di giorni di incomprensioni e sospetti, Sabeata decise di tornarsene a La Junta seguito da un gran numero di indiani e il grande consiglio in preparazione, che doveva sancire la sottomissione di quelle terre alla Spagna, non si fece più. Mendoza si trattenne in Texas per sei settimane, raccogliendo oltre 5.000 pelli di bisonte, poi fece ritorno sul Rio Grande e passando per la Junta, si rese conto che gli indiani erano molto meno amichevoli: evidentemente con la sua influenza Sabeata aveva mostrato gli Spagnoli come un alleato inaffidabile e codardo. Al suo ritorno a El Paso nella primavera del 1684, Mendoza perorò la causa della colonizzazione del


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Texas, ma il governatore Cruzate aveva altro a cui badare: i Manso e i Suma, che vivevano nelle vicinanze di El Paso erano in piena ribellione. L’allenza tra Jumano e spagnoli per fermare gli Apache, che Juan Sabeata aveva sperato di costruire non si produsse mai, ma il capo Jumano rimase comunque in buoni rapporti con gli Spagnoli, senza però più fare affidamento su di loro, e non esitando, quando ne ebbe l’occasione, anche a tentare la carta dei Francesi, nel frattempo approdati sulle coste del Texas. E’ probabile che egli sia morto alla metà degli anni ’90 del ‘600, e dopo la sua scomparsa non si ebbero più notizie degli Jumano, che rinunciarono alle relazioni con gli Spagonoli. Per oltre un ventennio degli Jumano non si seppe più nulla, e quando ricomparvero di nuovo, erano alleati degli Apache Lipan, a cui non erano più in grado di opporsi; il loro nome ricomparirà ancora occasionalmente fino alla metà del ‘700, sempre in relazione ai Lipan Apache, da cui infine furono assorbiti. Per gli Spagnoli le terre a nord del Rio Grande rimanevano precluse, ma in quegli stessi anni accadeva qualcosa che avrebbe costretto il governo della Nueva Espana a occuparsi di quella lontana regione.

A nord del Rio Grande: i Tejas Nel gennaio del 1685 alcune centinaia di Francesi guidati da Robert Cavelier de La Salle, erano giunti per sbaglio sulle coste del Texas, nella baia di Matagordo, e li si erano stabiliti con la speranza di poter raggiungere la foce del Mississipi, che era la vera metà della loro impresa; nella primavera dell’anno successivo La Salle e un gruppo di suoi uomini, che cercavano di raggiungere il Mississipi, visitarono i villaggi Hasinay (Tejas per gli Spagnoli e i Jumano) sul fiume Neches nel Texas orientale, e qui incontrarono gli Jumano, che abitualmente in questa stagione giungevano per commerciare pelli , carne di bisonti e pregiate piume di pappagallo provenienti dal Messico. I Francesi furono stupiti di incontrare indiani che si facevano il segno della croce e che gli parlarono di altri bianchi, gli Spagnoli, come codardi e traditori e presentando se stessi come amici; quasi certamente il capo con cui si incontrarono i Francesi era Juan Sabeata, che visto fallire il suo progetto di coinvolgere gli Spagnoli in una alleanza contro gli Apache, ci provava ora con i nuovi arrivati. Comunque quei pochi Francesi, dispersi in una terra sconosciuta non dovettero sembrargli utili, perché tornato a La Junta sul Rio Grande, nell’autunno del 1686, fu proprio Sabeata a dare notizia della presenza francese in Texas agli Spagnoli. La notizia che i Francesi stavano occupando le coste del Texas, una terra pretesa dalla Spagna, suscitò una grande inquietudine tra gli Spagnoli, che ovviamente nulla sapevano del fatto che essi erano giunti in quella terra per errore, e vi si trovavano in completo isolamento, senza speranza di ottenere alcun aiuto, nè dalle colonie francesi del Canada, nè dall’Europa. Dalle isole dei Caraibi diverse navi furono inviate inutilmente ad esplorare la costa in cerca della colonia francese, e malgrado la ribellione indiana esplosa due anni prima, quattro spedizioni partirono dagli avamposti messicani con lo stesso obbiettivo. Alonso de Leon ricco possidente di Nuevo Leon, partì alla fine del 1686, discendo il fiume San Juan fino

Un villaggio Tejas (Hasinay) con le caratteristiche capanne d’erba


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al Rio Grande e poi seguendo il fiume fino alla costa, senza trovare alcuna traccia dei Francesi, che erano molto più a nord; nel febbraio del 1687 de Leon ritentò l’impresa discendendo il corso del Rio Grande e poi risalendo la costa lungo la baia di Matagordo, fino alla baia di Baffin, senza però trovare traccia dei Francesi, il cui forte si trovava a poca distanza nell’interno. Le ricerche furono sospese e si cominciò a dubitare della verità delle informazioni giunte da Sabeata, fin quando da altri indiani non giunse la notizia di un bianco che viveva tra gli indiani Coahuiltecan, essendo divenuto capo di una piccola comunità; nel maggio del 1688 de Leon ripartì di nuovo, e poco dopo aver attraversato il Rio Grande, nella contea di Kinney in Texas, riuscì a trovare Jean Jarry, un disertore della spedizione di La Salle, che viveva tra gli indiani in stato semiconfusionale: era la conferma che i Francesi c’erano veramente e Jarry fu convinto da de Leon a tornare con lui a Moclova, nella speranza che potesse ricordare l’esatta locazione dell’insediamento francese. Nel frattempo alla fine del 1688, gli ultimi superstiti della colonia francese venivano massacrati dagli indiani Karankawa; gli Spagnoli totalmente ignari di quanto accadeva a nord del Rio Grande, ancora all’inizio del 1689 organizzavano altre due spedizioni alla ricerca fei Francesi. Da Parral in Chihuahua, il capitano Fernandez de Renama fu inviato a La Junta nella speranza di avere notizie, da Juan Sabeata o da altri Jumano, ma questi erano a nord tra i Tejas, e Renama decise di continuare la ricerca da solo raggiungendo le coste del Texas e la baia di Espiritu Santu; non avendo ottenuto alcun risultato fece ritorno a ovest, e sul fiume Pecos ai primi di marzo incontrò Juan Sabeata e gli Jumano, che lo informarono della tragica fine della colonia francese. Nel frattempo anche Alonso de Leon preparava una nuova spedizione e alla fine di marzo, con la guida di Jean Jarry, insieme al missionario Damian Massenet, quattordici soldati più servi e mulattieri, riprese la via del nord; Jarry benchè confuso si dimostro una guida utile, e il 22 aprile la spedizione raggiungeva le rovine di Ft.St.Louis, distrutto pochi mesi prima. De Leon e Massenet trovarono il luogo devastato, gli scheletri di una ventina di cadaveri, decine di libri in francese dalle pagine strappate e sparse ovunque e i cannoni che avrebbero dovuto difendere l’insediamento; di fronte ai miserevoli resti padre Massenet celebrò una messa, poi i resti dei cadaveri furono seppelliti in una fossa comune. Nei giorni successivi de Leon continuò ad esplorare la regione, trovando il relitto di uno dei vascelli francesi arenato, e venendo a sapere da alcuni indiani di due Francesi che vivevano più a nord, in un villaggio dei Tejas; tramite degli indiani inviò una lettera ai due Francesi, invitandoli a consegnarsi, e quando questi fecero sapere che non aspettavano altro, un gruppo di soldati fu inviato a prenderli. I Francesi nel frattempo si erano messi in viaggio e, accompagnati da otto guerrieri Tejas, si incontrarono con i soldati sul fiume Colorado, e li seguirono fino alla base di de Leon e Massenet. A parte i due Francesi fuggitivi, gli uomini di de Leon erano i primi bianchi che i Tejas incontravano dai tempi della spedizione di Hernando de Soto, quasi un secolo e mezzo prima e l’incontro fu cordiale e suscitò l’entusiasmo di frate Massenet; i Teyas non solo dimostravano disponibilità ad accogliere missionari, ma erano un popolo di agricoltori, che risiedeva in villaggi stabili, più civili dei nomadi Coahuiltecan che vivevano a ridosso del Rio Grande. Massenet si impegnò a visitare l’anno successivo i villaggi dei Tejas e gli Spagnoli fecero ritorno a Monclova. Con la scoperta dei cadaveri dei coloni francesi, il pericolo di invasione da una potenza rivale era svanito, ma c’erano voluti ben tre anni solo per scoprire dove la colonia era ubicata; un tempo lunghissimo, durante il quale un autentico tentativo di invasione, e non i disperati giunti per errore su quelle terre con La Salle, avrebbe potuto divenire una minaccia gravissima. Se la corona di Spagna voleva garantirsi i diritti su quelle terre, doveva assumere una qualche iniziativa, ma prima che la macchina burocratica spagnola prendesse le sue decisioni, fu ancora una volta lo zelo missionario a fare da avanguardia. Nella primavera del 1690, accompagnato da Alonso de Leon, padre Massenet guidò alcuni frati francescani attraverso le terre del Texas, per raggiungere i villaggi dei Tejas; durante il viaggio gli Spagnoli ebbero notizia di quattro bambini superstiti del massacro dei Francesi, tenuti prigionieri dei Karankawa e riuscirono a riscattarli, poi un altro ragazzo francese fu trovato tra i Tejas. Nel mese di maggio gli Spagnoli erano al villaggio di Nabedache, sul fiume Neches, e in giugno fu celebrata la prima messa; la nuova missione fu intitolata a S.Francisco de los Tejas, e prima di lasciare i missionari e far ritorno a sud, de Leon e Massenet ebbero modo di conoscere gli indiani locali e convincersi delle buone possibilità che si aprivano. De Leon notò che i Tejas erano organizzati in modo simile ai più evoluti popoli del Messico, e in effetti lo stile di vita dei Tejas o Hasinay era fortemente influenzato dalla complessa cultura gerarchica e teocratica del Mississipi, ancora viva tra i loro vicini e linguisticamente affini Kaddoadachan e Natchitoche, che vivevano a est sul basso corso del Red River; i Tejas poi abitavano in grandi capanne d’erba cupoliformi, coltivavano ricchi campi di mais, avevano abbondante selvaggina e vivevano in una terra ricca, dal clima ben più dolce che non le aride praterie


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del Texas meridionale. Gli indiani pur non mostrando particolare interesse per gli insegnamenti religiosi, erano cordiali, curiosi e disponibili a offrire ai missionari quanto necessitavano per vivere. Sembravano esserci le migliori condizioni per garantire un proficuo lavoro di redenzione dei pagani, e un presidio della corona di Spagna. Sistemati i missionari e garantita la loro sicurezza, la spedizione fece ritorno a sud, e pochi mesi dopo il suo ritorno dalla terra dei Tejas Alonso de Leon moriva nella sua casa di Monclova. Durante l’estate Juan Sabeata e i suoi Jumano visitarono i Tejas, e i missionari gli affidarono una lettera da portare a sud del Rio Grande; in settembre una nuova missione fu costruita pochi chilometri a nord-est, con il nome di Santissimo Nombre de Maria; le missioni erano costituite da due piccoli edifici, poco più che capanne, uno usato come cappella, l’altro come abitazione per i frati. Con l’apertura delle due nuove missioni e la possibilità di nuove conversioni, la corona di Spagna si garantiva nuove terre e nuovi sudditi cristiani, e così si decise anche a scegliere un nuovo governatore per amministrarli; l’uomo era Domingo Teran de los Rios, già governatore di Sonora, che nel maggio del 1691 ripartì insieme a padre Massenet per raggiungere i Tejas, fondare nuove missioni, eventualmente cacciare altri europei che avessero mire nella regione, e fare un rendiconto delle ricchezze e risorse disponibili; durante il viaggio gli Spagnoli liberarono un ultimo bambino francese, prigioniero dei Karankawa e si incontrarono con gli Jumano di Juan Sabeata, che li accompagnò fino al fiume Colorado. Raggiunta la missione di San Francisco de los Tejas la situazione che vi trovarono non era però quella che si aspettavano: gli indiani prima si erano mostrati indifferenti agli insegnamenti dei religiosi, alle loro curiose pretese di lavoro, e alla rinuncia alle loro abitudini e usanze, poi nel corso dell’inverno una malattia era comparsa, portata dagli uomini di Terran de los Rios,diffondendosi fra tutti i villaggi della regione, uccidendo in pochi mesi oltre 3.000 persone. Fino ad allora completamente isolati dagli uomini bianchi, i Tejas non avevano alcuna difesa contro i virus e i germi che giungevano con lui; pagavano ora lo stesso prezzo che in altre parti del continente altri popoli avevano pagato un secolo prima. Ovviamente i missionari furono considerati i responsabili, e solo il timore superstizioso impedì ai Tejas di ucciderli, ma essi ormai erano circondati dall’ostilità. Teran de lo Rios nulla poteva fare di fronte a questi problemi e si limitò ad esplorare la regione, raggiungendo nel dicembre del 1691 il Red River, prima di far ritorno a sud; sulla via del ritorno, gli giunse l’ordine di riprendere l’esplorazione fino alla foce del Mississippi, già visitata dai Francesi pochi anni prima, ma le condizioni atmosferche e forse anche quelle dei suoi uomini, gli impedirono di farlo e fece ritorno a sud del Rio Grande. I missionari intanto erano rimasti tra i Tejas ostinati a perseguire quel progetto ormai abortito; nell’estate del 1692 una piena del fiume Neches distrusse la missione di Santissimo Nombre de Maria, che non fu ricostruita. Di fatto i frati vivevano come assediati e passarono il successivo inverno nell’isolamento e ridotti alla fame. Nella primavera del 1693, sconfitti, decisero di rinunciare e tornare a sud, ma lungo la via si persero, vagando per mesi nelle praterie del Texas, fino a raggiungere gli avamposti spagnoli, solo nel 1694. Con la fine delle missioni fra i Tejas, scompariva ogni presenza europea a nord del Rio Grande, che per il momento rimaneva la vera frontiera dei domini spagnoli. Per i Tejas e le altre popolazioni di lin- Esplorazioni di Alonso de Leon (in rosso) e di Teran de los Rios (in giallo)


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gua Caddoan, iniziava un dramma di cui le prime migliaia di morti ne erano solo un amaro assaggio.

La Grande Rivolta del Nord Quella che viene definita la Grande Rivolta del Nord del Messico fu un evento complesso e anche molto confuso, che insanguinò le terre del Messico settentrionale per quasi vent’anni, dall’inizio degli anni ’80 fino alla fine del secolo, e che fa da spartiacque nella storia della colonizzazione del nord del Messico e dei popoli che lo abitavano. L’aera interessata è quella che va dal Bolson de Mapimi, attraverso la valle del Rio Concho, fino alla Sierra Madre Occidentale, estendendosi a nord fino al Rio Grande e alla valle del Gila; era una terra già in parte colonizzata, specialmente nelle zone meridionali, punteggiata da miniere, missioni, piccoli villaggi e ranchos, abitata nelle aree orientali da molte tribù di nomadi, e in quelle occidentali dai Tarahumara ed altri Il teatro della Grande Rivolta del Nord popoli agricoli. Parte di questi indiani, come i Concho, erano già stati sottomessi e riuniti nelle missioni, altri specialmente fra i nomadi, dopo decenni di sanguinosi conflitti pagati con gravi perdite, dagli anni ’70 del’600 si erano rassegnati ad una difficile tregua con gli Spagnoli, tra occasionali incidenti, continue tensioni e reciproci sospetti. Gran parte di questi indiani parteciparono alla generale sollevazioni, altri combatterono come ausiliari al fianco degli Spagnoli, e alla fine del conflitto intere tribù furono cancellate e di loro non si ebbe più alcuna notizia. Le ragioni che produssero la Grande Rivolta del Nord, erano le stesse di sempre, l’avanzare delle miniere e degli insediamenti verso nord, l’attività dei missionari che miravano a stravolgere gli usi tradizionali, la propensione predatoria dei nomadi, le malattie che colpivano gli indiani; a ciò si aggiunse la siccità che nel corso degli anni ’70 aveva colpito la regione, e che era stato una delle cause della Rivolta dei Pueblo del 1680. Se gli indiani avevano ragioni per il loro malessere, neanche gli Spagnoli avevano ragione di soddisfazione: dopo anni di sfruttamento alcune miniere d’argento mostravano segni d’esaurimento, altre non erano utilizzate in modo razionale e produttivo, mentre il prezzo del mercurio, necessario per la lavorazione del prodotto dell’estrazione, rendeva i costi di produzione sempre meno sostenibili. In questo mosaico di problemi irrisolti e di malessere, le notizie che all’inizio degli anni ’80 giunsero da nord, suscitarono l’attenzione la speranza di molti indiani e la preoccupazione, il timore, il sospetto degli Spagnoli:: a nord, nell’alta valle del Rio Grande, gli indiani Pueblo s’erano sollevati e avevano cacciato i bianchi, si. erano ripresi la loro libertà e non avevano più preti e soldati a imporgli come vivere. Ma la notizia della vittoriosa rivolta dei Pueblo, non era l’unica cosa che giungeva da nord; da nord giungevano anche i coloni spagnoli in fuga da Santa Fè, quasi duemila persone, con al seguito meticci e indiani amici, che discendendo il Rio Grande, raggiunsero il piccolo avamposto di El Paso e vi si stabilirono, producendo un impatto sulla regione, che non a caso fu il luogo in cui la rivolta ebbe inizio. Infine l’esperienza stessa del clamoroso disastro subito dagli Spagnoli a Santa Fè, li rendeva particolarmente timorosi e intolleranti nei confronti degli indiani, inducendoli a reagire con dura violenza ad ogni sospetto. La Grande Rivolta del Nord va inserito nello stesso contesto storico e ambientale della Grande Rivolta dei Pueblo, ma fu un evento radicalmente diverso. Non si trattò di un atto simultaneo e organizzato da genti di cultura comune, che operavano coordinate sotto un unico capo; al contrario si trattò di una serie di eventi, solo parzialmente collegati fra loro , che nel corso di più di dieci anni coinvolsero genti diverse e si espressero con modalità diverse: dalla cacciata dei missionari dalle terre indiane, all’aumento ver-


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tiginoso di razzie e furti di bestiame ai danni dei ranchos, dall’azione unitaria di una tribù sotto un capo, all’azione spontanea di piccole bande di razziatori. Anche sul piano militare è difficile ricostruirne le fasi, al contrario di quanto accadde tra i Pueblo, dato che gli Spagnoli furono impegnati in un gran numero di piccole spedizioni punitive, spesso faticando anche a trovare gli ostili tra montagne e deserti. Non ci furono grandi battaglie, e anche le “vittorie” spagnole che risultano dai documenti e rapporti degli ufficiali al comando, spesso sembrano presentare successi maggiori del reale o comunque non adeguatamente documentati. Nemmeno il modo in cui finì fu lo stesso che tra i Pueblo, e non ci fu nessuna grande spedizione che attraversò le terre ostili sconfiggendo i ribelli e riportando la “pace” e il dominio spagnolo. In realtà non è possibile nemmeno dire come la Grande Rivolta del Nord finì, se non constatare che dall’inizio del ‘700 gli attacchi e le ribellioni, le razzie e i complotti lentamente cassarono, senza esaurirsi mai del tutto e con loro scompariva ogni notizia sulle tribù ribelli. E’ probabile che più che una definitiva vittoria militare, a chiudere il conflitto sia stato l’esaurirsi delle energie dei ribelli, delle tribù nomadi in particolare, che dopo decenni di guerre e rappresaglie, di malattie e tentativi di integrazione, non avevano più risorse; sconfitti e ridotti numericamente gli ultimi ostili si ritirarono nelle regioni più impervie e desolate, osando solo occasionalmente e se costretti dalla necessità, misurarsi con i potenti nemici bianchi. Il nord del Messico sarebbe rimasta ancora per secoli una terra selvaggia e mai del tutto sicura, luogo di rifugio per fuorilegge, ribelli e indiani ostili. La scomparsa delle tribù nomadi da queste terre non portò quindi alla sicurezza, anche perché da nord altri temibili predoni giungevano a contrastare l’avanzata spagnola, gli Apache; l’odio e il rancore che gli sconfitti della Grande Rivolta del Nord covavano, avrebbe trovato tra gli Apache il terreno fertile, dove trovare nuova linfa.

El Paso Nel settembre del 1680 una lunga colonna circa 2.000 Spagnoli e meticci, uomini, donne, anziani e bambini, con feriti e malati al seguito, e circa 300 indiani fedeli, viaggiava verso sud nella valle del Rio Grande, guidata dal governatore del Nuevo Mexico Antonio de Otermin; era l’intera popolazione di Santa Fè, che dopo oltre 70 anni, abbandonava la città, scacciata dagli indiani Pueblo insorti. La colonna viaggiava attraverso terre semidesertiche, frequentate solo da bande di predoni Apache, per raggiungere il primo insediamento spagnolo a sud di Santa Fè, e lì cercare rifugio e riorganizzarsi; la loro speranza era quella di tornare presto alle loro case abbandonate, e riprendersi la terra su cui in tanti erano nati e che consideravano la loro, sicuri di poter punire gli indiani ribelli e vendicarsi per l’umiliazione subita. La loro metà era El Paso, una località sul Rio Grande che da quasi un secolo era la tappa obbligata per quasi tutte le spedizioni e i convogli che dal Messico si spingevano verso le terre dei Pueblo; mai a El Paso c’erano state tensioni con gli indiani, che fin dal primo incontro con gli uomini della spedizione di Francisco Sanchez el Chamuscado e di frate Augustin Rodriguez, che nel 1581 aveva attraversato la regione, avevano sempre accolto cordialmente i viaggiatori e i convogli spagnoli in viaggio verso nord. Tra il 1656 e il 1659 alcuni frati francescani avevano costruito missioni nella zona, per convertire gli indiani Suma, Janos, e Manso che l’abitavano, e salvo qualche iniziale tensione il loro arrivo era stato ben accolto, e alcune centinaia di indiani frequentavano le missioni. I Manso (Mansueti) e i Suma, erano indiani pacifici, che un tempo, fino alla metà del ‘400, erano vissuti in villaggi stabili, simili a quelli dei Pueblo, coltivando la terra, e quasi certamente parlavano una lingua Tanoan, simile a quella dei vicini Piro, Tompiro, Tiwa ecc… Con la crisi climatica della metà del XV secolo avevano deciso di abbandonare i campi e tornare alla vita nomade, rimanendo però nella stessa regione, diversamente da quanto avevano fatto i vicini e affini Jumano, che si erano trasferiti nelle pianure dei bisonti. Sopravvivevano così pescando lungo il Rio Grande, cacciando piccola selvaggina, per lo più conigli e altri roditori, raccogliendo mescal, fagioli mesquite, cactus e ogni altro vegetale commestibile, e dimenticati i villaggi di adobe, si adattavano a vivere in semplici ripari di rami e frasche. Più scarse notizie abbiamo dei Janos e dei loro vicini Jocome, che seguivano lo stesso stile di vita, ma erano stanziati più a sud, alle pendici della Sierra Madre Occidentale, e probabilmente erano di lingua Atapaskan, come gli Apache che vivevano poco più a nord. E’ probabile che l’arrivo dei missionari, che promuovevano l’agricoltura e un po’ d’allevamento, abbia indotto una parte di questi indiani a ritornare allo stile di vita sedentario, anche a costo di sopportare le incomprensibili parole dei missionari sul loro dio, e la loro inspiegabil pretese di cambiare le loro abitudini e le loro credenze. In questa regione, in cui da un secolo indiani e Spagnoli erano in contatto senza tensioni ne violenze, Otermin portò i suoi oltre 2.000 profughi, pensando di fare dell’avamposto, la base temporanea per la


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riconquista di Santa Fè e la sottomissione dei Pueblo. Raggiunta la zona nell’autunno del 1680 i coloni si accamparono un po’ dove volevano, senza curarsi degli indiani che l’abitavano, convinti che sarebbe stata solo una sistemazione temporanea, mentre il governatore Otermin preparava la spedizione della riscossa; nell’inverno 1681-82, Otermin tornò nelle terre dei Pueblo, ma la spedizione fu un clamoroso insuccesso, e l’unico risultato fu quello di portare a El Murales nella missione di Nuestra Senora de Guadalupe, fondata alla metà del ‘600 presso Paso altri 300 indiani El Paso e ancora oggi esistente, che illustra la prima attività missionaria sul Rio Grande Tiwa prigionieri. Dopo questa delusione tutti si resero conto che la loro permanenza a El Paso sarebbe durata più del previsto, e il temporaneo accampamento vicino alle missioni, si trasformò presto in un vero e proprio insediamento stabile, che divenne la nuova capitale del Nuevo Mexico; poco a monte di El Paso, tre piccoli pueblo, Socorro, Ysleta do Sur e Senecu do Sur, con relative missioni, furono costruiti per gli oltre 600 indiani che erano giunti con gli Spagnoli. El Paso sarebbe dovuta essere la base per la riconquista del Nuevo Mexico, ma in realtà furono ben altri i problemi che gli Spagnoli dovevano affrontare, e più che occuparsi di conquiste, la questione era in realtà quella di difendersi dalle bande di nomadi Apache, che da anni erano abituati a predare le missioni e i ranchos spagnoli. Così dopo l’abbandono di Santa Fè, fu la regione intorno a El Paso a divenire l’obbiettivo di razzie e furti di bestiame da parte delle bande di Apache Chiricahua e Mescalero, che vivevano poco più a nord di El Paso; nel 1682, secondo la testimonianza di un frate francescano oltre 200 cavalli erano stati rubati dagli Apache, che dopo l’umiliazione subita dagli Spagnoli ad opera dei Pueblo, si sentivano ancor più sicuri di se. Nel 1683 Otermin fu sostituito con un nuovo governatore Domingo Jironza de Cruzate, con l’incarico di riconquistare il Nuevo Mexico e difendere El Paso dagli Apache. Il suo primo impegno fu quello di riorganizzare l’insediamento, stabilire un presidio militare, con cinquanta uomini a cavallo armati di carabina, e aprire nuove missioni per gli indiani Suma, Manso e Janos; nell’ottobre del 1683, giunse a El Paso il capo dei Jumano Juan Sabeata insieme ad un gruppo di indiani di La Junta per offrire alleanza e chiedere missionari, e Jironza inviò presso di loro una spedizione guidata Domingo de Mendoza. Il problema reale rimaneva quello degli Apache, contro cui periodicamente venivano lanciate spedizioni punitive di alcune decine di soldati, accompagnati da ausiliari indiani; nel solo mese di novembre del 1683 Domingo de Mendoza guidò due spedizioni contro gli Apache nella zona dei monti Hueco, e nello stesso mese un’altra fu condotta da Salvador Olguin nella località non individuata di Paraje de los Barrancos. Queste spedizioni spesso riuscivano a raggiungere una “rancheria” Apache, uccidevano quanti più indiani potevano, prima che questi potessero fuggire, portavano via decine di donne e bambini che finivano schiavi, ma non erano in grado di risolvere definitivamente il problema. Gli Apache erano la minaccia più pressante ed evidente, ma dopo l’umiliante esperienza di Santa Fè, gli Spagnoli ormai diffidavano di tutti gli indiani; periodicamente voci di complotti e sollevazioni, fomentati o sostenuti dai Pueblo ribelli del nord, giungevano agli Spagnoli, che spesso non si facevano scrupoli di condurre indagini facendo uso della tortura. Nel 1681, per il sospetto di un complotto tra gli Opata, una tribù mai stata ostile, presso cui i missionari operavano senza problemi, due indiani furono giustiziati; altre esecuzioni avvennero nella regione di El Paso ogni volta che denunce e delazioni giungevano agli Spagnoli. Molte di queste denunce erano infondate, ma è un fatto comunque che gli


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indiani della zona di El Paso avevano piene ragioni di malessere: all’improvviso circa 2.000 Spagnoli e oltre 600 indiani portati dal nord, erano giunti sulle loro terre, si prendevano le località migliori e imponevano il loro dominio. Era La regione di El Paso neui primi decenni del ‘700 in una mappa spagnola una cosa inaccettabile per gli indiani che vivevano liberi, ma difficile da sostenere anche per gli indiani che avevano accettato di vivere nelle missioni; anche molti indiani trasferiti forzosamente a sud, speravano di poter tornare nelle loro terre e liberarsi degli Spagnoli. A questo situazione si aggiunse nel 1683 un cattivo raccolto che portò nel successivo invern, la fame tra molti indiani che nelle missioni coltivavano i campi. Dopo un inverno di fame, all’inizio della primavera le condizioni per l’esplodere della crisi c’erano tutte, le voci di complotti erano sempre più frequenti, e due indiani Manso furono impiccati, per questi sospetti. A marzo puntualmente la situazione precipitò: la sera del 14, quattro indiani, due Piro e due Tiwa, si presentarono al Governatore Jironza, informandolo che erano stati invitati a partecipare ad una riunione che preparava una rivolta degli indiani della regione, e dopo aver fatto una circostanziata esposizione delle proposte che si erano discusse, e della decisione di colpire gli Spagnoli in occasione della Pasqua, quando feste e celebrazioni li avrebbero riuniti, fecero in nomi di otto capi Manso, responsabili della congiura. Agendo con prudenza e senza allarmare gli indiani, Jironza fece arrestare gli otto capi, che nel girò di quattro giorni furono processati e condannati a morte. Al momento di eseguire la sentenza, alcuni frati fecero però presente, che Rodriguez de Mendoza, con tre missionari era in viaggio nelle terre dei Jumano, e ignari di quanto accadeva, avrebbero potuto subire la reazione degli indiani; fu così deciso di posticipare l’esecuzione. Con l’arresto dei capi Manso il complotto sembrava sventato, ma in realtà la rete di contatti tra gli indiani della regione continuava ad operare e fuori dalle immediate vicinanze di El Paso gli Spagnoli nulla sapevano di quanto si andava preparando.

La rivolta dei “Mansueti” Mentre i capi della rivolta erano prigionieri a El Paso, una rete di informatori e corrieri faceva la spola tra il villagio e le vicine tribù dei Janos e dei Suma, coinvolte nel progetto di sollevazione, che vivendo più distanti erano meno controllabili; il piano, che secondo le informazioni giunte agli Spagnoli prevedeva una sollevazione nel giorno di Pasqua era ormai naufragato, ma non passò molto tempo che la ribellione esplose con violenza. Il 6 maggio 1684 gli indiani Janos attaccarono la missione di Nuestra Senora de la Soledad, nelle vicinanze del villaggio di Casas Grandes, circa 120 miglia a sud di El Paso; il frate e il soldato che lo scortava, insieme a tutta la sua famiglia, furono massacrati, poi saccheggi, devastazione e furto di bestiame. I Janos erano gli indiani presso cui la missione era stata fondata, ma insieme a loro c’erano un gruppo di Suma, e una decina di Manso pagani, che venivano dalla “rancheria” di Capitan Chiquito, il principale tra i capi non convertiti. Pochi giorni dopo, il dramma si ripeteva alla missione Suma di Santa Gertrudis del Ojito, e qui il frate si salvava perché momentaneamente assente, ma non furono così fortunati il soldato di guardia alla missione e la sua famiglia, tutti uccisi; prima della fine del mese i Julime, una delle tribù di La Junta, che pochi mesi prima erano venuti a El Paso per chiedere l’invio di missionari, bruciarono la chiesa appena costruita e cacciarono il frate, a causa dell’esecuzione, avvenuta a Parral, di diciotto membri della tribù, accusati di incitare alla rivolta.


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Alla fine di maggio i Janos erano riuniti in una fortezza naturale sui monti vicini a Casas Grandes e un gran numero di indiani ostili si unì a loro: gruppi di Suma e di Manso pagani, guerrieri Jocome, una tribù affine ai Janos, Chinarra, una banda occidentale dei Concho, per un totale di oltre un migliaio di indiani; la rivolta si era estesa a valle di El Paso fino a La Junta e come un incendio poteva estendersi tra le missioni della valle del fiume Concho, e di lì giungere alla regione mineraria di Parral. A nord di El Paso invece, i Tiwa e i Piro da poco trasferiti preferirono tenersi fuori dai guai e anzi collaborarono con gli Spagnoli; senza di loro la possibilità che i ribelli di El Paso, potessero entrare in contatto con i Pueblo vincitori di Santa Fè, veniva meno, e così malgrado i timori Spagnoli, nessun sostegno venne dai Pueblo del nord. I Suma della missione di San Francisco de la Toma, erano invece talmente spossati dalla fame e dalle malattie, che rinunciarono a unirsi ai ribelli e furono chiusi nella missione e posti sotto sorveglianza. Intanto appena la notizia del massacro di La Soledad era giunto a Casas Grande, l’alcade locale, il capitano Ramirez de Salazar preoccupato dalla minaccia indiana, si era affrettato a chiedere aiuto a El Paso, e dal capoluogo, il governatore Jironza inviò il suo ufficiale Andres Garcia, che si unì agli uomini di Ramirez, e a un gruppo di volontari giunti dai villaggi della Sonora, a ovest. Questa truppa al completo, riuscì a sorprendere gli indiani nel loro rifugio naturale e ucciderne almeno una decina, prima che essi si disperdessero, nascondendosi sui monti. Il 5 giugno la truppa era di nuovo a Casas Grandes, per riorganizzarsi e pianificare altre campagne; il 10 dello stesso mese l’alcade Salazar con una quarantina di uomini, di cui trenta archibugeri giunti da Sonora al comando del capitano Fernandez de la Fuente, e un gruppo di ausiliari indiani, circondarono una grossa banda di indiani ostili sulla Sierra del Diablo a 30 leghe da Casas Grandes; gli Spagnoli cercarono di ottenere la loro resa, ma dopo uno scontro in cui uno di loro e alcuni ausiliari indiani morirono, dovettero rinunciare. Salazar era intenzionato a riprovare il giorno successivo, ma alla fine non se ne fece nulla; intanto Garcia e i suoi uomini erano tornati a El Paso, dove si preparavano nuovi guai. Ai primi di giugno, senza compiere alcuna violenza i Manso abbandonarono la missione di Nuestra Senora de Guadalupe, e si radunarono alla rancheria del capo pagano Capitan Chiquito; Jironza e i missionari, tentarono allora di convincere i Manso a fare ritorno, inviando più volte indiani fedeli con messaggi e appelli, ma gli indiani reagirono con disprezzo e si rifiutarono di arrendersi. Alla fine di luglio Jironza, con il capitano Roque Madrid e i suoi archibugeri, decise di recarsi direttamente alla rancheria per fare un’ultima offerta di resa, prima di aprire le ostilità; gli indiani allertati avevano trasferito le loro famiglie sull’altra sponda del Rio Grande, e quando i soldati spagnoli furono alla rancheria, li tempestarono di frecce. Gli archibugi fecero la differenza e alla fine i Manso furono dispersi, fuggendo a valle del fiume, dove in molti si unirono ai Suma; Jironza non potè che bruciare la rancheria, prima di far ritorno a El Paso. Con i Manso ormai riunitisi ai ribelli, non c’era più ragione di mostrare e prudenza e il 3 di agosto, Jironza fece eseguire la condanna a morte per gli otto capi imprigionati a marzo e altri due catturati successivamente; i dieci indiani furono impiccati sulla piazza di El Paso e i loro corpi lasciati appesi per giorni, come monito e minaccia. Durante il mese di agosto vi furono razzie di bestiame e piccole scaramucce, ma intorno a El Paso i Suma e i Manso dovettero mantenersi tranquilli, se Roque Madrid fu inviato a condurre una rappresaglia contro i Chiricahua della Sierra Florida, a nord.ovest di El Paso. Diversa doveva essere la stuazione a Casas Grandes, dove l’8 di agosto l’alcade Salazar chiese aiuto al centro minerario di Parral, da cui però non poterono inviare truppe, perché anche gli indiani della regione erano in subbuglio. Da Sonora comunque oltre un centinaio di indiani alleati raggiunsero il capitano de la Fuente, e con questi rinforziil 17 agosto Salazar si mise in campagna, sulle tracce degli ostili nella regione di Casas Grandes; gli Spagnoli vagarono per giorni tra i monti e i canion senza trovare traccia del nemico, e ai primi di settembre si diressero verso El Paso per avere notizie dei ribelli Manso. Questi nel frattempo si erano radunati insieme ai Suma in una rancheria sul Rio Grande a valle di El Paso, e da lì a El Paso giungevano notizie di piani per distruggere la città; così ai primi di settembre il capitano Roque Madrid era stato inviato dal governatore Jironza, con settanta uomini e oltre un centinaio di alleati indiani, a valle del Rio Grande. Ancora una volta gli indiani furono sconfitti in campo aperto, la rancheria bruciata, ma come al solito gran parte degli indiani aveva fatto perdere le tracce e tentava di raggiugere i Janos e gli altri ribelli nella zona di Casas Grandes. Compreso che i Manso e i Suma in fuga stavano cercando rifugio tra gli altri ostili, Jironza ordinò a Roque Madrid e ai suoi uomini di unirsi a quelli di Salazar, per colpire insieme gli indiani che si stavano riunendo. La colonna, che ormai era di qualche centinaio di armati, si rimise in marcia intorno al 20 set-


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tembre, e lungo la via catturò qualche indiano disperso, poi a corto di viveri decise di inviare a Casas Grandes degli uomini per caricare rifornimenti; gli uomini che tornarono da Casas Grandes, portarono però solo due sacchi di mais, insieme alla notizia della beffa subita. Mentre Salazar e i suoi uomini vagavano in cerca dei Janos, dei Jocome e degli altri ostili, allontanandosi sempre più , gli indiani facevano ritorno a Casas Grandes e la attaccavano il 15 settembre; saccheggiato e devastato il villaggio, rubato il bestiame, gli Spagnoli non avevano però avuto vittime essendosi barricati nella chiesa, dove però non avevano trovato posto molti indiani fedeli, che erano le uniche vittime dell’attacco. Il 28 settembre Salazar, de la Fuente e Roque Madrid erano a Casas Grandes, da cui inviarono scout indiani alla ricerca di tracce dei ribelli; qui furono raggiunti da altri venti soldati e da una cinquantina di ausiliari indiani provenienti da Sinaloa sulla costa del Pacifico, e il 30 settembre tutta la piccola armata si mise in viaggio per raggiungere un canion vicino, dove gli ostili erano stati rintracciati. Salazar, con 60 uoimini e alcuni indiani Piro entrò a cavallo nella gola, mentre il grosso delle truppe a piedi risaliva i due versanti del canion per condurre l’attacco dall’alto. Lo scontro si protrasse dal mattino al tramonto, ma gli Spagnoli non riuscirono a piegare la resistenza indiana, anche se non ebbero perdite, ma solo alcune decine di feriti, tra cui Roque Madrid, a riprova che l’armamento degli indiani doveva essere inadeguato. Con gli indiani intrappolati, i comandanti spagnoli decisero di richiedere altri rinforzi e condurre un nuovo attacco a colpo sicuro; nel giro di due settimane da Sonora e da El Paso giungevano, armi, munizioni e rifornimenti, insieme a oltre 300 indiani alleati; gli ostili intanto erano riusciti a ritirarsi nell’interno, raggiungendo una sierra meglio difendibile, ma non avevano potuto far perdere le tracce. Alla metà di ottobre gli Spagnoli lanciarono un nuovo attacco, ancora una volta la battaglia duro una giornata intera, ma questa volta il successo spagnolo fu inequivocabile; un gran numero di capi e guerrieri uccisi, centinaia di donne e bambini presi prigionieri, recuperato una gran quantità di bottino razziato, merci, addobbi sacri, bestiame. Dopo questa grave sconfitta, la ribellione degli indiani iniziò ad esaurirsi: ridotti alla fame e braccati, alla vigilia di un duro inverno, anche la discordia iniziò a serpeggiare, a cominciare dai Manso cristiani, che accusavano i Suma di essere i responsabili di tutti i loro guai; dalla metà di ottobre a piccoli gruppi gli indiani iniziarono ad arrendersi, ma la guerra si protrasse ancora fino alla fine dell’anno, anche se in autunno Jironza ebbe il tempo di fare un poco convinto tentativo di riprendere Santa Fè. I problemi intorno a El Paso rimanevano prioritari, e in quello stesso novembre un reparto di 25 uomini in viaggio per portare dispacci a Citta del Messico, fu attaccato nella località di Los Petitos, ebbe otto feriti e fu costretto a far ritorno a El Paso; il governatore Jironza uscì con Roque Madrid, individuò la rancheria degli ostili, l’attaccò facendo molte vittime e prendendo prigionieri donne e bambini; i pochi fuggitivi furono catturati da Ramirez de Salazar, anche lui in campagna. L’ultimo colpo ai ribelli lo assestò Salazar l’11 dicembre, quando gli fu segnalata la presenza di una rancheria di ostili nella località di Ojo Caliente: con dodici soldati, una ventina di “vaqueros” dei vicini ranchos e un centinaio di indiani fedeli, attaccò la rancheria, ottenendo la resa degli indiani e garantendo loro il permesso di tornare a vivere nelle loro missioni. All’inizio del 1685 la regione tra Casas Grandes ed El Paso era stata liberata dagli indiani ostili, e quelli che ancora non si erano arresi si nascondevano fra i monti al confine con Sonora.

La fine della rivolta La rivolta degli indiani intorno a El Paso e Casas Grandes era durata meno di otto mesi, ma aveva prodotto significativi danni economici; durante il periodo del conflitto e fino alla primavera del 1685, i campi intorno agli insediamenti spagnoli, già provati dalla siccità, erano stati in gran parte abbandonati, sia per timore degli attacchi indiani, sia perché molti uomini erano costantemente impegnati nelle varie campagne militari. Durante questo breve periodo, secondo stime del tempo, gli indiani avevano razziato circa 2.000 tra muli e cavalli e 2.000 capi di altro bestiame. C’erano poi nove missioni bruciate o abbandonate, Casas Grandes e un altro piccolo villaggio distrutto, le merci rubate e infine gli oggetti sacri, spesso in metalli preziosi di valore. Durante questo periodo le condizioni della popolazione spagnola erano ad un punto tale che in molti desideravano abbandonare la regione, e una petizione in tal senso fu inviata al governatore Jironza de Cruzate che si oppose decisamente. Comunque all’inizio del 1685 la rivolta era stata domata e gran parte degli indiani si erano arresi, anche se ancora nella primavera del 1685 a sud di Casas Grandes un gruppo di ostili Janos, Jocome e Suma, condusse un attacco distrggendo una missione. La ribellione nel frattempo aveva raggiunto le terre a est, fino alla regione di La Junta e il 25 novembre del 1685 il governato Jironza lasciò El Paso con 70 sol-


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dati e un centinaio di indiani, discese il Rio Grande e l’8 dicembre trovò un grande accampamento di indiani Suma, Concho, Julime (che vivevano a La Junta), molti dei quali furono uccisi in combattimento, altri presi prigionieri e impiccati. Pochi mesi dopo anche quelli sfuggiti alla cattura chiesero la pace e si arresero, e anche a La Junta la rivolta fu domata. Le violenze e la minaccia di razzie non finirono però del tutto: gli Apache Mescalero sempre imprendibili continuarono a molestare gli insediamenti, e altri gruppi di ribelli, per lo più Suma, Janos e Jocome, piuttosto che arrendersi avevano preferito cercare rifugio tra le gole della Sierra Madre o sulla Sierra Florida (Monti Chiricahua). Contro i Mescalero che avevano la loro base sui monti Hueco, nell’ottobre del 1685 fu inviato ben due volte, il capitano Felipe de La Serna, che distrusse due rancherias. Dalla Sierra Madre e dalla Sierra Florida, regioni aspre e poco conosciute, piccoli gruppi di razziatori negli anni successivi, continuarono a rubare bestiame, ad attaccare piccoli convogli, a predare gli indiani delle missioni, mantenendo una condizione di insicurezza in tutta la regione, dalla valle del Concho, fino a Sinaloa e alla costa del Pacifico. Per contrastare questi ultimi ostili fu stabilito nel 1686 il presidio di San Antonio de Casas Grandes, poi trasferito con il nome di Presidio de San Felipe e Santiago, nel villaggio di Janos, più vicino alle zone frequentate dai predoni. Ancora nel 1688 in seguito a una razzia condotta da predoni Janos, Jocome, Suma e Chinarra nella valle di Teuricachi, il capitano del presidio di Sinaloa, Nicolaas de Higueras con i suoi uomini e un gruppo di mercenari Tepoca (Seri), si mise in campagna risalendo le gole della Sierra Madre, spingendosi fin sul rio Bagoachi, nelle terre degli Opata, che accusarono i vicini Pima di offrire rifugio ai ribelli . Giunto alla rancheria di Mototicachi, a nord di Arizpe, abitata da indiani Sobaipuri, affini ai Pima, Higueras non trovando adeguata collaborazione da parte degli abitanti del villaggio, ne fece uccidere sette, accusandoli di essere spie dei razziatori. Quando i Sobai puri tentarono di reagire ne furono uccisi altri quarantadue, e tutte le donne e i bambini furono riportati a Sinaloa in schiavitù. A quel tempo i gesuiti stavano ottenendo successi nella conversione degli indiani della regione, tra i Nebome (Pima Bajo), gli Opata e stavano allargando la loro azione a nord verso il fiume Gila e le terre dei Pima; il massacro compiuto da Higueras, rischiava di mandare in fumo il loro lavoro, così riuscirono a mandare sotto processo Higueras, che inizialmente condannato a morte per l’inutile massacro di indiani amici, alla fine fu solo degradato. Il massacro di Mototicachi, aprì un periodo di sospetti e tensioni con i Pima, che si protrasse negli anni fino al 1695, quando anche questa pacifica tribù di contadini tentò una breve ribellione. Nel corso degli anni ’90 le notizie sui Suma, i Janos e i Jocome si riducono progressivamente, ma non le razzie e le violenze nella regione, la cui responsabilità viene sempre però più spesso attribuita agli Apache. Nei due secoli successivi, le bande meridionali degli Apache Chiricahua (Bedonkoe, Nde-ndahe) si insediarono stabilmente nella regione, e quasi certamente assorbirono gli ultimi ribelli; se come ipotizzato Janos e Jocome parlavano anch’essi una lingua Atapaskan l’assimilazione sarebbe stata semplice. Con l’arrivo dei terribili Apache un gran numero di tribù di agricoltori sedentari (Nebome, Opata, Pima e infine anche i Tarahumara) preferirono accettare la sottomissione agli Spagnoli e ai missionari pur di ottenere da loro alleanza e protezione contro i nomadi. Tutta la regione comunque rimase selvaggia e senza autorità, e ancora nei primi anni del ‘900 era segnalata l’attività di razziatori Apache. Nella zona di El Paso, ancora nel 1691 Jironza dovette intervenire, rinunciando ai progetti di conquista di Santa Fè, per una nuova rivolta dei Manso e dei Suma che si erano arresi pochi anni prima; il 2 novembre del 1691 Jironza attaccò i rivoltosi, prese prigionieri donne e bambini, e la ribellione fu sedata. Dopo quest’ultima tensione, all’inizio degli anni ’90 vennero istituite nuove missioni, e negli anni successivi queste tribù scompaiono dalla storia, mescolandosi agli indiani Tiwa e Piro che vivevano nei villaggi lungo il Rio Grande. A quel tempo Diego de Vargas era riuscito nell’impresa di riconquistare Santa Fè, e centinaia di Spagnoli avevano abbandonato El Paso per tornare a nord, nella terra dei Pueblo di nuovo sottomessi. Con la partenza di tanti Spagnoli, molte ragioni di tensione vennero meno e i missionari poterono riprendere il loro lavoro, con la sola preoccupazione degli Apache Mescalero, che da nord erano una costante minaccia. Così la regione di El Paso, come altre zone del nord del Messico diveniva sede di quel processo di meticciamento che diede vita al popolo messicano, in cui l’elemento indiano ed europeo tendevano a fondersi, anche unificati dalla comune necessità di difendersi dai nemici Apache, che rimasero una minaccia ancora per quasi due secoli. Comunque ancora intorno alla fine dell’800, una dozzina di famiglie che vivevano fra i Tiwa, si consideravano discendenti dei Manso, anche se nulla era rimasto della loro lingua. La rivolta, placata nella regione di El Paso, intanto si era estesa e ci vollero anni perché fosse definitivamente domata.


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L’ultima guerra dei nomadi del Bolson de Mapimi La Rivolta dei Pueblo del 1680 e ancor più la ribellione iniziata dalle tribù della zona di El Paso e poi estesasi lungo gran parte della frontiera settentrionale, aveva reso chiaro che le poche e disorganizzate forze militari presenti nel nord del Messico, non rappresentavano una garanzia di sicurezza per i coloni e soprattutto per le loro attività economiche. Fino al 1680 pochi presidi militari esistevano lungo la frontiera settentrionale: il più importante e antico era quello di El Fuerte, in Sinaloa sulla costa del Pacifico, poi altri reparti di poche decine di uomini erano presenti a Parral e a Durango, un piccolo presidio era quello di Santa Catalina, I presidi militari spagnoli nel nord del Messico alla fine del ‘600 nella valle di Papigoche presso gli indiani Tepehuan, quindi il presidio di Cerro Gordo lungo la via tra la capitale e Parral, e solo nel 1675 un altro presidio era stato costituito a Monclova in Coahuilla; oltre a queste piccole guarnigioni una “compagnia volante” con base a Santa Barbara nei pressi di Parral, che veniva impegnata in scorte e pattugliamenti nella regione mineraria, costituivano tutta la presenza militare nel nord del Messico, a cui si aggiungeva l’arruolamento di volontari civili e soprattutto di indiani cristiani, in occasione di campagne militari. Le cose iniziarono a cambiare nel corso degli anni ’80, prima con la fondazione del presidio di El Paso nel 1683, poi con un piano più vasto quando la sollevazione degli indiani si estese a sud del Rio Grande. Nel 1684 la rivolta dei Suma e dei Manso fece da detonatore a quella dei Concho, che durante l’estate distrussero le missioni di San Francisco de Concho e Nombre de Dios, assalirono ranchos e uccisero alcuni bianchi; la rivolta fu presto sedata, anche se molti Concho fuggirono sui monti, verso le terre dei Tarahumara o si unirono ai nomadi del Bolson de Mapimi. Fu però a quel punto che Madrid si decise a finanziare un piano di riorganizzazione che portò alla costruzione di presidi militari nei punti strategici, per il controllo degli indiani delle missioni e dei popoli nomadi. Sul confine meridionale del deserto del Bolson de Mapimi, nel 1685 furono stabiliti i presidi de La Purisima Conception del Passaje, nel villaggio di Cuencamè e quello di San Pedro del Gallo, a nord del fiume Nazca; sul confine occidentale del Bolson de Mapimi, un altro presidio fu stabilito quello stesso anno presso la missione di San Francisco de Concho. Il compito di questi presidi era quello di proteggere i convogli, le missioni e i villaggi, dalle diverse bande nomadi del Bolson de Mapimi; in aggiunta essi dovevano controllare gli indiani sottomessi e intervenire in caso di ribellione, specialmente per i Concho e i Tarahumara, presso cui l’attività dei missionari era più recente. Più a nord a Casas Grandes l’anno successivo fu stabilito il presidio di San Antonio, per controllare il versante orientale della Sierra Madre e i monti del New Mexico, abitati dagli Apache Chiricahua e da bande ostili di Janos, Jocome e Suma; nel 1690 il presidio, ora intitolato a San Felipe y Santiago, fu trasferito a Janos, per essere più vicino alle zone di operazione. All’inizio degli anni ’90 i problemi con gli indiani si estesero anche alla regione di Sonora, dove per anni i missionari avevano operato senza problemi di sicurezza, e nel 1692 fu fondato il presidio La Frontera nell’angolo nord-orientale della regione.


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I deserto del Bolson de Mapimi

I presidi avevano guarnigioni che variavano da un minimo di otto uomini, come a Santa Catalina, a un massimo di cinquanta, nelle regioni più esposte, per un totale di poco più di 400 uomini; una forza irrilevante per una frontiera che si estendeva dall’Atlantico al Pacifico per oltre un migliaio di chilometri; al tempo stesso un impegno notevole, per la difesa di meno di un migliaio di famiglie spagnole, che era il totale della popolazione bianca del Nord del Messico. Quanto alla difesa degli indiani cristiani, di cui pure l’esercito avrebbe dovuto occuparsi, questi in buona misura facevano da se, difendendo i propri villaggi e costituendo le truppe ausiliare nelle campagne offensive condotte dagli Spagnoli. Dopo la cacciata degli indiani ribelli dalla zona di El Paso e la loro fuga sui monti, il pericolo maggiore era rappresentato dai nomadi del Bolson de Mapimi, indiani che gli Spagnoli consideravano a livello degli animali, per la povera vita che conducevano, in un deserto in cui le poche risorse idriche a volte si riducevano a pozze di acqua salmastra o di acqua piovana. Divisi in una quantità di bande, spesso in lotta fra loro, pronti a far la pace con gli Spagnoli ogni volta che erano in condizioni di debolezza, e ad attaccarli e derubarli ogni volta che se ne presentava l’occasione, refrattari alla vita delle missioni, in cui però non si facevano scrupolo di presentarsi quando erano ridotti alla fame, salvo poi fuggire rubando cavalli e bestiame; astuti e capaci di resistere a condizioni estreme, non solo conoscevano perfettamente il deserto in cui vivevano, ma attraverso una rete di spie e infiltrati, erano sempre a conoscenza su dove colpire era più semplice e remunerativo. Con i nomi con cui sono ricordati, Toboso, Cabeza, Salinero, Gocoyome, Chizo, Acloclones, Tripas Blancas, Babozorigame, Sisimble, Gavilan ecc., che a volte compaiono per un breve periodo per non essere mai più menzionati, questi indiani si erano opposti agli Spagnoli, rubando bestiame, attaccando convogli e distruggendo missioni, fin dal tempo dei primi contatti, alla fine del ‘500; poi dopo decenni di guerra, le malattie, il numero dei loro nemici e le stesse divisioni interne, dal 1670 avevano indotto alcuni gruppi a venire a patti con gli Spagnoli, altri a ritirarsi nei loro deserti e rinunciare per qualche tempo alle razzie. Quando il fuoco della rivolta appiccato dai Pueblo a Santa Fè discese il Rio Grande, e passando per El Paso, la Junta e la valle del Concho, raggiunse i loro deserti, questi nomadi benchè ormai meno numerosi e indeboliti, non mancarono all’appello. E’ difficile ricostruire le vicende di questa guerra, fatta di violenti attacchi ai convogli e alle missioni condotti abitualmente da piccole bande, e fughe degli indiani nei loro inaccessibili deserti, seguiti poi dalle spedizioni spagnole che quasi sempre inutilmente si ponevano all’inseguimento. Sappiamo che le ostilità ripresero nel 1685, con l’assalto a presidio di Cerro Gordo, dove molti soldati furono feriti e tutti i cavalli rubati, poi si estesero lungo alla regione mineraria di Parral e Santa Barbara, fino agli insediamenti minerari nel sud del Bolsom de Mapimi; in uno solo di questi attacchi, ad un convoglio che viaggiava dal Presidio di San Pedro del Gallo a quello di Cerro Gordo, furono uccisi quattordici soldati; un gran numero di donne e bambini vennero rapiti, e quanto al bestiame esso era il primo obbiettivo degli indiani, che con la razzia sostituivano la scarsità di selvaggina nelle loro terre. La sollevazione coinvolse anche gruppi di nomadi che negli anni precedenti erano stati convinti ad adattarsi a vivere in pace e farsi cristiani; molti di loro fuggirono per unirsi ai ribelli, altri agirono come spie per loro conto, ma nel complesso il sistema delle missioni tenne più che negli anni precedenti, e gli indiani cristiani furono arruolati spesso per combattere contro la loro stessa tribù di provenienza. Tra gli ostili emergono alcune figure di capi più autorevoli e fra questi Francisco Telocote dei Toboso, che possedeva un bastone d’argento che simboleggiava la sua utorità; nel 1687 Telocote organizzò un grande raduno nella valle di San Pedro, nell’est del Bolsom de Mapimi, a cui parteciparono una quantità


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di bande, i Toboso, i Chizo, Cabezas, Salinero, Gavilan, Gocoyome, Xiximbles ecc…, in cu fu stabilito l’obbiettivo di attaccare tutti i convogli che trasportavano merci e rifornimenti per le miniere e i presidi. Qualche tempo dopo questa decisione, come già era accaduto molte volte, il capo dei Cabezas accettò di trattare una pace separata a Parral, unendosi agli indiani delle missioni; l’anno successivo in un nuovo raduni dei ribelli, Telocote organizzò una danza, che era un impegno per tutti a colpire e punire i Cabezas traditori. La cosa probabilmente non ebbe seguito, perchè dopo un anno di vita nella missione, i Cabezas fuggirono portandosi via il bestiame. Comunque prima della fine defli anni ’80, lo stesso Telocote, che nel conflitto aveva perso i famigliari, si convinse ad arrendersi. La risposta Spagnola ai nomadi, oltre che nella reazione difensiva agli attacchi dei predoni, furono una serie di campagne militari, decise tra il 1687 e il 1693 dal governatore della Nueva Vizaca Isidro de Pardenas, che ogni anno si mettevano in caccia alla fine dell’estate per individuare le rancherias dei ribelli, quando gli indiani si preparavano a svernare in località riparate. Con l’aiuto di scout indiani queste campagne spesso avevano un qualche successo, uccidevano qualche guerriero, facevano prigionieri che finivano schiavi, specialmente donne e bambini, e anche se non bastavano mai ad assetare un colpo definitivo agli ostili, alla lunga però ne minava la resistenza. Anche l’azione pacifica dei missionari fu messa in campo e nel 1690, nei pressi di Cuencamè, una missione fu istituita per accogliere i Baborozigame, un gruppo che era tra quelli che avevano avuto maggiori contatti con gli Spagnoli. Tra il 1693 e ’94 una devastante epidemia colpì tutti gli indiani del nord della Nuova Vizcaya, la provincia messicana corrispondente agli attuali stati di Chihuahua, Coahuilla e Durango, e dopo tale evento la minaccia dei nomadi del Bolson de Mapimi si fece meno pressante. Poi a partire dall’inizio del ‘700 piccoli gruppi e comunità superstiti, iniziarono a presentarsi ai presidi e alle missioni spagnole ridotti alla fame, in cerca di cibo e pace, alcuni chiedendo addirittura delle terre da coltivare. Riuniti nelle missioni, gli ultimi superstiti di oltre un secolo di guerra contro gli Spagnoli, vengono ancora menzionati per qualche tempo nei documenti ufficiali dell’epoca, per poi scomparire del tutto prima della metà del ‘700. L’ultima citazione della tribù più importante, quella dei Toboso, è dei primi anni dell’800, e fa riferimento ad un gruppo di indiani cristiani in una missione sulle coste del Texas; non è chiaro se questi Toboso si fossero spostati dalle loro terre alle regioni costiere, e lì siano entrati in una missione, o se il trasferimento fu conseguenza dello spostamento da una missione all’altra. Dopo il 1820 anche i Toboso, come le altre bande di nomadi del Bolson de Mapimi, scompaiono definitivamente dalla storia, e di loro si perde anche il ricordo. Gli Spagnoli avevano vinto la guerra contro i nomadi che abitavano il deserto del Bolson de Mapimi, ma non riuscirono a vincere la guerra contro il deserto stesso, che rimase una fonte di insicurezza per tutta la regione; quasi disabitato, inadatto alla colonizzazione e non attraente per le risorse minerarie, esso rimase un corridoio che apriva la via ai predoni, che da nord portavano incursioni fin nel cuore del Messico. Prima gli Apache Mescalero e Lipan, con cui certamente si fusero i pochi superstiti degli originari abitanti, poi dai primi decenni dell’800 i Comanche, che del Bolson de Mapimi fecero la loro base, per incursioni che giungevano fino a sud di Durango, da Jalisco a San Luis Potosì.

I Tarahumara in guerra L’evento più rilevante e prolungato nel tempo, legato alla Grande Rivolta del Nord, fu certamente la ribellione dei Tarahumara, un popolo che viveva in disperse rancherias agricole nelle valli della Sierra Madre Occidentale, dalle regioni a nord del distretto minerario di Parral e Santa Barbara, fino alle sorgenti del fiume Yaqui. Pur essendo un popolo agricolo, il loro modello di stanziamento prevedeva piccoli trasferimenti stagionali, per sfruttare tanto le risorse dei campi, quanto la caccia e altre attività; questo stile di vita li rendeva più impermeabili all’attività dei missionari, che tendevano invece a fondare missioni presso villaggi dove gli indiani risiedevano stabilmente ed erano controllabili. I Tarahumara avevano incontrato gli Spagnoli nei primi decenni del ’600, quando questi erano giunti per sfruttare i grandi giacimenti d’argento, proprio al confine fra le terre abitate da loro e quelle dei loro vicini meridionali Tepehuan; l’incontro non era stato cordiale, i Tarahumara si erano mostrati ostili all’azione dei missionari e ovviamente refrattari all’imposizione del lavoro servile, e solo dopo un sanguinoso conflitto alla metà del ‘600, missioni e insediamenti spagnoli iniziarono a punteggiare la parte meridionale delle montagne dei Tarahumara, mentre parte della tribù veniva convertita al cattolicesimo e sottomessa. Tanto l’attività missionaria che l’autorità civile e militare spagnola, avanzavano insieme alle scoperte minerarie, dato che le montuose terre dei Tarahumara erano di scarso interesse per l’agricoltura e l’al-


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levamento, così la parte settentrionale del loro territorio rimase ancora per lungo tempo libera dall’influenza europea e i Tarahumara ci vivevano in pace e indipendenti; probabilmente il fuoco della rivolta che incendiava la regione dal Rio Grande al Bolson de Mapimi, non avrebbe coinvolto i Tarahumara se nel frattempo le condizioni nella loro terra non fossero cambiate, proprio all’inizio degli anni ’80. Già nel corso degli anni ’70 i missionari gesuiti avevano tentato di estendere la loro attività tra i Tarahumara del nord, ottenendo anche numerose conversioni e aprendo nuove missioni, grazie anche all’aiuto dei Tarahumara già convertiti; senza la presenza di coloni e l’arrivo di autorità civili e militari ad imporre lavoro e tributi, non vi erano state tensioni. All’inizio degli anni ’80 però l’estrazione d’argento nella zona di Parral iniziò ad avere qualche difficoltà: dopo decenni di sfruttamento le miniere necessitavano di un utilizzo più razionale, di investimenti, e in più il prezzo del mercurio, necessario alla lavorazione del minerale estratto era cresciuto, riducendo così i profitti dei proprietari. Così piuttosto che investimenti e innovazione tecnologica, la soluzione fu trovata nella ricerca di nuovi giacimento d’argento ancora non sfruttati. La ricerca diede esito positivo nel 1687, con la scoperta di un nuovo giacimento nella località di Coyachic, a nord-est della missione di San Bernabè; puntualmente sette missionari, accompagnati da Tarahumara convertiti, l’anno successivo facevano la loro comparsa tra i Tarahumara ancora liberi, nel cuore del territorio tribale. Il nuovo governatore della Nueva Vizcaya Isidro de Pardinas, che aveva assunto l’incarico quello stesso anno, diffidava dell’attività dei gesuiti, che con il loro rigore religioso potevano rappresentare una ulteriore ragione di dissidio con gli indiani, e avrebbe voluto che fossero ufficiali civili a controllarli e a obbligarli al lavoro servile, senza interferire nelle loro abitudini religiose; il risultato fu che nel conflitto tra clero e funzionari civili, gli indiani furono ancor più pressati, mentre l’apertura delle miniere attirava commercianti e hacienderos per il rifornimento di merci e derrate. Nel giro di poco più di un anno, i missionari iniziarono a cogliere i primi segni dei guai che erano in arrivo. La tradizionale indifferenza dei Tarahumara per gli insegnamenti dei missionari, si trasformava in sfida aperta, minacce e occasionalmente aggressioni; il bestiame che in gran numero i gesuiti avevano trasferito dalle già stabili e consolidate missioni di Sonora, per cercare di attrarre i Tarahumara, era sempre più spesso oggetto di furti. Nell’autunno del 1689 Ignacio Osebaca, capo della comunità di Cocomarichic, insieme altri sei capi iniziò a organizzare la rivolta e il suo braccio destro era un capo Concho, di nome Soquemac Norà, che assicurava il sostegno delle bande Concho occidentali, fra cui vi erano anche ribelli in fuga dalla sollevazione di tre anni prima; anche fra gli Jova, una piccola tribù affine agli Opata, la ribellione attirò molti consensi. L’inverno passò in un clima di tensione, poi in marzo accadde l’incidente che fece saltare il coperchio della pentola già in ebollizione. Nella zona di Yepomera il missionario frate Ortiz, aveva assoldato un gruppo di Concho per alcuni lavori di irrigazione, ma quando il lavoro era concluso, non li aveva pagati; gli indiani se ne andarono rubando due muli, ma il missionario mise sulle loro tracce un gruppo di Tarahumara convertiti, che catturarono i Concho, inviati poi all’autorità civile per la punizione, mentre le donne e i bambini venivano trattenuti alla missione. Uno dei Concho riuscì però a fuggire, raggiunse il villaggio di Naguerachi, dove erano presenti molti indiani ostili, che all’inizio di aprile attaccarono Yepomera e uccisero frate Ortiz e altri due bianchi. All’arrivo dei ribelli, almeno metà degli indiani presenti nella missione si erano uniti a loro. Il primo sangue versato fu il segnale, e nelle settimane successive oltre un migliaio di guerrieri Tarahumara, Concho, Jova, insieme a ribelli in fuga da altre missioni, divisi in bande e senza coordinamento, si diedero a razziare il bestiame e ad attaccare i bianchi ogni volta che potevano. Le missioni di Temosachic, Naguerachi e Sirupa furono attaccate, i due missionari gesuiti di Cahurichic e Tomochic, avvertiti, riuscirono a fuggire in tempo, e anche lì gli indiani distrussero gli edifici. In maggio arrivò la risposta spagnola, quando il governatore Pardinas inviò il capitano Fernandez de Retana, comandante del presidio di San Francisco de Concho a punire i ribelli, con cinquanta soldati 200 indiani fedeli. Retana entrò nel cuore del territorio Tarahumara e pose la sua base nella località di Papigochic, e di li si diede a rastrellare l’area circostante, distruggendo i campi dei Tarahumara. All’inizio di giugno uno scontro avvenne con una grossa banda di ribelli guidati dal capo Osebaca, che rimase ucciso; gli indiani si diedero alla fuga e si dispersero. Durante l’estate lo stesso governatore Pardenas giunse nella regione, con una forza di 200 soldati, gran parte delle forze militari presenti nel nord del Messico, e diverse centinaia di indiani cristiani, stabilendosi a Yeporema, dove la guerra era iniziata. Gli Spagnoli occuparono militarmente la regione, mentre i ribelli si nascondevano fra i monti, poi contro la volontà dei gesuiti che chiedevano la punizione dei ribelli, Pardinas offrì il perdono a tutti coloro che si fossero arresi prima dello scadere di un ultimatum.


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Dopo la morte di Osebaca, la demoralizzazione aveva colpito gli indiani che in tanti accettarono l’offerta di Pardenas; pochi irriiducibili rimasero a nascondersi tra i monti e nei mesi successivi sulla piazza di Papigoche vi furono molte esecuzioni, di quanti furono presi dopo l’ultimatum, a ricordare agli indiani come finivano coloro che osavano opporsi agli Spagnoli. La repressione aveva fermato la ribellione, ma molti indiani che avevano accettato la resa l’avevano fatto solo per prendere tempo e rimanevano ostili; poi tra il 1693 e ’94, alle vessazioni dei missionari e alla imposizione del lavoro, si agIl teatro della rivolta dei Tarahumara giunse anche una annata di siccità e scarsi raccolti e infine una epidemia che falcidiò un terzo popolazione del nord della Nueva Vizcaja, colpendo specialmente gli indiani riuniti nella missioni; la riduzione della popolazione, rese le richieste di forza lavoro ancora più insostenibili, mentre le risorse per alimentari gli indiani obbligati al lavoro si facevano ancora più scarse. Nella primavera del 1696, il responsabile delle missioni gesuite padre Joseph Neuman, allarmato per le informazioni su una nuova rivolta in preparazione, chiese al nuovo governatore Gabriel del Castillo, l’invio di militari nella regione per una azione preventiva, e ancora una volta Fernandez de Retana, con cinquanta soldati e 200 ausiliari indiani, occupò Papigoche e Yeporama; i maggiori sospetti ovviamente erano contro gli indiani che avevano partecipato alla ribellione del 1690, e de Retana si diede subito a compiere arresti, a condurre indagini, comminare condanne ed esecuzioni. Tutti coloro che temevano di essere vittime della repressione, abbandonarono quindi i villaggi e nel corso dell’estate una grande concentrazione di indiani si riunì sulla Sierra de Sirupa, per sfuggire alla prigione; qui però furono attaccati da de Retana, e costretti a fuggire, perdendo gran parte del loro bestiame. Durante l’inverno Retana, con l’aiuto degli scout indiani, continuò a a cercare i ribelli, divisi in piccole bande, e in marzo ne aveva catturati sessanta; 30 furono giustiziati e le loro teste impalate, furono poste lungo la strada che portava a Yeporama. Dopo questa esecuzione di massa, gli indiani che fino a quel momento avevano solo cercato di sfuggire alla cattura, reagirono con violenza, e durante il mese di aprile diverse centinaia di Tarahumara e di Jova, distrussero e saccheggiarono le missioni di Tomochic e Mesachic, e prima della fine del mese altre sette missioni erano evacuate e distrutte. In pochi giorni la rivolta si estese ai gruppi più settentrionali dei Tarahumara, e attraverso di essi si collegò alla guerriglia che ancora continuava sui monti lungo a frontiera del nord, dove gruppi di Janos, Jocome, Concho e in generale di fuggitivi dalle missioni, continuavano a rifiutare la resa e a mantenersi ostili. Molti ribelli si unirono sotto la guida del capo dei Concho Puzilegi, accusato di una serie di attacchi a ranchos e insediamenti sulla frontiera settentrionale. Durante il mese di giugno, oltre un migliaio di ribelli avanzarono nella regione di Papigochi, dove Retana aveva posto la sua base e un primo scontro si ebbe nella località, di Echoquita, poi gli indiani puntarono su Sisoghichic, dove aveva sede il responsabile delle missioni gesuite padre Joseph Neuman. De Retana però giunse anch’egli sul posto e nella battaglia che ne seguì, gli indiani ebbero molte perdite e si diedero alla fuga. Durante l’estate i ribelli trovarono rifugio sulla Sierra Madre Occidentale, lungo il confine con Sonora,


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e da lì continuarono a lanciare attacchi contro missioni, miniere, ranchos e convogli fino all’anno successivo; in quella zona, che rimase a lungo fuori controllo, la guerriglia endemica fu negli anni assorbita dagli Apache Chiricahua, che nell’800 ne fecero la loro ultima fortezza. Gli Spagnoli avevano di fatto cacciato gli ostili dalle terre dei Tarahumara, ma non erano riusciti a eliminarne la minaccia, anche se mese dopo mese le file dei ribelli si assottigliavano sempre di più; all’inizio del 1698 il capo Puzilegi era stato catturato e giustiziato, mentre tutti i ribelli catturati che non venivano immediatamente uccisi, venivano deportati fuori dal territorio Tarahumara. Nel giugno di 1698 un gruppo di Tarahumara deportati a San Francisco de Concho, tentò di fuggire e far ritorno nella loro terra, ma furono catturati e diciassette di loro giustiziati. La rivolta dei Tarahumara era costata circa 400 vittime, tra bianchi e indiani cristiani oltre ai costi economici per le campagne militari e le depredazioni e i saccheggi subiti, ma prima della fine del secolo era conclusa; da allora i Tarahumara non si ribellarono più all’autorità spagnola. D’altra parte sui loro monti i Tarahumara riuscirono comunque a sopravvivere con la propria identità, e nelle zone più interne e impervie del loro territorio, il controllo dei bianchi non arrivava; nel secolo successivo lo sforzo missionario, prima dei gesuiti, poi dei francescani non diede grandi risultati, e prima della fine del ‘700 molte missioni chiusero, anche se l’influenza che esse esercitarono sono evidenti nelle credenze dei Tarahumara, in cui elementi cristiani si mescolano alla struttura tradizionale. I Tarahumara furono poi impegnati principalmente contro gli Apache, sia da soli che come ausiliari degli Spagnoli. Nel 1892 il tentativo del dittatore Porfirio Diaz di portare la regione sotto il controllo amministrativo e militare centrale, l’arrivo della ferrovia e dell’industria americana del legname, causarono la Rivolta di Tomochic, un conflitto che vide le comunità rurali Tarahumara, prendere ancora una volta le armi, in uno dei primi e più salienti eventi della storia della rivoluzione messicana.

La “Pimeria Alta” Gli alti crinali della Sierra Madre Occidentale, fino alle sue propaggini verso il confine con l’Arizona, rappresentarono la linea di divisione tra due diversi modelli del dominio spagnolo nel Nord del Messico; a est della catena montuosa, il principale interesse spagnolo era per i giacimenti minerari, in particolare d’argento, e l’impegno dei missionari, pur tra conflitti e dispute, avanzava insieme alle nuove miniere e al tessuto economico che intorno ad esse si produceva; a ovest invece, in assenza di ricche risorse minerarie, furono i missionari gesuiti i protagonisti dell’avanzata spagnola, e ciò diede luogo a minori tensioni e conflitti, essendo minori le presenze di coloni europei e soprattutto non essendoci la pressante richiesta di manodopera da impiegare nelle miniere. La Grande Rivolta del Nord di fatto non superò i monti della Sierra Madre Occidentale, e a ovest di essa le tribù locali, Opata, Nebome (Pima Bajo), Yaqui ecc… si mantennero in pace; nella zona di confine tra queste due aree si colloca la vicenda deigl O’odham, conosciuti storicamente con il nome generico di Pima, un insieme di tribù affini (Pima, Papago, Sobaipuri, Quahatika), che vivevano nella regione del medio corso del Gila, lungo i suoi affluenti meridionali, fino alle pendici della Sierra Madre Occidentale. Era questa la “Pimeria Alta”, per differenziarla dalla “Pimeria Baja”, che si estendeva lungo il versante occidentale della Sierra Madre, dove da tempo i missionari gesuiti operavano con successo Gli O’odham erano un popolo di lingua Uto-Aztecan, affine alle tribù agricole del Messico nord-occidentale, eredi della tradizione culturale dei popoli Hohocam, nota per i grandi lavori di irrigazione delle aride terre in cui vivevano. Pochi secoli prima della scoperta dell’America la tradizione culturale Hohocam era andata in crisi, i grandi centri rituali erano stati abbandonati, il lavoro di costante manutenzione dei canali di irrigazione era venuto meno, ma i Pima rimanevano un popolo di agricoltori sedentari, anche se la loro società era meno coesa e le condizioni di vita più precarie. Pare che al tempo del contatto ci fossero tensioni tra i Sobaipuri, che occupavano il sud-est della Pimeria Alta e gli altri gruppi O’odham, e che essi mantenessero relazioni pacifiche e di scambio con le tribù nomadi che vivevano più a est, i Janos, i Jocome e probabilmente anche gli Apache; sia i Pima che i Sobaipuri avevano ragioni di conflitto con gli Opata che vivevano a sud. Vivendo sul limite settentrionale dei possedimenti spagnoli in Messico, le tribù della Pimeria Alta non furono coinvolti dall’avanzata della colonizzazione fino all’inizio degli anni ’80 del ‘600, quando a ovest della Sierra Madre i missionari si erano già saldamente stabiliti tra i vicini Opata e Nebome, mentre a est della catena, altri loro vicini, i Janos, i Jocome, gli Apache erano impegnati in una dura guerra contro gli Spagnoli. E’ probabile quindi che l’esperienza dei vicini e affini Nebome, e degli stessi nemici Opata,


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che avevano accolto i missionari con scarsa resistenza e alla fine con qualche soddisfazione, e quella dei nomadi Janos e Jocome di cui erano alleati, che invece i missionari li uccidevano, abbia reso difficile a queste comunità decidere quale atteggiamento assumere. La condizione era particolarmente difficile per i Sobaipuri, vicini degli Opata, con più stretti rapporti con i nomadi, e che avevano anche rapporti difficili con gli affini Pima; così se tra i Pima che vivevano più vicini ai Nebome, c’erano capi interessati a conoscere e incontrare i missionari che vivevano fra di loro, i Sobaipuiri diffidavano dei missionari che operavano tra i nemici Opata. In aggiunta i Sobaipuri avevano accolto sulle loro terre molti Janos e Jocome, che dopo la sconfitta della rivolta nella zona di El Paso nel 1685, si erano dati alla macchia; nel 1686 un capo Pima (più probabilmente Sobaipuri) soprannominato Canito, confessò che la sua gente istigava i Jocome, i Janos e i Suma, ad attaccare tanto i cristiani che gli Opata. Dal canto loro gli Opata si vendicarono nel 1688, accusando i Sobaipuri di essere in combutta con i ribelli Janos e Jocome che avevano attaccato la valle di Teuiricachi; il comandante Nicolas de Higuera, che da Sinaloa si era messo in caccia dei ribelli, fu così inviato al villaggio Sobaipuri di Mototicachi, dove non trovando collaborazione nella ricerca dei predoni, compì un massacro e prese decine di prigionieri. Per questa azione contro indiani pacifici, i gesuiti riuscirono ad inviare Higueras a processo, dove fu condannato a morte, sentenza mai eseguita e sostituita con una incruenta degradazione. La notizia del massacro di Mototicachi comunque sollevò la preoccupazione degli indiani della PimeGuerriero Pima ria Alta; il volto benevole dei missionari, apriva il cammino alla manifesta brutalità dei soldati. Malgrado il timore dei soldati, o forse proprio per tutelarsi da loro, nel 1691 dai Pima e dai Sobaipuri dei fiumi San Pedro e Santa Cruz, a sud del fiume Gila, giunsero richieste di contatti ai missionari che operavano tra i Nebome del rio Magdalena. L’anno successivo Ramirez de Salazar, da Casas Grandes si mise in caccia di un gruppo di razziatori Janos e Jocome, fuggiti nelle terre dei Sobaipuri, ma non riuscendo a trovare i razziatori portò con se un gruppo di Sobaipuri, che si incontrarono con il grande missionario ed esploratore padre Eusebio Kino. Questi nel 1687 aveva stabilito la missione di Dolores (presso l’attuale Cucurpe, in Sonora), tra i Nebome al margine della Pimeria Alta; l’anno dopo Kino visitò i Sobaipuri, e nell’autunno del 1694 accompagnò il giovane gesuita Francisco Javier Saeta e lo sostenne nel suo impegno a costruire missioni sul margine meridionale della Pimeria Alta, rifornendolo di bestiame, cibo e di tutto quanto necessitava. La situazione non era comunque semplice: in tutta la regione piccole bande di Janos, Jocome, Suma insieme a gruppi di Apache, lanciavano periodicamente incursioni, e molti Pima continuavano a mantenere rapporti con loro, suscitando il sospetto degli Spagnoli; nel 1694 tre Sobaipuri furono giustiziati dal luogotenente Solis, perchè accusati di aver rubato in una missione la carne che stavano seccando. Nell’autunno del 1694, i Pima collaborarono ad una spedizione dello stesso Solis, contro i Janos, i Jocome e gli Apache, ma ciò non bastò a far calare i sospetti. In aggiunta, i missionari portavano con se collaboratori Opata, con cui i Pima non erano in buoni rapporti. Se a ciò si aggiungono le novità che i missionari imponevano e che destavano sospetti e preoccupazioni, c’erano seri motivi per cui almeno parte dei Pima e dei Sobaipuri fossero maldisposti verso i gesuiti. La situazione esplose il 1 aprile del 1695, quando i Jocome attaccarono la la missione di San Pedro de Tubutama, e approfittando della confusione, e della momentanea assenza del prete, i Sobaipuri uccisero il sovrintendente della missione e altri due indiani cristiani, tutti e tre Opata, accusati di angariare gli indiani. Poi il giorno dopo i Sobaipuri si presentarono alla missione di Caborga, dove risiedeva padre Saeta e l’ammazzarono insieme ai suoi quattro servi. Alle notizie della rivolta, padre Kino tentò subito di organizzare un incontro tra i capi Pima e Sobaipuri e gli Spagnoli per evitare la guerra, ma i suoi sforzi ebbero l’effetto opposto di quello desiderato. Organizzato nella località di El Tupo, a ovest della missione di San Ignacio, l’incontro che doveva portare la pace, si trasformò in una carneficina, durante la quale i soldati spagnoli al comando del luogotenente Solis e accompagnati da mercenari Seri, uccisero una cinquantina di indiani, in gran parte estranei ai


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fatti di sangue. Di fronte all’eccidio i Pima reagirono attaccando e distruggendo le missioni di Tubutama, Caborga, Imuris e San Ygnacio, e gli Spagnoli risposero distruggendo i campi e rastrellando il territorio, uccidendo indiscriminatamente ogni indiano che incontravano. Durante il mese di luglio Fernando de La Fuente, del presidio di Fronteras era in campagna sui monti Chiricahua, dove si incontrò con bande di ribelli Janos e Jocome tentando di convincerli a tornare nelle loro sedi e soprattutto intimando loro di rinunciare alle razzie e a non unirsi agli Apache. I capi Janos e Jocome spiegarono che a luglio non valeva la pena tornare alle missioni per seminare i campi, e che sarebbero rimasti dove erano a raccogliere vegetali selvatici che lì abbondavano. La Fuente dovette rinunciare a condurre azioni contro di loro, perchè richiamato nelle terre dei Pima, dove nel frattempo comunque la rivolta andava scemando. Nata dall’iniziativa di una fazione minoritaria, e alimentatasi principalmente a causa del massacro indiscriminato di El Tupo, la rivolta dei Pima non era una convinta sollevazione di un popolo, che in maggioranza non voleva avere guai con gli Spagnoli e guardava con interesse all’attività dei missionari. Padre Eusebio Kino alla fine riuscì a convincere alcuni leader a consegnare i responsabili degli omicidi a Tubutama e Caborga, che avevano dato l’avvio alle violenze, e prima della fine dell’estate la pace era tornata. In settembre Fernando de La Fuente potè tornare così sui monti Chiricahua, per colpire Janos, Jocome e Apache, una cui rancheria fu attaccata, con decine di perdite fra gli indiani, molte donne e bambini fatti schiavi, e i prigionieri maschi giustiziati; poi una febbre colpì i soldati e alla fine di settembre gli Spagnoli erano tornati ai presidi. Con la fine della rivolta dei Pima, l’attività di padre Kino non ebbe più ostacoli e la tribù venne inserita nel sistema delle missioni, come quelle che vivevano più a sud. In particolare sia i Pima che i Sobaipuri, divennero i principali ausiliari degli Spagnoli, contro gli Apache e altri gruppi nomadi, che continuavano ad essere una minaccia per le missioni. Già nel marzo del 1696, i Pima su unirono Fernando de La Fuente e a Jironza de Cruzate, in una campagna contro gli Apache sui monti Chiricahua, in cui furono uccisi alcune decine di indiani ostili; due anni dopo il 30 marzo del 1698, circa 300 guerrieri Jano, Jocome, Apache, alcuni armati di archibugi, attaccarono all’alba un villaggio Sobaipuri sul fiume San Pedro, prendendo di sorpresa gli abitanti, uccidendone cinque, distruggendo e saccheggiando il villaggio. I predoni avevano chiuso in un recinto gli abitanti presi prigionieri, circa una settantina, e quindi si erano fermati per far festa macellando alcuni buoi e cavalli; nel frattempo il fumo dell’incendio era stato visto da un indiano che si avvicinava al villaggio, che diede l’allarme alle comunità vicine, da cui diverse centinaia di guerrieri Pima giunsero, circondando gli aggressori. Fu a quel punto che il capo dei Janos, sfidò i Pima ad uno scontro tra i dieci migliori guerrieri delle due parti; i Pima accettarono e alla fine della sfida, i campioni Apache, Jano e Jocome erano tutti morti, mentre gli altri fuggivano inseguiti dai Pima. Il giorno dopo i soldati spagnoli venuti a verificare l’accaduto, trovarono una cinquantina di cadaveri dei razziatori nel villaggio, altre decine lungo la via presa dai fuggitivi, e altri ancora morirono in seguito per le ferite delle frecce, le cui punte i Pima usavano avvelenare. Fu una delle più gravi sconfitte subite dagli Apache e da allora fu guerra tra le due tribù, per i due secoli successivi; per gli Spagnoli significava aver trovato alI teatro della rivolta dei Pima del 1695 leati fedeli e efficaci.


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L’Apacheria Tra il 1680, inizio della Grande Rivolta dei Pueblo e la fine del secolo, durante gli anni della Grande Rivolta del Nord, gli Spagnoli si erano dovuti confrontare con una quantità di tribù ribelli: le varie tribù Pueblo per prime, poi i Manso, i Suma, i Janos, i Jocome, gli indiani di La Junta, i Concho, le bande nomadi del Bolson de Mapimi, i Tarahumara, gli Jova, i Sobaipuri, i Pima. Alla fine di questo lungo ciclo di conflitti, gli Spagnoli erano usciti vincitori; gran parte delle tribù coinvolte erano state sottomesse, altre erano addirittura distrutte come autonome entità: questo fu il caso dei Concho, dei vari di gruppi del Bolson de Mapimi e di La Junta, dei Janos, dei Jocome, dei Suma e dei Manso, i cui nomi dai primi anni del ‘700, di fatto iniziano a non essere più menzionati. Si era trattato di un impegno lungo e gravoso, che aveva riguardato un territorio vastissimo, corrispondente a gran parte degli attuali stati messicani di Chihuahua, Coahuilla e Sonora, fino al New Mexico, in zone spesso desertiche, prive di adeguate vie di comunicazioni e ancora parzialmente inesplorate. Lo sforzo era stato sostenuto con una forza complessiva di poche centinaia di soldati, con pochi volontari civili e il sostegno, non sempre affidabile, di ausiliari indiani. Pure malgrado l’impegno che gli Spagnoli dovettero sostenere per controllare le tribà sottomesse, quasi tutti gli anni iniziative militari furono assunte anche contro gli Apache, principalmente Mescalero e Chiricahua, che vivevano a nord, oltre le terre sotto il diretto controllo spagnolo. La semplice necessità di azioni di rappresaglia contro le razzie e le predazioni compiute dagli Apache, forse da sola non basta a piegare le ragioni di tale oneroso impegno; forse la ragione va cercata nel ruolo che gli Apache, in particolare i Chiricahua, stavano assumendo in quegli anni. Anni di guerra e violenze, che insieme alle malattie e alla perdita di elementi della cultura tradizionale, avevano portato all’indebolimento della coesione sociale in diversi gruppi tribali e alla sostanziale dissoluzione di altri. Tanti indiani, vuoi perché irriducibili, vuoi perché inseguiti dalla repressione, o più semplicemente per la perdita dei loro legami sociali e famigliari, si trovarono messi ai margini dal nuovo ordine imposto dal dominio spagnolo e dai loro missionari, spesso costretti a nascondersi e a vivere alla macchia; a volte si trattava di intere piccole comunità, riunite intorno ad un capo o ad un guerriero rispettato, che non si rassegnava alla resa; c’era poi il flusso inesauribile di quanti fuggivano dalle missioni, non sopportandone la disciplina o perché accusati di reati. Gli Spagnoli avevano portato a termine il lavoro di conquista e controllo del Messico settentrionale, ma questo successo aveva come prodotto di risulta un gran numero di sconfitti, forse senza speranza, ma carichi di odio; dai pueblo del Rio Grande, ai deserti del Bolsom de Mapimi, ai canion della Sierra Madre, non sappiamo quanti fossero questi “reduci” del conflitto con gli Spagnoli, ma è certo che in gran parte essi furono assorbiti dagli Apache, la cui terra era l’unico rifugio, fuori dal controllo spagnolo, dai suoi missionari e dalle loro spie. Questa terra era l’Apacheria, che si estendeva attraverso gran parte degli attuali stati di Arizona, New Mexico, fino al fiume Pecos nel Texas occidentale; e l’Apacheria sarà di fatto il limite sul quale, salvo l’enclave di Santa Fè, gli Spagnoli dovettero fermarsi dopo quasi due secoli di costante avanzata verso nord. A est e a ovest dell’Apacheria, nel Texas orientale e nella California meridionale, gli Spagnoli continuarono ancora ad avanzare, con scarsi risultati in Texas, con maggior fortuna in California, ma anche l’espansione in queste aree fu difficoltosa, per i collegamenti costantemente insidiati dagli Apache, che dalle loro basi, lanciavano incursioni e razzie in tutte le direzioni. L’impegno militare spagnolo, appena bastante a difendere la frontiera, non poteva andare oltre le periodiche campagne di rappresaglia, il cui unico risultato era solo quello di alimentare l’odio e la violenza. La principale arma del dominio spagnolo, i missionari, erano assolutamente inutili, contro un popolo che non solo era nomade e refrattario al lavoro agricolo, ma che con la recente acquisizione del cavallo, poteva esaltare la propensione bellica e predatoria. Fu così che in qualche modo gli Apache definirono quello che è una delle linee di confine più importanti ed estese del mondo, quella fra Messico e Stati Uniti, un confine non solo politico, ma storico e culturale. Ma gli Apache non si limitarono a questo e dopo aver imposto quel confine, non si fecero scrupolo di superarlo. Fino alla fine del ‘600 la presenza stanziale di Apache è certa solo nelle regioni a nord dell’attuale confine tra Messico e Stati Uniti, e nelle cronache e nei rapporti ufficiali spagnoli, a parte la zona di Santa Fè, si parla poco di loro. A partire dalla fine del ‘600, gli Apache, citati insieme ad altre tribù, compaiono sempre più spesso come responsabili di razzie, in aree poste più a sud, rispetto ai loro territori abituali; è quindi probabile se non certo, che l’accoglienza e l’assorbimento dei superstiti dei Janos e dei Jocome,


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o dei fuggitivi di altre tribù sconfitte, determinò il progressivo spostamento a sud del raggio di azione degli Apache. Furono probabilmente questi rifugiati a indicare loro gli obbiettivi da colpire, a guidarli tra le sierras o i deserti di una terra a loro ignota, fin quando gli Apache non divennero una presenza sgradita, ma stanziale, in tutta l’area a sud del limite degli insediamenti spagnoli, dalla Sierra Madre al Bolson de Mapimi. Così se da un lato la presenza degli Apache costituì di fatto uno stop all’avanzata delle missioni e del dominio Spagnolo in tutta la regione che andava dal corso del Pecos fino alla foce del Colorado (esclusa l’enclave di Santa Fè), gli Apache di fatto si insediavano La frontiera del Messico e l’Apacheria, all’inizio del ‘700 anche sulle terre sotto il controllo spagnolo, prendendo il posto degli originari abitanti sconfitti e costretti alla fuga; l’arrivo di questa scomoda presenza ebbe conseguenze importanti nella regione e nei rapporti tra gli Spagnoli e gli indiani sottomessi. Gli Apache giungevano come predatori e ovviamente non si facevano scrupoli di attaccare villaggi e missioni degli indiani cristiani, i Tarahumara, gli Opata, i Pima; anche quando nei due secoli successivi, le necessità del commercio con i bianchi davano luogo a piccole e precarie tregue con gli Spagnoli, i rapporti tra Apache e indiani dei villaggi agricoli rimasero sempre ostili. Ciò contribuì a rafforzare i rapporti tra gli indiani del nord del Messico e gli Spagnoli, uniti contro un nemico comune; la fine della Grande Rivolta del Nord, non fu la fine delle rivolte indiane, che continuarono nei due secoli successivi, ma con caratteristiche diverse. Non si trattava più di rivolte finalizzate a “cacciare gli Spagnoli”, quanto di rivendicazioni di autonomia, di protesta contro i soprusi e spesso anche per la richiesta di tutela contro gli Apache che era una delle ragioni di malessere. Di fatto dall’inizio del ‘700 i popoli agricoli del nord del Messico, preferirono sopportare il non sempre efficacie e pressante controllo spagnolo, piuttosto che subire le predazione degli Apache. Gli Apache dal canto loro si insediarono nel nord di Chihuahua e Sonora come una presenza ostile e temuta, e quando il confine statale con gli Stati Uniti fu stabilito alla metà dell’800, quelle regioni divennero la base sicura per condurre la guerra contro i coloni e l’esercito americano a nord. Spagnoli prima e Messicani poi, cercarono in tutti i modi di liberarsi della loro presenza, conducendo una guerra cruenta e ben più lunga di quella condotta dagli Stati Uniti, che produsse una lunghissima scia di odio, e durante la quale i governi messicani di Sonora e Chihuahua giunsero a pagare ingenti somme per gli scalpi Apache, tanto dei guerrieri quanto di donne e bambini; gli Apache rispondevano con eguale violenza. Così non fu certo casuale che quando il colonnello messicano Juachin Terrazas nel 1880 , riuscì a intrappolare il grande capo Apache Victorio a Tres Castillos in Chihuahua, decise di fare a meno dell’aiuto di un contingente di rangers americani, preferendo risolvere la questione, da solo e con propria “soddisfazione” personale; nè che a uccidere lo stesso Victorio, sia stato uno degli scout Tarahumara, arruolati con l’esercito messicano: l’odio verso gli Apache univa vincitori e vinti.

I gesuiti in Sonora: padre Eusebio Kino A ovest della Sierra Madre Occidentale lungo le valli dei fiumi Sonora e Yaqui e fino alla costa del Pacifico, regione all’epoca nota come Pimeria Baja, l’avanzata della dominazione spagnola fu sostanzialmente demandato all’azione dei gesuiti, sostenuta in caso di necessità dalle poche forze militari presenti. In realtà all’avanzare della dominazione, non corrispondeva una vera e propria colonizzazione, dato che mancavano tutti gli elementi che erano tipici della colonizzazione spagnola: la fondazione di ranchos e miniere che richiedevano l’impiego di lavoro servile coatto; le bande di cacciatori di schiavi che con la scusa di colpire gli ostili e i pagani, procuravano manodopera a bassissimo costo; c’era invece


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stato un minore impatto delle malattie epidemiche dovuto alla minore presenza di bianchi, portatori di virus e germi ignoti ai nativi. Fu in realtà una sostanziale acquisizione del controllo politico e amministrativo della regione, accompagnato da una pressante campagna di acculturamento, condotta dai gesuiti in modo sostanzialmente incruento. Ciò permise per oltre un secolo ai gesuiti svolgere il loro lavoro missionario in una situazione tendenzialmente pacifica, salvo pochi marginali conflitti, e la costante minaccia di incursioni di bande di nomadi; specialmente durante gli anni della Grande Rivolta del Nord, queste razzie ai danni degli indiani e delle missioni in Pimeria Baja furono frequenti. I missionari avevano iniziato ad operare a nord di Culiacan già alla fine del ‘500, poi i gesuiti erano stati accolti tra gli indiani Mayo, lungo il fiume omonimo all’inizio del ‘600; con gli Yaqui che vivevano più a nord c’erano stati conflitti, e gli Spagnoli avevano subito clamorosi insuccessi, ma malgrado ciò dopo il 1610 anche questa tribù iniziò ad accettare la presenza di missionari; nel 1628 spingendosi verso l’interno, i gesuiti avevano raggiunto gli Opata, da cui erano stati ben accolti e che divennero i loro più fedeli adepti; fu poi la volta dei Nebome, che vivevano lungo il rio Sonora e fino al rio Magdalena. Tutti questi popoli praticavano l’agricoltura da secoli e avevano uno stile di vita tendenzialmente stanziale, cosa che favoriva il lavoro dei missionari. Nei primi decenni della seconda metà del ‘600 l’impegno dei gesuiti aveva portato alla fondazione di una cinquantina di missioni, oltre a decine di “visitas”, le parrocchie dipendenti dalle principali missioni; tale espansione era avvenuta senza che nella regione ci fossero violenze, sollevazioni degli indiani, rappresaglie. Il successo di questo lavoro era in buona misura legato alla limitata presenza di bianchi, il cui numero alla fine del ‘600 superava a malapena il migliaio di individui, ne di indiani convertiti portati da sud o da altre regioni, per sostituire la popolazione nativa locale. Senza la presenza pervasiva e oppressiva di “hacienderos” e proprietari di miniere che imponevano il lavoro servile e si appropriavano delle terre indiane, l’attività dei gesuiti era concentrata sulla possibilità di diffondere fra gli indiani gli insegnamenti cristiani, contestualmente alla promozione di attività economiche che miglioravano la qualità della vita. L’allevamento di bestiame, totalmente ignoto alle culture native, la possibilità di ampliare e migliorare la produzione agricola con nuove colture, l’accesso a merci e oggetti di metallo di produzione europea, l’acquisizione di nuove tecniche artigiane nelle officine e nei laboratori che spesso erano presenti nelle missioni, erano tutte cose che attiravano gli indiani. Il modello sociale che veniva praticato nelle missioni, era una sorta di “socialismo” paternalistico e teocratico, che prevedeva la messa in comune dei raccolti e di tutte le attività economiche, e la distribuzione a tutti i membri della comunità di tutto ciò che serviva per vivere, dal cibo al vestiario, agli oggetti di uso comune; era un modello che non si discostava molto dall’impianto comunitaristico tribale, ed era facilmente comprensibile agli indiani. Ovviamente c’era l’altra faccia della medaglia, e gli indiani erano obbligati a rinunciare alle loro credenze tradizionali, a cambiare le loro abitudini sessuali (la tollernza per l’omosessualità, era di particolare scandalo per i gesuiti), dovevano rinunciare alle periodiche guerre e faide tribali che erano usuali, vestirsi in modo da non offendere la morale cattolica e infine, dovevano rispettare l’autorità dei missionari, che quando necessitava, si faceva sostenere dalle armi dei soldati spagnoli. Si trattava quindi di un processo di pacifica penetrazione, che se alla lunga tendeva a stravolgere totalmente le culture tradizionali, risparmiava loro i drammi della violenza e del sopruso, e garantiva almeno una parvenza di autonomia per le comunità indiane. Il modo in cui questo processo si attuava dipendeva ovviamente anche dalle caratteristiche dei singoli missionari, più o meno permissivi o rigidi, più o meno capaci di empatia con le comunità presso cui operavano, più o meno curiosi delle tradizioni e dello stile di vita tradizionali dei nativi. E dipendeva anche dal modo in cui gli indiani recepivano e inserivano nella loro cultura le novità introdotte dai missionari; così per esempio se gli Opata si mostrarono estremamente recettivi, gli Yaqui acquisirono principalmente le innovazioni in campo economico, mantenendo in modo più o meno esplicito la loro cultura, le loro credenze, all’interno della cornice del cristianesimo solo superficialmente accettato. E soprattutto, pur nella deferenza e nel rispetto per i missionari, gli Yaqui non rinunciavano al senso dell’autonomia politica e dell’identità etnica, come oltre due secoli di rivolte dimostreranno successivamente. Unici amministratori politici ed economici, i gesuiti in Sonora raramente erano in dissidio con le autorità politiche e militari, che abitualmente cooperavano con loro; quando nel 1688 il capitano di Sinaloa Higueira massacrò un gruppo di indiani pacifici al margine delle aree su cui i gesuiti operavano, fu processato e condannato a morte, anche se poi la sentenza non fu eseguita, forse contando sul cristiano


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perdono dei gesuiti. Per gestire tutta la complessa amministrazione e acculturazione di questa grande e semisconosciuta terra, era necessario “personale” motivato e preparato e i domini spagnoli non bastavano più a fornirlo, così i gesuiti ottennero di poter inviare nelle missioni americane, anche membri dell’ordine di altre nazionalità, tedeschi, boemi, italiani. Non era mai accaduto che la corona di Spagna avesse permesso l’accesso a non Spagnoli alle colonie americane. Fu in questo contesto che si colloca la vicenda storica e umana di padre Eusebio Chini, un gesuita nato nel Trentino, che per quasi trenta anni, viaggiò per migliaia di chilometri in terre inesplorate, mai visitate da Europei, muovendosi quasi sempre senza alcuna scorta e riuscendo sempre a conquistarsi la simpatia degli indiani. Chini, che una volta in America cambiò il suo cognome in Kino, giunse nel 1681 poco più che trentenne in America, dopo aver a lungo sperato di essere mandato in Oriente. Nell’aprile del 1683 fu inviato nella quasi ignota Baja California, dove l’ultimo tentativo di insediamento era fallito più di un secolo prima; i missionari si stabilirono a Cabo La Paz, nell’estremo sud della penisola, con una scorta militare guidata dall’ammiraglio Isidoro Atondo y Antillon e Padre Francesco Eusebio Chini pochi civili, ma gli indiani Pericù e Waicuru, si mostrarono subito ostili, e ci furono incidenti con i militari. Abbandonato Cabo La Paz, nel 1684 i gesuiti si spostarono a nord, nei pressi dell’attuale località di Loreto e vi stabilirono la missione di San Bruno. I Cochimi che abitavano la regione si mostrarono più disponibili e i missionari iniziarono il loro lavoro, ma l’assenza di acqua, l’aridità della terra, rendevano la vita difficile e obbligavano a dipendere dai rifornimenti via mare. La regione fu esplorata, fino alla costa del Pacifico, ma non trovando siti migliori, la missione fu abbandonata nel 1685, e nessun tentativo fu più fatto, fino quasi alla fine del secolo. Tornato a Città del Messico, Eusebio Kino, nel 1687 fu inviato al nord e iniziò ad operare al limite della Pimeria Baja, tra le terre degli Opata, dei Nebome, dei Sobaipuri , dove fondò la missione di Dolores; certamente ebbe un ruolo nel processo al capitano Higueras di Sinaloa, che aveva rischiato di creare incidenti con gli indiani al margine della sua zona di attività. Tra il 1687 e il 1692 grazie al suo impegno, circa una ventina di missioni furono fondate dal bacino del rio Magdalena fino a nord del confine con l’Arizona; quando poi tra i Pima e i Sobaipuri nel 1695 iniziò la rivolta, cercò di riportare la pace organizzando un consiglio di pace nella località di El Tupo, ottenendo però solo di far massacrare decine di indiani innocenti. Fu l’ultima vicenda di sangue in cui Eusebio Kino fu coinvolto, che poi passò gli anni successivi, fino alla morte, a esplorare la regione, compiendo una media di due viaggi ogni anno, promuovendo lo sviluppo economico delle missioni (tra gli indiani s’era conquistato il nome di “contadino nero”), sempre evitando il coinvolgimento dei militari; si battè anche contro la schiavitù ed il lavoro obbligatorio degli indiani, che anche i membri del suo ordine imponevano più a est, tra i Tarahumara, sul versante orientale della Sierra Madre. Fu matematico, astronomo, geografo e cartografo e durante un’esplorazione che lo portò tra gli indiani del basso corso del fiume Colorado, intuì che la Baja California, fino ad allora ritenuta un’isola, fosse una penisola; nel 1697 promosse e organizzò il ritorno dei gesuiti nella regione, che fondarono una nuova missione, non lontano da quella abbandonata nel 1685. Grazie alla sua opera e quella di altri gesuiti, all’inizio del ‘700 il controllo spagnolo raggiungeva la valle del Gila, nell’attuale Arizona, e con i suoi viaggi esplorativi, poneva le premesse per l’ultima avanzata spagnola in Nord America, quella verso la California che avverrà più di mezzo secolo dopo. Padre Eusebio Kino moriva nel 1711 nella missione di Magdalena (oggi la cittadina di Magdalena de Kino), dopo una vita passata a promuovere pace e sviluppo economico: passata l’epoca dei “conquistadores” a questo semplice prete toccò il compito di completare la conquista del Messico.

I Seri della costa Nel quadro dei successi ottenuti dai gesuiti in Sonora, un capitolo a parte è quello dei Seri, una popolazione dingua e cultura diversa dagli altri popoli della regione, la cui lingua ha forse qualche relazione


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con le lingue hoka parlata in California e nella Baja California. I Seri abitavano un limitato tratto di costa di fronte all’isola Tiburon e sulla stessa isola, una terra poverissima d’acqua, dove le uniche risorse erano costituite da poca selvaggina e soprattutto dalla pesca e dalla raccolta di molluschi. Nel loro arido territorio erano presenti delle saline, e il sale insieme alle pelli di cerco era oggetto di occasionali scambi con i vicini popoli agricoli, da cui ottenevano un po’ di mais. Il paesaggio costiero della Sonora, la terra dei Seri Essi erano probabilmente antichissimi abitanti della regione, costretti forse a ritirarsi in quell’area inospitale dall’arrivo dei popoli di lingua Uto-Aztecan in tempi relativamente recenti; rimasero così estranei, isolati e tendenzialmente ostili rispetto all’omogeneo contesto etnico e culturale della Sonora. Il loro primo contatto con i bianchi era già avvenuto nel 1541, quando con frecce avvelenate avevano attaccato gli uomini di Diego de Alcaraz, un luogotenente di Francisco Coronado, provocando diverse vittime. Dopo questo primo cruento contatto non c’erano stati incontri con gli Spagnoli e solo un missionario che alla metà del ‘600 operava tra gli Yaqui da di loro poche notizie. Con il grande impulso al lavoro missionario dovuto al lavoro di padre Eusebio Kino, qualche piccolo gruppo di Seri, speciamentei Tepocache vivevano più a nord, furono attirati alle missioni, ma come accadeva tra nomadi del Bolson de Mapipi, essi si avvicinavano a volte spinti dalla fame, per poi fuggire alla prima occasione. Altre volte il solo interesse per le missioni era legato ai furti di bestiame, compresi i cavalli, che però i Seri non usavano, ma macellavano per cibarsene, anche perchè nelle loro terre sabbiose dove mancavano acque e pascoli, era difficile mantenerli. Queste piccoli furti divennero più virulente a cavallo del secolo, quando sfociarono in fatti di sangue: già nel 1699, gruppi di Seri avevano razziato le missioni nella regione di La Magdalena. Nel gennaio dell’anno successivo 1700 i Seri Salineroattaccarono gli indiani cristiani della missione de La Magdalena e di Cocomangui, dove avevano ucciso alcuni convertiti e rubato del bestiame.; il sergente Juan Bautista de Escalante con quindici uomini partì da La Magdalena e si mise sulle tracce dei razziatori, e raggiunto il villaggio di Nuestra Senore del Populo, scoprì che dieci famiglie di Seri erano fuggite dalla missione. Raggiunti i i fuggitivi, che si erano uniti a razziatori Salinero, giu- La Baja Pimeria e il territorio dei Seri


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stiziò tre indiani ritenuti colpevoli degli assassini a La Magdalena e Cocomangui, rispedì gli altri a Nuestra Senora del Populo, e continuò verso il cuore del territorio dei Seri, sulla cost, dove individuò una rancheria dei Salinero; gli indiani riuscirono a fuggire su canoe di balsa, verso l’isola di Tiburon, ma otto di loro furono catturati. Alla fine di febbraio, Escalante si rimise in marcia per punire i Seri e giunto al margine del loro territorio, il suo accampamento fu attaccato di notte dagli indiani, che lanciarono unn nugolo di frecce, fuggendo e facendo perdere le tracce. Escalante continuò verso il cuore del territorio dei Seri, la costa di fronte all’isola Tiburon, riunendo un certo numero di indiani Tepoca e altri disertori delle missioni, che furono infiati al resposabile dei gesuiti padre Melchior Bartiromo, che assegnò loro delle terre e rifornimento di cibo. Alla fine di marzo, Escalante caricè i suoi uomini su leggere canoe di balsa e attraversè il braccio di mare che sepava l’isola Tiburon, la fortezza dei Seri, dove nessun bianco era mai giunto. Sull’isola ebbe uno scontro con gli indiani, ne catturò nove, mentre gli altri fuggivano senza che gli Spagnoli osassero inseguirli, poi la spedizione fece ritorno alla base. Questi episodi possono considerarsi la fine di ogni tentativo di coinvolgere i Seri nell’attività missionaria e l’inizio di un ciclo di conflitti che in periodi diversi, videro Spagnoli e Messicani combattere con gli irridicibili Seri. Nelle loro terre ingrate i Seri rimasero ai margini del processo di colonizzazione e acculturazione, fino ai primi anni del ‘900, quando contro di loro fu organizzata l’ultima spedizione militare.


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LE PIANURE DEI BISONTI I guerrieri dei bisonti Nel corso del ‘600 in gran parte del continente dal Messico alla costa dell’Atlantico, fino ai Grandi Laghi, s’erano prodotti una quantità di eventi, guerre, epidemie, colonizzazione, cristrianizzazione, penetrazione commerciale, che a migliaia di indiani avevano imposto il confronto con i bianchi come il il principale dei problemi con cui misurarsi. In modo indiretto anche nelle regioni dell’interno, lontano da avamposti commerciali e missioni, l’arrivo degli Europei iniziava a produrre grandi cambiamenti, e ciò fu particolarmente vero nelle Grandi Pianure, ancora quasi totalmente inesplorate. Se sulla base delle attuali conoscenze disegnassimo una mappa del popolamento delle Grandi Pianure del Nord America alla metà del ‘600, e poi la confromtassimo con una di solo un secolo dopo, vi troremmo immense differenze. Avremmo la sorpresa di non trovare nella prima, i nomi di tutte quelle tribù famose, i Cheyenne, i Comanche, i Lakota ecc… la cui storia è legata a queste terre, che difesero in epici conflitti con i bianchi. Infatti molte di queste tribù all’epoca ancora non vivevano nelle Grandi Pianure, mentre altre addirittura non si erano nemmeno costituite come entità definite; fu solo a partire dalla fine del ‘600 che le Grandi Pianure inizieranno a produrre la fisionomia etnica e culturale dei tempi storici, e ciò accadde come conseguenza di quanto accadeva lontano dalle Grandi Pianure, nelle terre in cui l’uomo bianco si era già insediato e da cui la sua attività emanava, producendo grandi cambiamenti. Alla fine del ‘600 benchè la presenza dei bianchi in Nord America fosse ancora limitata e concentrata in aree marginali, lungo la costa Atlantica gli Inglesi, nella valle del San Lorenzo i Francesi, in Messico gli Spagnoli, le conseguenze del loro arrivo nel Nuovo Mondo erano già tali da implicare notevoli trasformazioni in terre lontane da quelle da loro effettivamente occupate o anche solo visitate. In particolare il commercio delle pelli, che grazie soprattutto all’attività dei Francesi, aveva coinvolto gran parte dei popoli che vivevano a est del Mississipi, aveva prodotto disastrosi conflitti tribali, il cui esito spesso era stato il trasferimento a ovest di intere tribù, in fuga dalle regioni coinvolte nel conflitto. Questi profughi che si trasferirono nelle Grandi Pianure, portavano con se spesso una propensione aggressiva, frutto delle guerre da cui fuggivano, oltre a quelle armi di metallo, che a est del Mississipi già circolavano in abbondanza. Gli Spagnoli che occupavano il Messico e che vantavano pretese sulle praterie a nord del Rio Grande, non avevano prodotto una rete commerciale in grado di coinvolgere ed influenzare anche popoli e tribù non direttamente controllati, ma fu proprio dalla loro presenza al margine delle Grandi Pianure, che giunse l’elemento di novità in grado di modificare ed influenzare la cultura e la storia, nelle quasi sconosciute praterie che si estendevano al di la dei loro domini. Tale novità fu il cavallo, che gli Spagnoli introdussero nella regione nel corso del ‘600, e che iniziò a diffondersi tra i nomadi Apache, che li rubavano nei “ranchos”. All’inizio più lenta, la diffusione del cavallo ebbe una veloce impennata dopo il 1680, quando a causa della rivolta dei Pueblo, gli Spagnoli furono costretti ad fuggire dal Nuevo Mexico,


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e dagli allevamenti abbandonati, intere mandrie tornarono allo stato brado. L’ambiente delle Grandi Pianure e delle vallate delle Rocky Mountains era ottimale per questi erbivori, e i branchi di cavalli in fuga poterono vivere e prosperare: nasceva così il “mustang”, il cavallo selvaggio americano, l’animale che insieme al bisonte, sarebbe stato il fondamento della cultura delle Grandi Pianure. La diffusione del cavallo fu veloce, e tra il 1680 e il 1730 questo animale raggiunse gran parte della vasta area a ovest Il “mustang” il cavallo rinselvatichito del Nord America del Mississipi e a sud del Saskatchewan, tanto a occidente che a oriente delle Rocky Mountains. Con la diffusione del cavallo, che permetteva più veloci spostamenti e quindi la possibilità di seguire le mandrie di bisonti nei loro imprevedibili vagabondaggi, la vita nelle Grandi Pianure diveniva più semplice e lo sfruttamento della grande risorsa del bisonte meno precaria e aleatoria. Fu così che a partire dalla fine del ‘600 un gran numero di tribù che vivevano ai margini delle Grandi Pianure vi si trasferì stabilmente, mentre altre tribù che vi risiedevano da sempre, modificarono le loro abitudini per sfruttare le nuove opportunità. Si venne così a formare quella cultura delle Grandi Pianure, che è la più nota tra tutte le culture native del Nord America, ma che non può essere considerato un prodotto interamente autoctono e originale dei nativi, dato che non esisteva prima del contatto con i bianchi. In tale modello culturale coesistevano due varianti, una totalmente legata al nomadismo e alla caccia al bisonte, l’altra ancora dipendente dalle pratiche agricole; in entrambe però cavallo e bisonte erano fondamentali, comune ad entrambe è la condivisione di pratiche e tecniche legate all’utilizzo integrale del bisonte, dalla carne alla pelle, fino alle viscere, agli zoccoli, ai tendini, alle corna, tutto utilizzato per cibarsi, vestirsi, costruire abitazioni (i tepee conici, ricoperti di pelli di bisonti), produrre oggetti di uso quotidiano, contenitori, utensili, ornamenti, armi. L’uso integrale del bisonte è di fatto l’elemento che accomuna tutti i popoli delle Grandi Pianure, sia nomadi che abitanti di villaggi agricoli, anche se questi ultimi ne erano meno dipendenti. Se il bisonte era la base della vita materiale, il cavallo assurgeva invece a simbolo di benessere e prestigio sociale, data la sua importanza nella caccia e nell’attività bellica; in società che vivevano sostanzialmente con una economia di sussistenza, ricca ma che non prevedeva forme di tesaurizzazione o accumulazione, il cavallo divenne una ricchezza che poteva permettere un adeguato matrimonio, che garantiva uno status elevato, che poteva offrire l’accesso a beni voluttuari. L’uso dell’importantissima risorsa del bisonte, e la condivisione delle tecniche e delle pratiche legate a tale utilizzo, insieme al valore del cavallo come simbolo di status, fu la base comune a tutti gli abitanti delle Grandi Pianure, ma a partire da tale base, le diverse culture tribali si svilupparono in modo originale, a partire da quello che era il retaggio tradizionale delle singole tribù. I popoli di tradizione agricola, con il cavallo si dedicarono maggiormente alla caccia al bisonte, ma mantennero i loro villaggi stabili e soprattutto una più complessa organizzazione sociale, spesso fondata su clan matrilineari o patrilineari, a volte con elementi di gerarchizzazione interna come tra i Caddoan, o con forme di organizzazione politica tribale definita e istituzionalizzata. Grazie ad una vita sociale più strutturata e coesa, gli abitanti dei villaggi agricoli seppero reggere all’arrivo di popoli nomadi, che spesso avevano una forte propensione bellica. All’inizio comunque, le nuove genti che si spingevano nelle pianure, non rappresentavano una autentica minaccia per i popoli agricoli, specialmente se non avevano ancora acquisito il cavallo; così lungo l’alto corso del Missouri, i villaggi agricoli degli Arikaree, dei Mandan e degli Hidatsa, divennero il punto di incontro e di scambi per gli indiani nomadi che da sud portavano la novità del cavallo, e quelli che dall’est, attraverso il contatto con i mercanti francesi dei Grandi Laghi, recavano i primi manufatti europei di metallo. Fu probabilmente in questi villaggi che i nomadi di più antico stanziamento che vivevano a


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ovest del Missouri (Apache, Kiowa, Shoshone), e i più recenti migranti che venivano da est (Teton, Yankton, Cheyenne, Arapaho, Assiniboin), vennero in contatto fra di loro e con i popoli agricoli, scambiando merci europee e cavalli, pelli e carne di bisonti e prodotti agricoli, ma anche informazioni, conoscenze tecniche, usanze e credenze tradizionali. Probabilmente fu in questi villaggi dell’alto Missouri che fu concepito, o almeno L’utilizzo integrale del bisonte messo a punto, il “linguaggio dei segni”, che permetteva a genti che parlavano lingue diverse e non reciprocamente intellegibili, di comprendersi e comunicare. I numerosi villaggi lungo l’alto corso del Missouri, difesi da palizzate di legno, circondati dai campi di mais, dovevano certo rappresentare una meta per gli indiani che, ancora a piedi si spingevano da est nelle Grandi Pianure, poveri e spesso in fuga dai conflitti legati al commercio di pelli, ma che portavano con se le prime meraviglie dell’uomo bianco, coltelli e asce di metallo, qualche fucile, tessuti o altre merci già abbondantemente diffuse a est del Mississipi. Per i nomadi che vivevano a ovest del Missouri, alla fine del ‘600 il cavallo era una ricchezza gestita quasi in monopolio, dato che le mandrie allo stato brado vagavano nelle loro terre, e attraverso tale ricchezza essi potevano ottenere tutto ciò di cui necessitavano, con il commercio. Furono così questi villaggi agricoli il luogo in cui la contaminazione fra genti diverse, e la comune acquisizione delle novità introdotte dall’uomo bianco, produsse l’originale cultura delle Grandi Pianure; fu certamente in questi villaggi che al cavallo e al bisonte si aggiunse l’ultimo tassello costituente la cultura delle Grandi Pianure, l’accesso ai manufatti europei, e quindi il commercio, che accompagna fin dalla nascita questa cultura. Il commercio, tra tribù diverse, ma soprattutto con i bianchi, può essere considerato elemento costituente dell’economia di gran parte dei popoli delle Grandi Pianure, che fin dalla fine del ‘600 iniziarono a partecipare al grande mercato delle pellicce, per ottenere una quantità di beni, spesso di carattere puramente voluttuario, che divennerò però parte integrante della cultura materiale di questi indiani: pentole in metallo, coperte e tessuti, le perline che potevano sostitruire gli aculei di porcospino nelle decorazioni, le tinture per il viso e il corpo, ovviamente le armi, e infine l’alcool. I villaggi agricoli dell’alto Missouri furono quasi certamente il crogiuolo in cui si formò la cultura delle Grandi Pianure, e tutte le tribù nomadi che in qualche modo frequentarono l’alto Missouri, espresserolo stile di vita delle Grandi Pianure nelle sua forme più articolate, dal modello di sussistenza a quello di organizzazione sociale. Al contratio per gran parte dei nomadi di più antico stanziamento e che erano più lontani dalla regione dell’alto Missouri (Shoshone, Comanche, Tonkawa, Apache), l’acquisizione del modello di vita dipendente dal cavallo e dal bisonte, non implicò cambiamenti nella vita sociale che rimase estremamente semplice; per questi popoli le maggiori risorse disponibili, la maggiore quantità di beni e ricchezze, non modificò il cuore dello stile di vita e dell’organizzazione sociale caratteristici della vita nomade tradizionale, che non conosceva una complessa organizzazione sociale. Fu invece proprio l’intrecciarsi originale di una complessa organizzazione sociale, basata su consigli tribali, clan famigliari, società guerriere, con uno stile di vita nomade ricco e senza i timori della fame e


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della precarietà, l’elemento c ar at terizzante la vice n da storica delle princip a l i tribù delle Milioni di bisonti vagavano in grandi mandrie nelle praterie a ovest del Mississipi

Grandi Pianure. E’ probabile che tale intreccio fu possibile, perché i popoli che si davano al nomadismo, avevano un passato almeno parzialmente sedentario e agricolo, in altri casi perché il prolungato contatto con i popoli dei villaggi agricoli del Missouri contribuì a diffondere usi e abitudini. Così è probabile che la Danza del Sole, che era diffusa tra gran parte dei popoli nomadi ed era occasione annuale di incontro e identificazione per intere comunità tribali, abbia avuto origine proprio in questi villaggi sedentari, forse tra i Mandan che la praticavano in forme ampiamente documente, almeno dalla fine del ‘700. La storia del formarsi della cultura delle Grandi Pianure, benchè piuttosto breve, fu comunque complessa, visti i tanti e differenti elementi che la composero; ma soprattutto essa fu una storia di conflitti tribali, che si protrassero a volte per secoli, producendo quella centralità della figura del guerriero, che ne fu elemento costituente. A determinare questi conflitti furono certamente i due fattori che determinarono il trasferimento di tante tribù nelle pianure, il cavallo, e le guerre commerciali all’est. Con il cavallo, non solo la caccia diveniva più semplice ma anche le attività belliche e predatorie più efficaci, potevano divenire parte del modello di sussistenza. Questo fu certamente il caso degli Apache e dei Comache: gli Apache appena ottenuto il cavallo, lo usarono per razziare i campi dei vicini Caddoan, i Comanche per circa un secolo praticazono razzie su ampia scala e a vasto raggio, il cui frutto alimentava un imtenso commercio; più in generale lo stesso fenomeno di aggressività verso i vicini, si ripeterà ogni volta che una nuova tribù riuscì ad appropriarsi dell’animale. In aggiunta il possesso di cavalli come elemento di status sociale, divenne un valore ovunque quando l’animale si diffuse fra tutti i popoli delle Grandi Pianure; la possibilità di ottenere cavalli, con cui mostrare il proprio prestigio e il proprio status, fu ovunque motivazione per uno stato di guerra endemico. I popoli che provenivano dall’est, i Teton, gli Yankton, gli Assiniboin, i Cree, non avevano cavalli all’inizio, ma portavano con se le armi di metallo e i primi fucili che i mercanti europei vendevano nelle stazioni commerciali sui Grandi Laghi o sulla Baia di Hudson; con questa piccola, ma importante “superiorità” tecnologica, essi poterano misurarsi con gli indiani dell’ovest già in possesso di cavalli, e in poco tempo imparare anch’essi a usarli e sopratutto a rubarli. L’incontro di tanti e diversi popoli nelle Grandi Pianure, fu così un momento di grande contaminazione culturale, di scambi commerciali, ma anche e soprattutto di conflitti tribali. E questa dinamica riguardò tanto i popoli nomadi che quelli agricoli, che produssero una simile cultura bellica, una analoga centralità del ruolo del guerriero, una comune propensione all’attività predatoria. La guerra nelle Grandi Pianure, aveva però caratteristiche particolari, connesse alla specificità del contesto ambientale, caratterizzato dalla ricchezza di risorse, dalle nuove opportunità per il loro sfruttamento e dai soggetti diversi, per lingua, cultura e storia, che a tali risorse aspiravano. Non si trattava della guerra scatenata dalla penuria, dove ogni comunità lotta per sopravvivere a scapito delle altre, e durante la quale interi gruppi umani possono essere sterminati o scomparire; ne si trattava della guerra finalizzata all’accumulazione di risorse, come le guerre commerciali per il castoro, che avevano travolto interi popoli nella regione dei Grandi Laghi, e prodotto l’egemonia di un unico soggetto forte in contatto


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con i bianchi, la Lega Iroquois. Si trattava piuttosto della competizione tra gruppi diversi e concorrenti, ognuno con l’obbiettivo di migliorare la propria esistenza, avendo più cavalli, garantendosi il controllo dei territori di caccia, controllando il commercio con i bianchi, ma senza che nessun gruppo rischiasse di trovarsi talmente debole da ridursi alla fame o addirittura a scomparire, ne talmente forte da poter dominare e controllare gli altri gruppi. Nelle Grandi Pianure la guerra divenne quindi elemento costituente delle diverse culture tribali e ovunque essa divenne opportunità per acquisire prestigio e ricchezza (spesso redistribuita) all’interno delle proprie comunità. Una simile concezione della guerra, pur con il suo portato di crudeltà e violenza, aveva comunque elementi quasi ludici, che si sostanziavano in usanze e comportamenti, che dal punto di vista strettamente bellico risultano inutili se non addirittura controproducenti. Così l’originale usanza di “contare i colpi”, diffusa fra quasi tutte le tribù, che prevedeva il semplice atto di toccare l’avversario con una mano, con un’arma, o con una particolare asta di legno (coup stick), per umiliarlo, senza necessariamente ucciderlo o ferirlo, rappresenta in modo evidente una concezione della guerra che più che essere finalizzata alla distruzione dell’avversario, mira a tenerlo a distanza e in condizione di soggezione. In egual misura il furto di cavalli, spesso condotto con destrezza, fin tra le tende degli accampamenti nemici, era un atto di grande valore e prestigio, che più che a necessità concrete, rispondeva al desiderio di affermazione di guerrieri e capi desiderosi di farsi un nome. Infine la propensione all’azione individuale, all’atto eclatante e plateale, piuttosto che all’agire collettivo di una forza militare con un comando centralizzato, che è un ‘altro elemento caratteristico della cultura bellica delle Grandi Pianure, e che fa della guerra quasi un espressione estrema di vitalità, piuttosto che la pratica di una volontà distruttiva. La cultura delle Grandi Pianure nasce così come una cultura incentrata sulla guerra, espressione di un momento storico di grandi trasformazioni, di tensioni e di opportunità; fu in questo crogiuolo che alla fine del ‘600 iniziano ad emergere sulla scena della storia quelle tribù e quei popoli che saranno protagonisti delle vicende più note e celebrate della resistenza dei nativi all’avanzata dell’uomo bianco. Ma in questo croguolo tutti i vari elementi che contribuirono al “prodotto finale”si inserirono con tempi e modalità diverse, dagli abitanti più antichi, fino “Coup stick”Cheyenne ai più recenti migranti

I Caddoan, i primi agricoltori delle Grandi Pianure All’inizio del ’600 alla vigilia delle trasformazioni che avrebbero portato alla nascita della cultura del cavallo e del bisonte, le Grandi Pianure erano alla fine di un ciclo di grande sviluppo demografico, durante il quale la pratica dell’agricoltura si era diffusa in gran parte della regione, fino a raggiungere le meno fertili aree occidentali, quasi alle pendici delle Rocky Mountain e fino a coinvolgere addirittura popoli tradizionalmente nomadi come gli Apache. Tale ciclo di espansione e di crescita, aveva riguardato principalmente gli agricoltori Caddoan, i cui insediamenti si estendevano in una vasta regione che andava dalle praterie del medio corso del Missouri, fino a quelle del Texas orientale, estendendosi a ovest lungo il corso del Red River, del Canadian, dell’Arkansas e del Platte, fino alle pianure del Colorado. Per più di 2.000 anni questi agricoltori Caddoan erano vissuti nelle Grandi Pianure influenzati dalle più complesse culture delle Foreste Orientali, vivendo sostanzialmente in pace, e probabilmente con un buon livello di cooperazione tra le diverse comunità. Nell’epoca che precedette l’acquisizione del cavallo possiamo individuare almeno tre diversi gruppi di popoli Caddoan, con alcune differenze linguistiche e culturali, ma anche molti tratti comuni; per secoli tutte le genti Caddoan delle Grandi Pianure erano state parte di un complesso culturale, che se si differenziava sul piano della vita materiale quotidiana, aveva però in comune elementi della concezione spirituale e dell’organizzazione sociale. Il primo di questi gruppi , che rappresentava il cuore di questo complesso culturale Caddoan, viveva nella regione di contatto tra il basso corso del Mississipi e le Grandi Pianure, nella zona di confine tra


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gli attuali stati del Texas, dell’Oklahoma, dell’Arkansas e della Louisiana. Era una regione fertile, in cui le grandi foreste tipiche delle regioni orientali, si diradano per lasciare spazio alle praterie d’erba alta delle Lowplains. In quest’area vivevano comunità Caddoan come i Natchitoche, i Kaddoadache, gli Hasinay, organizzati secondo l’impianto teocratico delle culture Mississipi, che in Villaggio degli Hasinay del Texas orientale questa regione si mantenne vivo fino al tempo del contatto con i bianchi, alla fine del ‘600. E’ da questa regione che gli elementi di una concezione spirituale elaborata e peculiare, insieme ad una organizzazione sociale tendenzialmente gerarchica, si estendevano verso le popolazioni affini che vivevano nelle pianure a ovest e nord-ovest; cardine di questa espansione era il grande centro cerimoniale di Spiro, sul basso Arkansas, abbandonato alla metà del XV secolo, forse per i cambiamenti climatici che avvennero in tutta la regione. Alla metà del ‘600 genti Siouan in fuga dalle Guerre del Castoro, si insediarono nelle terre dei Caddoan sul basso Arkansas, e per questi iniziò un periodo di crisi che si protrarrà fino all’arrivo dei bianchi. Alla fine del secolo anche il cavallo raggiunse questi popoli, che però nella storia delle Grandi Pianure ebbero un ruolo marginale, perché decimati dalle malattie nel corso del ‘700. I supertiti furono comunque costretti a migrare a ovest nelle pianure del Texas, dove vengono ricordati con il nome generico di Caddo. A nord-ovest di questo primo gruppo, nelle pianure tra il Red River e l’Arkansas, e fino alle pianure del Colorado, un secondo gruppo di genti Caddoan, con una lingua diversa, costruirono i loro villaggi agricoli, tra il X e il XIV secolo, colonizzando il cuore delle praterie dei bisonti; l’espansione delle comunità agricole Caddoan ebbe una battuta d’arresto a partire dal XV secolo, quando a causa dei cambiamenti climatici e della siccità, gli insediamenti più meridionali sul Red River e quelli più occidentali in Colorado furono abbandonati. Fu probabilmente in questo periodo che queste comunità Caddoan si divisero, e mentre una parte si stabili sul medio corso dell’Arkansas, l’altra si spostò verso nord, tra i fiume Republica e Platte. Quelli che rimasero sul fiume Arkansas diedero origine alle diverse tribù Wichita (Taweash, Tawakoni, Yscani, La raccolta dell’uva selvatica tra i Wichita, in un’opera di George Catlin


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Waco, Wichita), quelli che invece si spinsero a nord erano forse i progenitori dei Cahui, dei Pittahuerat, dei Kitkehaki, meglio noti come Pawnee. Nella seconda metà del ‘600, i Wichita che vivevano sull’Arkansas, si trovarono a dover fronteggiare due minacce in contemporanea: da ovest i nomadi Apache a cavallo razziavano i villaggi e contendevano loro le mandrie di bisonti, da est popoli di lingua Siouan, che avevano abbandonato la valle dell’Ohio a causa delle Guerre del Castoro, e forse in possesso di lame di metallo, premevano sulle loro terre. Progressivamente i Wichita si spostarono verso sud, tanto per sfuggire alla pressione dei Siouan, quanto per rifornirsi di cavalli, e alla fine del ‘600 erano tornati ad occupare le pianure a nord del Red River; i Wichita avevano sempre integrato l’attività agricola con la caccia al bisonte e ovviamente continuarono con questa pratica quando a partire dalla fine del ‘600 acquisirono i cavalli, ma ciò non modifico molto le loro abitudini, a causa della competizione con i popoli nomadi. Un terzo gruppo di popoli Caddoan, gli antenati dergli Skidi, anch’essi più noti come Pawnee, viveva più a nord, nella valle del Platte, tra il medio Missouri e il Republican. Una parte di questi Skidi, a partire dal XIII secolo, si era spostato sul corso del Missouri, dove dai vicini Siouan, appresero l’uso dei villaggi fortificati; nei secoli successivi, altri gruppi di Caddoan si unirono a questi primi migranti, e tutti insieme diedero vita alla tribù degli Arikaree, che occupava decine di villaggi e i cui diversi gruppi parlavano dialetti diversi, retaggio delle diverse origini. Gli Arikaree continuarono a vivere sul corso del Missouri, ma ma prima della fine del ‘600 dovettero abbandonare i loro insediamenti più a valle lungo il fiume, nella zona del fiume Elkhorne, nel Nebraska orientale, per l’aggressività dei Dakota già in possesso di armi da fuoco e per l’arrivo di genti Siouan , gli Oto e gli Omaha, anch’essi in fuga davanti ai Dakota. Nella prima metà del ‘700 gli Arikaree con i loro villaggi fortificarti, occupavano le due sponde del Missouri nel South Dakota, dove divennero una potente confederazione, al centro degli scambi commerciali nelle Grandi Pianure; grazie ai cavalli ottenuti con gli scambi commerciali a partire dall’inizio del ‘700, cacciavano Villaggio Arikaree nella seconda metà dell’800, quando l’uso abbondantemente i delle palizzate difensive era ormai stato abbandonato bisonti e lanciavano incursioni fino in terre lontane, fin quando alla fine del ‘700, dopo devastanti epidemie, dovettero cedere il campo ai nomadi Teton-Lakota. Nel corso del ‘500 gli Skidi che erano rimasti nella valle del Platte, furono raggiunti da altri popoli Caddoan, i Cahui, i Pittahuerat, i Kitkehaki, che parlavano un dialetto diverso, ma con cui fu costituita un’alleanza che diede vita alla tribù dei Pawnee. E’ probabile che al tempo dell’arrivo di questi emigranti meridionali, nel corso XVI secolo, gli Skidi fossero impegnati a contrastare i Siouan di cultura Oneota, che stavano abbandonando le loro terre per spostarsi a ovest; uno dei miti Pawnee riferibili a quest’epoca è quello del capo Uomo Chiuso, che insegna agli indiani a lasciare gli insediamenti e le fattorie isolate, per riunirsi in grandi villaggi più facilmente difendibili. In queste condizioni, per gli Skidi, l’arrivo di genti affini fu probabilmente ben accolto, producendo prima un’alleanza militare, poi una comune entità politica, i Pawnee. I Pawnee continuarono ad occupare il cuore delle Grandi Pianure, la valle del Platte, conducendo una dura guerra contro le tribù nomadi, in costante competizione per sui territori di caccia al bisonte. Una volta ottenuto il cavallo i Pawnee accentuarono la propensione bellica e seppur più vul-


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nerabili, per i loro villaggi stabili che erano un facile obbiettivo, il loro valore guerriero li rese rispettati avversari per i Teton-Lakota, i Cheyenne, gli Arapaho con cui erano costantemente in guerra. Caddo, Wichita, Pawnee, Arikaree (insieme ad altri minori, Kikhay, Eyeish, Adai), questi sono i nomi con cui progressivamente venero conosciuti nella storia, questi popoli di agricoltori sedentari, più o meno legati alla caccia al bisonte, con elementi comuni nella dimensione spirituale e nella vita sociale. Più che presso altri popoli la dimenUn gruppo di Pawnee ritratti da George Catlin sione religiosa era il riferimento della struttura sociale, ogni individuo era parte di un clan matrilineare e ogni clan aveva specifiche prerogative nella vita soiciale e cerimoniale; i capi concentravano spesso ruoli politici e religiosi, e le stesse “società guerriere”, diffuse tra molti popoli delle praterie, erano presso i Caddoan espressione della vita cerimoniale e spirituale. A parte la più complessa organizzazione sociale dei Caddo del sud di cultura Misissippi, riproposta in forme molto più semplici tra i gruppi settentrionali, le principali differenze tra i diversi gruppi riguardavano la vita materiale, in particolare le abitazioni e il modello di stanziamento: così i Caddo vivevano in villaggi estesi, con le grandi capanne ricoperte d’erba circondate dagli orti, mentre i Wichita usavano anch’essi capanne d’erba, ma vivevano in villaggi più raccolti e circondati dai campi; a nord tanto i Pawnee che gli Arikaree, abitavano in grandi capanne circolari seminterrate, con strutture di pali e copertura in terra, ma gli Arikaree usavano anche circondare i loro villaggi di palizzate, che i Pawnee non usavano. Gli Skidi Pawnee, unici probabilmente in Nord America, avevano fino ai primi decenni dell’800 l’uso del sacrificio rituale di una vergine alla Stella del Mattino, forse una elaborazione locale del culto solare presente nelle culture Mississippi e tra le genti Caddoan. Tutte queste genti erano antichi abitanti delle pianure, vi avevano portato l’agricoltura, le avevano colonizzate, ma a partire dalla seconda metà del ‘600 il loro dominio incontrastato stava per finire; con l’avvento del cavallo, che si diffuse prima tra le popolazioni nomadi che vivevano a sud e a ovest delle loro terre, i villaggi agricoli stanziali divenivano una facile preda per le bande di razziatori, e a parte gli Arikaree, che vivevano in villaggi cinti da palizzate, tutti gli altri popoli Caddoan dovettero subire la concorrenza e l’aggressività dei nomadi, prima Apache, poi Comanche e Kiowa e infine degli ultimi arrivati, i Cheyenne, gli Arapaho, i Teton-Lakota e gli YanktonNakota, che li combattevano quando si spingevano nelle praterie per cacciare il bisonte Accampamento di Pawnee impegnati nella caccia al bisonte (George Catlin)


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e potevano colpirli nei loro villaggi. I Caddoan dovettero poi fare i conti anche con l’arrivo di agricoltori di lingua Siouan, che a più riprese, dalle regioni forestali a est del Mississipi, migrarono nelle Grandi Pianure. Pressati da est dai competitori Siouan e da ovest dalle diverse tribù nomadi, gli agricoltori Caddoan divennero vittime di un mercato degli schiavi, alimentato dalle tribù loro ostili, sia verso le colonie spagnole del New Mexico, sia verso gli avamposti francesi sul Mississippi, al punto che il termine “Pani” con cui venivano indicati tanto i Pawnee (Pani Bianchi), che i Wichita (Pani Neri) divenne sinonimo di schiavi. Progressivamente i Caddo, i Wichita, i Pawnee, e infine anche gli Arikaree, videro il loro stile di vita, che aveva dominato le Grandi Pianure per oltre un millennio, divenire sempre più marginale. I Caddo del Texas, pressati dai Siouan Osage e Quapaw e attaccati dagli Apache, subirono anche devastanti epidemie e giunsero quasi all’estinzione; i Wichita dovettero rassegnarsi ad una subalterna alleanza con i Comanche, per difendersi dagli attacchi degli Apache e dei Siouan Osage e Kansa; i Pawnne continuarono a dominare la valle del Platte fino alla metà dell’800, combattendo una dura guerra contro i nomadi, e infine arruolandosi nell’esercito americano per La presenza dei Caddoan nelle Grandi Pianure continuare a combatterli; gli Arikaree, dopo un periodo in cui i loro villaggi dominarono il medio Missouri, erano stati talmente devastati dalle epidemie , che alla metà dell’800 avevano quasi abbandonato la caccia al bisonte e vivevano solo del prodotto dei loro campi.

Gli agricoltori Siouan nelle Grandi Pianure Tra le cause della crisi dei Caddoan, forse la competizione con gli agricoltori Siouan non fu la più importante, ma certo fu la prima in ordine di tempo. Intorno al X secolo, all’epoca in cui i Caddoan colonizzavano le Grandi Pianure portandovi l’agricoltura, la gran parte dei popoli di lingua Siouan viveva a est del fiume Mississippi, e solo alcuni gruppi periferici, occupavano il margine nord-orientale delle Grandi Pianure; gli antenati dei Dakota visitavano periodicamente le praterie a ovest del Mississippi, mentre quelli degli Hidatsa e dei Mandan vivevano a nord del medio corso del Missouri, i primi probabilmente nel Dakota orientale, forse intorno al lago Devils, i Mandan nello Iowa e nel vicino South Dakota. A partire dal IX secolo, al tempo in cui i popoli Siouan che vivevano nella valle dell’Ohio costruivano le grandi piramidi di terra della cultura Mississipi, i Mandan acquisivano l’agricoltura e davano vita alla tradizione dei villaggi agricoli del Medio Missouri, che a partire dall’XI secolo si diffonderà risalendo il corso del fiume, senza tensioni con i popoli Caddoan che vivevano più a sud. Anche gli antenati degli Hidatsa, vicini dei Mandan che parlavano un diverso dialetto Siouan e vivevano da tempo nelle Grandi Pianure, acquisirono l’agricoltura e si trasferirono sul fiume Missouri, dove con i Mandan furono partecipi della tradizione culturale del Medio Missouri. In tempi storici Hidatsa e Mandan erano organizzati in clan matrilineari, ed avevano “società guerriere”, che raccoglievano la popolazione maschile a secondo delle fasce di età, ed è probabile che tali elementi dell’organizzazione sociale si siano prodotti in quest’epoca, nel passaggio ad uno stile di vita agricolo e sedentario. Nel corso del XIII secolo ai Mandan e agli Hidatsa, si unì un gruppo di Caddoan, antenati degli Arikaree, che portò in contributo l’uso delle grandi case di terra, tipiche dei Caddoan della valle del Platte.


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Fino ad allora Mandan e Hidatsa avevano costruito le loro capanne secondo l’uso delle foreste orientali, utilizzando rami e corteccia, ma dal XIV secolo i villaggi di case di terra cinti da palizzate dei Mandan, Arikaree, Hidatsa punteggiavano la media valle del Missouri, a testimonianza di un grande sviCapi Oto e Iowa ritratti da George Catlin intorno al 1830 luppo demografico. Hidatsa e Mandan furono probabilmente i primi agricoltori di lingua Siouan a vivere nelle Grandi Pianure. Nella stessa epoca in cui i villaggi agricoli del Medio Missouri giungevano all’apice dello sviluppo demografico, nel corso del XIV secolo, il cambiamento climatico detto “Little Ice Age” giunse ad arrestare tale fase di sviluppo, senza però produrre una vera e propria crisi, dato che gli abitanti dei villaggi sul Missouri potevano integrare i raccolti più magri, grazie alle risorse della caccia al bisonte. Più gravi furono le conseguenze a est del Mississipi, dove la dipendenza dall’agricoltura e dal mais era maggiore, specialmente nei grandi centri cerimoniali di cultura Mississippi a nord del fiume Ohio; Cahokia, il più importante centro della cultura Mississippi fu abbandonato, così come altri grandi insediamenti, e la crisi climatica colpì anche i Siouan Chiwere di cultura Oneota, che vivevano più a nord, nella regione tra il lago Michigan e il Mississipi. A partire dal XIV secolo i Chiwere iniziarono a cercare nuove opportunità, spostandosi a sud e verso le Grandi Pianure, per meglio sfruttare le risorse costituite dalle mandrie di bisonti, ma rimanendo legati ad una cultura sedentaria e agricola; dei Chiwere solo una parte, i Winnebago, rimase nelle terre originarie, mentre altri gruppi si spostarono oltre il Mississipi, dando vita alle tribù storiche degli Iowa, stanziati nello stato omonimo, degli Oto a sud della confluenza del Platte nel Missouri e infne dei Missouri, stanziati sullo stesso fiume, poco a monte della sua confluenza nel Mississippi. Quasi certamente i Siouan Chiwere obbligarono i Pawnee ad abbandonare i loro stanziamenti più orientali, e fu forse a causa del loro arrivo che essi cambiarono il tradizionale modello di insediamento, basato su piccole fattorie circondate dai campi, l’una a poca distanza dall’altra, per costruire villaggi più concentrati e più facilmente difendibili. L’impatto dell’arrivo di questi migranti non fu comunque determinante, dato che all’inizio gli Iowa si stabilirono a est del Missouri, continuando a orientare i loro rapporti verso la regione a est del Mississipi, divenendo alleati dei Sauk e dei Fox, per difendersi dall’aggressività delle tribù della condeferazione Dakota a nord, e per razziare i Pawnee, che vivevano a ovest; anche gli Oto si stabilirono a est del Missouri, ma prima della fine del ‘600, a causa degli attacchi dei Dakota, furono obbligat ad attraversare il fiume, fermandosi nella zona di confluenza con il Platte, nelle vicinanze dei Pawnee, di cui divennero alleati; i Missouri si spinsero più a sud, al margine delle terre dei Wichita, con cui non sappiamo quali fossero i rapporti. Questi immigrati, con una organizzazione sociale strutturata e basata su clan matrilineari, continuarono a costruire villaggi di grandi capanne di rami e corteccia d’albero, coltivavano i loro campi, ma impararono a costruire tepee che usavano quando la tribù si spostava per le caccie stagionali alla ricerca della mandrie di bisonti. Un ultima migrazione di agricoltori Siouan nelle pianure, avvenne nel corso del ‘600, subito dopo l’inizio delle Guerre del Castoro che sconvolsero la valle dell’Ohio; i Siouan del gruppo Degiha, che abitavano la valle dell’Ohio, erano stati tra i promotori dello sviluppo della cultura del Mississippi, ma dopo la crisi climatica della Little Ice Age, vivevano un momento di decadenza. Quando poi le tribù Algonquian e Iroquaian, che vivevano più a est, iniziarono ad essere rifornite di armi di metallo e poi di fucili dai commercianti bianchi e si combatterono per il controllo dei territori di caccia e le pregiate pelli di


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Capi Omaha e Osage ritratti da George Catlin intorno al 1830

castoro, i Siouan si trovarono in una condizione di inferiorità; ne possiamo escludere che le tante malattie epidemiche di cui c’è testimonianza nei primi contatti fra bianchi e indiani, si siano diffuse anche nell’interno, nella valle dell’Ohio, causando una catastrofe di cui non abbiamo alcuna testimonianza documentata. Ciò che è certo e che nei primi decenni del ‘600, o al più tardi alla metà dello stesso secolo, i Degiha abbandonarono la valle dell’Ohio e discesero il Missis-

sipi, risalendo poi gli affluenti occidentali del grande fiume. Lo spostamento a sud dei Degiha fu uno dei fattori che accelerò la crisi delle culture Mississippi, anche nelle zone meridionali, dove i cambiamenti climatici non avevano avuto gravi conseguenze. Le comunità Tunican che alla metà del ‘500 Hernando de Soto aveva incontrato lungo il Mississipi, a sud della confluenza con l’Ohio, furono costrette a trasferirsi ancora più a sud, e quando furono incontrate dai Francesi all’inzio del ‘700 in Louisiana, poco rimaneva della ricchezza e della cultura testimoniate dalle cronache della spedizione di De Soto; analogamente i Caddoan che vivevano sul basso corso dell’Arkansas, furono costretti ad abbandonare la regione all’arrivo dei Siouan Degiha. Su quelle che erano state le terre dei Tunican e dei Caddoan, si stabilirono i Quapaw, anche detti Akansa, che quasi certamente venivano dalla regione del fiume Wabash, un affluente settentrionale dell’Ohio, che secondo testimonianze francesi, gli Algonquian chiamavano “fiume degli Akansa”. I Quapaw possono essere considerati solo marginalmente una tribù delle Grandi Pianure, dato che il loro stile di vita rimase sempre sedentario e legato all’agricoltura e i loro interessi rimasero legati alla regione del basso Mississipi; altri popoli Degiha invece dopo aver raggiunto il corso del Mississippi, iniziarono a risalirne gli affluenti occidentali, spingendosi nelle Grandi Pianure. Gli Osage si stabilirono nella zona a monte dei Quapaw sul basso corso dell’Arkansas, mentre i Kansa o Kaw, si staccarono da loro e si insediarono sul fiume Kansas, poco più a nord-ovest; qui le due tribù entrarono in conflitto tanto con i Wichita che con i Pawnee, costringendo i primi ad abbandonare la valle dell’Arkansas e a spostarsi a sud, prima della fine del ‘600; i conflitti tra Osage e Kansa, con i Pawnee e i Wichita, continuarono fino al tempo delle riserve. Un altro guppo Degiha, gli Omaha si spinse ancor più a nord-ovest, risalendo il Mississippi e il suo affluente Des Moines, fino alla località di Pipestone Quarry, nel sud del Minnesota, una località visitata da molti indiani per le cave di catlinite, la pietra più adatta alla fabbricazione di pipe. Nella regione incontrarono gli Iowa e gli Oto, con cui Capanna di rami e corteccia degli Osage


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stabilirono pacifici rapporti, ma si trovarono a subire l’aggressività dei Dakota, che nella seconda metà del ‘600 erano già armati di fucili, ottenuti dai mercanti francesi dei Grandi Laghi. Proprio per sfuggire ai nemici Dakota, gli Omaha furono costretti a spostarsi a sud del fiume Missouri, nel tratto tra la confluenza dei fiumi James e Big Sioux; sempre per sfuggire agli attacchi dei Capanna di terra degli Omaha Dakota, una parte degli Omaha risalì ulteriormente il Missouri, fino alla foce del Niobrara, costituendo la tribù dei Ponca. Non sappiamo quali fossero all’inizio i rapporti tra questi nuovi arrivati e i Pawnee che vivevano più a sud, ma è certo che i Ponca e gli Omaha mutuarono dai Pawnee l’uso di costruire grandi case ricoperte di terra, tipiche delle Grandi Pianure, al contrario dei loro affini meridionali, Osage, Kansa e Quapaw, che continuarono a vivere in grandi capanne di rami e corteccia, tipiche della tradizione delle Foreste Orientali. Nelle loro nuove terre gli Omaha e i Ponca si trovarono a fare da cuscinetto tra i Pawnee a sud e le diverse tribù della confederazione Dakota a nord, e per difendersi dovettero imparare dai vicini Arikaree a proteggere i loro villaggi con terrapieni e palizzate; successivamente per difendersi dai comuni nemici Dakota, furono spesso alleati dei Pawnee. Benchè possano esserci ormai pochi dubbi sulla relazione diretta tra queste tribù Siouan Degiha e i costruttori di piramidi della valle del Mississipi e dell’Ohio, quando queste genti giunsero nelle Grandi Pianure, portarono con se un organizzazione sociale basata su clan patrilineari, spesso raggruppati in due fratrie riconducibili al Cielo e alla Terra, ma nessun ricordo del sistema gerarchizzato e tendenzialmente teocratico delle culture Mississippi. Tutte queste tribù Siouan recentemente immigrate nelle Grandi Pianure, occupavano aree lontane dal centro di diffusione del cavallo, le colonie spagnole del New Mexico, e acquisirono il cavallo solo in tempi abbastanza tardi, alla fine del ‘600 o ai primi del ‘700, dopo i loro vicini occidentali Caddoan; queste tribù furono invece tra le prime ad ottenere armi, merci e manufatti europei, entrando in contatto con i mercanti francesi, fin dalla fine del ‘600. Senza rinunciare alla loro readizione agricola, con il cavallo anche questi popoli divennero cacciatori di bisonti, almeno fin quando le mandrie furono abbondanti e la competizione con i nomadi non si fece troppo dura. Almeno fino ai primi decenni dell’800, Omaha, La migrazione degli agricoltori Siouan nelle Grandi Pianure


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Ponca, Kansa e Osage, furono protagonisti della nascita della cultura del cavallo e del bisonte, acqisendo la caratyteristica propensione alla guerra, partecipando della rete di commerci, al punto di perdere in pochi decenni, quasi ogni rapporto con le terre d’origine a est, e la cultura Mississippi di cui erano stati partecipi. Comunque anche a causa dei contatti con i bianchi, alla diffusione di acool e di malattie, il loro numero presto si ridusse, e a parte gli Osage, quando la colonizzazione delle Grandi Pianure ebbe inizio alla metà del XIX secolo, esse erano troppo deboli per contrastarla; in realtà queste tribù di agricoltori, che come i Caddoan stagionalmente lasciavano i loro villaggi per cacciare i bisonti, erano costantemente sotto attacco delle tribù nomadi e alla fine furono obbligate a porsi sotto la protezione del governo americano. Con il cavallo il tempo dei popoli agricoli, vincolati ai loro villaggi, era ormai passato e la nuova breve ma intensa stagione culturale che si apriva, sarebbe stata dominata dalle tribù nomadi, che meglio potevano approfittare delle nuove opportunità.

I nomadi delle Highplains La regione delle Highplains, le Grandi Pianure occidentali ai piedi delle Rocky Mountains, più elevate di quelle orientali e nel complesso meno adatte all’agricoltura, erano sempre state abitate da nomadi impegnati nella caccia al bisonte, ma a partire dal X secolo, per diverse ragioni, esse divennero meta di diversi popoli, che ancor prima dell’arrivo del cavallo, trovarono nell’ambiente delle praterie e nei bisonti, le ragioni per stabilirvisi dopo aver abbandonato le loro sedi originarie. L’avvicendamento di queste genti non è sempre facile da ricostruire, dato che le culture nomadi lasciano pochi segni del loro passaggio e non sempre è possibile legare tali culture ad una regione definita; malgrado ciò il complesso culturale che alla fine del ‘600 compare in modo maturo nelle Grandi Pianure, fu l’esito di un processo di sedimentazione, in cui ogni comunità e ogni popolo appena arrivato ha lasciato il suo segno, ed è probabile che questi nomadi dell’ovest abbiano dato il loro contributo proprio negli aspetti pià concreti della cultura delle Grandi Pianure, i modelli di sussistenza e le tecniche. Sicuramente fin da tempi remoti le praterie occidentali erano visitate stagionalmente e forse abitate stabilmente da diverse comunità di nomadi, che provenivano, o comunque avevano collegamenti, con le terre a ovest delle Rocky Mountains. Questo era certo il caso dei Kootenay a nord, che vivevano su entrambi i versanti della catena montuosa, oltre l’attuale confine tra Canada e Stati Uniti, così come di molti gruppi Shoshone più a sud, nelle pianure del Montana e del Wyoming, che provenivano dalla regione del Great Basin, e che iniziarono a spostarsi a est e a nord per cacciare i bisonti. Diverso è il caso dei Tonkawa, le cui origini sono misteriose, ma che forse erano antichissimi abitanti delle Grandi Pianure; essi vivevano più a sud, forse nelle praterie del Kansas occidentale, almeno secondo una testimonianza della spedizione di Onate del 1601. Questi erano certamente popoli che abitavano originariamente le Grandi Pianure occidentali, molto prima che le tribù più famose, i Comanche, i Cheyenne, i Lakota ecc… facessero la loro comparsa; è possibile che le condizioni climatiche nella parte meridionale delle Highplains, tra il Texas, il New Mexico e il Colorado, per lungo tempo non abbia favorito la presenza di grandi mandrie di bisonti, ritornati solo a partire dal IX o X secolo, rendendo questa regione scarsamente popolata; quando i bisonti tornarono numerosi, ad approfittarne furono gli agricoltori Caddoan che da est colonizzarono la regione. Questi nomadi originari dipendevano fortemente dalla caccia al bisonte, anche se non è chiaro quanto la loro cultura materiale ne fosse determinata e se fosse possibile indivi- I semplici ricoveri di erba e frache usate dagli Shoshone occidentali, duare elementi del successivo sviluppo cul- erano probabilmente usati anche dagli Shoshone delle praterie., turale; in particolare è difficile capire se le prima dell’introduzione del tepee


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tecniche per il pieno utilizzo del bisonte ucciso, caratteristiche della cultura “classica” delle Grandi Pianure, fossero già in uso. Sappiamo per esempio che gli Shoshone erano conosciuti dalle altre tribù, come “abitanti delle capanne d’erba”, e ciò fa pensare che essi anticamente non usassero i tepee di pelli di bisonte: l’uso delle capanne d’erba li lega direttamente ai loro parenti del Great Basin, che vivevano di raccolta di vegetali selvatici. Non è chiaro se le genti di cultura Avonlea, che occupavano le Highplains settentrionali, e di cui forse gli Shoshone sono gli eredi, usassero già i caratteristici “travois” per i cani; e certo senza la possibilità di trasportare ogni risorsa che il bisonte poteva offrire, anche le possibilità di sviluppare tecniche di utilizzo sempre più specializzato della preda si riduceva. Pare che questi antichi abitanti, usassero celebrare un qualche cerimoniale all’inizio dell’estate, ma è difficile ipotizzare un collegamento con la Danza del Sole dei tempi storici; sono stati invece trovati siti di caccia, in cui crani di bisonte erano posti ad indicare il percorso imposto alle prede per spingerle verso un precipizio, e ciò può far pensare a un culto propiziatorio per la caccia al bisonte. Di fatto non è chiaro quanto della cultura delle Grandi Pianure, possa essere ricondotto a questi antichi abitanti. In un epoca indefinita, tra il X e il XII secolo, in queste terre fanno la loro apparizione popoli di lingua Atapaskan che intorno al IX secolo avevano abbandonato le loro terre a nord, tra il lago Athabaska e le Rocky Mountains. Durante la migrazione, forse nelle pianure del Wyoming, queste genti si divisero e una parte valicò le Rocky Mountains, proseguendo a sud lungo il versante occidentale della catena, mentre altri continuarono lungo il versante orientale, divenendo noti come Apache delle Pianure. Nomadi specializzati nella caccia ai cariboù, questi Atapaskan portavano con se tecniche e modelli di sopravvivenza che ben si adattavano alle Grandi Pianure e alla caccia al bisonte, e che forse costituiscono l’embrione intorno a cui la cultura del cavallo e del bisonte si produsse. E’ infatti probabile che il travois trainato dai cani, così come i tepee conici, e in generale le tecniche di pieno utilizzo della preda cacciata, siano state elaborate a nord, nelle praterie del Canada, dove la caccia era quasi l’unica risorsa; anche l’arco e le frecce, che in altre regioni era sconosciuto fino all’VIII secolo, era già noto agli Atapaskan. Intorno al XIII secolo gli Apache delle Pianure occupavano gran parte delle praterie a sud del Wyoming e si affacciavano alle pianure del Texas; la loro presenza causò forse l’abbandono degli insediamenti agricoli Caddoan più occidentali, acuendo la competizione per il controllo dei territori di caccia; anche i Tonkawa furono spinti a sud dalle loro terre nel Kansas occidentale, fino a raggiungere il Texas centrale. Nel corso del XVI secolo gli Apache incontrati dagli Spagnoli in Texas, ancora si spostavano a piedi nelle pianure in cerca di bisonti, ma più a nord, nelle pianure tra il Platte e l’Arkansas, a partire dai primi decenni del ‘600, molte bande, influenzate dai vicini Caddoan, iniziarono a dedicarsi ad un po’ di agricoltura dando vita alla cultura Dismal River. Un altro gruppo nomade solo recentemente giunto nelle Highplains, erano le tribù Blackfoot (Kainah, Piegan, Siksika), che intorno all’XI secolo si stabilirono tra l’alto corso del Missouri e quello del Saskatchewan, spingendo a ovest i Kootenay e scontrandosi con gli Shoshone. Provenienti forse dalla zona del lago Winnipeg, i Blackfoot si traferirono a ovest forse in conseguenza dell’acquisizione dell’arco e delle frecce, che nelle regioni orientali fu molto tarda, successiva all’VIII secolo; con un più funzionale strumento di caccia, i Blackfoot si adattarono al nuovo ambiente acquisendo la piena fisionomia culturale

I Chipewyan, una tribù Atapaskan affine agli Apache che migrarono nelle Grandi Pianure, in tempi storici usavano ancora piccoli tepee di pelle di cariboù e travois trainati dai cani


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delle Grandi Pianure. Il loro arrivo nella regione fu probabilmente coevo, o solo di poco successivo al passaggio degli Atapaskan provenienti da nord, e benchè non risulti alcuna testimonianza, è possibile che tra i due gruppi vi siano stati contatti. In particolare l’uso dei travois trainati dai cani, fu forse mutuato dagli Atapaskan, dato che nelle regioni orientali di laghi e paludi, da cui provenivano i Blackfoot, il mezzo di trasporto più usato erano le canoe di corteccia. Molto più a sud anche i Jumano che vagavano nelle pianure del Texas occidentale erano solo di recente migrati nelle Grandi Pianure, dopo aver abbandonato i villaggi di adobe e i campi di mais lungo il Rio Grande, in conseguenza di una crisi agricola nel XV secolo, ma il loro ruolo nello sviluppo della cultura delle Grandi Pianure fu ininfluente, dato che all’inizio del ‘700 essi erano ormai scomparsi, assorbiti dai nemici Apache. Ultimi arrivati erano i i Kiowa, distaccatisi forse alla fine del XV secolo dagli affini Tanoan, i costruttori dei grandi pueblo Anasazi nella regione dei “Four Corners”, a ovest delle Rocky Mountains. Forse parte della cultura Fremont, influenzata da quella Anasazi, quando questa andò in crisi, i Kiowa si spostarono a nord raggiungendo le pianure dell’alto Missouri forse nel XVI secolo, occupando terre abitate dagli Shoshone. Con una organizzazione tribale più Migrazioni di tribù nomadi precedenti l’acquisizione del cavallo strutturata, forse retaggio di un passato sedentario e almeno in parte agricolo, i Kiowa furono i primi ad aprire rapporti di scambio con i popolo agricoli dei villaggi sull’alto Missouri, gli Hidatsa, i Mandan, gli Arikaree. Fino alla metà del ‘600 tutti questi nomadi non erano in possesso di cavalli, ma quando l’animale iniziò a diffondersi tra gli Apache delle pianure del Texas, fu come l’innesco di una reazione a catena. Tra il 1650 e il 1700, prima attraverso i furti compiuti dagli indiani, poi dopo la Grande Rivolta dei Pueblo del 1680, per l’abbandono di tanti ranchos, centinaia forse migliaia di cavalli tornarono allo stato brado, altri entravano in possesso degli indiani e tutti iniziavano a diffondersi verso nord. I primi a giovarsene furono gli Apache delle Pianure, che scacciarono e sconfissero i rivali Jumano e ne assorbirono i superstiti, attaccarono gli agricoltori Caddoan del Texas e del Kansas e gli indiani dei pueblo del New Mexico, cacciarono davanti a se i Tonkawa spingendoli a sud nel Texas centrale, e contribuirono alla dissoluzione delle tante bande Coahuiltecan del Texas orientale. Ovviamente non erano solo gli indiani a fare le spese della propensione predatoria degli Apache, ma anche gli insediamenti e le missioni spagnole in Messico. La prospettiva di ottenere cavalli, migliorare le opportunità della caccia e fare bottino contro i nemici, indusse progressivamente anche gli Apache che vivevano più a nord, e si dedicavano anche all’agricoltura, a spostarsi a sud e tornare alla vita nomade. Questi Apache delle pianure del Texas e del New Mexico saranno poi noti come Lipan e Jicarilla; altri Apache che vivevano ai margini delle Grandi Pianure erano i Mescalero, che parlavano una lingua simile ma diversa, e che raggiunsero le pianure del New Mexico e del Texas, attraversbdo le terre a ovest delle Rocky Mountains. La diffusione del cavallo comunque non avveniva solo nelle pianure a est delle Rocky Mountans, ma anche a ovest, e qui ne approfittarono gli Ute che vivevano a nord di Santa Fè; le loro terre erano a ovest delle Rocky Mountains, e non sappiamo se essi usassero visitare le praterie per cacciare il bisonte, ma certamente iniziarono a farlo dopo aver acquisito il cavallo. Attraverso gli Ute il cavallo raggiunse gli Shoshone e le pianure del Wyoming al volgere del secolo; tra le bande Shoshone, use a visitare stagio-


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nalmente tra le praterie e svernare nelle valli montane, alcune bande vi si trasferirono stabilmente dando vita alla tribù dei Comanche. Sempre attirati dalla possibilità di ottenere cavalli, i Comanche iniziarono a lasciare il Wyoming per spingersi a sud, combattendo contro gli Apache; prima della metà del ‘700 gran parte degli Apache aveva abbandonato le terre del Kansaas e del Colorado, per unirsi ai Jicarilla e ai Lipan, e tutti i piccoli insediamenti agricoli di cultura Dismal River erano stati abbandonati. La guerra tra Apache e Comanche durerà per quasi due secoli, fin quando entrambe le tribù non furono sottomesse dai bianchi. Sempre attraverso gli Shoshone il cavallo raggiunse i Kiowa all’inizio del ‘700, e molto probabilmente furono proprio i Kiowa a portare i primi cavalli nei villaggi agricoli del medio Missouri, tra gli Arikaree, i Mandan e gli Hidatsa; neanche i Kiowa seppero resistere al fascino del quadrupede e anch’essi si spostarono stabilmente nelle praterie, spingendosi a sud fino alle Black Hills e alle pianure del Wyoming, dove entrarono in competizione con i Comanche. Lungo la via ad essi si aggiunse un gruppo di Apache, i Semat o Kiowa-Apache, forse l’ultima coda della migrazione Atapaskan, o i resti degli Apache Dismal River, e questo gruppo, pur continuando a preservare lingua e identità, si inserì stabilmente tra i Kiowa. Intorno al 1730, anche i Blackfoot ebbero la loro prima esperienza con i cavalli, e non fu piacevole: una spedizione di guerra di Shoshone a cavallo sorprese un loro accampamento e vi portò morte e devastazione. Intimoriti dall’animale sconosciuto essi si rivolsero agli Assiniboin e ai Cree che vivevano a est; questi, già in contatto con i mercanti europei della Baia di Hudson, giunsero portando con se dieci fucili, fino ad allora mai visti. Con le armi da fuoco i guerrieri delle tre tribù si misero in viaggio, e trovato un gruppo di guerra Shoshone, appiedato, lo massacrarono a fucilate. Qualche tempo dopo anche i Blackfoot iniziavano a disporre dei primi cavalli. Per gran parte di questi nomadi di più antico stanziamento, i Lipan, i Jicarilla, i Tonkawa, i Comanche, gli Ute, gli Shoshone l’acquisizione del cavallo arricchì notevolmente la vita, cambiò abitudini e tecniche, aumentò la propensione bellica, ma non produsse significativi cambiamenti nell’organizzazione sociale o nella vita spirituale e cerimoniale. Nessuna di queste tribù aveva istituzioni tribali definite, ne tanto meno una divisione in clan, ne capi tribali riconosciuti; i capi erano coloro che riuscivano a riunire intorno a se quanti più parenti e sostenitori, che davano vita a una banda, che poteva dissolversi in qualsiasi momento e da cui ognuno poteva andarsene quando voleva. Neanche le “società guerriere” facevano parte dell’organizzazione sociale di questi popoli, e solo in epoca molto tarda, gli Shoshone acquisirono tale uso da tribù vicine; gli Shoshone ebbero due società guerriere, la cui partecipazione era volontaria. Le “società guerriere”, strutturate su fasce di età o basate sull’adesione volontaria, sono una peculiatità delle Grandi Pianure, anche se non erano diffuse presso tutte le tribù; esse erano un importante fattore di integrazione e coesione sociale, tra membri della stessa tribù che però vivevano divisi per lunghi periodi e spesso non aveva altre istituzioni comuni. Le società guerriere raccoglievano la popolazione maschile in gruppi coesi, dove i membri avevano comuni riti, credenze, canti, in cui vigeva solidarietà e mutua assistenza, e le diverse società svolgevano funzioni particolari nelle occasioni rituali e ovviamente organizzavano spedizioni di guerra; ma il principale tra i compiti delle società guerriere, era la funzione di polizia (gli Akicita, in lingua Lakota), per vigilare che nessuna azione imprudente o vanagloriosa, mettesse a rischio la caccia collettiva, facendo fuggire i bisonti. Presso alcune tribù simili società esistevano anche per le donne, ovviamente con funzioni diverse e non militari. Nè i Comanche, nè i Lipan, i Jicarilla o i Tonkawa elaborarono simili forme di organizzazione collettiva, mentre gli Shoshone l’acquisirono solo in epoca molto tarda. Un altro elemento tipico della cultura delle Grandi Pianure, assente fra questi popoli è la Danza del Sole, che in forme diverse era praticata da molte tribù delle pianure. Non è chiaro dove e quando essa abbia avuto origine, ne è possibile definire con precisione questa cerimonia, date le diverse varianti tribali, ma ovunque essa era celebrata all’inizio dell’estate, quando il cibo abbondava, le comunità si riunivano ed era tempo per organizzare matrimoni e spedizioni di guerra. Diffuso era l’uso di costruire qrandi capanne circolari in cui la cerimonia era officiata, il che può far pensare che la tradizione venga dai villaggi agricoli, dai Mandan in particolare, che la praticavano nelle loro grandi capanne di terra, in forme cruente e spettacolari. E’ possibile che gli Shoshone avessero una loro antica tradizione cerimoniale, ma sia loro che gli Ute acquisirono la Danza del Sole solo in tempi recenti alla metà dell’800, mentre le altre tribù non avevano simili usanze, e i Comanche celebrarono la Danza del Sole solo una volta, nel 1874, alla vigilia della resa ai bianchi. I Blackfoot, che giunsero nelle pianure alla stessa epoca degli Atapaskan, erano un alleanza di tre tribù, ognuna delle quali frequentava abitualmente una parte del comune territorio: i Siksika, vivevano più a


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nord verso il Sakatchewan, i Kainah nella parte centrale del territorio, i Piegan a sud verso il Missouri. All’interno le singole tribù erano organizzate in bande piuttosto indefinite e non avevano vere e proprie istituzioni tribali o clan famigliari, ma l’intera popolazione maschile era inserito in una serie di società guerriere, riferibili alle diverse fasce di età, a cui si accedeva facendo doni ai membri che già ne facevano parte. Il passaggio da una società all’altra non era quindi un fatto automatico, ma un percorso, in cui il dono che permetteva l’accesso, era la dimostrazione di una crescita dell’individuo. Questo modello di società “generazionali”, era diffuso anche fra gli Atsina e gli Arapaho, un tempo una unica tribù, e fra gli agricoltori Mandan e Hidatsa; non è chiaro se tale modello fosse già praticato dai Blackfoot al tempo della loro migrazione a ovest, o se fu acquisito successivamente per contatto con i Mandan e gli Hidatsa, o se addirittura in tempi più recenti dai loro alleati Atsina, incontrati I Comanche e i Kiowa nelle Grandi Pianure all’inizio del ‘700 alla fine del ‘700. E’ invece quasi certo che la Danza del Sole fu una acquisizione piuttosto recente, della fine del ‘700 o dei primi dell’800, successiva sicuramente al contatto con gli Atsina. Presso i Kiowa il modello di organizzazione sociale era simile, ma con diverse peculiarità; anche i Kiowa erano divisi in un buon numero di bande non fisse, ma ogni individuo era anche parte di una delle sei tribù originarie: Kata, Kogui, Kingep, Kongtalyu, Kagwu e Kuato (quest’ultima interamente massacrata dai Teton-Lakota, alla fine del ‘700). Lo stile di vita nomade praticato in tempi storici, induceva ad adottare il modello delle bande flessibili, ma evidentemente l’organizzazione in comunità più strutturate e coese permaneva nella tradizione e nella vita cerimoniale, così quando tutta la tribù si riuniva, ogni suddivisione aveva un proprio posto stabilito nell’accampamento, ed ognuna era depositaria di alcuni oggetti sacri a tutta la tribù. Tra i Kiowa poi i c’erano veri e propri capi tribali, riconosciuti e rispettati da tutta la comunità, mentre il sistema delle società guerriere per fasce generazionali, era meno rigido, e non era raro il caso che giovani appartenenti a famiglie importanti accedessero direttamente a società guerriere di più alto livello. Al vertice vi era poi una società guerriera, i “Koitsenko”, di non più di dieci membri, che rappresentavano una elite sociale. Di fatto i Kiowa nelle pianure elaborarono una sorta di gerarchia guerriera, in cui il valore militare, l’abilità nel furto di cavalli, e ovviamente la generosità e ed una condotta morale irreprensibile, potevano offrire una certa mobilità sociale e garantire uno status elevato. I Kiowa praticavano la Danza del Sole, anche se in forme diverse dai Cheyenne, Lakota ecc…, e senza la pratica dell’autotortura; non è chiaro se essa sia stata un’acquisizione recente, o se si trattò di un adattamento di tradizioni cerimoniali precedenti. Tutti questi popoli vissero nelle Grandi Pianure occidentali, si incontrarono, fecero scambi, ma soprattutto competevano e si combattevano, principalmente per i cavalli; tutti tendevano a spostarsi verso sud, per avvicinarsi alle terre da cui i cavalli venivano e ai ranchos del Messico in cui abbondavano. Tutte le tribù lanciavano spedizioni di guerra che viaggiavano anche per centinaia di chilometri, per compiere un impresa da narrare e fare bottino; dalle loro terre in Canada, una spedizione di guerra Blackfoot, giunse a combattere contro i Navajo dell’Arizona. Con le tribù agricole i rapporti variavano: se i villaggi dell’alto Missouri, con le loro palizzate e le fortificazioni, erano un obbiettivo troppo difficile, lo stesso non poteva dirsi per i villaggi dei Pawnee e dei popoli agricoli Siouan della pianure centrali, Omaha, Kansa, Osage ecc…, con cui era guerra permanente, mentre più a sud i Wichita, che subivano le aggressioni degli Apache, nel corso del ‘700 riuscirono a stabilire una alleanza subalterna con i Comanche, anch’essi in guerra con gli Apache. Già nei primi decenni del ‘700, i Comanche si sostituirono agli Apache nel predominio nelle grandi pianure meridionali, e gli Apache, prima i Jicarilla, poi anche i Lipan, furono progressivamente costretti ad abbandonare le pianure del Texas, i primi obbligati a rifugiarsi tra i monti del New Mexico, i secondi


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spinti verso il Rio Grande e il confine con il Messico; per difendersi dai Comanche questi gruppi Apache furono anche costretti a cercare una qualche mediazione con gli Spagnoli. Quando i Jicarilla furono sconfitti dai Comanche, alla metà de ‘700, abbandonarono le pianure per cercare rifugio tra i monti; qui gli Ute li accolsero, e con loro costituirono un’alleanzaper contendere i territori di caccia ai Comanche; insieme le due tribù si opposero anche agli americani, prima alla metà dell’800. Intorno al 1740 anche i Comanche e i Kiowa stabilirono un’alleanza, che si mantenne fino alla fine delle guerre indiane; con tale alleanza i Kiowa accentuavano il loro ruolo di intermediari tra i Comanche che erano in possesso di cavalli e i villaggi agricoli sul Missouri. Nella prima metà del ‘700 i Comanche dominavano le grandi pianure dal Wyoming al Texas, erano in possesso di un gran numero di cavalli, e disponevano anche di una buona quantità di merci europee, frutto di razzie sulla frontiera del Messico; attraverso i Kiowa, tanto i cavalli che i primi rari oggetti di metallo giungevano fino ai villaggi del medio Missouri, alimentando gli scambi. Con l’arrivo dei Comanche, la presenza degli Apache delle Pianure a nord del Texas fu a lungo obliata, e non è casuale che il termine Padouca, con cui i primi esploratori e mercanti francesi all’inizio del ‘700 indicavano gli Apache, passò poi a indicare i Comanche, fino all’inizio dell’800. Alla metà del ‘700 l’introduzione del cavallo aveva trasformato lo scenario delle Grandi Pianure, ma altri nuovi cambiamenti si preparavano, quando forti delle prime armi di metallo e dei primi fucili, altri popoli giunsero dalle regioni dell’est, per darsi anch’essi alla vita nomade dei cacciatori di bisonti.

Dalle foreste e dalle paludi, alle praterie dei bisonti Per completare il variegato mosaico rappresentato dalle Grandi Pianure in epoca storica, manca ancora il tassello più importante, costituito da tribù come i Cheyenne, gli Arapaho, i Teton-Lakota ecc, che solo dalla metà del ‘600 si affacciarono alle terre dei bisonti; questi popoli avevano vissuto per secoli nella regione cosparsa di laghi ed acquitrini, compresa tra l’alto corso del Mississipi e il Red River del nord, un immissario meridionale del lago Winnipeg in Canada; posta al confine dell’area forestale dell’est, ad una latitudine poco adatta allo sviluppo dell’agricoltura, questa regione aveva subito l’influenza delle culture agricole dell’est, ma i popoli che l’abitavano conducevano uno stile di vita molto più semplice e precario . In questa regione vivevano L’ambiente forestale del Minnesota (sopra) e le praterie del Dakota orientale (sotto) tanto tribù di lingua Algonquian che Siouan, con modelli di sussistenza simili, ma con significative differenze nella cultura, nell’organizzazione sociale e nelle tecniche artigianali. Comune a tutti gli abitanti della regione era la dipendenza dalla pesca e dalla raccolta di vegetali, in particolare il riso selvatico che cresceva lungo le sponde di laghi e acquitrini, la caccia a cervidi, agli orsi neri, ai pic-


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coli mammiferi che vivevano nei boschi e agli uccelli che frequentavano laghi e paludi. Le genti di lingua Siouan, che vivevano nella parte meridionale e occidentale dell’area, forse praticavano un po’ d’agricoltura, come facevano i loro parenti di cultura Oneota che vivevano a est, e visitavano periodicamente le praterie per cacciarvi il bisonte. A nord e a nord-est c’erano invece popolazioni di lingua Algonquian, che sicuramente non praticavano in alcuna forma l’agricoltura, ed erano più lontane dalle praterie dei bisonti, dove la selvaggina abbondava ma gli inverni erano più duri da sopportare. Comunque almeno i Blackfoot che quasi certamente vivevano nella regione del lago Winnipeg, già dal X secolo l’avevano abbandonata, per trasferirsi nelle Grandi Pianue attratti dalle mandrie di bisonti. Tra queste genti Algonquian, i più occidentali erano gli antenati degli Arapaho, che nel XII secolo vivevano ai margini delle Grandi Pianure, stanziati a sud del lago Winnipeg lungo il basso corso del Red River; in questa regione essii rimasero almeno fino all’inizio del ‘600, prima si spostarsi anch’essi nelle Grandi Pianure per dedicarsi alla caccia al bisonte. Vicini degli Arapaho erano i Cheyenne, le cui tradizioni più antiche rimandano al tempo in cui l’arco e le frecce erano ancora ignoti (prima del X secolo), quando essi vivevano con i Cree, nelle zone forestali a est del lago Winnipeg, in una condizione che secondo i ricordi degli anziani era di miseria e debolezza, costantemente provati dalla fame e dal freddo. In un epoca non precisata, ma che potrebbe coincidere con i peggioramenti climatici del XIV secolo, gli antenati dei Cheyenne si separarono dai Cree per spostarsi a sud, raggiungendo forse la regione dei laghi Rainy e Wood, lungo il confine tra Minnesota e Canada, a ovest degli Ojibway e a est degli Arapaho, e qui rimasero probabilmente fino all’inizio del ‘600. Arapaho, Cheyenne, Cree e Ojibway, conducevano a quel tempo uno stile di vita simile, anche se è probabile che i più occidentali Arapaho, conosciuti come “Popolo della Pista del Bisonte”, già a quel tempo dipendessero in maggior misura dalla caccia a questo animale e fossero anche più isolati, come parrebbe anche dalla differenziazione linguistica. A sud di questi popoli Algonquian, i diversi gruppi di lingua Siouan stanziati tra l’alto corso del Mississipi e il suo affluente occidentale Minnesota, costituivano una confederazione di sette tribù, “i 7 Fuochi”, che parlavano dialetti della stessa lingua, che variavano solo per l’uso delle consonanti “l”, “n” e “d”. Tutte queste tribù definivano se stesse con una parola il cui significato era “Alleati”, e la cui pronuncia variava proprio nell’uso di una consonante; i Dakota, noti anche come Santee erano divisi in quattro tribù, Sisseton, Mdekwanton, Whapeton e Whapekute che vivevano lungo l’alto corso del Mississipi, i Nakota, anche detti Yankton, erano divisi in due tribù gli Yankton e gli Yanktonay, che vivevano a nord-ovest dei Santee, a ovest del lago Superiore, e infine vi erano i Lakota, anche detti Teton, un’unica tribù che viveva a sud-ovest, lungo il fiume Minnesota, al margine delle Grandi Pianure, che visitavano per cacciare i bisonti. Tutti questi gruppi furono più conosciuti con il nome Sioux, la più nota e potente tribù delle Grandi Pianure. Il fatto che questi Sioux si definissero come un’alleanza, “i 7 Fuochi”, può far ritenere che essi avessero una struttura sociale più complessa e coesa degli Algonquian che vivevano a nord, frutto forse di contatti con le popolazioni agricole sedentarie Oneota, anch’esse di lingua Siouan che vivevano più a est. Non sappiamo se l’alleanza dei “7 Fuochi”, fosse una vera e propria entità politica, o se il legame tra le tribù fosse principalmente l’espressione di un comune impianto rituale e cerimoniale. Al tempo dei primi contatti le quattro tribù Santee, rappresentavano i gruppi preminenti dell’alleanza, mentre i Teton erano i più poveri e marginali, ma quando iniziò il trasferimento nelle praterie, i Teton accolsero una quantità di migranti di altre tribù alleate, e alla fine costituirono essi stessi un’alleanza di 7 tribù (Oglalla, Sichangu, Hunkpapa, Sihasapa, Itazipicho, Oonehompa, Minniconjew), che in tempi storici era totalmente autonoma dagli Yankton e Santee rimasti a est del Missouri. Comunque malgrado le diverse vicissitudini, tutte queste tribù non entrarono mai in conflitto fra di loro e mantennero per oltre due secoli, legami di solidarietà e cooperazione; alla metà dell’800, quando si apriva l’ultima stagione del conflitto tra bianchi e indiani, le varie tribù Teton, Yankton e Santee, tutte genericamente definite “Sioux”, costituivano un alleanza che si estendeva dalle sorgenti del Mississipi, alle pendici delle Rocky Mountains, dall’alto corso del Missouri alla valle del Platte. Alcuni studiosi hanno ipotizzato una provenienza meridionale di questi Dakota, ma è più probabile che essi abbiano vissuto nella regione almeno dall’inizio dell’era cristiana; è quindi possibile che per secoli essi siano stati in contatto con le più complesse culture di popoli Siouan che vivevano più a est, e che ciò possa averli indotti a dotarsi di forme di organizzazione sociale più coese. E’ comunque certo che essi, forse anche contando sulla loro maggiore coesione, all’inizio del ‘600 tendevano ad espandersi a scapito dei loro vicini settentrionali Algonquian, che dispersi e divisi in piccole bande, subivano la loro l’aggressività. Non abbiamo nessuna notizia circa i rapporti tra i Dakota e i Cheyenne e gli Arapaho


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che vivevano a nord-ovest delle loro terre, ma riguardo agli Ojibway è certo che quando alla metà del ’600 i primi Francesi iniziarono a visitare i loro villaggi lungo le sponde del lago Superiore, essi erano già da tempo in guerra con i Dakota. Le prime notizie sui Dakota vengono quindi dai mercanti francesi che commerciavano nelle inesplorate regioni dell’ovest: prima Radisson e Grosselieres che alla metà del ‘600 esplorarono il lago Superiore, poi Duluth e altri commercianti che nei decenni successivi operavano a Green Bay sul lago Michigan, quindi La Salle e Tonti che operavano più a sud lungo il fiume Illinois. Prima ancora dell’arrivo dei Francesi, già nella prima metà del ’600 l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dalle terre dell’est, dove infuriava la I Guerra del Castoro, pose un limite all’espansione dei Sioux verso nord; quando poi giunsero i Francesi, con le loro armi di metallo, le loro merci pregiate e soprattutto i primi fucili, come in altre parti del continente, si scatenò la competizione per il controllo dei territori di caccia e il controllo del commercio delle pelli, esacerbando antichi conflitti tribali e creandone di nuovi. Furono gli Ojibway, la più potente e numerosa tribù del lago Superiore, a divenire i primi partners commerciali dai Francesi, ottenendo asce, coltelli, punte di freccia e qualche fucile, e con questo vantaggio riuscirono a ribaltare le sorti del conflitto con i Sioux, che fino a quel momento li aveva visti sulla difensiva. I Francesi non erano gli unici a fornire di armi di metallo e fucili agli indiani, dato che intorno a 1670 gli Inglesi della Hudson Bay Company avevano stabilito i primi avamposti commerciali sulla baia di James, e avevano iniziato a commerciare con i Cree, un popolo Algonquian diviso in un gran numero di piccole bande, che viveva a nord degli Ojibway. Le merci inglesi erano spesso di maggior qualità e a più basso costo di quelle francesi e in più essi erano in grado di vendere un maggior quantità di armi da fuoco, avendo una maggiore produzione; nei decenni successivi i Cree, spinti dai mercanti inglesi e ben forniti di fucili, iniziarono ad espandersi in gran parte del Canada centrale. Ojibway e Cree evevano antichi legami d’amicizia, parlavano lingue simili e soprattutto, entrambe ben armate, rimasero in rapporti pacifici, e usarono le loro armi contro le tribù che vivevano più a ovest e che non disponevano ne di fucili ne di armi di metallo. Non abbiamo alcuna notizia certa su conflitti tra Ojibway e Cree, con i vicini occidentali Cheyenne e Arapaho, ma è certo che nel 1680 alcuni Cheyenne visitarono Ft.Creve Coeur, la stazione commerciale creata da La Salle sul fiume Illinois, dando testimonianza del loro insediamento presso un lago indentificato con il lago Traverse, tra le sorgenti del fiume Minnesota e quelle del Red River. Evidentemente i Cheyenne avevano abbandonato le loro sedi sui laghi Rainy e Wood, per spostarsi a sud, forse proprio per l’ostilità di Ojibway e Cree. Dalle testimonianze del tempo nessuna notizia giunge sugli Arapaho ancora sconosciuti, ma secondo riscontri archelogici, anch’essi durante il ‘600 trasferirono i loro insediamenti, lasciando le sponde del Red River per spingersi a ovest, nella zona del lago Devil, nelle praterie del Dakota, affidando la loro sopravvivenza esclusivamente alla caccia al bisonte. A quel tempo il cavallo ancora non aveva raggiunto le pianure del nord, e gli Arapaho cacciavano secondo l’antico metodo di spingere i bisonti verso precipizi, e si spostavano con il solo ausilio dei cani. Il trasferimento in questo periodo, può far ipotizzare che proprio Cheyenne Arapaho furono le prime vittime dei bene armati Ojibway e Cree. A differenza dei Cheyenne e degli Arapaho, che vivevano lontani dalle stazioni commerciali europee, le tribù della Confederazione dei 7 Fuochi, specialmente le quattro tribù Santee che vivevano alle sorgenti del Mississipi, presto aprirono relazioni con i mercanti francesi, malgrado i tentativi che gli Ojibway fecero in ogni modo per escluderli dai commerci. I Francesi dal canto loro pur di allargare i loro affari si impegnarono a cercare di stabilire precarie tregue tra i loro principali partners Ojibway e i Sioux con cui erano in guerra. Fu in questo periodo che le tribù dei 7 Fuochi compaiono nella storia con il nome di Sioux, la contrazione francese del termine “Naudowessieux”, il cui significato in lingua Ojibway è dispregiativo e significa “piccole vipere”, per differenziarli da i loro nemici orientali Iroquois, definiti “grandi vipere”. Anche grazie alle armi ottenute dai Francesi i Sioux, riuscirono a difendersi dagli Ojibway e la guerra tra le due tribù continuò fin oltre la metà dell’800, quando i Santee-Dakota dovettero abbandonare la regione dopo un conflitto con i coloni americani. I problemi con gli Ojibway non erano i soli che i Sioux dovettero affrontare dopo la metà del ‘600. Più a nord anche i Cree facevano sentire la loro pressione, in particolare sugli Yanktonay; fu così che una parte di questa tribù, che viveva a maggior distanza dai mercanti francesi, forse intorno al 1670, dopo una disputa con altri gruppi Sioux, decise di venire a patti con i nemici e stabilì un’alleanza con i Cree, ottenendo da loro armi e merci ed entrando nell’orbita commerciale delle basi inglesi della Hudson Bay Company. Questi Yanktonay che si separarono dalla Confederazione dei 7 Fuochi, diedero vita ad una tribù autonoma, gli Assiniboin, che divennero acerrimi nemici dei Sioux. I Santee comunque con le armi ottenute attraverso il commercio non si limitarono a difendersi dagli


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Ojibway, ma iniziarono a lanciare anche incursioni contro le tribù che vivevano a sud e a ovest. Costretti a ritirarsi dalle foreste alle sorgenti del Mississipi, il centro del loro territorio era orma il basso corso del fiume Minnesota, il fiume le cui sorgenti erano nelle praterie dei bisonti; dalla foce del Minnesota, i Santee lo risalivano con le loro canoe fino all’affluente meridionale Blue Earth, per attacIntorno al 1830 il pittore George Catlin visitò la cava di Pipestone Quarry, e in suo onore care i villaggi agricoli degli fu chiamata “catlinite” la pietra che li veniva estratta Iowa, degli Oto e degli Omaha che furono costretti a ririrarsi a ovest del Missouri. La guerra contro queste tribù era legata al controllo della località di Pipestone Quarry, dove si estraeva la catlinite, la pietra più adatta a fabbricare le pipe rituali; i Santee riuscirono a sottrarre agli Iowa il controllo dell’area, acquisendo il pieno possesso di una materia prima richiestissima da tutti gli indiani della regione, vista l’importanza dell’uso di fumare la pipa, tanto nella vita sociale che in quella cerimoniale. Mentre i Santee riuscivano a resistere agli Ojibway e anzi, grazie alle armi europee divenivano una minaccia per i loro vicini meridionali, per gli Yankton e gli Yanktonay le cose non andavano bene: lontani dal commercio dei bianchi, indeboliti, dopo la scissione degli Assiniboin, prima della fine del ‘600 essi furono costretti ad abbandonare le loro terre e a spostarsi a sud, anch’essi verso il corso del fiume Minnesota, a monte dei Santee. Il trasferimento degli Yankton e degli Yanktonay, potrebbe aver avuto conseguenza anche per i Teton, obbligandoli a spostarsi a sud del fiume Minnesota, mentre i loro parenti e alleati, occupavano le praterie a nord. E’ in questi anni prima della fine del ‘600 che inizia definirsi una prima divisione nello stile di vita e nella cultura delle tribù della Confederazione dei 7 Fuochi, tra quelli che verranno chiamati dai Francesi Sioux del Fiume e i Sioux delle Praterie. A quell’epoca tutte e sette le tribù vivevano nella regione del fiume Minnesota, e proprio questo fiume è la via di comunicazione tra le praterie dei bisonti, dove ha origine, e la zona forestale dell’alto Mississipi, in cui il fiume in cui confluisce. Le quattro tribù Santee (Mdkwanton, Sisseton, Whapeton , Whapekute) continueranno a vivere nella zona di confine tra foreste e praterie lungo il basso corso del Minnesota, con un modello economico solo marginalmente legato al bisonte, spostandosi con le canoe tra laghi e fiumi, costantemente impegnati nella guerra contro i nemici Ojibway, e lanciando raids contro gli Iowa e i loro alleati Fox e Sauk. Gli altri tre gruppi (Teton, Yankton e Yanktonay) che vivevano nelle pianure a monte, progressivamente abbandonarono l’uso delle canoe per spostarsi nelle praterie alla ricerca di bisonti, portando con se i loro tepee e gli scarsi averi, caricati sul dorso dei cani. I due gruppi nel corso dei decenni si allontanarono sempre più, anche se per oltre un secolo essi usavano incontrarsi annualmente per fare scambi; i Sioux delle Praterie tornavano a est, fino alle sorgente del fiume Minnesota, per incontrarsi con i Sioux del Fiume e scambiare le pelli di bisonte e di altra selvaggina, con le merci europee che i Sioux del Fiume ottenevano dai mercanti francesi. Per questi primi gruppi di Dakota che si trasferivano nelle pianure, il ritrarsi dalle ostilità con gli Ojibway era certo una ragione per emigrare, ma sicuramente anche la possibilità di procurarsi le pelli, con cui ottenere le merci dei bianchi fu uno stimolo altrettanto importante. In ogni caso il definitivo trasferimento dei Teton e degli Yankton nelle Grandi Pianure, fu conseguenza anche della pressione venatoria nelle regione del fiume Minnesota, dove alla fine del ‘600 praticamente tutte le tribù dei “7 Fuochi” avevano trovato rifugio dalla guerra contro Ojibway e Cree. L’aumento della popolazione nell’area e la caccia finalizzata al commercio delle pelli, all’inizio del ‘700 probabilmente resero la situazione insostenibile; i bisonti iniziavano a scarseggiare, e i Teton che erano quelli che vivevano nelle zone di caccia più sfruttate, furono i primi a spostarsi a ovest, seguiti poi dagli Yankton e dagli Yanktonay; nei primi decenni del ‘700 i Teton avevano raggiunto le praterie del Dakota


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orientale, seguiti dagli Yankton che gravitavano poco più a est. Il trasferimento non fu una migrazione organizzata, ma la conseguenza del vagabondaggio di piccole bande alla ricerca di bisonti, anche se comunque è possibile individuare almeno due direttive definite, una meridionale che riguardò una parte dei Teton e gli Yankton, l’altra più a nord di un’altra parte dei Teton e degli Yanktonay; in entrambi i flussi i Teton rappresentavano l’avanguardia del movimento migratorio. Prima della metà del ‘700, una parte dei Teton, antenati dei gruppi storici degli Oglalla e dei Sichangu e dei Minniconjew, aveva raggiunto il basso corso del fiume James, mentre altri Teton, noti come Saone e antenati delle bande storiche degli Hunkpapa, Sihasapa, Itazipcho e Oohenompa, in modo autonomo si erano spostati sull’alto corso dello stesso fiume; a est di quest gruppi Teton, vivevano gli Yankton e gli Yanktonay, i primi più sud e i secondi a nord, nella regione del fiume Big Sioux. Tutte queste bande a primavera compivano il viaggio fino alle sorgenti del Minnesota, per incontrarsi e commerciare con i Santee, che si rifornivano di pelli da portare ai mercanti francesi che operavano sull’alto corso del Mississipi. Di questa prima migrazione dei Teton, si hanno notizie dalle storie più antiche dei Cheyenne, che proprio nei primi decenni del ‘700 li incontrarono; secondo le loro tradizioni, gruppi di Teton e Yankton, poveri e spesso affamati, furono da loro accolti e ospitati, e una delle suddivisioni dei Cheyenne, i Moiseyu, fu originata da questo incontro. Questa condizione di povertà e debolezza dei Teton e degli Yankton non ci spiega il fatto che in quei primi decenne del ‘700, gli Omaha che vivevano lungo il Missouri, subivano devastanti attacchi da parte dei Sioux, che discendevano in canoa i fiumi James e Big Sioux per razziare i loro villaggi. La contraddizione tra le testimonianze dei Cheyenne e quelle degli Omaha, potrebbe essere forse nell’abitudine dei Teton e degli Yankton, di tornare periodicamente all’est per incontrarsi con i Santee e commerciare con loro; probabilmente era in occasione di questi incontri che le tribù riunite organizzavano insieme spedizione di guerra, in cui i Santee mettevano a disposizione le armi di cui erano i più forniti, mentre i Teton e gli Yankton li guidavano nelle terre dell’ovest a loro ignote: il ruolo dei Santee in queste spedizioni di guerra potrebbe essere confermato proprio dall’uso delle canoe per discendere il fiume. A quell’epoca, i primi anni del ‘700, anche i Cheyenne si stavano spostando a ovest, lasciando i loro villaggi tra il lago Traverse e il Red River, ma a differenza dei parenti Arapaho, nelle praterie essi non si diedero alla vita nomade, ma per qualche tempo si dedicarono all’agricoltura, un’attività fino ad allora mai praticata. Secondo la tradizione, confermata da riscontri archeologici, essi ottennero del mais da popoli vicini e lo seminarono nei pressi del fiume Sheyenne, nel Dakota orientale, dove costruirono un grande villaggio di case di terra, cinto da una palizzata. Mais, case di terra e palizzate difensive, sono evidentemente il frutto di un contatto con gli Arikaree o altri popoli del Missouri da cui i Cheyenne mutuarono tali abitudini; e ciò significa che essi, almeno durante le spedizioni di caccia si spingevano fino al Missouri e ai villggi agricoli. I Cheyenne continuarono a vivere nel villaggio sul fiume Sheyenne, forse fino al 1740, abbandonandolo a causa degli attacchi dei Cree, degli Assiniboin e degli Ojibway; queste tribù a quel tempo ben forniti di fucili, si stavano anch’esse trasferendo nelle Grandi Pianure per cacciare i bisonti, e continuavano a combattere i nemici Teton e Yankton, le cui bande vagavano a sud dei Cheyenne, che si trovavano al centro del conflitto. Lasciato il villaggio sul fiume Sheyenne, la tribù prese la via dell’ovest e prima di raggiungere il Missouri avvenne l’incontro con la misteriosa tribù dei Sutaio, un popolo che viveva cacciando bisonti e che parlava una lingua molto simile al Cheyenne. Quando le schiere appiedate dei Cheyenne e dei Sutaio si incontrarono nella prateria, da entrambe le parti ci si preparò alla battaglia, ma ai primi insulti che come era uso ogni gruppo lanciava all’altro, da ambo le parti grande fu lo stupore, perchè il nemico parlava una lingua comprensibile. I capi decisero quindi di incontrarsi e le due comunità decisero di vivere in pace e amicizia; secondo la tradizione fautori di questa pace furono i custodi degli oggetti sacri delle due tribù, le “4 Frecce Sacre” dei Cheyenne e il “Sacro Copricapo di Bisonte” dei Sutaio, che divennero amici e favorirono l’unione dei due gruppi. I Sutaio che conserveranno la loro lingua leggermente diversa, costituirono una importante suddivisione dei Cheyenne, e i due oggetti sacri diverranno un comune patrimonio tribale, le 4 Sacre Frecce custodite in tempi storici dai Cheyenne meridionali, il Sacro Copricapo di Bisonte dai Cheyenne settentrionali. E’ possibile che i Sutaio, come anche i Cheyenne, un tempo vivessero nelle foreste a est del lago Winnipeg e che si siano separati dai Cree in tempi più remoti dei Cheyenne, e ciò spiegherebbe la comunanza linguistica; secondo i racconti dei Cheyenne più anziani, giunti al Missouri una parte dei Sutaio preferì non attraversare il fiume e fare ritorno fra i Cree. Al tempo dell’incontro con i Sutaio, i Cheyenne erano un popolo che nel passato era vissuto cacciando e pescando tra laghi e foreste, di recente si era dedicato all’agricoltura, ma certò non aveva esperienza


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della vita nomade nelle praterie dei bisonti; è quindi probabile che i Sutaio abbiano svolto un ruolo importante nell’adattamento della tribù al nuovo contesto ambientale. Dopo l’incontro con i Sutaio i Cheyenne raggiunsero il fiume Missouri a nord dei villaggi Arikaree e a sud di quelli Mandan; qui essi attraversarono il fiume, grazie ai “bullboat”, canotti fatti di pelle di bisonte, forniti quasi certamente dagli Arikaree, che li usavano per collegare i villaggi posti Migrazione verso le Grandi Pianure nella prima metà de ‘700 sulle due sponde del fiume. I rapporti tra le due tribù dovevano essere di amicizia perchè non solo gli Arikaree aiutarono i Cheyenne ad attraversare il fiume, ma permisero loro anche di costruire un villaggio di case di terra, alla confluenza di un affluente occidentale del Missouri, che poi prenderà il nome proprio dai Cheyenne. Ancora alla metà del ‘700, dopo essere giunti a ovest del Missouri, i Cheyenne non si erano dati al nomadismo, ma coltivavano campi di mais e zucche, anche se in primavera e in autunno risalivano il fiume Cheyenne, fin quasi alle Black Hills, per cacciare il bisonte. E’ in questo periodo che la tribù entrò in possesso dei primi cavalli, attraverso gli Arikaree certamente, ma anche per i contatti con le tribù nomadi della regione, i Kiowa, gli Arapaho, gli Shoshone, tutte tribù attratte dalla bellezza e dalla ricchezza di selvaggina delle Black Hills. Anche gli Arapaho, forse costretti dall’aggressività dei Cree, degli Ojibway e degli Assiniboin, nei primi anni del ‘700, si erano spinti fino al fiume Missouri, raggiunto più a nord della regione occupata dai Cheyenne, laddove il Little Missouri confluisce nel Missouri; qui rimasero fino ai primi decenni del ‘700, quando la tribù si divise e una parte rimase a nord del Missouri, prendendo il nome di Atsina. Non ci sono notizie certe circa i rapporti tra gli Arapaho e gli abitanti dei villaggi del Missouri, ma quasi certamente essi incontrarono gli Hidatsa e forse anche i Mandan, e tali contatti possono forse essere testimoniati da un carattere culturale comune, l’organizzazione in società guerriere generazionali. Questo modello di società guerriere, cui si è già accennatro parlando dei Blackfoot, era diffuso anche tra gli Arapaho, gli Atsina che dagli Arapaho si separarono e tra i Mandan e gli Hidatsa. E’ lecito ipotizzare che un modello così peculiare possa essersi diffuso per contatto, al tempo in cui gli Arapaho, ancora uniti agli Atsina, vagavano nelle pianure a nord-est dei villaggi Hidatsa e Mandan; ed è anche possibile ipotizzare che una costruzione sociale relativamente complessa, abbia potuto più facilmente prodursi tra popoli sedentari, come i Mandan e gli Hidatsa, piuttosto che tra bande di nomadi impegnate a migrare in terre ignote. Se questo modello fu acquisito dagli Arapaho dopo il contatto con i Mandan e gli


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Hidatsa, potrebbero essere stati gli Atsina a introdurlo successivamente tra i Blackfoot. Non sappiamo per quanto tempo gli Arapaho si trattennero a est del Missouri, ma a un certo punto forse nei primi decenni del’700, una parte continuò a spingersi a ovest, rimanendo a nord del grande fiume, spingendosi fino alle terre dei Blackfoot, tra il Missouri e il South Saskatchevan; conosciuti come Atsina, o Gros Ventre delle Pianure (per distinguerli dagli Hidatsa, i Gros Ventre del Missouri), questo popolo stabilì una duratura alleanza con i Blackfoot, da loro ottenne i primi cavalli, e insieme a loro si oppose ai Cree e agli Assiniboin, fin oltre la metà dell’800. Gli altri Arapaho invece intorno alla metà del ‘700, attraversarono il Missouri spingendosi a sud-ovest, verso la regione delle Black Hills; non sappiamo se essi ottennero i primi cavalli già attraverso i contatti con gli abitati dei villaggi del Missouri, ma certamente a spingerli verso le Black Hills fu proprio la necessità di impossessarsi dei pregiati animali. Come già detto, il movimento migratorio che dalle regioni forestali spinse nelle praterie dei bisonti i Cheyenne, gli Arapaho, i Teton, gli Yankton, aveva la sua origine nei conflitti causati dal commercio con i mercanti europei e dalla diffusione di armi, asce, coltelli di metallo e fucili; i principali protagonisti di questi conflitti furono i Cree, gli Ojibway e gli Assiniboin che erano in diretto contatto con i mercanti inglesi e francesi che operavano sulla Baia di Hudson e sui Grandi Laghi. Gli Ojibway comunque si trovarono di fronte la tenace resistenza dei Santee, anch’essi in contatto con i mercanti francesi, e solo una piccola parte di loro si trasferì nelle pianure dei bisonti, occupando il basso corso del Red River a sud del lago Winnipeg, da dove lanciava spedizioni di caccia e di guerra, fino al Missouri. Cree e Assiniboin che grazie alle armi da fuoco avevano cacciato davanti a se ogni altra tribù, trovarono un limite al loro espansionismo solo dopo il 1730, quando quasi tutti i loro nemici erano ormai in possesso di cavalli, con cui bilanciare la supremazia delle armi da fuoco. Primi a dotarsi di fucili essi furono gli ultimi ad avere i cavalli, mai numerosi peraltro; gli Assiniboin in particolare, nella seconda metà del ‘700, viaggiavano fino ai villaggi Mandan sul Missouri, portando armi e pregiate merci europee, da scambiare con i cavalli assenti nelle praterie del nord. L’altro modo di procurarsi cavalli era ovviamente la razzia, e cosi tanto i Cree che gli Assiniboin si spostarono nelle pianure a ovest del Lago Winnipeg, combattendo conro i rivali Blackfoot che avevano più ricche mandrie. Traferitisi nelle Grandi Pianure gli Assiniboin acquisirono integralmente lo stile di vita dei nomadi cacciatori di bisonti, così come i loro parenti e nemici, Teton e Yankton. I Cree invece era una grande entità etnica, senza una vera e propria organizzazione tribale unitaria, le cui diverse bande occupavano una vasta regione a sud della Baia di Hudson, dalla penisola del Labrador a est, al lago Winnipeg a ovest; il trasferimento nelle Grandi Pianure riguardò solo le bande più occidentali, che però si spinsero fin quasi alle pendici delle Rocky Mountains. Armati di fucili i Cree si scagliarono anche contro le tribù Atapaskan del Canada occidentale, gli Tsattina (Beaver) e i Chipewyan che vivevano tra il North Saskatchewan e il lago Athabaska, causando drammatiche conseguenze fin nelle lontane terre del Canada nordoccidentale. Una parte degli Tsattina per difendersi dagli attacchi dei Cree, nella seconda metà del ‘700 si trasferirono a sud del Saskatchewan, ottennero la protezione dei Blackfoot e da loro i primi cavalli; essi presero il nome di Sarsee, e come già avevano fatto gli Atsina, divennero parte di una alleanza che dominò per oltre un secolo le praterie occidentali del Canada. All’alleanza dei Blackfoot con gli Atsina e i Sarsee, si contrappose, fin quasi alla fine dell’800, il blocco composto da Cree, Assiniboiun e Ojib- Una famiglia di Bois-Brulè fotografata alla fine dell’800


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way, che prese il nome di “alleanza di ferro” e dominò le praterie orientali del Canada, operando sempre in stretti rapporti con la potente Hudson Bay Company. E’ interessante notare come gli stretti rapporti tra Assiniboin, Cree e Ojibway e i mercanti europei, diedero vita all’unico caso di reale meticciato tra bianchi e indiani in Nord America. I Bois-Brulè (“legno bruciato” per la loro carnagione più scura), questo è il nome con cui viene ricordato questo popolo di meticci nato dall’incontro tra mercanti francesi, scozzesi e più raramente inglesi, con gli indiani; essi vissero fino alla fine dell’800 coltivando la terra, cacciando bisonti e commerciandone le pelli, spostandosi nelle pianure con l’ausilio di carri due ruote, invece che con i travois tipici degli indiani delle praterie. Questì Bois-Brulè del Canada furono protagonisti di uno degli ultimi episodi delle guerre indiane, alla fine dell’800, l’unico significativo conflitto tra indiani e autorità canadesi. Tra gli ultimi protagonisti della storia e della cultura delle Grandi Pianure a comparire sulla scena furono i Crow, anche noti come Absaroka, passati alla storia per i loro lunghi conflitti con quasi tutte le tribù vicine, i Blackfoot, gli Atsina, gli Shoshone, i Cheyenne, gli Arapaho e i Teton. La tribù dei Crow nasce da una secessione degli Hidatsa, il popolo di agricoltori che viveva lungo il Missouri, i cui villaggi nei primi decenni del ‘700, venivano visitati dai Kiowa, che vivevano presso le Black Hills, e che vi portarono i primi cavalli. Con i primi cavalli ottenuti dai Kiowa, una parte degli Hidatsa decise di abbandonare l’agricoltura per dedicarsi alla sola caccia dei bisonti, traferendosi nelle praterie a ovest del Missouri e prendendo possesso del bacino del fiume Yellowstone, fino alle pendici delle Rocky Mountains; da queste terre cacciarono gli Shoshone, mentre mantennero una stretta allenza con i Kiowa, almeno fin quando questa tribù non di trasferì a sud alla fine del ‘700. Alla metà del ‘700 tutti i protagonisti della breve ma intensa stagione della cultura del cavallo e del bisonte, avevano fatto la loro comparsa sul teatro della storia, ma perchè tutti questi popoli, con origini, storia, lingua e culture diverse potessero reciprocamente contaminarsi, scambiarsi informazioni ed esperienze e produrre quindi un comune stile di vita, c’era bisogno di luoghi in cui l’incontro poteva avvenire, meglio se in forma pacifica, luoghi che per tutti fossero una sorta di porto franco, a cui far riferimento per trovare una sosta sicura e in cui poter scambiare i loro averi. Questi luoghi furono i villaggi del medio Missouri, che per i nomadi costituivano al tempo stesso una barriera difficilmente superabile, ma anche un luogo d’attrazione a cui far riferimento; furono probabilmente proprio i villaggi degli Arikaree, dei Mandan, degli Hidatsa, il crogiuolo in cui la cultura del bisonte e del cavallo si produsse nella sua forma più complessa e articolata.

I villaggi sul Missouri Per secoli se non per millenni le Grandi Pianure centrali erano state un ambiente sostanzialmente “conservatore”, rispetto ad altri contesti ambientali del Nord America, in particolare rispetto alle Foreste Orientali o le terre del Sud-Ovest; da millenni una delle principali risorse per la sopravvivenza era rappresentata dalla possibilità di individuare una mandria di bisonti, impaurirla e spingerla al panico, farla fuggire verso un precipizio, vedere cader centinaia di animali e sfracellarsi in fondo ad un dirupo, poi scendere e completare la mattanza a colpi di mazza e di ascia. Poi scuoiare e macellare la preda, raccogliere la carne e le pelli che si era in grado di trasportare, senza carri ne cavalli, e lasciare dietro di se centinaia di carogne a putrefarsi nelle pianure. Per millenni questa pratica era stato il fondamento della vita nelle praterie dei bisonti, e così era ancora all’inizio del ‘600; non era certo uno stile di vita molto attrattivo, e infatti malgrado la grande risorsa dei bisonti, le Grandi Pianure erano nel complesso molto meno popolate che altre regioni del continente. Più tardi che in altre aree l’agricoltura era comparsa, più lentamente s’era diffusa e comunque non dappertutto; in ogni caso anche la cultura agricola che nelle Grandi Pianure era nata, quella dei Caddoan, rimaneva un’espressione periferica delle più avanzate culture delle Foreste Orientali. Un vero e proprio elemento di innovazione culturale, originale e più strettamente legata all’ambiente delle Grandi Pianure, fu invece lo stile di vita dei popoli del Medio Missouri, che successivamente al X secolo avevano portato l’agricoltura nelle terre del nord, nelle pianure del Dakota, ottenendo un notevole successo, confermato dal gran numero di villaggi i cui resti punteggiano la valle del Missouri. Si trattava probabilmente di uno stile di vita che più di quello degli agricoltori Caddoan integrava l’attività agricola con le stagionali cacce al bisonte, dato che alle latitudini del Dakota, malgrado le migliori condizioni climatiche protrattesi almeno fino al XIV secolo, l’agricoltura rendeva meno che non nelle terre meridionali dei Caddoan; d’altra parte i bisonti hanno sempre abbondato nelle praterie settentrionali, cosa che invece non sempre era


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accaduto in quelle meridionali. Comunque l’esperienza dei popoli agricoli del Missouri, con i loro villaggi fortificati, pur rappresentando forse il miglior modello di adattamento all’ambiente delle pianure (prima del cavallo), era un esperienza recente, e limitata ad una area geografica nel complesso di scarsa estensione. In questo ambiente “conservatore”, in cui le primitive tecniche di caccia dei Paleoindiani si tramandavano quasi immutate da millenni, nell’arco di due o tre generazioni accaddero cambiamenti e sconvolgimenti in Villaggio Mandan in un dipinto di George Catlin intorno al 1830 grado modificare completamente abitudini e costumi consolidati. Prima di tutto il cavallo, che ebbe un impatto potentissimo: con il cavallo la caccia diveniva un’attività estremamente più produttiva, dato che modificava le tecniche, permetteva di cercare e seguire le mandrie agevolmente, e facilitando il trasporto, favoriva un uso più razionale delle prede cacciate; in aggiunta il cavallo era anche una vera e propria arma da guerra, e infatti se nei secoli precedenti, l’impressione è che nel complesso le Grandi Pianure fossero un ambiente con scarsi e limitati conflitti, nel corso del ‘600, dopo l’acquisizione del cavallo, la guerra divenne un’attività costante, seppur a bassa intensità. In contemporanea giungevano nelle Grandi Pianure i primi manufatti di metallo e poi anche le armi da fuoco. All’inizio in quantità limitata i manufatti europei (ma non le armi da fuoco), giungevano da sud, dalle colonie del Nuevo Mexico, insieme ai cavalli, poi in misura massiccia da est e da nord, dai mercanti europei, Francesi e Inglesi che operavano sui Grandi Laghi e sulla baia di Hudson. L’afflusso di merci e armi europee fece da volano alla crescita degli scambi, che la possibilità di spostarsi a cavallo rendevano più facilmente praticabili; ovviamente con la crescita degli scambi, aumentavano anche le ragioni di conflitti, e dal cavallo anche questi si avvantaggiavano. Tutti questi cambiamenti erano veicolati da una quantità di popoli giunti da poco, che migravano nelle Grandi Pianure per cogliere le nuove opportunità, o solo per sfuggire alle guerre che all’est si combattevano per il controllo del commercio delle pellicce. Tutto ciò accadde in meno di un secolo, forse in settant’anni, tra il 1680, quando il cavallo inizia a diffondersi in tutte le Grandi Pianure, alla metà del ‘700, quando i Teton già armati di fucili raggiungono la sponda orientale del Missouri. Un tempo breve e cambiamenti veloci, tali che l’esperienza e le conoscenze di un uomo anziano o maturo, potevano risultare insufficienti o inutili, per suo nipote, se non addirittura per suo figlio. Difficile è poter immaginare quale sia stato l’impatto di tali trasformazioni per questi uomini e donne che li vissero, anche perché gran parte di loro, aveva solo una vaga idea o addirittura nessuna conoscenza, della causa prima di tali trasformazioni: l’uomo bianco. L’uomo bianco che ancora alla metà del ‘700 era totalmente assente dalle Grandi Pianure, se si escludono pochi mercanti lungo i confini orientali, e poche spedizioni esplorative condotte dopo il 1720, ma che era di fatto l’origine dei cambiamenti che in quegli anni si producevano. E’ lecito comunque pensare che per quegli uomini e quelle donne furono tempi di grande eccitazione e curiosità, tempi di novità, di opportunità, di crescita e ricchezza, e tutto ciò forse contribuì a produrre quel carattere orgoglioso e pago di se, che quasi sempre colpì i primi bianchi che visitarono gli indiani delle Grandi Pianure, i nomadi in particolare, con la loro sicurezza e il disprezzo evidente nei confronti dei bianchi, verso cui quasi mai mostrarono curiosità e mai subalternità, come invece spesso era accaduto nei primi contatti in altre regioni. Non abbiamo testimonianze europee su quanto accadeva nelle Grandi Pianure in questo periodo di grandi trasformazioni, ma un elemento certo fu il ruolo che in quegli anni svolsero gli abitanti dei villaggi del Medio Missouri, come luogo d’attrazione tanto dei popoli che dei traffici. Per quasi tutti i popoli agricoli delle Grandi Pianure tanto il cavallo quanto le armi da fuoco, rappre-


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sentarono un elemento di squilibrio nei precari rapporti con i nomadi: i Pawnee della valle del Platte, i Wichita dell’Arkansas, dovettero subire prima l’aggressione degli Apache delle Pianure, poi quella dei Comanche, che a cavallo colpivano i villaggi agricoli a colpo sicuro, per poi fuggire nelle immense praterie; i Siouan Oto, Omaha, Iowa erano vittime degli attacchi delle tribù Sioux, già in possesso di armi da fuoco, che discendevano i fiumi Big Sioux e James, per attaccare i loro villaggi sul basso Missouri. Per dei popoli nomadi, militarmente superiori grazie al possesso di cavalli o di armi da fuoco, i villaggi agricoli non avevano altro interesse che come opportunità di predazione; in aggiunta quegli stessi popoli nomadi tendevano a esercitare il controllo sulle mandrie di bisonti, attaccando le spedizioni di caccia degli abitanti dei villaggi agricoli. Questo e ciò che accadde in gran parte delle Grandi Pianure a partire dalla fine del ‘600, salvo che nella stretta striscia di territorio intorno al corso del Missouri, nel tratto in cui esso attraversa le pianure del Dakota. Qui le popolazioni agricole, i Mandan, gli Hidatsa, gli Arikaree, avevano imparato a costruire i loro villaggi in posizioni difendibili, e soprattutto a circondarli di palizzate e terrapieni, che per le tecniche militari degli indiani nomadi, li rendevano imprendibili. Quasi certamente si trattava di un’usanza delle Foreste Orientali, acquisita dai Mandan e importata all’ovest, e da loro diffusa prima fra gli Hidatsa, poi fra gli Arikaree. Garantiti nella loro sicurezza. questi villaggi potevano divenire luogo di scontro e di scambio, senzatimore di attacchi dipredoni. Nei più antichi villaggi Mandan e Hidatsa, gli archeologi hanno trovato oggetti e materiali provenienti da terre lontane, dalla valle del fiume Tennessee a est, e dalle coste del Pacifico a ovest, e ciò può far ritenere che questi villaggi fossero già da secoli il punto di riferimento per traffici che seppur in forma limitata, avvenivano nelle praterie del nord. Nelle decine di villaggi che punteggiavano la valle del Missouri, era concentrata una popolazione di forse decine di migliaia individui, comunità popolose, ognuna in grado di difendere se stessa e tutte insieme in grado di aiutarsi reciprocamente contro le aggressioni dei nomadi. Una banda di nomadi poteva saccheggiare i campi di mais e poi fuggire con un piccolo bottino di derrate alimentari, ma i villaggi, con le loro scorte di cibo, con i manufatti, le pelli, e gli stessi uomini e donne che potevano essere fatti prigionieri e venduti come schiavi, rimanevano un obbiettivo impraticabile. E’ comunque probabile che nella seconda metà del ‘600, quando le tribù Sioux iniziarono a essere rifornite di lame di metallo e fucili, gli Arikaree abbiano subito la loro aggressività; i villaggi potevano essere sicuri, ma contro nemici ben armati la caccia nelle praterie e lo stesso lavoro dei campi poteva divenire pericoloso. Prima della fine del ‘600, gli Arikaree furono costretti ad abbandonare i villaggi più a valle, lungo il fiume Elkhorn, un affluente del Missouri nel Nebraska orientale, e sulle terre abbandonate da loro si insediartono agricoltori Siouan, gli Oto e gli Omaha, che i Sioux avevano cacciato dalle terre a sud del fiume Minnesota; questi profughi in fuga, all’inizio costruirono i loro villaggi lungo il Missouri, poi si spostarono sulla sponda meridionale del fiume, per essere meno esposti agli attacchi. Prima della metà del ‘700 una parte degli Omaha, si separò per risalire il Missouri fino alla foce del Niobrara, dove costruirono un villaggio fortificato secondo il modello dei loro vicini settentrionali; questo gruppo diede vita alla tribù autonoma dei Ponca. Gli Omaha erano rimasti più a valle lungo il Missouri, ma anch’essi decisero di La Danza del Bisonte dei Mandan in un quadro di Karl Bodmer


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costruire un villaggio fortificato per difendersi dai Sioux. Ma prima che la minaccia delle armi di metallo e dei fucili potesse mettere a rischio la supremazia dei villaggi sul Missouri, dalle terre a ovest del fiume i cavalli raggiungevano gli Arikaree, e dopo di loro i Mandan e gli Hidatsa. Gli Shoshone e i Comanche, che già all’inizio del ‘700 disponevano di cavalli, a quel tempo vagavano lontani dal Missouri, spingendosi a sud per appropriarsi dei cavalli che più abbondavano nelle praterie meridionali e probabilmente ebbero scarsi contatti con gli abitatiti dei villaggi fortificati. Furono invece i Kiowa che negli stessi anni occupavano la regione delle Black Hills, al confine tra Dakota e Wyoming, che per primi visitarono i villaggi del medio Missouri, portandovi i cavalli, nei primi anni del ‘700; essi avevano rubato i cavalli ai Comanche, con cui furono in conflitto fino al 1740, e insieme ai cavalli avevano ottenuto i primi oggetti di metallo di fabbricazione spagnola, frutto delle incursioni Comanche in Nuevo Mexico e Texas. Con questi piccoli ma importanti tesori, potevano ottenere derrate alimentari, e probabilmente anche godere del piacere di visitare comunità il cui stile di vita, ai poveri nomadi delle pianure, doveva apparire ricco e complesso: villaggi di decine di Danzatore Hidatsa ritratto da Karl Bodmer grandi capanne di terra, in cui si assiepava una popolazione di centinaia, a volte migliaia di abitanti, con una vita cerimoniale ricca e strutturata, capi autorevoli e sacerdoti, e tutto ciò doveva essere un’attrazione per genti che vivevano gran parte dell’anno in piccoli gruppi, spostandosi alla ricerca di cibo. Per gli abitanti dei villaggi fortificati, questi nomadi non rappresentavano un pericolo reale, e invece portavano una risorsa che era ciò che mancava loro per imporre la propria supremazia: il cavallo. Chiusi nei loro villaggi gli Arikaree, i Mandan, gli Hidatsa erano al sicuro contro ogni nemico, ma solo il cavallo ormai dava loro la stessa sicurezza durante le stagionali caccie al bisonte nelle vaste praterie a est e a ovest del Missouri; prima della metà del ‘700 gli abitanti dei villaggi agricoli, avevano ormai cavalli a sufficienza per non temere le tribù nomadi dell’ovest, ma soprattutto per imporsi sui nuovi migranti che giungevano da est. Da est infatti giungevano altre genti, i Cheyenne, gli Arapaho, e soprattutto i Teton e gli Yankton. Dei Cheyenne è stato detto come essi non solo fossero in buoni rapporti con gli abitanti dei villaggi e addirittura ne mutuassero le abitudini e lo stile di vita, prima nel villaggio sul fiume Sheyenne all’inizio del ‘700, poi in quello alla confluenza tra il fiume Cheyenne il Missouri, alla metà del ‘700; è possibile addirittura che i Cheyenne si fossero posti sotto la protezione degli Arikaree, nelle vicinanze dei quali costruirono il loro villaggio di case di terra, e in generale nel ricordo degli anziani Cheyenne, gli Arikaree sono un popolo amico e rispettato. Per questi Cheyenne, che si erano spostati da una terra di foreste e paludi, e vagavano a piedi nelle vaste e ignote praterie, i villaggi fortificati sul Missouri, dovevano rappresentare un oasi di riposo per il presente, e una speranza per il futuro. E’ un fatto che fino alla seconda metà del ‘700, quando i Cheyenne erano ormai abbastanza forniti di cavalli, essi tentarono di vivere secondo il modello agricolo dei loro vicini e alleati. Non ci sono adeguate testimonianze per gli Arapaho, che in quegli stessi anni vagavano a nord dei Cheyenne e quasi certamente ebbero contatti con i villaggi dei Mandan e degli Hidatsa; gli Arapaho erano un popolo che da tempo viveva cacciando i bisonti, e non risulta che, come i Cheyenne, essi cercarono di adattarsi all’agricoltura, ma è probabile che essi abbiano mutuato dai Mandan e dagli Hidatsa l’uso di dividere la popolazione maschile in società guerriere su base generazionale. Giunti a piedi fin sulle sponde del Missouri, parte degli Arapaho attraversò il fiume a nord dei villaggi Hidatsa per ottenere quei cavalli, che certamente essi avevano conosciuto proprio nei villaggi agricoli; altri invece con


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il nome di Atsina, rimasero a nord del Missouri, e si allearono ai Blackfoot. Il termine Arapaho con cui la tribù fu indicata nel XIX secolo, potrebbe derivare dalla parola “Tirapaho”, che in un dialetto Pawnee significa “mercanti”, ad indicare la propensione agli scambi di questa tribù; non abbiamo elementi a conferma, ma tale propensione potrebbe avere avuto origine proprio in questo periodo, quando la tribù viveva a nord delle Black Hills, e poteva svolgere un ruolo di intermediazione nel commercio di cavalli, tra i Kiowa e i Comanche che vivevano più a sud, e i parenti Atsina, e tramite loro i Blackfoot, che vivevano a nord del Missouri. In tempi storici le tribù Arapaho e Blackfoot, che occupavano territori molto distanti, erano in rapporti amichevoli, e quando per un periodo gli Atsina si trasferirono a sud tra gli Arapaho prima della metà dell’800, con essi erano anche un gruppo di Blackfoot, molti dei quali rimase a vivere con gli Arapaho. Vista la loro posizione geografica e l’amicizia con gli Atsina, gli Arapaho potrebbero aver avuto un ruolo di intermediazione anche tra i Blackfoot e i villaggi sul Missouri, che non avevano rapporti diretti. Cheyenne e Arapaho, con vicende e modalità diverse interagirono con gli abitanti dei villaggi sul Missouri, che a quel tempo rappresentavano la prima opportunità di incontro con i cavalli per i popoli che provenivano dalle regioni orientali; da ovest i Kiowa facevano anch’essi riferimento ai villaggi sul Missouri, dove potevano portare i cavalli razziati ai Comanche. Nei primi decenni del ‘700 è possibile immaginare che queste tre tribù, e i Mandan, gli Hidatsa e gli Arikaree, abbiano intrattenuto frequenti relazioni, fatto scambi commerciali, partecipato reciprocamente a cerimonie e riti tribali, condiviso spedizioni di caccia al bisonte e razzie per rubare cavalli alle tribù meridionali, i Comanche, gli Shoshone, gli Ute. Non ci sono notizie di conflitti e tensioni, e se non possiamo escludere che ce ne fossero è probabile che la supremazia e la ricchezza degli abitanti dei villaggi, fosse tale da imporsi sui nomadi. La forza e l’importanza dei villaggi sul Missouri, crebbe ulteriormente prima della metà del ‘700 quando da est giunsero altre genti, che non avevano cavalli, ma portavano con se una ricchezza di importanza quasi eguale: i Teton e gli Yankton che avevano lasciato le foreste a est del Mississipi, erano già forniti di armi di metallo e dei primi fucili, e possedevano merci e manufatti europei ottenuti dai mercanti francesi, o dai loro parenti Santee, che con i Francesi commerciavano. Il possesso di armi più efficaci sicuramente rendeva questi nuovi arrivati più bellicosi che non i Cheyenne e gli Arapaho che li avevano preceduti, e sappiamo che nei primi decenni del ‘700, le spedizioni di guerra dei Sioux, colpivano i villaggi degli Iowa, degli Omaha, degli Oto e forse anche dei Pawnee, anche se è probabile che queste azioni fossero dovute principalmente ai Santee, all’epoca più forti e meglio armati, con il supporto delle bande di Teton e Yankton che in quegli anni migravano a ovest. Di questi, le tradizioni Cheyenne ci dicono che non rappresentavano un vero pericolo, erano poveri e affamati e anche nel ricordo degli Arikaree, i Siou”, che più tardi impediranno loro anche di cacciare nelle praterie, a quel tempo non rappresentavano una autentica minaccia, semmai a volte un fastidio. Queste piccole bande di profughi giungevano ai villaggi Arikaree, portando il loro piccolo tesoro di armi, utensili e merci europee, li scambiavano oltre che con il mais e altro cibo, con pelli e cavalli, che giungevano dalle praterie occidentali, poi portavano le pelli alle sorgenti del fiume Minnesota, dove si incontravano con i Santee, offrendole a loro, in cambio di altre merci europee. Alcune testimonianze fanno riferimento a tensioni tra i Sioux e gli Arikaree, presto risolte per la supremazia degli Arikaree, che oltre a potersi difendere nei villaggi fortificati, avevano un maggior numero di cavalli con cui attaccare gli accampamenti dei nemici; in generale comunque i rapporti erano pacifici, se non cordiali, e non mancarono i casi in cui furono capi Sioux ad allertare gli Arikaree, circa possibili propositi predatori di altre bande del loro popolo. Da ultimi, alla metà del ‘700, anche gli Assiniboin, per ottenere i cavalli di cui nelle praterie settentrionali c’era sempre penuria, si spinsero fino al Missouri, visitando annualmente i villaggi Mandan, portando le loro merci targate con il marchio della Hudson Bay Company. Ancora intorno al 1830 un testimone europeo potè vedere lo spettacolo di una intera tribù di Assiniboin, che marciando a piedi, cantando al ritmo dei tamburi, con i capi e gli anziani in testa, le donne e i bambini e al centro, i guerrieri a protezione ai lati, giungeva in visita ai villaggi Mandan, sparando salve di fucile per annunciare il suo arrivo. Con l’arrivo dei Teton, degli Yankton, degli Assiniboin, i villaggi sul medio Missouri vennero così a trovarsi al centro di una rete di scambi di cavalli, pellicce, prodotti agricoli, armi e merci europee (compreso l’alcool), che metteva in relazione le lontane colonie spagnole del Nuevo Mexico, con gli avamposti commerciali francesi e inglesi sui Grandi Laghi e sulla baia di Hudson. Numerosi, coesi e ben difesi nei loro villaggi fortificati, riforniti di cavalli, armi e merci europee, i popoli agricoli e gli Arikaree in particolare, controllavano il flusso di merci e popoli tra le due sponde del Missouri, collegate attraverso i bullboat, i canotti di pelle di bufalo su una intelaiatura di rami, che se non erano adatti alla navigazione, permettevano comunque di traghettare merci e persone. Presso i guadi del Missouri, villaggi


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fortificati sbarravano la strada a chi avesse voluto attraversare il fiume senza autorizzazione, e i Teton, che nell’800 domineranno le praterie a ovest del Missouri, per quasi mezzo secolo furono bloccati a est del fiume, per impedir loro che raggiungendo le terre dove i cavalli abbondavano, essi potessero sottrarsi all’intermediazione Arikaree. In questo quadro di ricchezza e scambi, anche l’artigianato indiano ebbe un notevole sviluppo grazie soprattutto al ruolo delle donne delle tribù nomadi, che non essendo impegnate nel lavoro dei campi, dedicavano il loro tempo alla concia delle pelli, alla fabbricazione e alla decorazione di abiti, sia con aculei di porcospino, secondo la tecnica tradizionale, sia con le perline colorate di fabbricazione europea ottenute dai mercanti. Anche questi pregiati prodotti raggiungevano i villaggi sul Missouri, dove erano particolarmente apprezzati dagli indiani che I “bullboats” i caratteristici canotti usati per spostarsi tra le due sponde del Missouri vi abitavano, dato che le loro donne non raggiungevano la stessa eccellenza. I popoli che si incontravano nei villaggi del Medio Missouri parlavano ognuno una propria lingua, non comprensibile ai membri delle altre tribù, ed è quindi probabile che l’elaborato linguaggio dei segni comune a tutti i popoli delle praterie, si sia prodotto proprio in questi anni e in questi luoghi, per poi diffondersi in tutte le Grandi Pianure. Con un comune linguaggio, le tecniche, le usanze, le credenze si diffusero da una tribù all’altro, producendo uno stile di vita sostanzialmente simile, almeno per ciò che riguarda i caratteri fondamentali. Le tre tribù che furono protagoniste di questa fase rigogliosa della storia delle Grandi Pianure, gli Arikaree, gli Hidatsa e i Mandan, non risulta che siano mai state in aperto conflitto fra di loro; Mandan e Hidatsa avevano colonizzato insieme le praterie del Missouri dopo il X secolo, e gli Arikaree che erano giunti in da sud dopo essersi staccati dagli Skidi Pawnee solo nel XIII secolo, avevano lingua, organizzazione sociale e credenze religiose molto diverse, ma tutte e tre le tribù diedero vita ad uno stile di vita comune, che gli studiosi definiscono “Coalescent Middle Missouri”, che era quello praticato al tempo dell’acquisizione del cavallo. Riscontri archeologici di un sanguinoso massacro, avvenuto in un villaggio nella località di Crow Creek nel South Dakota, intorno al 1340, sono l’unico significativa testimonianza di conflitti gravi in seno a queste comunità. E’ comunque probabile, se non certo, che con l’arrivo del cavallo e delle merci europee, con l’aumento dei traffici e delle ricchezze, siano sorte rivalità e competizioni, in particolare tra gli Arikaree e le altre due tribù che vivevano più a nord. Tali rivalità e competizioni probabilmente si espressero intorno al controllo delle relazioni con le tribù nomadi, da cui dipendeva l’afflusso ai villaggi agricoli, di merci europee e cavalli; si produssero così una serie relazioni privilegiate tra tribù agricole e nomadi, che se non si trasformarono sempre in vere e proprie alleanze, imponevano almeno relazioni non ostili, e a al tempo stesso rendevano possibili le ostilità, con quelle tribù, nomadi o agricole, al di fuori di tale relazione privilegiate. Gli Arikaree, la più meridionale tra le tre tribù era quella che attraverso i Kiowa poteva ottenere un maggior numero di cavalli e al tempo stesso, attraverso un rapporto non sempre facile con i Teton e gli Yankton, aveva il maggior afflusso di armi e merci europee; ciò la rese la più potente tra le tre tribù del Medio Missouri. I Mandan, che vivevano a nord degli Arikaree, mantennero rapporti con gli Arapaho,


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che vivevano a nord dei Kiowa nelle praterie a ovest del Missouri, e alla metà del ‘700 stabilirono rapporti con gli Assiniboin, che da est li rifornivano di armi e merci europee. I rapporti tra Mandan e Sioux in tempi storici furono sempre di ostilità, ed è difficile dire se tale ostilità con i Sioux sia stata la ragione per cui i Mandan avevano rapporti con gli Assiniboin, di cui i Sioux erano nemici, o se al contrario, sia stata la relazione di scambio con gli Assiniboin, a determinare l’ostilità dei Sioux. Più difficile ricostruire le relazioni degli Hidatsa, la più settentrionale delle tre tribù, che probabilmente operava in stretta alleanza con i vicini Mandan; gli Hidatsa avevano comunque una vera e propria alleanza con i Crow, la tribù nomade nata quando una parte degli Hidatsa, ottenuto il cavallo, aveva deciso di abbandonare l’agricoltura e dedicarsi esclusivamente alla caccia al bisonte. Le praterie del Missouri alla metà del ‘700 La grande importanza assunta dai villaggi del Medio Missouri durante il XVIII secolo, era stata in buona misura il frutto delle novità introdotte dall’arrivo dell’uomo bianco, il cavallo e le merci e le armi europee; nello stesso modo il declino delle tribù agricole del Medio Missouri fu conseguenze dell’ultima novità che giungeva con l’uomo bianco: le malattie sconosciute a carattere epidemico. Quando nella seconda metà del ‘700 le prime malattie portate dall’uomo bianco, il vaiolo in particolare, raggiunsero le Grandi Pianure, furono i popoli che vivevano concentrati nei villaggi del Medio Missouri a subire l’impatto più grave. Nel giro di pochi decenni la popolazione venne falcidiata in modo drammatico, interi villaggi furono distrutti o abbandonati, la stessa struttura sociale fu travolta dalla crisi demografica e iniziò un lungo periodo di decadenza. Solo allora i popoli nomadi, le grandi tribù guerriere poterono imporre la loro supremazia sulle praterie dei bisonti.

Le società guerriere Il modello culturale che si produsse nelle Grandi Pianure nel brevissimo lasso di tempo tra la fine del ‘600 e la metà del ‘700, ebbe la sua espressione più complessa e strutturata nelle praterie a ovest del Missouri, dove all’insieme di tecniche e strategie di sussistenza incentrate sul cavallo e sul bisonte, si aggiunse un modello di organizzazione sociale relativamente complesso e usi cerimoniali in grado di essere elemento di coesione per intere e numerose comunità. Come tale organizzazione sociale e tali usi cerimoniali si siano prodotti, se essi siano stati patrimonio originario di una delle tribù che dall’est si spinse nelle pianure o se invece siano stati il prodotto di un più antico stanziamento nelle Grandi Pianure non è chiaro, anche se forse è possibile tentare alcune ipotesi. L’unica cosa certa è che tra alcune tribù delle praterie si realizzò uno stile di vita comunitario ben più coeso e strutturato, del semplice aggregato di bande, con lingua e abitudini comuni, territorio condiviso e rapporti di parentela, che caratterizza abitualmente le orde nomadi.


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Vi è infatti una notevole differenza nell’organizzazione sociale, tra i nomadi delle Grandi Pianure, e tale differenza si evidenzia in particolare intorno a tre elementi considerati caratteristici di questa cultura, ma non da tutti i popoli condivisi; tali elementi sono le società guerriere, la Danza del Sole, e l’esistenza di vere e proprie istituzioni di governo tribale, abitualmente assenti tra i popoli nomadi del Nord America. Le società guerriere erano certamente l’elemento più caratteristico delle tribù delle Grandi Pianure, che non risulta presente in altre culture dei nativi del Nord America; nelle Foreste Orientali esistevano società di shamani o comunque collegate allo svolgimento di cerimonie e riti sacri, ma non avevano il carattere bellico che si produsse nelle Grandi Pianure. Le società guerriere delle Grandi Pianure, tendevano invece, in forme diverse, ad organizzare tutti i membri della comunità (almeno i membri maschili), e costituivano in meccanismo di integrazione e coesione sociale, che permetteva a membri della stessa popolazione, che per lunghi periodi dell’anno vivevano separati e senza reciproci contatti, di mantenere relazioni e il senso di una comune appartenenza. Le società guerriere avevano un loro patrimonio di canti e riti, una loro gerarchia interna, specifiche prerogative durante le cerimonie tribali, funzionavano come gruppo di pressione nell’indirizzare le scelte tribali, potevano rappresentare un sostegno per i singoli membri nell’assunzione della leadership in seno alla comunità e soprattutto svolgevano una funzione di polizia e controllo durante gli spostamenti e le caccie collettive, quando l’imprudenza di un singolo cacciatore, poteva mettere in fuga una mandria di bisonti. Queste società guerriere erano diffuse fra quasi tutti i popoli nomadi delle Grandi Pianure ad esclusione dei Comache, degli Apache Jicarilla e Lipan, dei Tonkawa nelle praterie meridionali e dei Cree e dei Sarsee nelle regioni più settentrionali; gli Shoshone da cui i Comanche provengono, ma che rimasero nelle praterie del nord, in epoca piuttosto tarda acquisirono l’uso delle società guerriere, probabilmente per contatto con le tribù vicine. Il meccanismo che determinava l’appartenenza di un individuo ad una società era molto vario: in alcuni casi, come nelle società guerriere dei Cheyenne e dei Teton, l’adesione era libera e abitualmente avveniva attraverso la presentazione di un membro, un amico o un parente, e si rimanevi membri della medesima società per tutta la vita; in altri casi come tra gli Atsina, gli Arapaho e i Blackfoot, ogni individuo seguiva un percorso che lo portava a passare da una società all’altra, in base all’età: si entrava in una società di adolescenti, poi si passava ad una società di giovani guerrieri e via continuando fino alle società in cui si riunivano gli anziani. Il percorso non era però automatico e meccanicamente legato all’età, ma ogni individuo per compiere il passaggio ad una società successiva, doveva “comprare” tale diritto, facendo regali ad uno dei suoi membri: si trattava di un acquisto rituale, con cui un nuovo membro della società mostrava la sua capacità di essere all’altezza del suo nuovo ruolo, “pagava” per il privilegio dell’ingresso in una società e l’acquisizione di un nuovo status. Anche fra le tribù che non avevano queste società generazionali, esistevano comunque collegamenti tra le società e l’età dei loro membri: tra i Kiowa, un giovane abitualmente non accedeva alle società di maggior prestigio, anche se ciò era possibile per individui di particolare talento, o figli di capi autorevoli o guerrieri prestigiosi. La lancia emblema della società Cheyenne della Corda d’Arco


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Tra i Teton, e forse tra gli Yankton e gli Assiniboin, oltre alle società guerriere, vi erano società con compiti civili, che di fatto costituivano l’ossatura politica della tribù, alcune a carattere esclusivo, come quella dei Naca Ominicia, a cui potevano partecipare solo anziani che avevano svolto ruoli di prestigio nelle istituzioni tribali. Tra i Cheyenne, i Crow, i Kiowa, gli Shoshone, le società erano specificamente a carattere bellico, con partecipazione e accesso libero, anche se i Kiowa avevano una società, i Koitsenko, di cui erano membri non più di dieci guerrieri, i più valorosi e noti. L’adesione ad una società, vincolava il guerriero a comportamenti eticamente rigorosi, a doveri di solidarietà, al rispetto dei valori e delle credenze tribali; la società guerriera era di fatto il luogo in cui il guerriero al tempo stesso Frusta usata tra i Lakota dagli “akicita” per punire eventuali infrazioni esaltava il suo valore, ma imbrigliava durante la caccia collettiva o gli spostamenti la tendenza individualistica all’affermazione, per operare come membro rispettoso di una collettività. Al tempo del conflitto con i bianchi alcune società guerriere svolsero un ruolo determinante nell’unificare e organizzare i membri della tribù più determinati alla guerra. La società dei Soldati del Cane, dei Cheyenne, dopo 1865 divenne una sorta di tribù autonoma, che raccoglieva tutti i guerrieri più determinati e le loro famiglie; la società dei Cuori Forti di Mezzanotte, tra i Teton-Lakota, fu trasformata da Toro Seduto, in una organizzazione per coordinare in ogni comunità l’azione dei membri della sua fazione, contrari ad ogni accordo con i bianchi. Presso i popoli agricoli le società guerriere erano meno diffuse, dato che queste comunità, che risiedevano insieme tutto l’anno, avevano altre forme di integrazione sociale più classiche, i clan totemici, matrilineari o patrilineari, diffusi in tutte la regione delle Foreste Orientali da cui i popoli agricoli provenivano o con cui avevano contatti. Tra i popoli agricoli che avevano società guerriere più assimilabili a quelle dei nomadi c’erano gli Hidatsa e i Mandan, con un modello simile a quello degli Arapaho, degli Atsina e del Blackfoot. Tra i popoli Caddoan, e i Pawnee in particolare, di cui ci sono maggiori testimonianze storiche, il corrispettivo delle società guerriere, erano confraternite fortemente legato all’impianto religioso e cerimoniale della tribù; tali società che raccoglievano sacerdoti, dignitari tribali, figure con ruoli specifici nell’attività cerimoniale, sono precedenti alla nascita della cultura del cavallo e del bisonte, nascono con funzioni diverse che non la guerra, anche se probabilmente, nel clima di conflitti tribali successivo all’introduzione del cavallo, anche tali forme di aggregazioni dovettero adattarsi ad un ruolo più guerresco. Le società dei Pawnee e probabilmente di altri popoli Caddoan erano poi legate alla complessa gerarchia tribale, e più che rappresentare un fattore di integrazione dell’individuo nella comunità, contribuivano alla definizione di una stratificazione sociale, le cui origini più antiche sono probabilmente riconducibili alle antiche culture dei Popoli del Mississippi, di cui i Caddoan erano parte o comunque subivano l’influenza. Tra gli agricoltori Siouan Degiha e Chiwere non risultano diffuse le società guerriere, anche se forse in epoca tarda, qualche tentativo di mutuare quest’uso dai nomadi sia stato fatto. Presso molte tribù, sul modello delle società maschili esistevano anche società femminili, che ovviamente avevano ruoli diversi, e una minore importanza nella vita sociale; tali società spesso raccoglievano donne particolarmente abili ed apprezzate per alcuni lavori artigianali, e il prestigio che derivava dall’appartenenza a tali società era comunque significativo. Anche le società femminili avevano riti esclusivi e in alcuni casi ruoli e prerogative definite nelle celebrazioni tribali. Non sappiamo quando nacque l’uso delle società guerriere, ma dalla loro diffusione è lecito ipotizzare che tale usanza nacque nelle praterie settentrionali; sicuramente tali forme di organizzazione della vita


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sociale non sembrano essere esistite nelle Foreste Orientali, da cui molti migranti provenivano, ne nelle terre dell’ovest. L’ipotesi più probabile è che quest’uso sia stata conseguenza dell’incontro tra il cavallo e le popolazioni dei villaggi agricoli, dove uno stile di vita più strutturato e sedentario poteva offrire una forma “istituzionale” e regolata, alla propensione guerriera che grazie al cavallo si produceva nella popolazione maschile. Benchè in tempi storici gli abitanti dei villaggi del Missouri fossero ormai deboli e ridotti ai margini dai nemici Teton-Lakota, nel ‘700 la loro propensione bellica doveva essere ben maggiore. Quando Lewis e Clark nel 1804 costruirono Fort Mandan sul Missouri, nei pressi dei villaggi Mandan e Hidatsa, per svernarvi prima di proseguire la loro esplorazione fino alle coste del Pacifico, vi trovarono un trapper francese, sposato ad una giovane donna della tribù dei Lehmi Shoshone, di nome Sacajewa; Sacajewa divenne la loro guida e interprete ed ebbe un ruolo determinante nel successo della spedizione. Sacajewa era stata rapita dagli Hidatsa, nel corso di una incursione fin nella sua terra, sulle Rocky Mountains, al confine tra Idaho e Montana centinaia di chilometri a ovest del Missouri. Prima ancora dei più noti Teton-Lakota, Cheyenne, Arapaho, questo era il raggio d’azione delle spedizioni di guerra degli abitanti dei villaggi agricoli del Missouri, dopo l’acquisizione del cavallo. Popoli agricoli, sedentari, con una strutturata vita sociale potevano concepire l’organizzazione della propria vocazione guerresca, in forme regolate e istituzionalizzate, anche per evitare che l’impulsività e la voglia di affermazione dei più giovani, potessero sovvertire gli assetti gerarchici della comunità. Le società generazionali dei Mandan e degli Hidatsa, diffuse anche tra Arapaho, Atsina e Blackfoot, imponevano ai giovani un percorso di affermazione, rispettoso delle gerarchie tribali, contro il rischio di conflitti intergenerazionali; secondo diverse testimonianze, sembrerebbe che mentre i giovani erano ansiosi di accedere alle società più anziane, i membri di queste fossero più restii a concedere tale partecipazione e quindi a condividere la maggiore autorevolezza che da tale partecipazione derivava. E’ possibile quindi che le prime società guerriere possano essere state concepite tra i Mandan e gli Hidatsa, negli anni immediatamente successivi all’acquisizione del cavallo, e che poi da essi si siano diffuse prima tra gli Arapaho, con cui quasi certamente ebbero contatti prima dela metà del ‘700, e da questi, attraverso gli Atsina, fino ai Blackfoot. In forme diverse, meno vincolate e con possibilità di acceso più libere, si sarebbero poi diffuse tra tutti i popoli nomadi che frequentavano la regione. Ciò potrebbe spiegare la ragione dell’anomalia dei Crow, la cui organizzazione sociale è simile a quella degli Hidatsa da cui si separarono all’inizio del ‘700, tranne che per l’uso delle società generazionali; è possibile che i Crow, che si separarono dagli Hidatsa poco dopo l’introduzione del cavallo, abbiano mantenuto come i loro parenti la tradizionale organizzazione in clan matrilineari, ma non le società guerriere su base generazionale, che in quegli anni si stavano appena affermando, avendo invece poi successivamente e autonomamente acquisito l’uso di società guerriere, basate sulla libera partecipazione individuale, analoghe a quelle dei Cheyenne e dei Lakota. Le società guerriere furono uno dei più originali prodotti della cultura del cavallo e del bisonte e probabilmente si produssero con essa, dall’incontro tra società già ben strutturate e coese, con le nuove opportunità belliche che il cavallo offriva. Tale modello ebbe successo fra i nomadi, perché rispondeva all’esigenza di mantenere la coesione tribale, anche tra gruppi dispersi, intorno a quel valore guerresco e che era elemento fondativo del nuovo modello culturale nascente.

Bande, clan e tribù Il sistema delle società guerriere era il principale livello di integrazione tra i nomadi delle praterie, che in larga parte erano organizzate in bande piuttosto labili e temporanee; una banda riuniva gruppi di famiglie abitualmente, ma non necessariamente imparentate, che si spostavano e svernavano insieme, riunite intorno ad un guerriero autorevole, o anche a due o più fratelli. Le bande, che i Teton, gli Yankton e gli Assiniboin chiamavano “tiyospe”, non erano entità definite come i clan, la cui appartenenza era legata alla nascita e si manteneva per tutta la la vita; l’adesione ad una banda era libera, un guerriero e la sua famiglia, per ragioni diverse, potevano lasciare una banda ed unirsi ad un’altra, e abitualmente l’esistenza di una banda coincideva con il tempo in cui un leader riusciva a mantenere la sua autorevolezza e attraverso essa la coesione del suo gruppo. I singoli capi delle bande, ovviamente erano in relazione fra loro, si incontravano per discutere questioni di comune interesse, specialmente in caso di guerra, e durante la buona stagione le diverse bande si riunivano, celebravano riti e danze, organizzavano matrimoni e spedizioni di caccia e di guerra, ma rimanevano entità autonome, non sempre vincolate ad alcuna istituzione tribale comune. Diverse bande che frequentavano la stessa regione, potevano


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costituire aggregazioni più vaste, come accadeva fra i Comanche, divisi in diversi raggruppamenti locali, che mantenevano relazioni più frequenti, ma senza produrre alcun elemento di integrazione politica; così i Comanche si dividono in vari raggruppamenti, come i Penateka che erano i Comanche giunti per primi in Texas, che vivevano più vicini agli insediamenti dei bianchi, e i primi a cessare le ostilità, oppure i Kwahadi che vivevano nelle lontane Staked Plains e furono gli ultimi a deporre i fucili, e altre ancora, ognuna autonoma dalle altre. Questo era il modello di organizzazione sociale comune a quasi tutte le tribù nomadi, e per alcune di esse come i Comanche, i gruppi Apache dei Lipan e degli Jicarilla, le bande orientali degli Ute che visitavano le praterie, gli Shoshoni fino all’epoca più tarda, i Tonkawa del Texas, e i Sarsee all’estremo nord, oltre la banda locale, non esisteva altra forma di aggregazione, nemmeno le società guerriere. All’opposto altri popoli nomadi invece elaborarono un sistema di istituzioni tribali più complesso e definito, che andava oltre le bande locali e il sistema delle società guerriere, ma giungeva fino a produrre vere e proprie istituzioni tribali: questo era il caso dei Teton e degli Yankton, dei parenti e nemici Assiniboin, dei Cheyenne e dei Kiowa. Nelle diverse tribù Teton, il cuore del governo tribale era rappresentato da una società costituita dai “Naca Ominicia” (schersosamente chiamati Grandi Pance), cioè da individui saggi e rispettati, che avevano svolto un ruolo come capi, shamani, guerrieri o grandi cacciatori; i Naca Ominicia si incontravano e discutevano di questioni di interesse comune, e soprattutto sceglievano un certo numero di Wicasa Itacan, da sette a dieci a secondo delle tribù, che costituivano un organo esecutivo, rispetto al consiglio dei Naca Ominicia; ai Wicasa Itacan, competeva anche la scelta dei “Portatori di Casacca”, da due a quattro a secondo della tribù, sorta di portavoce e rappresentanti ufficiali della tribù. Altre figure importanti erano i Wazikute “Portatori di Pipa”, abitualmente membri della societa dei Naca Ominicia, il cui compito era quello di guidare gli spostamenti, e a cui competeva anche la scelta della società guerriera che avrebbe svolto il ruolo di “akicita”, la polizia tribale che aveva il compito di far rispettare l’ordine durante gli spostamenti e le caccie collettive. I Teton erano un’alleanza di sette tribù: Oglalla, Sichangu (o Brulè), Minniconjew, Oohenompa (o Due Pentole), Itazipicho (o Senza Arco), Sihasapa (o Piedi Neri) e Hunkpapa; ognuna di queste sette tribù frequentava abitualmente un territorio definito, ed era governata secondo il modello descritto, ma fino alla metà dell’800, esisteva una istituzione, il consiglio dei quattro Wicasa Yatapica, che veniva scelto da tutte e sette le tribù, e rappresentava l’unità dell’intera nazione. In realtà tale unità era difficile a praticarsi, perché anche durante i raduni estivi era raro che tutte e sette le tribù si incontrassero nella medesima località, ma seppur di difficile attuazione il principio ideale rimaneva. Non è chiaro se tale modello di organizzazione tribale si sia prodotto dopo la migrazione nelle praterie o abbia avuto origine nelle terre dell’est, ma il fatto che tra gli Assiniboin, che si separarono dagli Yanktonay alla metà del ‘600, esistesse la carica di Portatore di Casacca, può far ritenere che gli elementi essenziali del governo tribale abbiano avuto origine delle terre dell’est, quando i Teton, insieme agli Yankton e ai Santee erano parte della Confederazione dei 7 Fuochi, conducevano ancora uno stile di vita parzialmente sedentario e anche gli Assiniboin ne erano parte. Anche i Cheyenne avevano un vero e proprio governo tribale, un consiglio di quaranta capi, espressione dei dieci raggruppamenti in cui era divisa la tribù, che al suo interno eleggeva un comitato ristretto di quattro capi. Non è chiaro cosa fossero con precisione i dieci ragCasacca simbolo d’autorità di un capo dei Teto-Lakota


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gruppamenti interni alle tribù, che non necessariamente coincidevano con le bande locali, ma in generale un Cheyenne sapeva di appartenere per nascita, e al di la della banda in cui viveva, ad uno di questi raggruppamenti; è quindi possibile che questi raggruppamenti fossero quanto rimaneva di un sistema di clan, in uso quando i Cheyenne vivevano nelle foreste dell’est, e dove tantoi Cree che gli Ojibway loro vicini, erano organizzati in clan patrilineari. Anche i Kiowa erano divisi in sei sottotribù, ognuna delle quali occupava uno spazio preciso, quando tutta la tribù si riuniva in un unico accampamento; è probabile che anche le sottotribù dei Kiowa siano i resti di una originaria divisione in clan, o più probabilmete in diverse comunità. In Kiowa prima di spostarsi nella loro sede più antica e certa, la regione delle sorgenti del Missouri, vivevano a ovest delle Rocky Mountains in Colorado, a nord dei parenti Tanoan, quando questi occupavano la regione dei Four Corners (Colorado, Utah, Arizona, New Mexico), dove avevano dato vita alla cultura agricola Anasazi. I Kiowa erano forse parte del complesso culturale agricolo Fremont, influenzato dalla cultura Anasazi e misteriosamente scomparso nello stesso periodo in cui Kiowa si separarono dai Tanoan; forse a quel tempo anche i Kiowa come i Tanoan linguisticamente affini erano organizzati in clan, e sicuramente erano divisin in comunità locali autonome; il fatto che quando tutta la tribù si riubiva, ogni raggruppamento avesse un posto definito nell’accampamento, puà essere forse quanto rimane del tempo, in cui le diverse comunità vivevano in villaggi autonomi e sparati. I Kiowa avevano un unico capo tribale, a cui si affiancava l’esclusiva società dei Koitsenko, e gli anziani dei diversi sottogruppi tribali. I complessi modelli dei Teton, dei Cheyenne e dei Kiowa, quasi certamente prodottisi prima dell’arrivo nelle pianure, probabilmente avevano problemi a funzionare con il nuovo stile di vita nomade: la possibilità che tutte e sette le le tribù Teton potessero incontrarsi e che i quattro capi supremi potessero operare insieme di fatto non si realizzò più dopo la metà dell’800; i Cheyenne nello stesso periodo si dividevano tra bande meridionali e settentrionali, e ciò rendeva difficile anche per loro l’incontro dei quattro grandi capi tribali e anche del consiglio di quaranta capi minori; solo i Kiowa, che erano meno numerosi e occupavano un territorio meno vasto, fino al tempo delle riserve ebbero un unico capo e mantennero un governo unitario della tribù. Rispetto ai nomadi le popolazioni agricole avevano un’organizzazione tribale più definita, incentrata sul classico sistema dei clan famigliari, patrilineari o matrilineari, secondo una tradizione presente anche nelle Foreste Orientali e che era precedente la nascita del modello culturale classico delle Grandi Pianure. L’organizzazione in clan garantiva la coesione tribale tra membri di diverse comunità e villaggi; i membri di un clan, che facevano riferimento ad un comune antenato, abitualmente rappresentato da un animale mitico, potevano risiedere in villaggi diversi ma continuavano a conservare l’appartenenza al clan e insieme ad essa il proprio patrimonio di riti e credenze. Attraversando trasversalmente le comunità e i villaggi, i clan mantenevano la coesione di tutta la tribù. L’importanza dei clan nel governo tribale era differente tra gli agricoltori Caddoan e Siouan, dato che i primi, con un impianto sociale più gerarchico e stratificato assegnavano un ruolo di leadership a figure che più che il proprio clan matrilineare, rappresentavano una precisa funzione, abitualmente legata ai riti e alle cerimonie che presiedevano l’attività agricole, allo studio delle stelle in base a cui si pronosticava l’esito dei raccolti o altri elementi della complessa vita religiosa. Il governo tribale, più che dai consigli dei capiclan, era retto da capi e sacerdoti, anche se spesso competeva ai singoli clan il privilegio di esprimere funzioni di leadership e sacerdotali. Gli agricoltori Siouan, i cui clan erano patrilineari per i gruppi Degiha (Omaha, Osage, Kansa, Ponca, Quapaw) e matrilineari nel caso degli Hidatsa, dei Mandan e delle tribù Chiwere (Iowa, Missouri, Oto), avevano una organizzazione meno gerarchica, in cui i clan, spesso raggruppati in metà o fratrie esogamiche, rappresentavano l’ossatura del governo tribale, guidato da consigli composti dai membri autorevoli dei clan. Tra gli Osage la cui organizzazione è tra le più documentate, le due fratrie che raggruppavano il totale di ventidue clan, esprimevano ognuna un capo, con funzioni diverse, l’uno per la pace l’altro per la guerra, e tale modello probabilmente era simili nelle tribù affini per le quali ci sono minori testimonianze. L’organizzazione sociale dei popoli agricoli, subì quasi un collasso tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, quando le malattie epidemiche produssero una crisi demografica, che portò alla fine alcuni clan, obbligò altri a unirisi e produsse anche un clima di conflittualità interna. Funzioni e prerogative, che per consuetudine erano diritto dei membri di un clan, con la scomparsa del clan stesso, o la sua fusione con altri, divennero oggetto di rivalità, dissidi e conflitti di potere, che accelerarono la crisi indotta dal dramma demografico. Tra i popoli nomadi l’organizzazione in clan era presente solo tra i Crow divisi in clan matrilinear, che


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solo all’inizio del ‘700 avevano abbandonato i villaggi agricoli degli Hidatsa, e tra i Cree e gli Ojibway delle praterie, che condividevano con i loro parenti delle Foreste Orientali la divisione in clan patrilineari. Ne tra i Crow ne tra i Cree e gli Ojibway, l’organizzazione in clan dava luogo a forme di governo tribale, e le bande locali rimanevano la modalità organizzativa più usuale. I popoli nomadi delle Grandi Pianure, che sul piano della vita materiale e delle tecniche di sopravvivenza condividevano gli stessi usi, sul piano dell’organizzazione sociale si differenziavano notevolmente, dal livello più elementare dell’orda nomade, fino alla tribù con istituzioni riconosciute e condivise. Nel breve lasso di tempo in cui la cultura del cavallo e del bisonte si produsse, la comunanza di usi e abitudini non andò oltre le necessità più concrete, mentre le differenze derivanti dal passato e dalle tradizioni di ogni popolo, si mantenevano e si perpetuavano, sotto il velo di un’apparente omogeneità. E’ comunque un fatto che i Teton, la tribù le cui istituzioni tribali erano più complesse, fu ad un certo punto in grado di imporsi su tutte le popolazioni vicine, e attraverso un sistema di alleanze, non vasto ma sicuro, fu in grado di dominare per quasi un secolo gran parte delle Grandi Pianure, dal Mississipi alle Rocky Mountains: quello che avrebbe potuto essere un grande impero nomade, la cui storia si concluso solo con il confronto militare con la nascente più grande potenza industriale del mondo.

La Danza del Sole L’incontro tra popoli diversi, in un contesto di grande ricchezza, nuove opportunità e scambi di conoscenze ed esperienze, ebbe conseguenze anche sulla dimensione spirituale e sugli usi cerimoniali degli indiani delle Grandi Pianure, che pur mantenendosi nel solco di quello che era l’approccio spirituale tipico di grandissima parte dei popoli del Nord America, portò tale approccio ad esprimersi in forme peculiari e per certi versi estreme. In generale è possibile affermare che l’impianto spirituale dei nativi del Nord America, si basa su alcuni elementi largamente diffusi, più o meno presenti nei vari contesti culturali e nei diversi gruppi tribali. Un carattere generale è lo shamanesimo animista, la fede in una dimensione spirituale che informa di se ogni aspetto della natura, e si esprime in in ogni forma vivente e in ogni manifestazione naturale, ognuna avente la possibilità di influire sulla vita dell’individuo; in questa realtà, in cui ogni cosa ha una “anima”, l’uomo è costantemente in cerca di comunicazione, per orientare le sue scelte e vivere in armonia con ciò che lo circonda. La pratica shamanica è la relazione del singolo individuo con il mondo soprannaturale, che si attua principalmente attraverso sogni e visioni, in cui uno o più d’uno degli infiniti spiriti che popolano la realtà, si manifesta, e dona un “potere”, una”medicina” (dal termine Algonquian “mediwiwin”), che può essere molto specifico, come per esempio la cura di una determinata malattia o molto esteso, e riferito a ambiti importanti della vita sociale, la guerra, la caccia o la possibilità di favorire le precipitazioni per i campi. Insieme al “potere”, lo spirito che si manifesta impone regole, prescrive amuleti, insegna canti o esercizi rituali, che sono un patrimonio specifico dell’individuo, il suo proprio approccio al mondo spirituale. Grazie a questo suo “potere” l’individuo può offrire un contributo alla sua comunità e anche ottenere prestigio, autorevolezza e affermazione personale come “shaman”. Tra i popoli la cui organizzazione era basata sui clan, insieme a questo impianto shamanico individuale, vi era poi tutto l’insieme di credenze e cerimonie legate ai totem, gli animali originari da cui i clan ritenevano di discendere. L’insieme di queste credenze e cerimonie erano patrimonio collettivo di tutti i membri del clan, e costituivano un elemento di integrazione della spiritualità individuale ad un livello collettivo più alto. Presso molti popoli agricoli e sedentari, si produssero anche figure di sacerdoti e caste sacerdotali, il cui ruolo era meno legato Un rito shamanico in un dipinto del pittore all’esperienza mistica individuale e più alla conoscenza dei miti contemporaneo Howard Terpning


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e alla pratica delle cerimonie e dei riti tribali; tali sacerdoti, erano figure istituzionalizzate, che rappresentavano la relazione di tutta la comunità con le divinità soprannaturali e di tale relazione erano intermediari; si trattava di fatto di figure “istituzionali” di una religiosità collettiva. Tra quasi tutte le tribù nomadi delle Grandi Pianure, l’approccio shamanico rimase esclusivo, non essendoci spesso ne clan totemici, ne sacerdoti tribali, ma solo figure la cui individuale esperienza mistica, li rendeva particolarmente autorevoli in uno o più campi della vita sociale. Si trattava quindi di un approccio individualistico, la cui espressione più emblematica era rappresentato dalla “ricerca delle visione”, della propria personale relazione con il mondo spirituale. Come già accennato, fra tutti i nativi del Nord America sogni e visioni erano a fondamento della dimensione spirituale, e fra alcuni popoli delle Foreste Orientali, già da bambini ci si preparava a favorire una visione con la pratica di digiuni o altre forme d astinenza, e un po’ ovunque esistevano pratiche che favorivano la possibilità di avere una visione, come per esempio il sottoporsi a lunghe sedute all’interno di capanne sudatorie. Questa ricerca nelle Grandi In preghiera alla ricerca della visione Pianure divenne elemema costituente e quasi pregiudizuale del percorso di formazione individuale, giungendo ad essere codificata quasi come un obbligo sociale. Tra gran parte dei nomadi delle Grandi Pianure, in particolare quelli delle praterie del Missouri, che avevano una vita sociale più strutturata, la pratica della ricerca della visione era un passaggio obbligato nell’affermazione di ogni individuo, spesso ripetuta in momenti di difficoltà o prima di imprese o eventi di grande importanza. Colui che cercava la visione seguiva una procedura definita, si faceva assistere da un anziano autorevole che lo accompagnava nelle preghiere, si purificava con bagni di sudore, poi si allontanava da solo per quattro giorni, digiunando, pregando, esposto alle intemperie, fino a ridursi ad un tale stato di prostrazione in cui la mente era nelle condizioni di incontrarsi (o di produrre l’incontro), con gli spiriti e il mondo soprannaturale. In questa pratica la visione diviene in sostanza il risultato del sacrificio individuale, e va ben oltre la semplice ricerca di una relazione con il sovrannaturale attraverso i sogni; non si tratta più solo dell’esperienza che si produce nella relazione con il mondo naturale e le sue manifestazioni spirituali, ma è il sacrificio individuale che è posto come elemento costituente della relazione mistica. In tal senso essa è la piena espressione dell’approccio individualistico tipico della shamanismo, di cui rappresenta un’espressione avanzata, in cui la soggettiva determinazione individuale diviene fondamento dell’esperienza spirituale. Questo approccio individualistico alla spiritualità, trova una ulteriore esaltazione nella Danza del Sole, il principale evento cerimoniale presso quasi tutte le tribù nomadi delle Grandi Pianure, che lo praticavano in forme diverse, seppur con alcuni tratti comuni. Alla fine del ‘700, quando i contatti tra tribù nomadi delle praterie e l’uomo bianco iniziarono, la Danza del Sole era praticata da quasi tutte le tribù nomadi delle Grandi Pianure settentrionali, mentre nelle praterie centrali e meridionali non era diffusa; solo quando i Kiowa, e i Cheyenne e gli Arapaho meridionali si trasferirono a sud, la Danza del Sole iniziò a diffondersi. Nel corso dell’800 essa fu acquisita dagli Shoshone e poi anche dagli Ute, intorno al 1890, mentre i Comanche la celebrarono una sola volta nel 1874. Tra i popoli agricoli i Mandan e e gli Hidatsa, avevano una loro versione chiamata Okipa, che forse fu il modello originario diffusosi poi tra le tribù nomadi, mentre i Ponca e forse gli Omaha, la acquisirono solo alla metà dell’800. Questa cerimonia non era praticata dagli agricoltori Caddoan, che avevano una loro diversa tradizione cerimoniale, ne dagli agricoltori Siouan delle regioni meridionali (Osage, Kansa ecc…). Malgrado il nome con cui è divenuta nota la Danza del Sole non è legata ad un culto solare, anche se in alcune sue versioni vi era l’uso per i danzatori di fissare a lungo e fino al limite del possibile il sole, mentre ci si sottoponeva a pratiche sacrificali. Gli elementi comuni a tutte le tribù riguardavano princi-


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palmente l’epoca della celebrazione, la fine della primavera o l’inizio dell’estate, la durata che era abitualmente di quattro o otto giorni, l’uso di costruire una grande capanna o recinto di rami e frasche al cui centro era posto un palo, e soprattutto il fatto che la sua celebrazioni non dipendeva da un definito calendario cerimoniale, o dalla volontà di sacerdoti o altre figure istituzionali in rappresentanza della comunità, ma dalla volontà di un singolo individuo, che decideva di offrire questa cerimonia, come voto da rispettare o per perorare una richiesta al mondo spirituale. Lo svolgimento della Danza del Sole al momento in cui la buona stagione riuniva tutta la tribù, quando era possibile tornare a cacciare inse- La capanna sacra della Danza del Sole guendo le mandrie di bisonti nella prateria e il cibo abbondava, faceva di questo evento, oltre che una cerimonia religiosa, anche la principale occasione sociale della tribù. Eral’occasione in cui parenti e amici divisi per mesi, si incontravano e si scambiavano visite, si organizzavano matrimoni e ci si scambiavano regali, i capi e gli anziani si incontravano per discutere comune problemi, i membri delle società guerriere organizzavano incontri e banchetti, in una atmosfera di grande allegria e vivacità, che però non rendeva meno rigoroso il complesso cerimoniale, che nei giorni della preparazione veniva eseguito. C’erano una infinità di momenti, diversi da tribù a tribù, sia nel corso della preparazione, che della vera e propria cerimonia che andavano espletati, ma il più rilevante fra questi era la costruzione della “capanna sacra”. Ancor prima della costruzione della capanna sacra, si doveva scegliere un albero, che avrebbe costituito il palo sacro da porre al centro della capanna; tra i Teton e altre tribù la scelta dell’albero spettava ad una vergine, o comunque ad una donna la cui condotta morale fosse considerata integerrima, coadiuvata spesso da membri di una società guerriera; prima di essere tagliato l’albero era trattato come se fosse un nemico, su di esso si contava un “colpo” o veniva ucciso con un colpo di fucile. Seguendo particolari riti, l’albero veniva portato al villaggio e intorno a esso veniva costruita la sacra capanna, abitualmente di forma circolare, fatta di lunghi rami convergenti verso il palo centrale e ricoperta di frasche. Nel corso dei giorni in cui si prepara la cerimonia, all’officiante che faceva offerte agli spiriti, digiunava e si purificava con bagni sudatori, si univano i suoi parenti, i membri della sua società guerriera, i capi e i personaggi autorevoli della tribù, mentre chi prima di lui aveva già officiato la cerimonia, lo assisteva con i suoi consigli e la sua esperienza. In quegli stessi giorni i diversi feticci tribali, gli oggetti sacri, vengono esposti alla reverenza della comunità, e ognuno in qualche modo partecipa con eccitazione all’evento collettivo, vissuto come momento religioso ma anche di festa Al culmine della cerimonia l’officiante inizia la danza a cui progressivamente altri si uniscono, continuando a danzare fino alla spossatezza, in alcuni casi, come tra i Teton e i Cheyenne con pratiche cruente, come quella di trafiggersi il petto con assicelle che attraverso una corda lo legano al palo centrale, o che invece erano collegate ad un cranio di bisonte che veniva trascinato in terra. In un crescendo di eccitazione, prodottosi nei giorni di preparazione e poi portato all’estremo attraverso la danza al ritmo dei tamburi, dei flauti e dei sonagli, tra canti, preghiere e invocazioni, la cerimonia giungeva al culmine come momento di partecipaPratiche di autotortura tra i Teton in un dipinto di George Catlin zione e catarsi collettiva, alla


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fine della quale l’intera comunità, coesa e rinfrancata nella sua relazione con il mondo spirituale, era pronta ad affrontare la nuova stagione di caccia. La Danza del Sole non è diversa, nella sua funzione sociale, da altre grandi cerimonie tribali, specialmente fra i popoli agricoli e sedentari, come per esempio la Festa del Grano Verde, tra i popoli delle regioni del Sud-Est. Si trattava in entrambi i casi di un grande evento collettivo, un momento di purificazione e di unione in cui si rinnovava l’armonia con il mondo spirituale, che garantiva il benessere della comunità. Ci sono però elementi che rendono peculiare questa celebrazione, il primo dei quali è L’autotorture nella cerimonia Okipa dei Mandan in un dipinto di George Catlin l’elemento dell’autotortura e delle pratiche cruente a cui l’officiante e coloro che a lui si univano nella danza, si sottoponevano all’apice della cerimonia. In realtà la pratica dell’autotortura era diffusa solo tra i Teton e i Cheyenne, oltre che tra i Mandan e gli Hidatsa; l’autotortura, che porta all’estremo limite l’idea di sacrificio individuale su cui la Danza del Sole si basa, suscitò grande impressione fra i bianchi, che la considerarono esempio della barbarie degli indiani, e per questo alla fine dell’800 vietarono la celebrazione della Danza del Sole. L’altro elemento peculiare è che la Danza del Sole è l’unico grande rito collettivo praticato tra indiani nomadi del Nord America; presso altre culture nomadi, tra gli Shoshone del Grande Bacino, gli Apache del Sud-Ovest e gli Atapaskan del Subartico, non esistono momenti cerimoniali in grado di raccogliere e unificare, seppur per pochi giorni tutte le comunità che abitualmente conducono la loro esistenza divise fra loro, in un momento che di fatto assume un valore anche politico, di unità di un intero popolo. Sotto questo punto di vista la Danza del Sole fu un elemento di coesione etnica importantissimo. Ma quello che è l’aspetto più interessante è il fatto che anche questo rito collettivo e unificante, sia espressione di approccio individualistico al mondo spirituale tipico dei popoli del Nord America e in particolare dei nomadi delle praterie. E’ un singolo individuo, che decide di offrire se stesso come tramite tra la sua collettività e il mondo degli spiriti; egli lo fa per rispettare un voto o per avanzare una supplica, ma il suo gesto, che implica doveri, dispendio di energie e risorse economiche e giunge in alcuni casi fino alle forme più cruente di autotortura, è un servizio che rende alla sua intera nazione. Senza questa individuale determinazione, la Danza del Sole non viene praticata e probabilmente sarà accaduto che in qualche anno essa non sia stata celebrata, con grande disappunto della comunità. E’ interessante che tra i Blackfoot questa scelta di offrire la Danza del Sole, competesse ad una donna, le cui virtù e qualità fossero riconosciute da tutti; è comunque lecito pensare che la scelta della donna fosse almeno concordata con il marito, visto il grande dispendio di risorse che la celebrazione della Danza del Sole imponeva. Abitualmente erano invece guerrieri e capi a promuovere questo evento, come Toro Seduto che in una Danza del Sole poco tempo prima della battaglia di Little Big Horn, offrì in sacrificio brani della propria carne, tagliuzzati dalle braccia e dal torace. Non ci sono elementi per sapere dove e quando la pratica della Danza del Sole ebbe origine, ma anche in questo caso forse gli abitanti dei villaggi sul Missouri ebbero un ruolo. Tra i Mandan e gli Hidatsa, le pratiche di autotorturta erano particolarmente cruente e spettacolari: all’officiante e ai guerrieri che a lui si univano, veniva trafitto il torace con assicelle legate a corde appese al tetto delle grandi capanne di terra in cui queste tribù vivevano. I guerrieri erano così appesi, e spesso per rendere ancora più duro il sacrificio si legavano crani di bisonti alle gambe; così rimanevano fin quando le carni non si laceravano, esposti allo sguardo ammirato dell’intera comunità. Il nome Mandan di questo rito è Okipa e sicura-


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mente esso era praticato nella tribù almeno dalla fine del ‘700. Ovunque uno degli aspetti fondamentali della Danza del Sole è la costruzione della Sacra Capanna, che nella sua forma più che un tepee, può ricordare una versione rudimentale delle grandi capanne di terra dei Mandan e degli Hidatsa; non risultano altre cerimonie tribali che prevedessero costruzione di specifiche strutture, sorta di templi non permanenti. E’ possibile che indiani nomadi abbiano potuto conoscere o assistere all’Okipa visitando i villaggi Mandan o Hidatsa, rimanendo impressionati dal grande impatto drammatico di questo rito, e abbiano associato la sua celebrazione all’uso di grandi capanne sul modello di quelle dei Mandan e degli Hidatsa, mutuando da loro anche le pratiche di autortura. Le stesse pratiche di autotortura in uso tra i Teton e i Cheyenne sembrano un adattamento di quelle dei Mandan, in assenza di strutture stabili in gradi di sostenere il peso di un guerriero appeso al tetto. E’ certo comunque che la Danza del Sole non è riconducibile ad alcune tradizione delle Foreste Orientali, da cui provenivano molte tribù che la praticavano, e sicuramente è un prodotto originale che si sviluppò nelle praterie del Missouri insieme al complesso della cultura del cavallo e del bisonte.


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UN MONDO IN FRANTUMI Non ci sono intellettuali, storici o semplici testimoni, che possano narrarci quanto accadde nella vita di migliaia e migliaia di uomini e donne, che nel volgere di poche generazioni videro il loro mondo trasformarsi e spesso scomparire. C’era voluto meno di un secolo, perché in mezzo continente interi popoli che erano vissuti in una condizione paragonabile al neolitico, fossero scaraventati da un giorno all’altro nell’era del ferro e della polvere da sparo, nella competizione mercantile più sfrenata, travolti da una quantità di merci loro ignote, ma di cui presto non poterono fare a meno, indotti alla dipendenza dall’alcool, costretti ad una vera e propria subalternità nei confronti di altri uomini che potevano guardare con disprezzo, ma di cui ormai non potevano più liberarsi, ne fare a meno. E questo cambiamento era avvenuto in un quadro di drammi e catastrofi senza soluzione di continuità, tra guerre, epidemie, migrazioni di massa, che in meno di un secolo avevano cambiato la realtà di mezzo continente. Tutto era cominciato con l’arrivo di poche coloni tra gli indiani pueblo del Sud-Ovest nel 1601, un altro pugno di uomini in Virginia nel 1608 e pochi mercanti nella valle del San Lorenzo un anno dopo; in un luogo erano stati i missionari a penetrare nella società indiana, portando buoni sentimenti, sfruttamento e malattie, nell’altro coloni, inesperti e spesso poveri, ma affamati di terra e infine i mercanti, con le loro meraviglie che rendevano la vita più semplice e comoda: ovunque la forza delle armi, ad azzerare qualsiasi resistenza, ad impedire qualsiasi opposizione. Dopo il primo trauma dovuto alle malattie, che ancor prima dell’incontro con l’uomo bianco, ne annunciavano l’arrivo, la sorpresa per un evento così strabiliante, la curiosità per quegli uomini venuti da chissà dove, la speranza di poter con essi trovare un modo di convivere, quasi ovunque gli indiani avevano preso atto che non c’era da farsi alcuna illusione. Le tre Guerre Powhatan in Virginia, la grande sollevazione guidata da Metacomet nel New England, la rivolta di Popay tra i Pueblo del Nuevo Mexico, erano state la risposta. Il tentativo di liberarsi dei nuovi venuti, cacciarli definitivamente, massacrarli tutti se necessario, pur di guarire dal cancro che penetrava nella società tradizionale, si appropriava di ogni ricchezza, corrompeva i costumi, umiliava la dignità. L’uomo bianco era arrivato e non se ne sarebbe più andato. Alla fine del ‘600, ciò che sicuramente era ormai chiaro, era che l’arrivo dell’uomo bianco non era un evento eccezionale, che prima o poi avrebbe esaurito i suoi effetti, come la migrazione di una tribù sconosciuta, ma un fenomeno fuori controllo, incomprensibile, inarrestabile, che si alimentava in un mondo ignoto “al di la delle grandi acque”, che chi aveva visitato raccontava come meraviglioso e terribile. Ciò che era accaduto in poco più di un secolo in Nord America, probabilmente non ha precedenti nella storia umana. Un’area vastissima, tutta la regione del Nord America a est delle Rocky Mountains aveva visto prima il declino drastico della popolazione a causa di devastanti epidemie, poi la fine di complesse civiltà agricole, quindi un conflitto tribale per ragioni commerciali di estensione quasi continentale e in conseguenza di ciò la migrazione verso ovest di intere tribù, e infine grazie alla diffusione del cavallo, il prodursi di un nuovo modello culturale nelle praterie, unico e precario evento positivo, conseguenza


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dell’incontro dell’uomo bianco. Tutto ciò era avvenuto in terre visitate solo da pochi mercanti, o in cui l’uomo bianco non aveva mai messo piede. Laddove invece i coloni erano giunti a migliaia, come nelle colonie inglesi lungo la costa dell’Atlantico, gli indiani erano semplicemente stati massacrati, scacciati e i pochi rimasti, costretti a vivere ai margini nella miseria, nella subalternità e nella discriminazione, afflitti dall’alcool e dalle malattie. Il dramma degli indiani del New England in una stampa del tempo A tutto ciò si aggiungeva la dipendenza economica nei confronti dei bianchi, che aveva di fatto trasformato quasi tutta la popolazione indiana in mano d’opera a basso costo, utilizzata come schiavi e servi della gleba nelle haciendas e nelle miniere spagnole o per ottenere le pregiate pellicce da Francesi, Inglesi e Olandesi. Il povero artigianato indiano era stato distrutto dal confronto con la produzione manifatturiera europea, e a parte il cibo, per ogni altra necessità (o piacere) della vita quotidiana, gli indiani dipendevano dai bianchi; e se provavano ad opporsi e ribellarsi, anche per le armi con cui combattere dipendevano dai bianchi. Persino il tabacco, così importante nella vita sociale e cerimoniale, che gli Europei all’inizio del ‘600 neanche sapevano cosa fosse, ora lo producevano in maggior quantità e di miglior qualità, e lo vendevano agli indiani. Tutto ciò riguardava la vita materiale, ma l’uomo non vive di solo pane. E anche la dimensione spirituale, se non era stata travolta, era comunque fortemente incrinata. A contatto con le foreste o le sterminate praterie, immerso in quel mondo naturale che l’uomo bianco abitualmente sentiva ostile, ma in cui invece per gli indiani in ogni suo aspetto coglievano la dimensione sovrannaturale, il mondo spirituale degli indiani resisteva e inutilmente i missionari cercavano di indurlo ad abbandonare le proprie credenze e il proprio stile di vita. Ma nel confronto con l’uomo bianco, con la sua tecnologia, la sua mentalità mercantile, la fiducia nel suo dominio sul mondo, e la fede nel suo dio, che di quel dominio è garante, l’indiano era disarmato. Il suo mondo spirituale viene meno sulla soglia della stazione commerciale, oltre la quale nessuno spirito, nessun amuleto, nessuna visione gli darà quel supporto, a cui invece s’affida mentre attende la preda nei boschi o quando semina un campo di mais. Di fronte alla morte misteriosa che si sparge nel villaggio per un contagio ignoto, davanti ai misteri di una tecnologia che impara ad usare, ma che non è in grado di produrre, nel confronto con una legge di mercato che stabilisce il valore delle pelli che porta al mercato, l’indiano non ha alcun supporto spirituale e la sua visione del mondo ne esce indebolita, se non frantumata. Senza poi contare che quello stesso mondo naturale, che era sede e alimento del mondo spirituale dell’indiano, era la prima vittima dell’uomo bianco; le foreste erano depauperato dalla pressione venatoria, disboscate dai contadini che cercavano terre agricole o dall’industria del legname, le terre recintate e divise non potevano nemmeno essere attraversate, citta e villaggi sorgevano con case in pietra o in legno che li rimanevano e crescevano a dismisura, per anni e decenni, fin quando l’ambiente stesso in cui l’indiano riconosceva se stesso scompariva. Lungo la costa dell’Atlantico dove i coloni erano a migliaia e già alla fine del ‘600 l’ambiente era mutato per opera dell’uomo bianco, anche il mondo spirituale degli indiani cessava ogni resistenza, e il missionario finalmente poteva trovare proseliti, tra gente priva di ogni riferimento e con nessun’altra speranza, che quella che l’uomo bianco offriva. Se mai possibilità v’era stata che il confronto con i bianchi non vedesse soccombere l’indiano, tale possibilità alla fine del ‘600 era esaurita. La possibilità di un confronto paritario, tra pochi bianchi, determinati e con una superiore tecnologia, ma ignari dell’ambiente e lontani dalle retrovie della madrepatria, e popoli numerosi che da millenni s’erano adattati a quell’ambiente e ne conoscevano le opportunità e i pericoli, fino alla fine del ‘600 garantì un relativo equilibrio di forze, ma come anche Metacomet dovette


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verificare, già intorno al 1670 i coloni erano in numero tale da non poter essere cacciati o sterminati tutti. Nei decenni e nei secoli successivi la speranza di liberarsi dei bianchi era morta, e l’unica cosa che gli indiani potevano fare era legarsi a quelli di loro che sembravano poter offrire qualcosa o la cui minaccia sembrava minore. Questo fu quanto accadde nel secolo successivo, quando gli indiani, dopo essersi scannati fra loro in due Guerre del Castoro, per conquistarsi un ruolo sul mercato controllato dai bianchi, divennero i mercenari del conflitto diretto tra i bianchi per il controllo di quel mercato. Il loro mondo era in frantumi e ormai era il mondo dell’uomo bianco quello in cui si dovevano adattare a vivere o forse meglio a morire… da guerrieri. Per tutto il ‘700 il Nord America fu teatro di conflitti tra Inglesi, Francesi, Spagnoli e infine Americani e gli indiani combatterono in tutte queste guerre; erano stati trasformati in cacciatori professionisti per il mercato e l’industria delle pelli, ed ora divenivano i mercenari per le guerre che quel mercato aveva prodotto.


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