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Claudio Ursella
STORIA DEI NATIVI DEL NORD AMERICA
volume II
CONQUISTATORI E GUERRIERI esplorazioni, contatti e primi conflitti
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STORIA DEI NATIVI DEL NORD AMERICA volume II
CONQUISTATORI E GUERRIERI esplorazioni, contatti e primi conflitti
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Sudditi dell’Impero
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Quando all’inizio del ‘500 nelle principali corti europee si apprese dell’esistenza di un intero continente ricchissimo di risorse, che attendeva solo di essere conquistato, l’Europa non era ancora quel centro di potere coloniale in grado di controllare o quanto meno condizionare, la politica e l’economia a livello mondiale. Fino a quell’epoca le potenze europee si erano dovute misurare e confrontare, con grandi e potenti entità statali, quali l’impero Ottomano, o quello Mongolo, o i diversi sultanati indiani, la cui forza militare, il cui apparato burocratico, le cui ricchezze economiche erano almeno pari, se non superiori, a quelle dei paesi europei interessati alle spezie e a altre merci pregiate dell’Oriente. Anche sul piano commerciale, gli Europei dovevano vedersela con la forte concorrenza degli Arabi, in posizione privilegiata per il rapporto con le Indie e la Cina, e che contrastavano la possibilità di un rapporto diretto dei mercanti europei con le terre d’Oriente. In questo quadro il modello di penetrazione europea prevalente, era stato quello applicato da Genovesi e Veneziani, che in accordo con il potere politico locale, aprivano stazioni commerciali in lungo le vie per l’Oriente, dal Mar Nero al Medio Oriente, esercitando poi una maggiore o minore influenza in loco, in ragione della loro capacità di interagire con i sovrani e i potentati locali. Nella stessa modalità agirono i Portoghesi quando alla fine del ‘400 Vasco da Gama riuscì a circumnavigare l’Africa e a raggiungere l’India, dove stabilì una prima base commerciale a Calicut, in accordo con il sovrano locale, e malgrado la violenta opposizione dei mercanti arabi residenti. Questo tipo di strategia di penetrazione, prima commerciale, poi politica e militare, si basava sulla possibilità di inserirsi in una rete di relazioni commerciali preesistente localmente, trovare degli interlocutori politici in grado di garantire un qualche sostegno, e poi, progressivamente esercitare la propria influenza sulle elites locali, garantendo prebende e sostegno militare. Nel Nuovo Mondo le cose andarono diversamente. La scoperta di un Nuovo Mondo, di cui le stesse Sacre Scritture non facevano menzione, che la stessa Volontà Divina aveva voluto negare alla luce della vera fede (quale che fosse, in un epoca di sanguinosi conflitti religiosi), e di cui era lecito dubitare della natura umana degli abitanti e del fatto che avessero un’anima immortale, tutti questi elementi, insieme ad altri ben più prosaici, negavano evidentemente ogni legittimità ai diritti degli abitanti delle terre scoperte, e automaticamente trasformavano tutto l’immenso continente in una terra di conquista, preda di quelle potenze europee che avessero voluto misurarsi con tale impresa. A differenza che nelle Indie Orientali, dove la penetrazione occidentale passava in buona misura per il riconoscimento formale della sovranità e dell’indipendenza politica locale, almeno entro i limiti in cui tale sovranità e indipendenza non ledesse gli interessi economici, politici e militari europei, nelle Indie Occidentali il diritto di conquista, la negazione di ogni sovranità e indipendenza, è un assunto naturale che è frutto diretto della percezione del Nuovo Mondo come una “terra di nessuno”, di cui ognuno poteva legittimamente appropriarsi. Ad avvallare questo “diritto di scoperta”, fu in primo luogo la Chiesa Cattolica, che una volta assunta la natura umana degli abitanti del Nuovo Mondo, e il conseguente possesso di un’anima immortale, si assunse l’onere di salvare tali anime, chiedendo sostegno ai sovrani cattolici europei più affidabili, i reali di Spagna e Portogallo, e stabilendo con il Trattato di Tordesillas, i loro diversi ambiti di competenza a est e a ovest del 60° meridiano; fu così che le coste recentemente esplorate del Brasile, vennero assegnate al Portogallo, mentre tutto il resto del continente, sarebbe dovuta ricadere sotto il controllo spagnolo. Ovviamente le altre potenze europee mai accettarono la divisione del Nuovo Mondo decisa dal Papa di Roma, a cui peraltro gli Inglesi poco tempo dopo negavano non solo il potere temporale, ma anche quello spirituale; in ogni caso e di fatto nessuno fu all’inizio in grado di contrastare il dominio che la Spagna rivendicava sulle terre appena scoperte. Inglesi e Francesi, che nei secoli successivi saramnno protagonisti di uno scontro cruento e senza esclusione di
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colpi per il dominio del Nord America, durante il ‘500 fecero solo pochi e poco convinti tentativi di giocare la loro partita nel nuovo continente. Gli Inglesi, pur avendo promosso i viaggi di esplorazione dei fratelli Caboto, rinunciarono per lungo tempo ad intervenire in Nord America, preferendo investire sulle iniziative di corsari come sir Francis Drake, che le ricchezze del nuovo continente le portava in Inghilterra, predandole ai ricchi convogli spagnoli che collegavano le colonie alla madrepatria, o attaccando le stesse colonie con audaci colpi di mano. I Francesi impegnati nelle guerre europee e divisi all’interno da drammatici conflitti tra cattolici e ugonotti, poca attenzione prestarono tentativi dei loro compatrioti, Jacques Cartier e Jean Ribaut, di fondare colonie in Nord America. Per quasi un secolo quindi l’America fu principalmente una questione spagnola, e ciò significò per gli indiani misurarsi con un modello coloniale, che era espressione di un sistema economico sostanzialmente feudale, che di li a poco anche in Europa sarebbe andato in crisi. A fronte dell’Inghilterra, che cent’anni dopo sarebbe divenuta il centro propulsore della rivoluzione capitalistica in Europa, o della stessa Francia, i cui interessi economici e commerciali si sarebbero estesi in Asia, Africa e America, la Spagna rappresentava il soggetto più conservatore, un impero a carattere confessionale, che divideva i suoi sudditi rigidamente, tra nobili, e non nobili e poi tra questi ultimi, in possidenti e nullatenenti, ancora vincolati al sistema della servitù della gleba. D’altra parte questo sistema di impianto medievale, che negava ogni elemento di dinamismo sociale, aveva però nel suo carattere confessionale un elemento universalistico, che almeno sul piano formale, considerava ogni suddito, a prescindere dalla sua razza, e con il solo vincolo dell’adesione al cattolicesimo, parte di quell’Impero “su cui mai tramonta il sole”. Così se il colonialismo spagnolo fu sotto molti punti di vista il più rozzo, brutale e crudele, è un fatto che solo nelle zone sotto il dominio spagnolo, i nativi che riuscirono a sopravvivere alle vessazioni dei conquistatori, poterono poi vivere come cittadini, almeno formalmente uguali agli altri, partecipando della costruzione di quella popolazione meticcia, che è il carattere tipico della cultura del Messico e dell’America Meridionale. Gli Spagnoli in ultima analisi avevano necessità dei nativi, che servivano loro in quanto servi: erano quindi pronti a imporre la servitù con ferocia, ma una volta trasformati i nativi in servi, non era nei loro interessi eliminarli, quanto invece inserirli in un sistema, del quale la servitù era la base. Gli Inglesi, quando si presenteranno nel Nuovo Mondo, non lo faranno con la crudele cupidigia degli Spagnoli, ne tenteranno di trasformare gli indiani in schiavi, ma sempre avranno chiaro che i nativi sono un mondo a parte, con cui non ci si mescola, di nessuna utilità e che infine dovrà essere spazzato via, o al più tutelato, come esotica reliquia, in una riserva nel deserto.
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L’ANTEFATTO
I nomadi del mare
Molto tempo prima che i monarchi europei decidessero di affidare al mare le loro ambizioni politiche e commerciali, inviando navigatori ed esploratori dalle coste europee, verso l’ignoto oceano Atlantico, quello stesso oceano, o almeno le sue fredde acque settentrionali, già erano state solcate da altri navigatori, certo meno celebrati dei capitani che navigavano sotto le bandiere di Spagna , Francia, Portogallo o Inghilterra, ma sicuramente più temuti. I Vichinghi, un popolo di stirpe germanica che abitava le remote regioni scandinave, e che rimasto ai margini, se non addirittura ignoto alla storia Europea, a partire dal IX, iniziò a muovere dalle sue fredde foreste, espandendosi in tutte le direzioni alla ricerca di nuove terre da colonizzare, da depredare, con cui commerciare o dove trovare una remunerata occupazione come mercenari. E’ difficile comprendere quali furono le ragioni che spinsero i Vichinghi verso quello che di fatto fu un vero e proprio movimento migratorio, ma va ricordato che simili dinamiche riguardavano da secoli i popoli europei, e per questa ragione Germani e Sarmati si erano scontrati con l’Impero Romano, mentre successivamente i popoli Slavi dall’Europa centrale erano giunti fin sul Mediterraneo, e gli Ugro-Finni Magiari, dalle regioni uraliche si erano insediati al centro dell’Europa, nell’odierna Ungheria. Di fatto i Vichinghi possono essere considerati come l’ultima di una serie di ondate migratorie, che tra il II sec. a.C. e il X sec. d.C. attraversarono l’Europa, rappresentando un elemento di costante instabilità. A differenza degli altri però, i Vichinghi non viaggiavano via terra, in grandi masse e con carri e bestiame al seguito, lungo le vie che la natura stessa crea, le valli e i passi montani o il corso dei fiumi, ma popolo costiero ed esperto di navigazione, iniziò la sua migrazioni sui veloci “drakkar”, le snelle navi di cui erano esperti costruttori, in piccoli gruppi, quelli che si potevano raccogliere su un singolo vascello o al massimo su piccole flottiglie, e soprattutto senza seguire una precisa via, ma muovendosi sul grande mare in ogni direzione. Conosciuti con diversi nomi (Variaghi in Russia, Normanni in Francia e nel Mediterraneo) i Vichinghi tra il IX e l’XI secolo estesero il loro raggio d’azione in tutta Europa, depredando i villaggi costieri, risalendo il corso dei fiumi con le loro navi fino a penetrare nell’interno della Francia, dell’Inghilterra, mentre altri si facevano assoldare come mercenari a Bisanzio o nelle città costiere del Mediterraneo, attaccate dai corsari saraceni, e altri ancora come mercanti, pirati o mercenari, si inoltravano lungo i fiumi della Russia fino all’Ucraina. Inizialmente pirati, mercenari o a volte semplicemente mercanti, alla metà dell’XI secolo i Vichinghi, Normanni o Variaghi, erano divenuta parte di quella elite guerriera che costituiva la base dell’aristocrazia feudale, protagonista del medioevo. Così i Normanni dopo essersi insediati nella Francia settentrionale, guidati da Guglielmo il Conquistatore, conquistarono l’Inghilterra e la unificarono sotto un'unica corona, i Variaghi ebbero un ruolo centrale nella nascita del primo stato russo, il principato di Kiev, mentre altri regni Normanni nacquero in Italia meridionale e in Sicilia, e dopo la I Crociata, persino in Medio Oriente. Alla metà dell’XI secolo comunque il fenomeno migratorio che aveva portato
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i Vichinghi a lasciare i loro frastagliati fiordi e le loro fredde foreste, si esaurisce, e i popoli scandinavi, ormai cristianizzati, cessano di essere un pericolo per l’Europa. Il quadro sommariamente esposto, riguarda le vicende più note dei Vichinghi, quelle che ebbero un impatto sulla storia Europea, ma altri Vichinghi, piuttosto che alle ricche terre meridionali, volsero la loro attenzione verso il mare ignoto, e spinsero i loro Le regioni d’Europa investite dall’espansione vichinga drakkar tra le fredde acque dell’Atlantico settentrionale, raggiungendo terre quasi sconosciute: le isole Orcadi, le Shethland, le Farhoer, fino a raggiungere nella seconda metà del IX secolo la remota Islanda. Non è chiaro se i Vichinghi siano stati i primi a insediarsi su queste terre, o se essi fossero anticipati da monaci eremiti irlandesi, come vogliono alcune tradizioni; in ogni caso se i monaci c’erano, certamente lasciarono l’isola all’arrivo dei Vichinghi pagani. Nell’isola i Vichinghi diedero vita ad un proprio “Parlamento”, il più antico d’Europa, composto da capiclan e sacerdoti pagani, e l’isola fu una sorta di repubblica tribali indipendente, anche dopo la conversione al cristianesimo, e fino alla metò del XIII secolo, quando gli abitanti accettarono di fare atto di fedeltà al re di Norvegia, mantenendo comunque le proprie istituzioni. Nel 940 giunse sull’isola Erik il Rosso con la sua famiglia, esiliato insieme al padre dalla Norvegia dove avevano ucciso un uomo, probabilmente nell’ambito di faide tra clan; Erik il Rosso stette in Islanda oltre 40 anni, fin quando nel 982, ancora una volta con l’accusa di omicidio, fu bandito dall’isola per tre anni e con i suoi famigliari e i suoi servi, pose la prua all’ovest, in cerca di un’isola di cui narravano i pescatori. Dopo essere approdato in Groellandia ed esservisi stabilito, tre anni più tardi, allo scadere del bando tornò in Islanda per cercare nuovi coloni; chiamata la colonia Greenland (Terra Verde), riuscì a convincere molti islandesi a trasferirvisi, e lo stanziamento, che più tardi ebbe anche un proprio vescovo, giunse ad avere alcune migliaia di abitanti, divisi in due insediamenti principali, e si mantenne fino all’inizio del ‘400, quando i generali cambiamenti climatici, indussero gli abitanti ad abbandonare l’isola. Non ci sono notizie sui contatti tra questi nuovi arrivati e le popolazioni Inuit, e ciò perché a quell’epoca questi ultimi ancora non avevano ancora colonizzato la Groellandia occidentale, dove sarebbero giunti solo dopo l’esaurirsi delle colonie vichinghe. Per giungere alla prima notizia di un contatto tra nativi ed Europei si devono attendere i viaggi successivi dei figli di Erik il Rosso, che raggiunsero il Labrador, Terranova e forse la foce del San Lorenzo; ma non furono loro i primi a vedere le coste del Canada, e anzi le prime notizie circa una terra boscosa posta ancora più ad ovest, vengono da un mercante L’espansio vichinga nell’Atlantico settentrionale
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da poco arrivato in Islanda, il norvegese Bjarni Herfojlsson, che giunse nel 986 sull’isola per riunirsi al padre, venendo però a sapere che questi s’era unito ad Erik il Rosso alla volta della Groellandia. Partito anch’egli con la sua nave, fu spinto dalle condizioni del mare fino a giungere in vista di una terra con ricche e grandi foreste (che in Groellandia non c’erano), dove però non ritenne opportuno prendere terra. Alla fine Bjarni raggiunse la Groellandia, dove informò Erik il Rosso della sua scoperta. Tappa dopo tappa, in quasi due secoli i Vichinghi era giunti alla soglia d’ingresso del Nuovo Mondo.
I Vichinghi nel Nuovo Mondo
Le notizie riportate da Bjarni furono accolte con molto interesse dal vecchio Erik il Rosso, che sembra invece non abbia apprezzato l’atteggiamento prudente dello stesso Bjarni, che si era limitato a scrutare le coste dal mare, piuttosto che prendere terra e portare notizie più precise. Dovettero passare 12 anni prima che dalle coste della Groellandia qualcuno osasse verificare le notizie portate da Bjarni, fin quando nel 998, il figlio di Erik il Rosso, Leif Erikson, che era appena tornato da una permanenza in Norvegia, dove si era anche convertito al Ricostruzione delle rotte seguite da Bjarni HHerfojlsson e Leif Erikson cristianesimo, acquistò la nave di Bjarni e con essa prese il mare cercando di riprendere a ritroso, la stessa via seguita da Bjarni. Nel corso della sua navigazione a ovest, Leif Erikson approdò prima in una terra che chiamò Helluland (Terra delle Pietre Piatte), che oggi gli studiosi ipotizzano possa essere la grande isola di Baffin, a nord della Baia di Hudson, quindi su una terra boscosa, il Markland, quasi certamente la costa del Labrador, per approdare infine in una terra che chiamò Vinland (Terra del Vino o Terra dei Pascoli), dove si fermò per svernare. Per molto tempo non è stato chiaro se Vinland, sia un punto qualsiasi della costa Atlantica del Labrador, o se invece essa sia l’isola di Terranova, di fronte a tale costa, ma il ritrovamento nel 1960 da parte di archeologi norvegesi dei resti di un antico insediamento vichingo nella località de L’Anse aux Meadow, nel nord-ovest dell’isola, fanno ormai propendere per la seconda ipotesi Durante l’inverno passato a Vinland, Leif costruì il piccolo insediamento di Leifsbudir (ricovero di Leif) di cui le rovine di L’Anse aux Meadows, sono quanto resta oggi, ed eresse la prima croce in terra americana. La terra in cui Leif era giunto era ricca di salmoni, legname e, abbastanza inspiegabilmente di vite, per la cui presenza si è creduto che l’isola prendesse il proprio nome vichingo di Terra del Vino. L’ipotesi che alle elevate latitudini del nord di Terranova potesse crescere la vite, ha creato più di una perplessità e contribuito a far ritenere che il sito di approdo di Leif, fosse più a sud, nel golfo di San Lorenzo o addirittura a Cape Cod, sulla costa del New England; si è pensato che prima del peggiorare delle condizioni climatiche, a partire dal XIV secolo, a Terranova vi fosse un clima più mite, che poteva forse permettere la crescita della vite, anche se questa ipotesi può essere difficilmente dimostrata. In realtà va rilevato che i Vichinghi, avevano l’uso di ricavare “vino” dalla fermentazione di una quantità di bacche e frutti, e che quindi la scoperta della “vite”, fatta dal servo germanico di Leif, Tyrker, vada riferita alla scoperta di bacche adatte a questo scopo. D’altra parte non è nemmeno certo che Vinland significhi Terra del Vino, e anzi sembra probabile che il termine “vin” sia da riferire all’antico norvegese, con il significato di “pascoli”, ipotesi che meglio si adatta al paesaggio di Terranova. Questa ipotesi risulta più credibile di quella che fa riferimento all’etimo latino “vinum”, non essendo il latino lingua diffusa tra i Vichinghi d’Islanda e Groellandia, che solo da pochi anni (e non tutti) si erano convertiti al cristianesimo. Neanche in occasione di questo primo approdo è possibile parlare di contatti tra Europei e nativi, e
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benchè Leif avesse inviato una parte dei suoi uomini ad esplorare l’isola, non c’è alcun riferimento all’incontro con i nativi; forse la zona in cui Leif approdò non era frequentata dagli indiani Beothuk, che vivevano a Terranova, o più probabilmente l’incontro non avvenne a causa dell’uso dei Beothuk di svernare nelle parti interne dell’isola, e di frequentare le coste durante la buona stagione. A primavera Leif ripartì per la Groellandia, abbandonando il villaggio di Leifsbudir, e portando con se un carico di legname e di “vite”; lungo la via del ritorno egli ebbe modo di Ricostruzione di una abitazione vichinga a L’Anse aux Meadow soccorrere dei naufraghi, con il loro carico, e con ciò la sua impresa fu tale da fargli guadagnare il soprannome di Leif il Fortunato. Il successo di Leif, indusse nell’autunno dello stesso 999, suo fratello Thorwald a tentare anch’egli l’impresa, partendo con 40 uomini, per raggiungere Leifsbudir dove stabilì la propria base, fermandosi sull’isola nei tre anni successivi. Nel corso di questo tempo egli esplorò le coste dell’isola e forse della terraferma, spingendosi a sud e raggiungendo quasi certamente le coste del Golfo di San Lorenzo. Manca ogni riferimento a successivi afflussi alla colonia dalla Groellandia, anche se appare difficile che per tre anni la gente di Thorwald sia vissuta nell’isolamento; è invece possibile che a primavera merci partissero da Vinland per la Groellandia, e che magari al loro ritorno, altri coloni si unissero al viaggio. Ciò che è certo è che l’impresa di Thorwald stabilisce una lunga e continuativa permanenza in loco, ed è possibile che i riscontri della presenza vichinga, del loro passaggio e del loro stanziamento, nella zona tra Terranova e il fiume San Lorenzo, siano riferibili a questo periodo, quando forse più insediamenti, piccoli e temporanei, furono stabiliti nel corso della esplorazione del territorio. Si deve giungere al terzo anno di insediamento dei Vichinghi in America, per avere il primo resoconto dell’incontro (e dello scontro) tra Europei e Nativi: nell’anno 1002, mentre esplorava una zona costiera a sud, Thorwald fece prigionieri e poi uccise, otto nativi, dovendo poi difendersi dalle dalla reazione dei guerrieri indiani, che attaccarono i Vichinghi presso le navi con le quali erano approdati a terra. Nel corso della battaglia che seguì Thorwald stesso venne ucciso da una freccia, e nella primavera successiva, i Vichinghi abbandonavano ancora Vinland, per tornare in Groellandia. Questo è il primo racconto dell’incontro tra nativi ed Europei e le dinamiche del contatto seguono un canovaccio, che anticipa e prevede, tutta la storia successiva: gli Europei, dando per scontato il loro “diritto di conquista”, prendono prigionieri e poi uccidono ignari nativi, che incontrano sul loro cammino, scatenando così la reazione degli indiani che intervengono in massa, cacciando gli invasori; cinque secoli dopo, lungo la costa Atlantica, altri navigatori, al servizio delle diverse potenze europee, avrebbero avuto la stessa pratica e subito le stesse conseguenze. Non abbiamo notizie sul luogo in cui avvenne la battaglia tra Vichinghi e “Skraeling”, il nome che i Vichinghi usavano per definire i nativi, quindi è difficile anche ipotizzare a quale tribù appartenessero gli Skraeling. E’ possibile che la battaglia sia avvenuta durante l’esplorazione della costa del Golfo di San Lorenzo, e nel caso i guerrieri protagonisti di questa prima battaglia delle “guerre indiane”, potrebbero essere Micmac, o Iroquaian del San Lorenzo, anche se il successivo abbandono dell’isola potrebbe far pensare che l’ostilità dei nativi, doveva essere un pericolo sulla stessa isola di Terranova, e in questo caso gli indiani coinvolti sarebbero Beothuk che vi risiedevano. Quando nel 1003 i Vichinghi tornarono in Groellandia con la notizia della morte di Thorwald, suo fratello Thorstein, decise che quell’autunno stesso sarebbe partito per cercare il corpo di suo fratello (e probabilmente vendicarlo), ma una volta in viaggiò vago inutilmente per l’Atlantico senza trovare la rotta giusta, fin quando non fu obbligato a cercare riparo presso un insediamento Vichingo della Groellandia, dove poco tempo dopo morì di malattia. Il successivo viaggio è del 1005 o 1006, e fu guidato dal mercante islandese Thorfin Karlsefni, sposo di
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Gudrid, vedova di uno dei naufraghi soccorsi da Leif Erikson al ritorno dal suo viaggio. Questa volta il gruppo, composto da circa 140 persone, portò con se anche bestiame, ed era presumibilmente interessato anche a commerciare con gli indiani. Stabilitisi a Leifsbudir, i Vichinghe ebbero certamente relazioni di scambio con i Beothuk, e viene riportata la notizia di un incidente causato dal timore dei Beothuk alla vista di un toro, animale a loro ignoto. I commerci comunque ci furono, come dimostra la proibizione di scambiare armi (spade e asce di metallo, ignoto agli indiani). Durante questa permanenza è registrata la nascita di un figlio di Gudrid, il primo Europeo a nascere nel Nuovo Mondo. Alla fine proprio il divieto di scambiare armi con gli indiani, fu causa di un incidente, quando un guerriero o un capo Beothuk, tentò di entrare in possesso di un ascia, cosa che gli fu impedita; la reazione degli indiani non si fece attendere, e i Vichinghi La regione sicuramente interessate dalle spedizioni vichinghe dovettero fortificarsi nel loro villaggio per difendersi dall’attacco indiano. Alla fine le perdite che sopportarono non furono elevate, ma in primavera, fatto un buon carico di legname, pelli e vegetali selvatici, anche Thorfin e la sua gente abbandonarono l’isola. L’ultima spedizione vichinga a Vinland di cui si fa menzione nelle Saghe, fu organizzata poco prima del 1010 dalla figlia di Erik il Rosso e sorella di Leif, Freydis, che insieme al marito, si accordò con due mercanti islandesi, Helgi e Finnbogi, per raggiungere l’isola, dividendo a metà i proventi dell’impresa. Di quest’ultimo viaggio non si hanno notizie di contatti con gli indiani, anche perché i Vichinghi si divisero subito in fazioni, a causa del pessimo carattere di Freydis, e finirono con l’ammazzarsi fra loro. Freydis aveva ottenuto dal fratello Leif, che la spedizione potesse fare base a Leifsbudir, cosi quando Helgi e Finnbogi, partiti per primi raggiunsero l’isola, presero possesso degli edifici costruiti nei precedenti viaggi; quando però anche Freydis arrivò a Vinland, ella pretese di cacciare i due mercanti islandesi da Leifsbudir, dato che a lei e non ad altri, il fratello Leif aveva concesso l’uso del villaggio. I due gruppi si divisero, ma poi anche per l’intervento del marito di Freydis, Thorwald, si stava per giungere ad un accordo, quando Freydis ancora una volta intervenne per denunciare i due islandesi accusandoli di averla aggredita, e chiamando codardo il marito che non la difendeva. Alla fine il marito Thorvald con i suoi uomini attaccarono e uccisero gli islandesi, lasciando vive solo cinque donne: fu la stessa Freydis ad ucciderle tutte a colpi d’ascia. Anche questa volta a primavera i Vichinghi tornarono in Groellandia, dove le notizie della faida fecero molto scalpore, anche se alla fine Leif Erikson rinunciò a punire sua sorella. Questa fu l’ultima spedizione vichinga a Vinland di cui si hanno notizie, anche se non è da escludere che successivamente altri Vichinghi si siano spinti ad ovest, per trovare pelli, legnami e vegetali selvatici, di cui sicuramente gli insediamenti groellandesi avevano necessità.
La “scoperta” dimenticata
Le vicende dei Vichinghi in Groellandia, ci sono note grazie a due documenti, la Saga di Groellandia, e la Saga di Erik il Rosso, entrambe scritte nel XIII secolo, raccogliendo le precedenti narrazioni orali;
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delle due, la prima, che è anche precedente nella stesura, viene considerata la più affidabile, mentre la seconda, di poco successiva, narra sostanzialmente gli stessi fatti assemblandoli in modo diverso. La ricostruzione qui riportata è sostanzialmente quella della Saga di Groellandia, che appare nel complesso più essenziale nella narrazione e più coerente nella concatenazione logica degli eventi, al contrario che nella Saga di Erik il Rosso, dove si da più spazio a vicende personali romanzate, quali l’eroismo di Freydis in occasione di un attacco indiano, mettendo comunque insieme fatti ed eventi diversi: la scoperta casuale delle nuove terre non è di Bjarni Herfojlsson, ma dello stesso Leif Erikson, mentre le vicende delle spedizioni di Thorwald Erikson, di Thorfin Karlsefni, e Freydir Eriksdottir (figlia di Erik), sono narrate come un’unica spedizione, e non tre diverse come nella Saga di Groellandia. Di fatto l’esistenza di due saghe ci conferma, ancor prima dei riscontri archeologici, che nell’Islanda del medio evo c’era una conoscenza certa, di terre ricche e abitabili a occidente, che tali terre potevano essere visitate per rifornirsi di legname, e che su di esse non sembrava esercitare il suo dominio nessuno dei re cristiani o pagani, allora noti. D’altra parte è comprensibile che le tradizioni orali di pescatori che vivevano al limite del mondo conosciuto, potessero non avere alcuna influenza sulle conoscenze geografiche dell’Europa medievale, e non solo perché era difficile già solo venirne a conoscenza, ma anche perché mancavano le conoscenze geografiche di base, per inserire le informazioni che in qualche modo potevano giungere dall’Islanda, in una visione generale. Di fatto la prima, e forse unica testimonianza, che giunge al mondo intellettuale europeo delle terre scoperte dai Vichinghi, è del 1075, quando lo storico e geografo sassone Adamo di Brema, frequentando il regno di Danimarca e i paesi scandinavi nell’ambito delle attività missionarie della chiesa, riporta dell’esistenza dell’isola di Vinland, che però viene situata a nord della Norvegia. A parte questa unica citazione, non sembra che altre informazioni sulle colonie vichinghe a occidente, sia giunta in Europa. Dal canto loro i Vichinghi non si erano posti mai il problema di scoprire nuovi mondi, e quindi le scoperte che essi fecero, furono interpretate con gli strumenti culturali di cui disponevano, e che erano molto minori quelle dell’elite intellettuale europea, che al tempo in cui essi approdavano a Terranova, aveva ancora scarse e confuse conoscenze non solo del Catai, ma delle stesse terre del Medio Oriente, e forse anche dubbi sulla rotondità della terra. Di fatto l’Europa del tempo, era quella in cui l’orizzonte geografico si fermava al Mediterraneo, non ancora solcato dalle navi che portavano i crociati in Terra Santa, e che nulla sapeva della via della seta e del lontano oriente prima del successivo viaggio di Marco Polo; le scoperte dei Vichinghi avrebbero potuto offrire risposte, a domande che l’Europa a quell’epoca, non era nemmeno in grado di porsi. Quando poi a partire dal ‘400 si pose il tema della ricerca di nuove rotte per raggiungere l’Oriente, le colonie vichinghe di Groellandia, con le loro antiche saghe, avrebbero forse potuto interessare le corti d’Europa, se non avessero, proprio a quell’epoca, cessato d’esistere; ora che l’Atlantico si apriva all’interesse d’Europa, i primi che avevano osato sfidarlo, venivano dimenticati. Ma se l’Europa non badò, anzi nemmeno s’accorse, della scoperta di terre e dell’incontro con popoli sconosciuti, più difficile è comprendere quale sia stato l’impatto dei Vichinghi, sui popoli nativi con cui entrarono in contatto. Dalle saghe vichinghe, l’unico dato certo, e che ha trovato riscontri archeologici, è quello della loro presenza a Terranova, ma ovviamente dobbiamo considerare possibile che sia nei pochi anni di cui narrano le Saghe, sia forse in epoca successiva, i Vichinghi siano approdati anche sulla terraferma del Labrador, alla foce del San Lorenzo, tutte regioni abitate da popoli, i Beothuk, i Montagnais, i Micmac, che condividevano uno stile di vita nomade, basato principalmente sulla caccia e sulla pesca. Questo dato spiega l’assenza di ogni riferimento nelle Saghe, alla presenza di campi coltivati, orti o al mais, che pure erano parte della cultura dei popoli che vivevano poco più a meridione. Ciò rende meno credibili le ipotesi di esplorazioni vichinghe più a sud, lungo le coste del New England, il medio corso del fiume San Lorenzo o addirittura nella Carolina, dove vivevano popoli che praticavano l’agricoltura; per gli abitanti di una terra come la Groellandia, in cui certo l’attività agricola non garantiva significative risorse, la possibilità di commerciare o di predare le scorte di mais dei nativi, sarebbe stato certo un elemento di interesse da segnalare, al pari del legname, delle pelli e della “vite”, con cui i Vichinghi stipavano le loro navi, nel viaggio di ritorno da Vinland. E’ quindi altamente probabile che gli unici indiani ad avere incontri con i Vichinghi, furono Beothuk di Terranova, Montagnais del Labrador e Micmac di Nova Scotia e della foce del San Lorenzo, e forse Iroquaian che vivevano lungo il corso dello stesso fiume. Le notizie dei rapporti con gli indiani che le Saghe danno, rendono quasi impossibile una precisa identificazione geografica del luogo in cui Thorwald Erikson si scontrò con gli indiani rimanendo ucciso, mentre invece è quasi certo che gli incidenti con gli indiani, durante la spedizione di Thorfinn Karlsefni, avvennero nelle vicinanze di Leifsbudir
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(L’Anse aux Meadow), a Terranova. Neanche dal punto di vista delle narrazioni orali è possibile trovare tracce di questi primi contatti nelle tradizioni indiane, salvo per un racconto Mohawk, raccolto nel XX secolo, in cui si fa riferimento ad un prigioniero bianco che i Mohawk sottrassero agli Algonquin, durante i loro conflitti; questa narrazione comunque ha parecchi elementi contraddittori, e l’episodio potrebbe essere di molto successivo al tempo dei Vikinghi, e risalire al tempo in cui i primi esploratori francesi, visitarono la valle del San Lorenzo nel XVI secolo. Un aspetto fondamentale per la conferma di contatti tra Vichinghi e nativi, avrebbe potuto essere il riscontro della presenza di oggetti di metallo, in insediamenti indiani risalenti a quell’epoca, ma da quel che sappiamo i Vikinghi erano pronti allo scontro, pur di evitare che gli indiani entrassero in possesso di lame di metallo, e presumibilmente anche di oggetti di metallo, che adeguatamente lavorati potessero trasformarsi in lame. Certamente se anche singoli indiani poterono acquisire oggetti di metallo dai Vichinghi, in alcun modo tale novità ebbe un impatto sulla cultura dei nativi, come invece accadrà quattro secoli dopo. Di fatto l’unica tribù che certamente ebbe significative e ripetute occasioni di confronto con i Vikinghi futono i Beothuk di Terranova, il popolo a cui si deve il nome di “pellerossa”, successivamente esteso a tutti i nativi del Nord America, che i Beothuk si guadagnarono per il loro uso di ocra rossa, con cui per ragioni rituali, si dipingevano il volto e il corpo. I Beothuk erano quasi certamente eredi della cultura Arcaica della Pittura Rossa, di cui abbiamo testimonianza nei siti di sepoltura e nei corredi funerari rinvenuti a Terranova. All’incirca intorno al 1.500 a.C., forse per ragioni ambientali e climatiche, la cultura Red Paint inizia a decadere, poi successivamente, intorno a V sec. a.C., i Beothuk dovettero vedersela con l’arrivo dei Protoinuit di cultura Dorset, che occuparono la parte settentrionale dell’isola, mentre è possibile che l’ostilità che in tempi storici li separava dagli Algonquin della terraferma, abbia radici già in quell’epoca remota. I Beothuk, vivevano pescando lungo le coste, attendevano la stagionale risalita del salmone, cacciavano i mammiferi marini, si spostavano con caratteristiche canoe e usavano wigwam conici di corteccia come ripari; durante i mesi invernali si spostavano nelle zone interne per dedicarsi alla caccia al cariboù, che veniva atteso al varco durante le sue stagionali migrazioni, e ucciso durante caccie collettive in cui diverse comunità cooperavano. Volendo cercare tracce tra gli indiani del primo contatto con gli Europei, delle conseguenze che ebbe e del ricordo che eventualmente ne rimase, certo la ricerca andrebbe fatta tra i Beothuk, che però si sono estinti all’inizio dell’800, dopo secoli di conflitti con i coloni bianchi e con i nemici tribali Micmac. Da quanto successe in seguito, sappiamo che la prima conseguenza dell’incontro tra nativi ed Europei, è stata sempre la trasmissione di malattie che falcidiavano gli indiani e ne distruggevano intere comunità; difficile pensare che un simile dramma non si sia prodotto anche in conseguenza dell’incontro con i Vichinghi. I contatti tra i due gruppi furono occasionali e spesso conflittuali, ma certo ripetuti, e di recente sono state scoperte nel patrimonio genetico islandese, tracce che fanno pensare ai Beothuk, spiegabili probabilmente con l’arrivo sull’isola di donne Beothuk schiave, o comunque dei loro figli o nipoti, nati da rapporti con i loro padroni Vichinghi. In ogni caso c’è un elemento che forse può illuminarci su quali conseguenze abbia lasciato sui Beothuk l’incontro con i Vichinghi di Groellandia, quasi Villaggio Beothuk, in un disegnp del XVIII secolo
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certamente ripetutosi dopo le prime spedizioni narrate dalle Saghe, e lo si può ricavare dal modo assolutamente anomalo con cui i Beothuk si rapportarono ai bianchi in epoca successiva. Pur tra i primi indiani del Nord America a incontrare i bianchi, già dal 1497, quando Giovanni Caboto per conto del re d’Inghilterra Enrico VII, raggiunse le coste di Terranova, i Beothuk evitarono in tutti i modi relazioni con i bianchi, rifiutandosi di commerciare, ritirandosi nell’interno all’avanzare dei coloni, limitando le loro relazioni al furto occasionale di oggetti di metallo, che avrebbero comunque potuto ottenere con il commercio, come facevano le altre tribù. Anche di fronte ai rari tentativi di relazione pacifica da parte dei bianchi, i Beothuk si ritrassero sempre, come se temessero addirittura il contatto con essi. E’ quindi possibile interpretare questo comportamento quasi unico fra le tante tribù indiane, alla luce di quella che doveva essere stata l’esperienza dei secoli precedenti con i Vichinghi, una esperienza che certo aveva indotto a temere i bianchi “come la peste”, e probabilmente per la stessa ragione della peste. E così se del primo contatto tra i popoli d’Europa e quelli del Nord America, possiamo dire qualcosa, è che i primi lo dimenticarono, i secondi ne serbarono un ricordo che si trasformò in timore assoluto.
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GLI SPAGNOLI NEI CARAIBI Il primo viaggio di Cristoforo Colombo 12 ottobre 1492, le tre caravelle che Cristoforo Colombo ha guidato attraverso l’oceano Atlantico, giungono finalmente a gettare l’ancora in prossimità di una costa ignota, quella di un isola delle Bahamas, a cui Cristoforo Colombo da il nome di San Salvador. Gli uomini, armati e con stendardi e croci al seguito, approdano a terra, e ringraziando il Signore, ne prendono possesso in nome della Cattoliche Maestà di Spagna. Stupiti e sicuramente impressionati, forse impauriti, sono testimoni dell’evento alcuni indigeni Taino, il popolo che occupava gran parte delle isole Caraibiche, vivendo pacificamente di agricoltura, pesca e un po’ di caccia. Per gli uomini appena giunti con la scialuppa, quel lembo di terra ignoto, è la porta che apre alle ricchezze del Catai, dove forse sarà possibile incontrare mercanti ebrei o arabi, e allo scopo di comunicare con loro, con la spedizione è giunto Luis de Torres, ebreo convertito al cattolicesimo, che conosce l’ebraico, l’arabo, l’aramaico e il portoghese. Ovviamente l’interprete non è di nessuna utilità per comunicare con i nativi, i quali però fanno subito una buona impressione a Colombo: belli, gentili, pacifici, generosi e inermi. Non c’è oro ne ricchezza in questa terra estrema che forse è l’estremo limite dei possedimenti del khan del Catai, per cui Colombo riparte alla ricerca di ciò che potrà confermare la giustezza del suo progetto, le ricche città in cui incontrare i rappresentanti dell’impero del Catai, o quanto meno trovare i tesori in oro, spezie e tessuti pregiati, con cui fare mercato e da riportare in Spagna, a conferma dell’approdo in Asia, e come anticipo delle future ricchezze. Con sei indiani Taino a bordo a fare da guide e interpreti, Colombo raggiunge le coste settentrionali di Cuba, che esplora in direzione orientale, convincendosi di non essere di fronte a un isolotto, ma forse proprio sulle coste del Catai, o comunque su un isola di grande estensione, come Cipango, di cui narra Marco Polo. La bellezza dell’isola colpisce Colombo, che però non può tornare in Spagna a raccontare dei panorami del luogo, ma deve trovare conferma di essere veramente giunto nel Catai; a fine ottobre Colombo organizza un’ambasceria, guidata dall’interprete Luis de Torres e da Rodrigo de Xeres, e la invia nell’interno dell’isola alla ricerca di città, castelli o palazzi, in cui incontrare i rappresentanti del khan, o almeno dei mercanti, o chiunque sia in grado di parlare una lingua nota, e dare le informazioni che Colombo si aspetta: è l’Asia la terra a cui è approdato. Pochi giorni dopo l’ambasceria ritorna, dopo aver visitato un villaggio Taino. Fu quella l’occasione in cui per la prima volta i bianchi conobbero l’usanza di fumare tabacco, e questa fu l’unica novità riportata a Colombo. L’oro comunque ci deve essere, sull’isola di Babeque, dovunque essa sia; Alonso Martinez Pinzon, il comandante della Pinta, l’ha saputo dagli indigeni e si mette alla sua ricerca abbandonando Colombo; per quasi due mesi vagherà tra le Bahamas e Grandi Antille, e alla fine tornerà a mani vuote. Colombo nel frattempo raggiunta l’estremità orientale di Cuba, che chiama Juana in onore dell’erede regale,
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esplora la costa settentrionale di Haiti, che chiama Hispaniola, ma la sera di Natale l’ammiraglia Santa Maria, il cui timoniere stanco s’era fatto sostituire da un mozzo, si arena e non è più in grado di riprendere la navigazione. A Colombo è rimasta una sola nave, la più piccola, la Nina, e di Pinzon non c’è traccia; forse ha trovato l’oro ed è già sulla via del ritorno, per prendersi i meriti a Corte, mentre lui inutilmente cerca la conferma di essere nel Catai. E’ tempo di tornare, anche se la traversata dell’Atlantico, con un solo vaUna delle prime rappresentazioni dell’arrivo di Colombo sulle coste americane scello è un rischio forte; per gli uomini che non possono imbarcarsi sulla piccola Nina, 39 in tutto, il legname della Santa Maria ormai abbandonata, servirà alla costruzione di un forte, “La Navidad”, a ricordo del giorno in cui la Santa Maria s’arenava. Nelle vicinanze del piccolo forte, il primo insediamento europeo nel Nuovo Mondo, a est dell’attuale Cape Haitien, c’era il villaggio di Guacanacari, uno dei cinque cacicchi più influenti dell’isola, che finalmente diede a Colombo la notizia che attendeva: l’oro a Hispaniola c’era. Con Gauanacari furono presi accordi per il sostegno e la sicurezza della nuova colonia, poi il 4 gennaio del 1493, Colombo riprese il mare con la Nina, alla ricerca di Pinzon e della sua nave, per poter far ritorno in Spagna: portava con se alcuni papaggalli, un po’ di tabacco e un po’ d’oro, e dieci indiani Taino; lasciava in America 39 uomini, al comando del primo “governatore” del Nuovo Mondo, Diego de Arana, e con l’interprete Luis de Torres. Il giorno successivo, dopo aver preso terra nei pressi di una località che chiamò Monte Christi (nella zona dell’attuale omonimo parco naturale sull’isola di Haiti), avvenne l’incontro con Pinzon, che aveva trovato l’isola di Babeque, ma non l’oro che cercava, e si era limitato a fare un po’ di scambi con un cacicco di nome Caonabò. A spiegare la sua scomparsa, chiamò in causa la nebbia in cui s’era perso, e Colombo pur non credendogli, dovette far buon viso: per il rientro era necessario viaggiare insieme. Le due navi, viaggiarono insieme in direzione orientale lungo la costa settentrionale di Haiti, fino a capo Samanà, dove le navi furono tirate in secca per ripararle prima del viaggio in Atlantico. Qui il 13 gennaio del 1493, avvenne il primo scontro armato tra nativi ed Europei. I Ciguayos, un popolo diverso dai Taino, bellicoso e forse antropofago, attaccarono gli Spagnoli armati di archi e frecce, ferendone alcuni. Tre giorni dopo, il 16 gennaio 1493, Colombo lasciava l’America, convinto di essere giunto in Asia, e tornava in Spagna, per cogliere gli onori e preparare la nuova spedizione. Nelle sue stive non aveva oro e ricchezza per i suoi reali associati, ma la nuova via per l’Oriente valeva più dell’oro che le due caravelle avrebbero potuto trasportare, e se ancora non era giunto ad essere accolto alla corte del khan, come ambasciatore del re di Spagna, certo col viaggio successivo la via del commercio con il Catai sarebbe stata finalmente aperta. Le isole Antille, nel mar dei Caraibi, le terre su cui era approdato Colombo, erano all’epoca abitate da diverse centinaia di migliaia di “indios”, per lo più di etnia Taino, che le avevano colonizzate più di un millennio prima, provenendo dalle foreste del Venezuela e portandovi l’agricoltura; prima dei Taino altre genti avevano occupato le isole, anch’esse probabilmente di provenienza meridionale, e ciò che rimaneva di questo stanziamento più antico, era una piccola popolazione che viveva nell’estremità occidentale dell’isola di Cuba, i Guayanatebey, che non praticavano l’agricoltura e vivevano di caccia pesca e raccolta. Altri gruppi minori, le cui origine sono ignote, erano i Ciguayo e i Macorix, che parlavano lingue diverse dai Taino: i Ciguayo che abitavano la penisola di Samanà ad Haiti, erano guerrieri che predavano i vicini Taino, gli Spagnoli li accusavano di antropofagia, e quasi certamente furono loro a scontrarsi con Colombo, quando questi approdò sulle loro coste. I Macorix, pur parlando una propria lingua, vivevano sull’isola di Haiti a fianco ai Taino, condividendone la cultura e probabilmente inseriti
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nel sistema politico dei Taino. L’etnia più numerosa, i Taino, era riconducibile a due diversi gruppi, probabilmente eredi di due diversi flussi migratori dalla terraferma, i Taino occidentali o Ciboney, in gran parte dell’isola di Cuba, in Giamaica, alle Bahamas e in una zona occidentale di Haiti (Hispaniola), e i Taino veri e propri ad Haiti, all’estremità orientale di Cuba, a Puerto Rico, e nelle Piccole Antille. I Taino erano un popolo pacifico, la cui principale attività era la coltivazione di orti, con manioca, patate, mais, arachidi, cotone; pescavano con lenze e piccole reti, o a volte anche usando il veleno; mancando grosse prede, un po’ di caccia era praticata nei confronti dei roditori, in particolare le cavie. Usavano arco e frecce rudimentali, mazze, lance e giavellotti di canna; non avevano bisogno di abiti, salvo i perizoma per gli uomini e gonnellini di fibre vegetali per le donne sposate, ma erano abili artigiani, conoscevano la ceramica e le tecniche di intreccio per la costruzione di canestri; dormivano in amache, fumavano tabacco e abitavano in villaggi di capanne, nelle aree interne più spesso che sulla costa. Sapevano lavoGli indiani Taino in un disegna del XVI secolo e in una foto dell’800 rare l’oro ed il rame con il solo metodo della battitura, e raccoglievano piccole quantità di metallo dai depositi alluvionali e dal corso dei fiumi, per ricavarne monili e lamine. A Hispaniola, l’isola più popolata, i Taino vivevano in tanti villaggi ognuno con il proprio cacicco (termine che significa “signore delle case”) la cui abitazione era diversa dalle altre, di forma quadrangolare invece che circolare. I cacicchi erano coadiuvati da una “nobiltà”, clan e famiglie con un ruolo più autorevole, e dai sacerdoti, shamani o guaritori, presenti in ogni comunità; a parte questa elementare stratificazione, la società era egualitaria e la proprietà della terra comune; la linea ereditaria era matrilineare e il titolo di cacicco, veniva ereditato dal figlio della sorella del defunto; la poligamia era praticata solo dai cacicchi. A Hispaniola le tante comunità guidate da cacicchi facevano riferimento a cinque grandi cacicchi, che esercitavano la loro influenza su vaste porzioni dell’isola, ed erano spesso in dissidio o competizione tra di loro. Guacanacari, con cui Colombo aveva stipulato accordi e Caonabò, con cui Pinzon aveva commerciato, erano due dei grandi cacicchi di Hispaniola. Nell’isola di Puerto Rico, c’era una simile organizzazione politica, ma i grandi cacicchi erano due; a Cuba e in generale tra i Ciboney (Taino occidentali), l’organizzazione era simile, ma le singole comunità più autonome, non essendoci grandi cacicchi in grado di dominare vasti territori. Ultimi arrivati tra i popoli dei Caraibi, erano i Caribi o Canibi, anche essi provenienti dal Venezuela, che dall’inizio del ‘400 avevano iniziato a colonizzare le isole davanti alla costa, e avanzavano lungo le Piccole Antille. Guerrieri bellicosi, antropofagi, armati con archi e frecce, avanzavano di isola in isola con le loro grandi canoe, predando i popoli agricole e sottomettendoli. All’epoca dell’arrivo di Colombo si preparavano a dominare i Caraibi, e non ebbero alcun timore a confrontarsi con gli Spagnoli. Queste erano le condizioni generali delle Antille al tempo in cui furono “scoperte” da Colombo, ed è partendo da questo quadro che è possibile, forse, tentare di immaginare quale potrebbe essere stata la percezione dei nativi, dell’evento di cui erano stati gli ignari protagonisti. I Taino di Hispaniola vivevano a quell’epoca con la costante preoccupazione delle incursioni dei Caribi, dei quali avevano un profondo terrore, mentre nei confronti degli Spagnoli, sembrano mostrarsi estremamente disponibili, pur non comprendendo con precisione cosa essi stavano cercando. E’ possibile che in un primo momento abbiano ritenuto i nuovi arrivati come esseri sovrannaturali, ma se anche tale equivoco si produsse, esso fu di breve durata, e se essi furono impressionati dalle navi e dalle armi di metallo, dai volti barbuti, dagli
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abiti, certo non impiegarono molto tempo a capire, che i nuovi arrivati erano umani, bisognosi di cibo come tutti, evidentemente avidi di quell’oro che sull’isola serviva solo per fare piacevoli monili, ma che essi cercavano con un’ansia difficilmente spiegabile. E’ probabile che Guacanacari, il cacicco con cui Colombo entrò in relazione, abbia ritenuto utile dare sostegno ai nuovi venuti, per ottenere da essi in regalo oggetti e merci sconosciuti, o forse per Le Antille al tempo dell’arrivo di Cristoforo Colombo ottenere sostegno contro i Caribi, o anche per rafforzarsi nei confronti degli altri Cacicchi dell’isola, con cui era in competizione. Sarà questo un atteggiamento che si ripeterà in diverse occasioni, con capi tribali che ignari di ciò che sta loro accadendo, tentano di inserire l’arrivo dei nuovi venuti, nella trama di relazioni locali, per farne degli alleati. Diverso il comportamento degli indios Ciguayos di Cabo Samanà, che invece attaccarono gli uomini di Colombo quando giunsero a terra, ma anche tale reazione, era probabilmente la modalità usuale, con cui si rapportavano con gli stranieri, i membri di questa tribù nota per la sua bellicosità, che viveva su un lembo estremo dell’isola, che i Taino aveva progressivamente colonizzato anche a spese loro. Di fatto sia i Taino che i Ciguayos, si rapportarono agli Spagnoli, come ai rappresentanti di un’altra tribù, con cui era possibile fare la guerra o un’alleanza, ma ovviamente mancava anche la possibilità di immaginare, che lo sparuto gruppo di uomini giunti dal mare, fosse l’avanguardia di un mondo nuovo, infinitamente più complesso, popolato e ricco. Solo con tale sottovalutazione si spiega la disponibilità del capo a permettere che dieci membri della sua tribù si imbarcassero per il viaggio di ritorno: lo scambio di visite fra diverse comunità, era certo un modo per mantenere legami ed alleanze, e il fatto che Colombo abbia chiesto di portare con se nel viaggio di ritorno dei nativi, sarò stata certo interpretata come una cortesia verso chi li aveva accolti e ospitati. Nessuno potrà mai sapere cosa pensarono i nove Taino (uno morì durante il viaggio), durante la lunga e difficile traversata Atlantica, o quando essi furono mostrati a Corte come trofeo, o ciò che accadde loro quando, passata la novità, essi compresero che il loro destino era quello di essere servi in una terra straniera. Dopo di loro a molti altri indiani sarebbe toccato questo destino: alcuni, pochi riuscirono a tornare alla loro gente, la maggior parte morì nel corso della traversata, o poco dopo essere giunti in Europa; una testimonianza del dramma di questi uomini, di fronte ad un mondo incomprensibile e sconosciuto, avrebbe potuto offrirci una conoscenza dell’altra metà della “scoperta”, quella fatta, loro malgrado, dai nativi che scoprivano l’Europa, ma nessuno s’è curato di raccogliere questa testimonianza. L’incontro tra Colombo e gli indios dei Caraibi, si basa sull’equivoco, per cui da entrambe le parti si guarda all’altro, sulla base delle proprie conoscenze o pregiudizi: dal punto di vista di Colombo, i selvaggi ignari e pacifici, che non erano in grado di rispondere alle sue domande, erano un incidente irrilevante, sulla via che doveva portarlo alla Corte del khan del Catai; per Guacanacari i nuovi arrivati erano portatori di meraviglie, che potevano essere utili nei propri piani. Sulla base di questo equivoco, i contatti furono in buona misura pacifica, e Colombo poteva lasciare i suoi uomini a “La Navidad” con la serena convinzione che “le persone che ho con me potrebbero soggiogare tutta l'isola... dato che le persone sono nude e non armate e sono molto codarde.” Non sarebbe passato un anno prima che tale convinzione fosse smentita.
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I fratelli Colombo a Hispaniola Non si conoscono con precisione le vicende del piccolo insediamento di La Navidad, dal gennaio 1493 al novembre dello stesso anno, quando Cristoforo Colombo fece ritorno ad Hispaniola, ma certo l’aver lasciato una quarantina di uomini affamati, armati e disperati, a gestire i rapporti con le popolazioni locali, non poteva non produrre conseguenze. Il 22 novembre quando Colombo giunse a La Navidad, non trovò il villaggio che si aspettava di trovare, ma solo 11 cadaveri sulla spiaggia, nelle vicinanze dei resti bruciati del forte; degli altri nessuna notizia. Gli indiani del cacicco Guacanacari che occupavano un villaggio vicino, parlarono di maltrattamenti nei confronti degli indios, di richieste di oro, di abusi sulle donne, e quindi della vendetta. Guacanacari continuava a mostrarsi amichevole, e la cosa è più che comprensibile vista la forza con cui gli Spagnoli si presentavano: 17 navi e 1.200 uomini. La responsabilità della distruzione di La Navidad, venne data agli indios di Caonabò, un cacicco rivale, e Guacanacari potè solo guardare con sollievo gli Spagnoli riprendere il mare alla ricerca di una zona adatta a stabilire la nuova colonia; pare che egli avesse avuto una visione che anticipava l’arrivo dei bianchi, e forse anche per questo, cercò da subito di evitare ogni ostilità. Per gli Spagnoli quanto accaduto a La Navidad, era la fine dell’illusione di poter dominare gli indios facilmente e in modo incruento, e certo la vista degli undici cadaveri, dovette fare una pessima impressione sui nuovi arrivati, i quali probabilmente si prepararono a ripagare gli indios della stessa moneta. Colombo dopo il suo ritorno in Spagna e l’accoglienza con tutti gli onori, s’era subito messo al lavoro per l’organizzazione di una nuova spedizione, finalizzata alla fondazione di una base, da cui organizzare il commercio con il Catai e lo sfruttamento delle terre appena scoperte; era il momento di mostrare i frutti concreti della impresa; il racconto di Guacanacari, al suo arrivo a La Navidad, fu quini accolto e l’alleanza confermata: non era il tempo di impegnarsi in rappresaglie. Abbandonati i resti de La Navidad, la flotta e gli uomini di Colombo si spostarono a est lungo la costa di Hispaniola, e nel gennaio del 1494, presero terra nella località scelta per la nuova colonia. Il nuovo stanziamento, che Colombo chiamò “La Isabela”, in onore della sua protettrice, ebbe subito vita difficile, il luogo probabilmente non era il migliore, ma anche il clima e il cibo, a cui gli Spagnoli non erano preparati, causarono malattie a centinaia di coloni, e circa un mese dopo, dodici delle diciassette navi facevano ritorno in Spagna, portando il pochissimo oro trovato, e quanti non se la sentivano più di rimanere. Ignari dell’ambiente e giunti nelle nuove terre nella convinzione di trovarvi meraviglie e ricchezze, gli Spagnoli si trovarono a dipendere per il cibo da quanto riuscivano ad ottenere dai villaggi Taino vicini, imponendo tributi con la forza, e vedendo crescere intorno a loro l’ostilità dei nativi. La terra in cui erano giunti, benchè lussureggiante e bella non offriva ricchezze senza lavoro, mentre i commerci con il Catai, che erano la ragione prioritaria dell’impresa, sarebbero stati possibili solo dopo che l’esplorazione dell’area avesse indicato la via giusta, il tratto di mare, oltre il quale trovare il Continente, e finalmente la conferma della scoperta della via occidentale per l’Oriente. Il timore che invece che alle porte dell’Asia, si fosse solo giunti su isole perse nell’immensità dell’oceano, probabilmente dovette essere presente, tra i più sfiduciati. L’arrivo della grande spedizione spagnola dovette essere noto in breve tempo in tutta l’isola, ma non sappiamo quali reazioni produsse. A quell’epoca il territorio di Hispaniola era suddiviso in cinque caciccati, ognuno a sua volta diviso in entità minori, vassalle del cacicco più importante: il caciccato di Marien, nel nord-ovest dell’isola, era quello dove aveva preso terra Colombo, a cui capo era l’anziano Guacanacari, rispettato per la saggezza; più a est era il caciccato di Magua, sulla cui costa Colombo aveva fondato La Isabela, il cui capo I principali caciccati di Haiti, i loro cacchi e i villaggi principali, al tempo di Colombo
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Guarionex, figlio di Guacanacari si trovò a dover fare scelte difficili; all’estremità orientale dell’isola era il territorio di Higuey, il cui cacicco era Cotubanama, che fu l’ultimo a doversela vedere con gli Spagnoli. Sulla costa meridionale, dell’isola erano i due caciccati alleati di Maguana e Jaragua, guidati rispettivamente da Caonabò e Bohechio: Caonabo era considerato un guerriero valoroso, e sua moglie Anacaona, era la sorella di Bohechio, il cacicco di Jaragua. Attraverso i legami di parentela i due cognati erano alleati e in competizione con Guacanacari; e Guacanacari, aveva indicato Caonabò, come il responsabile del massacro di La Navidad. E’ probabile che gli Spagnoli di La Navidad si siano trovato coinvolti nelle rivalità fra i due cacicchi, e sperando di poterne approfittare, ne siano rimasti invece vittime. Guarionex, il cacicco del territorio di Magua, si mostrò molto prudente all’arrivo degli Spagnoli, così come aveva fatto il padre, cercando di mediare tra la sua gente e i nuovi arrivati. Il suo principale villaggio era nella valle della Vega Real, nell’interno, la zona più ricca e popolosa dell’intera Hispaniola, ed egli probabilmente sperava che gli Spagnoli si sarebbero fermati sulla costa. Per Cristoforo Colombo invece la colonia de La Isabela era solo la base per le sue ricerche, prima di tutto l’oro, dato che la scoperta di giacimenti significativi del prezioso metallo, avrebbe trasformato subito in vera ricchezza, quel successo che fino a quel momento, non aveva avuto un concreto riscontro. Con le spedizioni nell’interno i rapporti con gli Spagnoli iniziarono a peggiorare, mentre l’oro pur presente, non sembrava in quantità sufficienti da giustificare l’impresa. Nelle loro incursioni nell’interno in cerca di giacimenti, gli Spagnoli si appropriavano del cibo che trovavano nei villaggi Taino, sequestravano gli indios per portarli con loro come servi o guide, senza contare le malattie che lasciavano dietro di se, le offese alle donne, e l’atteggiamento sprezzante e minaccioso che mantenevano. Nel marzo del 1494, un primo presidio militare fu costruito nel cuore dell’isola, Ft. San Tomas, al margine del territorio di Caonabò, il cacicco di Maguana già sospettato per il massacro de La Navidad; altri presidi minori vennero costruiti successivamente in diversi punti dell’isola. Nell’aprile 1494 comunque Colombo, insoddisfatto dei risultati ottenuti nella ricerca dell’oro, decise di partire alla scoperta della via che lo portasse al Catai, e da Hispaniola navigò lungo le coste meridionali di Cuba, fin quando non giunse quasi all’estremità occidentale dell’isola; alla fine dove convintosi che quella lunga linea di costa non poteva essere un’isola, fece firmare a tutti i membri dell’equipaggio una dichiarazione in cui essi testimoniavano di essere giunti sul continente, nelle Indie. Nel corso del viaggio, invece delle attese testimonianze della civiltà del Catai, incontrò gli indios Guajatebey, che vivevano in condizioni ancor più primitive dai Taino, non conoscendo nemmeno l’agricoltura. Colombo continuò a navigare nella zona, tra l’isola di Giamaica le coste meridionali di Hispaniola, fino alla fine di settembre quando malato e deluso, fece ritorno a La Isabela. La situazione nella colonia continuava a stagnare, non solo l’oro era insufficiente, ma anche il cibo inadeguato per gli Spagnoli, abituati a mangiare in maggior quantità degli indios, e con una dieta che prevedeva quella carne, che la scarsità di cacciagione non garantiva; la fame e le malattie continuavano a colpire i coloni, a cui si aggiungeva la delusione per un veloce arricchimento di cui non c’era prospettiva. In coincidenza con il ritorno di Colombo a La Isabela, dalla Spagna giunse suo fratello Bartolomeo, con tre caravelle e rifornimenti, e a lui egli affidò i pieni poteri, che a causa della malattia non poteva esercitare; ciò ovviamente aumentò l’insoddisfazione dei coloni, insofferenti alla centralizzazione di ogni potere nelle mani della famiglia di Colombo. Il malessere nella colonia era tale, che alcuni coloni si ribellarono, si impadronirono delle tre caravelle e fecero ritorno in Spagna. Anche i rapporti con gli indios peggioravano, mentre Caonabò, dall’altro versante dell’isola, cercava di convincere gli altri cacicchi ad unirsi in una alleanza per cacciare definitivamente gli Spagnoli; Guarionex, pur poco convinto, sentendo le pressioni della sua gente, decise anche lui di unirsi all’alleanza, al contrario di suo padre Guacanacari, che si mantenne fedele agli Spagnoli. La guerra esplose nel marzo del 1495, quando Caonabò decise di sferrare l’attacco contro il forte di San Tomas; giunto in soccorso con quindici uomini Alonso de Ojedo, fingendo di aprire trattative di pace, riuscì ad arrestare e a trasferire Caonabò a La Isabela: la leggenda vuole che abbia convinto il capo a mettere ai polsi delle manette d’oro, presentandole come bracciali in regalo. Alla notizia dell’arresto, il fratello di Caonabò, Manicatex, prese il comando della coalizione dei Taino, e raccolti migliaia indios di tutti i caciccati, decise di dare battaglia in campo aperto agli Spagnoli. Gli indios si riunirono nella valle della Vega Real, nel cuore del territorio di Guarionex, per marciare verso La Isabela e liberare Caonabò, ma Cristoforo e Bartolomeo Colombo, decisero di anticiparli, e raggiunta la valle con 200 soldati e alcune centinaia di alleati forniti da Guacanacari, attaccarono gli indios. Dal punto vista numerico la sproporzione era di uno a dieci, con poche centinaia di Spagnoli e alleati indios
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da una parte e migliaia di Taino, dall’altra, ma sul piano delle armi e della aggressività gli Spagnoli erano superiori: avevano con se balestre, archibugi e cannoni, venti cavalieri con le loro armature, i grandi cavalli che gli indios temevano, e grossi cani addestrati alla caccia all’uomo. La battaglia fu una disfatta, un massacro, alla fine della quale però gli Spagnoli cercarono di ristabilire insieme al loro dominio, una parvenza di relazioni pacifiche, anche facendo regali ai capi superstiti che avevano accettato la sottomissione; Guarionex era tra loro. A garantire il controllo della regione, nel dicembre dello stesso anno gli Spagnoli iniziarono a costruire il Forte de la Concepcion, nella valle della Vega Real, dove insieme al presidio militare e alla cattedrale, fu impiantato il primo laboratorio per la fusione dell’oro e le prime piantagioni di canna da zucchero, dove gli indios erano obbligati a lavorare. Nel frattempo però le notizie riportate in Spagna da quanti si erano ribellati a Colombo, avevano indotto la Corte a intervenire nella situazione della colonia, inviando Juan Aguardo, Maggiordomo di Corte, per una inchiesta sullo stato dei nuovi possedimenti. Alla fine del 1495 ILa battaglia della Vega Real in una stampa dell’epoca Colombo prese la decisione di recarsi in Spagna, per difendersi dalle accuse contro di lui e perorare la sua causa a Corte, ma un uragano che distrusse quasi tutta la flotta lo indusse a rimandare per costruire una nuova nave. Nel marzo del 1496 ripartiva con due caravelle alla volta della Spagna: portava con se trenta prigionieri Taino, e tra questi Caonabò, che non aveva osato uccidere per timore di una ripresa delle ostilità. Secondo alcune testimonianze, Caonabò morì di fame durante il viaggio, essendosi rifiutato di toccare cibo per il dolore della sua condizione. Alla partenza di Cristoforo Colombo, Bartolomeo si trovò a guidare la colonia di La Isabela in cui la crisi continuava senza prospettiva di fine. Il cibo continuava ad essere scarso, le colture europee non attecchivano, la fame indebolendo i coloni, aumentava la diffusione delle malattie, mentre la decisione di imporre una tassa a tutti gli indios sopra ai 14 anni, obbligandoli a portare ogni tre mesi un determinato quantitativo d’oro, rendeva la pace ottenuta assai precaria. Le divisioni all’interno della colonia tra partigiani della famiglia Colombo e quanti ad essa si opponevano, si aggiungevano ad una situazione già precaria, e gli oppositori, guidati da Francisco de Roldan erano giunti al punto di cercare accordi con i capi Taino, garantendo loro condizioni migliori, una volta che i Colombo fossero stati cacciati. Nel 1497 Bartolomeo Colombo aveva iniziato la costruzione del nuovo insediamento di Santo Domingo, sulla costa meridionale dell’isola, che avrebbe dovuto sostituire La Isabela, fondata in una località non adeguata, ma per la realizzazione dei suoi progetti, fondamentale era il controllo del Forte de la Concepcion, nella valle della Vega Real, all’interno dell’isola, lungo la via che collegava La Isabela e Santo
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Domingo. Francisco de Roldan e la sua fazione miravano a prendere il forte e aizzavano i capi alla ribellione, fin quando nel maggio del 1497 anche Guarionex, il cui villaggio era nella valle della Vega Real, non accettò di unirsi alla guerra. I piani di Roldan non erano comunque ignoti a Bartolomeo Colombo, il quale prese l’iniziativa spostandosi con trecento uomini al Forte de la Concepcion, già ormai in stato d’assedio da parte dei Taino. Se la battaglia fosse iniziata, la preponderanza numerica dei Taino, insieme alle armi e ai cavalli del fedeli di Roldan, Le rovine del Forte de la Concepcion avrebbe potuto significare la disfatta, quindi con un colpo di mano egli decise ribaltare la situazione. Invece di prepararsi all’assedio del forte, la notte stessa del suo arrivo, inviò piccoli gruppi di armati a cavallo nei villaggi dei dintorni, che irrompendo all’improvviso, uccidevano o prendevano prigionieri i capi; lui stesso si recò nel villaggio di Guarionex e lo arrestò. Alla fine 14 capi erano prigionieri e un numero indefinito era stato ucciso, lasciando i Taino nella confusione e nello scoramento; a centinaia si presentarono al forte al mattino successivo, chiedendo la liberazione dei loro capi e facendo atto di sottomissione. Convinto della necessità di capi fedeli tra gli indios, per il buon funzionamento della raccolta dei tributi, Bartolomeo Colombo liberò Guarionex e gli altri capi, che avevano fatto atto di sottomissione. Nell’anno successivo Guarionex cerco di barcamenarsi tra le richieste di tributi imposti alla sua gente dal governo ufficiale di Bartolomeo Colombo, e quelle meno ufficiali, ma non meno pressanti, degli oppositori di Roldan, finendo alla fine per abbandonare la sua bella e ricca valle, per cercare rifugio con la famiglia sui monti, nel villaggio dei bellicosi Ciguayos del capo Mayobanex. La sua fuga comunque non gli garantì la pace e dopo qualche tempo, Bartolomeo Colombo che temeva altre rivolte, riuscì a catturarlo e a portarlo in catene al Forte de la Conception, dove rimase fino al 1502, quando fu imbarcato per essere deportato in Spagna: morì nel corso del naufragio di gran parte della flotta. Intanto in quello stesso anno 1498, La Isabela veniva abbandonata, e la capitale di Hispaniola veniva trasferita a Santo Domingo, il nuovo insediamento fondato da Bartolomeo Colombo; gli Spagnoli, lacerati dalle divisioni erano riusciti ad ottenere il controllo di parte del territorio, ma gran parte dell’isola, pur sottoposta a vessazioni e all’imposizione dei tributi, non era ancora completamente sottomessa: il caciccato di Higuey ad est, quelli di Maguana e Jaragua nel sud-ovest, dove Anacaona, la vedova di Caonabe, era rimasta ostile e alla guida del suo popolo. In Spagna nel frattempo Cristoforo Colombo era riuscito ad ottenere il consenso per una nuova spedizione nelle Indie, ma questa volta i sovrani non si impegnarono ad inviare una grande flotta con centinaia di coloni: la fiducia nelle capacità di Colombo come vicerè dei possedimenti d’oltre mare era quasi esaurita, e i tanti nemici che Colombo aveva in Spagna, premevano sulla Corte. Questa volta sei sole navi partirono, e la flotta si divise già dopo le Canarie, con tre navi che puntarono lungo la rotta nota, per raggiungere Hispaniola, portando rifornimenti, mentre Colombo al comando delle altre tre, virò a sud-ovest, alla ricerca del continente; ancor prima che l’organizzazione della colonia, l’obbiettivo di Colombo era raggiungere il Catai. Tra la fine di luglio e quella d’agosto del 1498 Colombo esplorò le coste del Venezuela e le isole antistanti, entrando fin nel delta del fiume Orinoco; aveva finalmente raggiunto la terraferma, il continente, ma non trovando alcuna conferma di essere giunto nel Catai, si convinse che le coste esplorate erano solo quelle di altre isole. Lasciate le coste del Venezuela, fece ritorno a Hispaniola, per approdare a Santo Domingo, la nuova città fondata da suo fratello: qui a loro si unì anche l’altro fratello Giacomo (detto Diego). Il motivo dei conflitti all’interno della colonia, era legato al controllo quasi monopolistico che Colombo e i suoi famigliari, avevano su tutte le attività dell’isola, dall’oro, fino alla forza lavoro degli indios; tale monopolio poteva forse aver ragion in quadro di ricche e sviluppate attività economiche, in grado di
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avere ricadute positive per tutti, ma nel quadro di stagnazione economica che colpiva la colonia, era un impedimento all’iniziativa di coloro che volevano avviare attività minerarie o aprire piantagioni. Il tema centrale era quello della forza lavoro, senza la quale Hispaniola alla fine del governo di Cristoforo Colombo nessuna attività poteva dare frutti, e il cui sfruttamento, dal punto dei vista dei coloni, doveva essere libero. Nell’agosto del 1499 i Colombo dovettero venire a patti con gli oppositori, e le loro richieste furono accolte con i “ripartimientos”, le concessioni temporanee di terre e indios, che potevano essere liberamente sfruttate dai coloni a cui erano affidati, ma ciò non placò i conflitti: Roldan e i suoi volevano liberarsi della famiglia Colombo, e dopo un ulteriore tentativo di sollevazione nel 1.500, indussero la Corte ad inviare Francisco de Bobadilla, a risolvere la situazione. De Bobadilla agì con estrema determinazione, arrestando prima Diego, poi anche Cristoforo e Bartolomeo, e riportandoli in Spagna, dove furono liberati per intervento della regina Isabela; Cristoforo Colombo dovette rinunciare al titolo di vicerè, e fu sostituito dallo stesso de Bobadilla. I reali di Spagna si preparavano ad intervenire direttamente nei nuovi possedimenti, e per gli indios di Hispaniola si preparava la stretta finale.
Nicolas de Ovando: la conquista di Hispaniola
Messo da parte Cristoforo Colombo e la sua famiglia, i reali di Spagna decisero che era il momento di dare un diverso indirizzo alla loro politica nei nuovi possedimenti: Francisco de Bobadilla fu lasciato come governatore di Hispaniola, mentre si organizzava una nuova e più grande spedizione e si cercava l’uomo giusto per guidarla. La scelta fu per Nicolas de Ovando, un militare il cui compito era quello di riportare l’ordine sull’isola e riorganizzare la colonia, facendola soprattutto fruttare, più di quanto non fosse riuscito a fare Colombo. La nuova spedizione partì nel febbraio del 1502, con una flotta di trentadue navi e ben 2.500 nuovi coloni, scelti in modo tale da garantire la presenza nella colonia di tutte le competenze e le funzioni necessarie a garantire la sopravvivenza di una comunità strutturata e per quanto possibile autosufficiente. Tra coloro che partirono con Ovando, c’era anche il giovane Bartolomè de las Casas, che avrebbe svolto un ruolo centrale per la conoscenza e la denuncia delle condizioni dei nativi. Colombo non era stato comunque escluso dalla partita, e alla fine gli fu concesso di prendere il mare con quattro navi, per continuare nelle sue ricerche del Catai: gli accordi prevedevano che non portasse altri schiavi in Spagna, una pratica che metteva in imbarazzo le cattoliche maestà, ma con cui Colombo cercava di sostituire gli scarsi pro- Nicolas de Ovando, che completò la conquista di Hispaniola
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venti dei suoi viaggi; altro limite imposto a Colombo fu quello di tenersi lontano da Hispaniola, dove la sua presenza era considerata foriera di disordine. Evidentemente Colombo non era considerato in grado di governare la colonia, ma ancora veniva ritenuto utile, nella sua ostinata determinazione a raggiungere il Catai: se fosse riuscito nella sua impresa, alla fine sarebbe stata comunque la corona di Spagna a trarne vantaggio. Colombo stanco e invecchiato, rinunciò al comando della nave ammiraglia, limitandosi a mantenere la responsabilità della spedizione. Nel maggio del 1502, tre mesi dopo Ovando, il navigatore genovese partì per il suo ultimo viaggio. Giunto sull’isola di Martinica alla fine di maggio, l’esperto navigatore mosse verso Hispaniola, per cercare rifugio ad un uragano di cui aveva previsto l’arrivo, ma Ovando gli vietò l’attracco, obbligandolo a cercare un altro ancoraggio sicuro. L’uragano puntualmente arrivò e la flotta inviata da Ovando in Spagna, che doveva riportare in patria l’oro fino a quel momento accumulato, fece naufragio; Bobadilla, Roldan e altri nemici di Colombo perirono nel naufragio, e con loro anche Guarionex, che doveva essere deportato. Scampata la bufera Colombo raggiunse le coste dell’Honduras seguendole poi verso sud, sempre alla ricerca del Catai o di una via per arrivarci. In ottobre aveva raggiunto la zona di Panama, dove ebbe notizie della vicina terra di Veragua, in cui abbondavano i giacimenti d’oro; poteva essere un’occasione, ma i progetti di sfruttamento della regione, furono frustrati dall’ostilità dei nativi, che attaccarono gli uomini di Colombo uccidendone alcuni, e ferendone molti, fra cui lo stesso fratello Bartolomè. A quel punto il navigatore decise che ne aveva abbastanza e nell’aprile del 1503 riprese il mare per fare ritorno, abbandonando uno dei quattro vascelli; il secondo fece successivamente naufragio a causa delle teredini, molluschi parassiti del legno che si attaccavano agli scafi, poi quando giunse al largo di Giamaica Coombo dovette prendere terra e rinunciare a proseguire, per le pessime condizioni in cui le teredini avevano ridotto le ultime due navi. Due uomini furono inviati in canoa a tentare la traversata fino ad Hispaniola per chiedere aiuto per i naufraghi, ma quando questi raggiunsero la colonia, Nicolas de Ovando si rifiutò di inviare i soccorsi. Nel frattempo Colombo doveva vedersela con i tentativi di ribellione della ciurma, e con i Taino dell’isola che divenivano ogni giorno più insofferenti alla loro presenza. Lo stesso Colombo riuscì ad evitare problemi con gli indiani, calcolando una eclissi lunare e suscitando il timore e il rispetto degli abitanti del vicino villaggio. I soccorsi giunsero dopo circa un anno, nel giugno del 1504, per iniziativa di Diego de Salcedo, un cittadino di Hispaniola che organizzò a proprie spese la spedizione di soccorso. Tornato a Hispaniola, dove ormai comandavano i suoi nemici, il 12 settembre ripartì per la Spagna, chiudendo dopo dodici anni la più sensazionale, ma forse la più frustrante, delle imprese condotte da un uomo. Il pagamento del biglietto per il viaggio di ritorno fu forse la beffa finale, per l’uomo che aveva scoperto un mondo nuovo e ne era stato vicerè. Mentre i sogni e le illusioni di Colombo naufragavano sulle coste di Giamaica, Nicolas de Ovando cominciava a raccogliere i frutti del suo lavoro di riorganizzazione della colonia; fin dal suo arrivo il suo primo impegno era stata la sottomissione dei Taino, probabilmente non per il problema di sicurezza che essi potevano rappresentare, quanto per rendere chiaro agli stessi coloni che il tempo dei disordini e dell’indisciplina erano finiti, e che il governo della colonia era forte e deciso. Di fronte alle forze su cui Ovando poteva contare, progressivamente tutti i principali capi cercarono di venire a patto con gli Spagnoli, e la stessa Anacaona, nel cui territorio l’oro era scarso o assente, propose agli Spagnoli di pagare i tributi che erano stati imposti alla sua gente in cotone, alimenti e altri beni. Comunque Ovando non si fidava, o forse più semplicemente riteneva che un duro castigo fosse meglio di un buon accordo. Fece quindi sapere ad Anacaona che si sarebbe recato nelle sue terre nel caciccato di Jaragua, per celebrare l’accordo con una festa, e inviò La cacicca Anacaona, in una stampa dell’epoca
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Alonso de Ojeda con trecento uomini e un contingente di alleati del caciccato di Marien; Anacaona e tutti i nobili dei villaggi della regione si riunirono nel villaggio di Guava, per accogliere gli Spagnoli e celebrare la pace fatta, ma Ojeda circondò il villaggio e arrestò tutti i notabili, per poi massacrarli sul posto, insieme a donne e bambini del villaggio. La sola Anacaona fu risparmiata e condotta a Santo Domingo, dove venne impiccata; secondo una tradizione alla cacicca che aveva solo 29 anni, ed era nota Due stampe che rappresentano il massacro di Jarague e Anacaona in catene per la sua bellezza, fu promessa salva la vita se avesse accettato di essere concubina di un nobile spagnolo, ma lei orgogliosamente si sarebbe rifiutata. La storia è poco credibile: a quel tempo ed in quei luoghi, gli Spagnoli non offrivano il lusso di un’alternativa. Il massacro di Jaragua suscitò l’indignazione di personaggi anomali come padre Bartolmè de las Casas, ma certo fu considerato un successo, dato che di fatto era la fine per una delle ultime regioni dell’isola che ancora conservava un minimo d’autonomia. L’altra era il caciccato di Higuey, dove il capo Cotubanama aveva cercato di evitare incidenti, garantendo il rifornimento di alimenti agli Spagnoli di Santo Domingo; poco tempo prima dell’arrivo di Ovando però la situazione si era guastata, a causa di un incidente che da l’idea dei rapporti tra Spagnoli e Taino. Era in corso il carico di alimenti su una nave spagnola da parte degli indios, e il capo locale guidava l’attività con in mano un bastone simbolo del suo rango, quando il cane per la caccia all’uomo che uno spagnolo teneva al guinzaglio, cominciò a dare segni di nervosismo: la cosa divertiva gli Spagnoli che aizzavano il cane, fin quando questi si liberò della stretta del padrone e sbranò il capo. L’assassinio suscitò ovviamente un grande clamore, il capo Cotubanama si preparò alla guerra e la notizia giunse ai coloni spagnoli, che l’accolsero come una opportunità per rifornirsi di schiavi. Ovando, giunto nell’aprile del 1502, inviò una nave lungo le coste di Higuey, in cerca di una base per le sue operazioni, ma un gruppo di Spagnoli che era approdato nell’isola di Saona, lungo la costa meridionale, fu attaccato e massacrato. Ovando a quel punto, raccolse uomini dai forti dell’isola e al comando di Juan de Esquivel, li inviò nel caciccato di Higuey per domare la rivolta; 3 o 400 Spagnoli con potenti balestre e qualche archibugio, accompagnati da indios sottomessi, iniziarono a colpire i villaggi della provincia di Higuey, obbligando la popolazione a cercare rifugio tra i monti; la resistenza era quasi impossibile, vista la maggiore forza e gittata delle balestre, rispetto agli archi dei Taino. Si passò quindi al rastrellamento del territorio, alla ricerca dei luoghi nascosti in cui i Taino avevano cercato rifugio per le donne e i bambini; il massacro più grave avvenne nell’isola di Saona, dove dopo una breve resistenza Esquivel inseguì e catturò centinaia di Taino, uccidendone la maggior parte sul posto, e riducendo in schiavitù gli altri. Alla fine, con la sua gente ridotta alla fame e alla sete, Cotubanama fu costretto ad arrendersi nel 1503, mentre gli L’assassinio che diede inizio alla guerra nella provincia di Higuey
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Spagnoli si rendevano conto che senza le provviste che i Taino coltivavano, anche la colonia era in difficoltà. La pace fu raggiunta con l’accordo che i Taino avrebbero continuato a lavorare le loro terre, senza subire attacchi, e avrebbero garantito agli SpaBattaglie e massacri nella conquista di Hispaniola gnoli quanto di cui necessitavano: secondo l’uso Taino, Cotunabama e Esquivel si scambiarono i nomi in segno di fratellanza. A garanzia degli accordi Esquivel costruì un fortino sulla costa sud di Higuey, e lasciò una guarnigione di nove uomini, al comando di Martin de Villaman. Gli Spagnoli comunque non rispettarono l’accordo, che prevedeva che essi potevano prendere quanto volevano dai raccolti dei Taino, ma non costringerli a seguirli a Santo Domingo per essere obbligati a lavorare. Un anno dopo a causa delle vessazioni a cui erano sottoposti, un gruppo di Taino forse guidati dallo stesso Cotunabama, attaccarono la piccola guarnigione di Villaman uccidendo otte dei nove militari presenti e bruciando il forte. La guerra riprese secondo lo schema abituale: una prima sconfitta in campo aperto, poi l’attacco al villaggio di Cotunabama, posto su un altipiano nell’interno, quindi il rastrellamento del territorio, la caccia agli schiavi, il massacro, le torture per indurre i prigionieri a confessare i nascondigli dei loro parenti, la distruzione dei villaggi. L’epilogo fu l’arresto da parte di uno degli uomi di Juan de Esquivel, di Cotubanama e dei suoi famigliari che avevano cercato rifugio sull’isola di Saona, lungo la costa meridionale: Cotunabama fu portato a Santo Domingo e impiccato. La conquista di Hispaniola era di fatto completata e i Taino sottomessi erano stati la dimostrazione della forza del muovo corso; adesso per Ovando iniziava l’opera di riorganizzazione della colonia, e ancora una volta sarebbero stati gli indios a pagarne il prezzo. Delusa orma ogni speranza di fare di Hispaniola la base per i commerci con l’Oriente, la politica di Ovando fu principalmente tesa a favorire lo sviluppo agricolo del territorio, almeno per l’autonomia alimentare, e lo sviluppo minerario, per garantire risorse alla madre patria; a tal fine, a differenza di Colombo, favorì ogni iniziativa per impiantare piantagioni e miniere. La terra era ricca di risorse se lavorata e scavata, e la manodopera, specie dopo la definitiva sottomissione dei Taino, abbondava. Il sistema dei “ripatimientos” già concesso da Colombo ai suoi oppositori, veniva esteso e puntualizzato, divenendo la base di quello che fu il sistema della “encomiendas”, che dal 1540, alla fine dell’epoca coloniale, fu il modello amministrativo delle colonie spagnole. Il modello prevedeva, sulla base di uno schema di tipo feudale, che chi otteneva in concessione delle terre, assumeva la responsabilità delle comunità presenti sulle terre stesse, e in cambio veniva retribuito dagli abitanti con una certa quota di lavoro gratuito, o in qualche caso sottopagato. Un rapporto analogo a quello della servitù della gleba, ancora presente anche in Europa all’epoca. Le scelte di Ovando furono premiate, e la comunità pur continuando sempre a mantenere una certa scarsità di risorse alimentari (dovevano essere cibati anche i lavoratori minerari ovviamente), visse alcuni anni di stabilità e crescita. Ovviamente tutto si reggeva sullo sfruttamento dei Taino, che negli anni successivi morirono a migliaia, di fatica, di fame, di malattie e di abusi: di fatto i Taino si dimostravano una forza lavoro di scarso valore, e Ovando, con discutibile lungimiranza, fu il primo a raccomandare l’uso di schiavi africani, più resistenti alla fatica e alle malattie. Nicolas de Ovando rimase in carica fino al 1509, quando a Corte la fazione che era legata alla famiglia Colombo riprese il sopravvento, e la carica di vicerè fu assegnata al figlio di Cristoforo Colombo, Diego. Prima però di lasciare il posto, diede l’avvio alla conquista di San Juan Bautista (Puerto Rico), l’isola ad est di Hispaniola, che negli anni successivi avrebbe garantito i maggiori ricavi dall’attività di estrazione dell’oro; la conquista di Puerto Rico fu comunque un’impresa lunga e difficile, il cui protagonista fu un uomo che farà successivamente parlare di se, per il primo tentativo di colonizzazione del Nord America.
La guerra a Puerto Rico
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L’isola di Puerto Rico, era già nota dal secondo viaggio di Colombo, nel 1493, quando era stata denominata San Juan de Bautista, ed era sulla rotta che le navi percorrevano per raggiungere la Spagna; al confronto con Hispaniola è un’isola dalle dimensioni modeste, un rettangolo di terra largo alcune decine di chilometri e lungo poco più del doppio; posta a breve distanza dalle coste orientali dell’isola maggiore, Puerto Rico era quindi Particolare di una carta nautica spagnola della metà del ‘600 che il naturale e primo obbiettivo di una rappresenta Hispaniola e la vicina Puerto Rico espansione territoriale della colonia, dopo l’occupazione della provincia di Higuey, nell’est dell’isola. I Taino che vi vivevano erano però totalmente autonomi, rispetto a quelli di Hispaniola, e per la loro sottomissione, furono necessari anni di guerra, mentre la colonia era divisa e lacerata da un duro scontro di potere. Protagonista sia della guerra indiana, sia dei conflitti all’interno della colonia, fu Juan Ponce de Leon, un nobile e un soldato che nel 1493, alla fine della guerra contro i mori di Granada, s’era trovato disoccupato e s’era unito a Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio a Hispaniola. Con Colombo e gli altri membri della spedizione, aveva guardato per la prima volta le coste di Puerto Rico, l’isola che avrebbe segnato il suo destino: ma ciò sarebbe accaduto molti anni dopo. Non si hanno notizie sulla sua prima permanenza nella colonia, ma quasi certamente essa fu breve, e probabilmente in dissenso con il governo di Colombo, egli tornò presto in patria. Ritornato nel 1502 al seguito di Ovando, si era distinto nella campagna per la conquista del caciccato di Higuey, ottenendo in premio da Ovando il titolo di governatore della provincia da poco conquistata. A Higuey, Ponce de Leon ebbe un buon successo negli affari, rifornendo le navi spagnole prima della loro partenza per la patria, e soggiogando i Taino e impiegandoli in piantagioni e miniere. La provincia di Higuey era poco distante dall’isola di San Juan Bautista, così Ponce de Leon venne a conoscenza dai Taino in visita, delle ricchezze dell’isola, e probabilmente già nel 1506, ancor prima di ottenerne l’autorizzazione, vi effettuò le prime esplorazioni dal mare. Nel frattempo in Spagna Vincente Yanez Pinzon, uno dei capitani delle tre caravelle di Colombo, era riuscito ad ottenere l’incarico dal re di conquistare l’isola; Pinzon comunque non fu in grado di dare seguito all’impresa, e nel 1508 re Ferdinando, autorizzò Ponce de Leon a prenderne possesso. A Puerto Rico, che i Taino chiamavano Borikien, al tempo del contatto con gli Spagnoli, il principale tra i cacicchi era Agueyabana, le cui terre erano nella parte centromeridionale dell’isola, e attraverso alleanze e relazioni di parentela, esercitava la sua influenza, fin nel nord-ovest e nell’est di Puerto Rico, ed in particolare sulle zone montuose centrali, ricche di giacimenti auriferi; solo nel nordest dell’isola alcuni cacicchi si mantenevano indipendenti da Aguebayana. Secondo per importanza era suo fratello Gueyabana, che gli sarebbe succeduto alla morte. La struttura sociale e politica dell’isola era simile a quella di Hispaniola, con tanti piccoli cacicchi locali che facevano riferimento al caciccato principale, ma pare dalle scarse notizie, che il potere avesse una maggiore centralizzazione, connotati di tipo teocratico e un più coeso tessuto di relazioni tra i diversi cacicchi. Nell’agosto del 1508, Ponce de Leon con 50 uomini, raggiunse la vicina isola di Borikien, approdando nella zona sud-occidentale dove prese contatti con Aguebayana, il Ritratto di Ponce de Leon cacicco più potente, poi continuò ad esplorare l’isola, fino
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a raggiungere la baia di San Juan, sulla costa settentrionale, dove fondò il primo insediamento, che chiamò Caparra; gli Spagnoli seminarono qualche piccolo campo, ma per lo più si diedero alla ricerca di giacimenti d’oro, ottenendo anche l’aiuto di Aguayebana. Agueyabana non si limitò ad accogliere cordialmente gli Spagnoli, ma addirittura li accompagnò nei loro giri d’esplorazione dell’isola, e quando all’inizio del 1509, Ponce de Leon decise di far ritorno a Hispaniola con un buon carico d’oro, Agueyabana lo accompagnò per incontrarsi con NiL’incontro tra Ponce de Leon e Aguebayana colas de Ovando, e ratificare i buoni rapporti stabiliti con Ponce de Leon. E’ difficile credere che Aguebayana non fosse al corrente di quanto accadeva a Hispaniola, e l’unica spiegazione di tanta disponibilità, può essere solo la speranza di tenere gli Spagnoli fuori dai propri possedimenti, senza apparire ostile, ma facendo in modo che essi si insediassero sulle terre di qualche cacicco indipendente: come effettivamente accadde. Nell’estate del 1509, visti i successi ottenuti, Ovando nominò Ponce de Leon governatore dell’isola di San Juan, poco prima di essere sostituito nell’incarico di governatore di Hispaniola da Diego Colombo. Ponce de Leon si trasferì quindi con la famiglia a Caparra, dove aveva ottenuto da Aguebayana, l’impegno al costante rifornimento di alimenti per i coloni. La disponibilità ad offrire sostegno ai coloni da parte di Aguebayana, fu trasformata di fatto, nel diritto degli Spagnoli ad avvalersi della forza lavoro locale, e il sistema dell’encomienda fu imposto anche a Puerto Rico. Ponce de Leon diede ampie concessioni di terre ai suoi sottoposti, ognuno dei quali aveva diritto ad imporre il lavoro agli indios locali. Tra i suoi principali sottoposti, vi era don Cristobal de Sotomayor, che nel 1509 aveva fondato il piccolo villaggio di Tavara, non distante dai territori del capo Aguebayana, come base per le attività minerarie nell’interno; fu lui ad avere un primo assaggio dei guai che si preparavano, quando alla sua richiesta di 40 servitori Taino, s’era visto opporre un rifiuto dal cacicco locale, e gli uomini da lui inviati al villaggio Taino, per imporre il proprio volere, erano stati attaccati e costretti a fuggire dopo aver subito delle perdite. L’anno successivo Sotomayor avrebbe lasciato Tavara per fondare Villa de Sotomayor, , nel nordovest dell’isola, ma attraverso il matrimonio con la sorella di Aguebayana, avrebbe continuato ad avere interessi nella regione. Malgrado la pacifica accoglienza di Aguebayana, il malessere degli indios a cui era imposto il lavoro servile cresceva, ma probabilmente gli Spagnoli non vi diedero importanza e non si resero conto di quanto si stava preparando, presi come erano dai loro conflitti di potere. Ad Hispaniola infatti le cose erano cambiate, Ovando era stato richiamato in Spagna e sostituito da Diego Colombo, di cui Ponce de Leon era avversario politico; per due anni Ponce de Leon, sostenuto da re Ferdinando, fu in dissidio con Diego Colombo, che aveva inviato suoi uomini sull’isola per contrastare il potere di Ponce de Leon. L’intervento del re aveva momentaneamente fermato Diego Colombo, ma la crisi politica era ancora forte, quando iniziava la ribellione dei Taino Il conflitto di potere all’interno della colonia, coincideva con i paralleli cambiamenti politici tra i Taino di Puerto Rico; alla morte di Agueyabana nel 1510, il fratello che gli successe Gueyabana, si fece interprete del malessere dei Taino, che vedevano gli Spagnoli avanzare e imporre il loro dominio a sempre più villaggi, e decise che era il momento di dare inizio al conflitto. Uno dei suoi alleati, il cacicco Urayoan, per convincere la sua gente a non temere gli Spagnoli, rapì un colono spagnolo e lo affogò in un fiume, così che fosse chiaro a tutti che gli Spagnoli erano uomini come gli altri e potevano morire; la vittima era Diego de Salcedo, lo stesso che aveva soccorso Colombo, nel naufragio della sua ultima spedizione .
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Sicuro del sostegno della sua gente, Gueyabana iniziò ad organizzare una coalizione con tutti i cacicchi minori, per sferrare l’attacco e cacciare gli Spagnoli. Alla fine del 1510 Cristobal de Sotomayor, attraverso sua moglie, sorella di Guebayana, venne a conoscenza della rivolta che era in corso di preparazione, I principali caciccati di Puerto Rico all’arrivo degli Spagnoli sull’isola e all’inizio del 1511, aveva inviato una spia di nome Juan Gonzales, per conoscere i piani di Guebayana. Saputo dell’imminenza della sollevazione, decise di abbandonare il suo insediamento di Tavara, per riunirsi agli altri Spagnoli a Caparra, la capitale; poco dopo la partenza gli Spagnoli furono attaccati dai guerrieri di Guebayana e tutti uccisi, salvo la spia Juan Gonzales, il villaggio venne dato alle fiamme, e lo stesso Sotomayor, fu giustiziato da Guebayana. Nel frattempo il capo Guarionex attaccava Villa de Sotomayor, distruggeva il villaggio e massacrava decine di coloni. La guerra era iniziata e Ponce de Leon, dopo aver organizzato i coloni in quattro compagnie di una trentina di uomini, nel febbraio del 1511 inviò il suo piccolo esercito nel territorio di Guebayana, e attaccò di sorpresa il villaggio del capo sul fiume Coayuco, mettendo in fuga i Taino dopo aver procurato loro gravi perdite. Al ritorno dalla vittoriosa spedizione, Ponce de Leon inviò il suo ufficiale Diego de Salazar nel nord-ovest dell’isola, e questi sconfisse un esercito Taino, guidato dal cacicco Madobamaca, nella zona di Anasca. In marzo lo stesso Ponce de Leon guidò un’altra spedizione contro il cacicco Urayoan, nella zona di Aguada nell’ovest dell’isola; secondo alcune tradizioni i Taino si sarebbero ritirati dopo che un colpo d’archibugio, sparato ancor prima dell’inizio della battaglia, avrebbe ucciso Gueyabana: ci sono comunque diverse testimonianze della presenza del capo nel proseguo della guerra, ed è quindi probabile che la ritirata, non fosse dovuta alla morte del capo, ma alla inferiorità dei Taino sul piano dell’armamento, e al timore per le armi da fuoco, ancora ignote alla maggioranza di loro. La rivolta poteva sembrare domata, gli Spagnoli avevano sconfitto in campo aperto gli indios, e questi erano fuggiti, cercando riparo nella parte orientale dell’isola, dove i cacicchi ancora non avevano provato la forza militare spagnola, ma Ponce de Leon inviò un resoconto preoccupato in Spagna, temendo che i Taino potessero trovare qualche supporto tra i Caribi, i predoni cannibali delle Piccole Antille, e chiese la costruzione di un brigantino. La situazione era preoccupante, dato che due soli cacicchi minori, avevano accettato il perdono offerto dagli Spagnoli dopo le vittorie; d’altro canto, il fatto che gli indios s’erano ribellati, autorizzava a norma di legge la loro cattura come schiavi, e questo garantiva ai coloni la possibilità di ottenere la forza lavoro di cui necessitavano, senza limiti e vincoli. La guerra quindi, per quanto difficile, era vista da molti coloni come un’opportunità. Le notizie del conflitto a Puerto Rico, forse contribuirono ad accelerare il destino di Ponce de Leon, che nel novembre del 1511 fu destituito dall’incarico e sostituito da Juan Ceron, uomo di Diego Colombo; era lui l’uomo che avrebbe dovuto sottomettere i Taino. Le preoccupazioni di Ponce de Leon erano comunque motivate, dato che malgrado i successi militari, la situazione era tutt’altro che sotto controllo: in tutta la parte sud-orientale dell’isola, gli Spagnoli non erano presenti, e dalle zone costiere i Taino si muovevano con le canoe verso le isole vicine, dove trovavano aiuto tra altri Taino, e forse addirittura dai temuti Caribi: non a caso una delle indicazioni date al nuovo governatore per reprimere definitivamente la rivolta fu quella di distruggere le canoe degli indios. Nel gennaio del 1512 i Taino di Guarionex e Aymaco, tentarono l’attacco alla città di Aguada, costruita sullo stesso luogo di Villa de Sotomayor, ma questa volta i difensori resistettero mettendo in fuga gli indios e uccidendo gli stessi cacicchi; un nuovo cacicco, che gli Spagnoli chiamavano Alonso, prese la guida dei ribelli della regione, e contro di lui nel febbraio del 1512, il nuovo governatore Ceron inviò un’altra spedizione punitiva. In quello stesso periodo Ponce de Leon otteneva dal re l’autorizzazione al viaggio che l’avrebbe portato a scoprire la Florida, e iniziava a dedicarsi all’organizzazione della nuova impresa.
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L’estate del 1512 vide un inasprirsi ulteriore del conflitto, che si trasformò di fatto in una serie di raids da parte dei coloni, che organizz a v a n o compagnie armate, spesso a cavallo, per raggiungere i villaggi ancora indip e n d e n t i dell’interno, del sud e dell’est e rifornirsi di schiavi. A maggio HerBattaglie e raid schiavisti, durante la Guerra Taiono di Puerto Rico nando de la Torre aveva portato un attacco al cacicco Orocovix, che risiedeva nella montuosa regione interna di Puerto Rico, poi il 12 giugno, Alvaro de Saavedra, con un gruppo di uomini a cavallo, aveva raggiunto le terre del cacicco Guanami, sulla costa sud-orientale dell’isola, poi in quello stesso mese, Gil Calderon, Luis de Anasco e Juan Lopez, lanciavano incursioni contro le terre di Guebayana, mentre altri due coloni Juan Godimex e Anton Cansino, colpivano comunità non individuate. Il mese di giugno si chiuse con una nuova spedizione a caccia di schiavi contro Orocovix, comandata da governatore Juan Ceron, e gli attacchi proseguirono, per le iniziative di Gil Calderon che a luglio condusse un nuovo attacco contro le terre di Guebayana, e in agosto contro quelle di Orocovix. Alla fine di agosto c’erano state ben 18 incursioni contro i villaggi Taino poi per alcuni mesi cessarono: in realtà a motivare l’iniziativa spagnola, più che una strategia di guerra finalizzata alla piena sottomissione dei ribelli, c’era la necessità dei concessionari di giacimenti, di avere manodopera gratuita, e momentaneamente soddisfatta quest’esigenza, le azioni si fermarono. All’inizio del 1513 comunque, le notizie sui ricchi giacimenti d’oro di Puerto Rico, avevano fatto crescere la popolazione e questo significava una ulteriore necessità di forza lavoro, dato che i coloni che giungevano, ovviamente consideravano un loro diritto far lavorare gli indios al proprio servizio. Nel sud-ovest dell’isola la presenza spagnola si rafforzò con la ricostruzione di San German, un piccolo centro minerario abbandonato all’inizio della rivolta, mentre Diego Guillarte de Salazar, stabiliva una base a Guayna, poco a est del vecchio insediamento di Tavara. Da lì alla metà di marzo Salazar attaccava i villaggi dei cacicchi Yauco e Coxiguex, poi in aprile un altro raid, sempre contro Coxiguex era lanciato da Sancho de Arango. Per sfuggire alle continue incursioni dei cacciatori di schiavi, i fedeli di Guebayama si spostarono nella parte orientale dell’isola, dove gli Spagnoli erano ancora deboli, e il loro tentativo di fondare il villaggio di Santiago, sulla costa orientale, si era concluso concluso con la sua distruzione, da parte dei cacichi Jumacao e Daguao, sostenuti dai Taino delle isole vicine. I ribelli inoltre colpivano e uccidevano tutti gli Spagnoli che si avventuravano nella regione in cerca d’oro, mentre alcuni capi non ostili agli Spagnoli venivano assassinati. All’inizio dell’estate del 1513, probabilmente alla fine di giugno, una grande forza di guerrieri Taino, sostenuti dai loro alleati delle isole vicine, attaccò proprio la capitale spagnola, Caparra, distruggendo oltre trenta edifici, uccidendo decine di coloni, e obbligando i superstiti a cercare rifugio nella casa di Ponce de Leon, che in quel periodo era assente e navigava lungo le coste della Florida. Gli Spagnoli, che avevano fatto parlare alcuni prigionieri, tesero un’imboscata sulla via del ritorno ai Taino, ma questi riuscirono comunque a sganciarsi e a far ritorno nelle loro terre. L’attacco a Caparra era stato un atto gravissimo e la reazione spagnola non si fece attendere: l’insediamento venne ricostruito, alcuni capi Taino di cui gli Spagnoli non si fidavano furono deportati a Hispaniola e, ottenuti rinforzi, ripartirono le incursioni nei territori orientali in cui i Taino si sentivano al sicuro: il 10 di luglio Francisco Vaca attaccava Orocovix e il 19 dello stesso mese ancora Orocovix era
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attacato da Pedro Davila, poi alla fine del mese, il villaggio del cacicco Daguao, era colpito da Juan Enriquez; il 10 agosto, Marcos de Ardon lanciava un’altra incursione contro il cacicco Daguao, poi in settembre l’offensiva spagnola si concentrò contro i cacicchi delle zone montuose interne: Don Alonso, erede di Guarionex, fu colpito all’inizio del mese da Juan Lopez, Orocovix il 2 settembre da Pedro de Espinoza e il 13 da Marcos de Ardon, quindi fu la volta di Hayuya, attaccato il 17 settembre da Alonso de Mendoza, prima della fine dello stesso mese da Luis de Anasco, e ancora in ottobre da Alonso Nino; alla metà di ottobre una spedizione guidata da Cristobal de Mendoza puniva i Taino dell’isola di Veques, colpevoli di aver sostenuto il cacicco ribelle Yumacao. In totale raids e spedizioni punitive spagnole nel corso del 1513, furono 23, e alla fine l’isola era ormai quasi del tutto sottomessa, gli indios che non erano stati fatti schiavi, erano stati comunque ripartiti tra i vari encomienderos, e da Puerto Rico ricchi carichi d’oro partivano per la Spagna. La resistenza comunque non era stata ancora debellata del tutto e nel nord-est dell’isola, Daguao, Jumacao, e forse lo stesso Gueyabana di cui non si avevano più notizie, continuavano a mantenersi autonomi e ostili; fu in questa situazione che fece ritorno, nell’ottobre del 1513 Ponce de Leon, che trovò la sua casa danneggiata dagli attacchi dei Taino e la città da lui fondata, Caparra, semidistrutta; sempre in dissidio con il vicerè Diego Colombo, l’anno successivo partiva per la Spagna, per convincere il re a riaffidargli l’incarico di governatore di Puerto Rico. Nel corso del 1514, l’impegno principale degli Spagnoli fu quello di eliminare ogni resistenza dalle ricche regioni aurifere dell’interno, mentre continuava la caccia agli schiavi contro i ribelli nel nord-est. I Taino nel frattempo rafforzavano i loro rapporti con gli abitanti delle Piccole Antille, e progressivamente iniziavano anche a trasferirvisi; un nuovo attacca contro Caparra fu tentato il 26 di luglio, ma i Taino furono respinti, molti catturati e giustiziati; un altro attacco senza esito fu portato a Caparra nel settembre, poi all’inizio del 1515, i cacicchi Daguao e Loquillo, sostenuti anche da oltre 150 guerrieri giunti dalle isole, tentarono un’ultima offensiva, scontrandosi con gli Spagnoli sul fiume Luquilla, ma ancora una volta sconfitti, presero la via dell’esilio. Ponce de Leon nel frattempo era ritornato dalla Spagna con l’incarico di governatore, e la missione di eliminare il pericolo rappresentato dalle incursioni dei Taino e dei Caribi contro le colonie; nel maggio del 1515 un tentativo di punire i Caribi di Guadalupe, si risolse in un mezzo insuccesso, mentre l’anno successivo, un altro fallito attacco degli esuli Taino di Daguao e Jumacao, portò alla loro resa definitiva. Comunque ancora nel 1517, un terzo dei Taino che vivevano nel nord-est dell’isola, si considerava ostile e quando poteva disturbava l’attività mineraria nella regione; i più comunque abbandonavano Puerto Rico e cercavano rifugio nelle isole. Non si hanno notizie certe sul destino di Gueyabana, ma uno degli ultimi attacchi ai ribelli Taino nel nord-est dell’isola, fu condotto contro un importante cacicco chiamato Cristobal, un nome che gli Spagnoli avevano usato nei loro primi rapporti con Guebayana. In quello stesso 1518 una Statua commemorativa di Guebayana grave epidemia colpi i Taino di Puerto Rico, e ciò chiuse definitivamente la guerra sull’isola, che però ebbe una lunga appendice negli anni successivi, con la minaccia che gli esuli Taino portavano dal mare: i guerrieri Taino giungevano con veloci barche a remi davanti a villaggi e fattorie, uccidevano tutti gli Spagnoli che potevano, liberavano gli schiavi Taino e Africani che trovavano, e poi fuggivano di nuovo. Attacchi simili si ripetettero varie volte negli anni ’20 del ‘500, e l’ultimo fu nei confronti della città di Aguada, il cui convento di frati fu dato alle fiamme nel 1529. Questo fu l’ultimo atto di guerra dei Taino di Puerto Rico, ma nel frattempo la resistenza riprendeva, in forme diverse, sull’isola di Hispaniola.
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I Caraibi spagnoli: Enriquillo e Bartolomè de las Casas La conquista di Puerto Rico, fu la tappa più lunga e difficile del processo d’espansione della originaria colonia, un processo che all’inizio degli anni ’20 del ‘500 aveva portato gli Spagnolo fino al dominio di tutto il mar dei Caraibi: la piccola Giamaica era stata conquistata, senza significative resistenze, da Juan de Esquivel nel 1509, poi nell’estate del 1511 Diego Velasquez de Cuellar, uno degli avventurieri che erano giunti con Colombo a Hispaniola nel suo secondo viaggio, fu incaricato dal vicerè Diego Colombo di conquistare anche Cuba, la maggiore tra le isole Antille. Cuba era all’epoca occupata nella sua zona orientale da Taino della stessa etnia di quelli che vivevano a Hispaniola, nella estremità occidentale dal popolo dei Guajatebey, che parlavano una lingua diversa ed occupavano l’isola da tempi più antichi, mentre nella parte centrale vivevano i Ciboney, linguisticamente affini ai Taino, ma giunti a colonizzare l’isola prima di questi. I Guajatebey non praticavano l’agricoltura e venivano considerati dai Taino un popolo primitivo, che cacciava, pescava e viveva nelle caverne; i Ciboney erano invece agricoltori, ma sembra dipendessero meno dalle coltivazioni, e più dalla pesca. Sul piano politico l’isola era organizzata in modo simile a Hispaniola e Puerto Rico, con un gran numero di piccoli caciccati indipendenti, ma mancavano figure di capi autorevoli in grado di esercitare la loro influenza su più comunità, ne esistevano alleanze o strutturate confederazioni di villaggi; ciò rese l’impresa di Diego de Cuellar, poco difficoltosa, dato che gli Spagnoli non trovarono mai davanti a loro una opposizione coordinata, e nel giro di pochi anni e senza grandi resistenze, tutti gli indios furono sottomessi al sistema dell’encomienda. L’unico episodio di resistenza fu messo in atto dal cacicco Hatuey, un profugo di Hispaniola, che poco tempo prima dell’arrivo di Diego de Cuellar, si era trasferito a Cuba con tutta la sua gente, sperando di poterci vivere libero e in pace; quando gli Spagnoli fondarono sulla costa nord-orientale dell’isola il villaggio di Barracoa, nell’agosto del 1511, Hatuey spiegò agli altri capì della regione quale dramma si preparava, cercando di indurli a unirsi in un’alleanza per cacciare gli invasori. I suoi sforzi comunque furono inutili, e lui e la sua gente iniziarono da soli ad attaccare gli Spagnoli con piccole azioni di guerriglia, uccidendo quanti si allontanavano dall’insediamento: circa una decina furono gli Spagnoli ammazzati nei mesi successivi, fin quando all’inizio del 1512 Hatuey fu catturato nella località di Yara, nella zona sud-occidentale dell’isola e bruciato vivo, il 2 febbraio 1512. Mentre gli Spagnoli si dedicavano all’occupazione delle principali isole, le Bahamas erano rimaste terra di nessuno, frequentate abitualmente da cacciatori di schiavi, che approdavano sulle piccole isole, attaccavano le comunità isolate, rapivano gli abitanti e poi li vendevano come schiavi a Hispaniola e nelle altre colonie, dove serviva forza lavoro per piantagioni e miniere. La schiavitù era formalmente illegale nei domini spagnoli, salvo per quanti si macchiavano di reati, primo fra tutti la ribellione, ma era in generale tollerata nei confronti dei pagani, che vivevano al di fuori della legge di Dio; dal 1511 in poi la schiavitù, formalmente negata, era invece considerata legittima nei confronti L’occupazione spagnola dei Caraibi
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dei Caribi, in quanto pagani e antropofagi, e ovviamente gli Spagnoli all’occorrenza facevano poca distinzione tra i diversi gruppi etnici di indios. Di fatto quindi la schiavitù era praticata quasi senza limiti nei confronti di tutti gli indios, e nessuno si curò mai di denunciare le attività dei cacciatori di schiavi alle Bahamas, che in meno di 30 anni distrussero una popolazione che ammontava probabilmente a 40.000 individui. Nel 1520 una spedizione spagnola inviata alle isole a riunire quanti ancora vi risiedevano per trasferirli a Hispaniola, trovò solo 12 persone. Le Bahamas, rimaste deserte, nei due secoli successivi divennero uno dei rifugi sicuri della pirateria dei Caraibi. Solo nelle Piccole Antille, di fronte alla costa del Venezuela, i nativi, per lo più Caribi, continuarono a mantenersi indipendenti e ostili per lungo tempo, costituendo una periodica minaccia alle colonie, e a quanti navigavano in quelle acque e resistendo all’annientamento o alla assimilazione per almeno due secoli. La conquista spagnola dei Caraibi portò di fatto alla quasi totale distruzione dei Taino, la cui popolazione al tempo del contatto è stata calcolata tra i 400.000 e il milione di individui, dei quali intorno al 1540 non erano rimasti che poche decine di migliaia, ulteriormente ridotti in epoca successiva. Le guerre, ma più ancora la schiavitù ed il lavoro forzato, e soprattutto le nuove malattie portate dagli Europei falcidiarono la popolazione; già dai primi anni del ‘500, di fronte al calo vertiginoso della forza lavoro disponibile, gli Spagnoli iniziarono a importare schiavi africani, che progressivamente si sostituirono alla popolazione indigena, ridotta a vivere ai margini o in poche enclaves isolate. Le difficili condizioni di asservimento determinarono ancora alcune sollevazioni, con la fuga da piantagioni e miniere per cercare rifugio nelle zone interne e il tentativo di tornare a vivere secondo gli antichi usi. La prima e la più importante di queste rivolte fu quella che avvenne ad Hispaniola nel 1519, l’anno successivo alla sconfitta dei ribelli Taino di Puerto Rico, e a guidarla fu Enriquillo, un Taino battezzato e sposato secondo il rito cattolico, la cui moglie era stata offesa dal suo encomendiero. Enriquillo era ovviamente il suo nome cristiano, e la tradizione e diversi studiosi sostengono che egli si chiamasse Guarocuya e fosse di famiglia nobile, imparentato con la cacicca Anacaona e figlio di un capo ucciso nel massacro di Jarague del 1503. Fuggito con la sua gente sui monti della Sierra de Bahoruco, nel sud di Hispaniola, egli resistette alle spedizioni inviate a catturarlo, e contando sulla conoscenza del territorio si impegnò in una guerriglia difensiva, il cui successo fu presto noto nell’isola, e lo fece divenire il punto di riferimento di tutti i ribelli e i fuggitivi. Con il suo piccolo esercito, contando sulle armi prese agli Spagnoli, e che ora gli indios sapevano usare, egli resistette nella sua fortezza della Sierra di Bahoruco, per 14 anni, durante i quali la sua gente visse libera e secondo le antiche usanze. Nel 1533 notizie della
Malgrado il genocidio subito e il forte meticciato con Europei e Africani, ancora oggi alcune comunità ad Haiti, Porto Rico e in altre isole dei Caraibi, rivendicano la discendenza dai Taino e cercano di mantenere viva l’antica cultura
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rivolta a Hispaniola giunsero all’attenzione dell’imperatore di Spagna Carlo V, che già impegnato con le difficoltà che gli Spagnoli incontravano nella conquista del Messico, ritenne opportuno risolvere la questione, proponendo un accordo con i ribelli di Enriquillo. L’accordo fu una grande vittoria per i Taino, perché per la prima volta veniva loro riconosciuto il diritto di libertà e proprietà, ma di fatto riguardò solo i pochi Taino che a quell’epoca ancora sopravvivevano, e lo stesso Enriquillo, morì di tubercolosi un anno dopo: i Taino continuarono a vivere in condizioni di miseria e di abuso, e a morire di malattie e fame, ma alcune comunità riuscirono a sopravvivere, in parziale isolamento . Dal punto di vista dei coloni, il cambiamento di status non ebbe neanche gravi conseguenze economiche, dato che a quell’epoca i Taino erano già stati ampiamente sostituiti come forza lavoro, dagli schiavi africani. Anche a Cuba nel 1522 scoppiò una rivolta, guidata dal cacicco Guamà, nella provincia di Cameguey, nella zona centro-orientale dell’isola; Guamà fu comunque meno fortunato e dopo aver resistito per 10 anni ai tentativi di cattura, nel 1532 venne ucciso nel sonno da suo fratello, che gli Spagnoli avevano indotto al tradimento. Alla fine degli anni ’30 del ‘500 i Taino erano ormai una Un’immagine popolare di Enriquillo, eroe dei Taino presenza marginale nei Caraibi, ma il loro sacrificio ebbe e un ritratto di padre Bartolomè de las Casas almeno la conseguenza di porre all’attenzione dell’Europa il tema del rapporto tra colonizzatori e popolazioni indigene, grazie all’opera di colui che per primo denunciò il dramma che si stava compiendo nel Nuovo Mondo. Bartolomè de las Casas fu il primo europeo a prendere gli ordini religiosi nel Nuovo Mondo, dove era giunto nel 1502, al seguito di Ovando, per raggiungere il padre che era andato in America insieme a Colombo nel suo secondo viaggio; la sua data di nascita non è certa e oscilla tra 1473 e il 1484, e quando partì era solo un giovane che si recava nel Nuovo Mondo, per seguire gli affari di famiglia. Nel 1503 partecipò come encomendiero, alla conquista della provincia di Higuey, e fu testimone della brutalità degli Spagnoli, in totale contrasto con i valori cristiani di cui avrebbero dovuto essere portatori; probabilmente anche alla luce di tale esperienza nel 1507 decise di divenire sacerdote, continuando però ad amministrare i propri beni, le encomiendas a Hispaniola e poi a Cuba. Nel 1515 la contraddizione tra la sua fede cristiana e i comportamenti dei cristiani nel Nuovo Mondo lo indussero ad un atto di rottura radicale, e liberati gli indios alle sue dipendenze e lasciata l’encomienda, iniziò a dedicare tutta la sua vita alla difesa dei diritti degli indiani, e al tentativo di trovare un modo non violento di indurre i nativi alla conversione. Nel corso dei cinquant’anni successivi egli viaggiò attraverso i Caraibi e per dieci volte attraversò l’Atlantico per difendere in Spagna le sue posizioni, tentò la costruzione di una comunità di nuovo tipo in Venezuela, ma gli indigeni, probabilmente sobillati dai coloni, la distrussero, partecipò a dispute teologiche e filosofiche, aderì all’ordine domenicano, che era il più vicino alle sue posizioni, fu arcivescovo in Honduras, dove rifiutò il perdono ai coloni che non liberavano gli schiavi, finendo così per farsi odiare e cacciare, influenzò la stessa azione di Carlo V, che nel 1542 promulgò una legislazione sull’encomienda meno oppressiva, scrisse una gran quantità di opere, sia per descrivere il Nuovo Mondo e quanto vi stava accadendo, sia per sostenere sul piano filosofico e teologico le sue convinzioni, e molte di queste opere furono stampate e rese note in Europa: tra queste la
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“Brevissima relazione della distruzione delle Indie Occidentali”, che testimoniava del massacro dei Taino, è la più nota. Bartolomè de las Casas, fu il primo intellettuale militante nella battaglia antirazzista, e il suo pensiero radicale, non solo condannava le conversioni forzose, ritenendo che la salvezza delle anime degli indios competeva a Dio, e nessun uomo poteva imporla con la violenza, ma giungeva addirittura a comprendere i sacrifici umani e l’antropofagia, come elementi di una cultura, la cui alterità andava conosciuta, ancor prima che condannata. Nelle sue convinzioni, che attingono in larga misura al pensiero filosofico medievale e al ruolo della Chiesa, dei re e dei popoli, all’interno di un grande disegno divino, emergono tratti di una modernità radicale, che sono certamente il frutto di una diretta esperienza “sul campo”, e di una presa di coscienza vissuta nel concreto travaglio, e non come frutto di una semplice acquisizione intellettuale. Il primo “contatto” tra due mondi in Europa aveva prodotto la prima vera figura di intellettuale critico, pronto a svelare cosa effettivamente si nascondeva dietro i valori cristiani e gli ideali di civiltà, di conquistatori e colonizzatori; in America, aveva espresso Enriquillo, il primo una lunga serie di guerriglieri, che apriva la via a tutti i futuri conflitti sociali, in Centro e Sud America, in buona misura lascito del modello coloniale spagnolo. Un modello coloniale che nasce nei Caraibi in questi anni, e che poneva come proprio fondamento di sostenibilità economica, lo sfruttamento della forza lavoro, e che su questo tema vede anche i propri conflitti politici interni, nella lotta tra la famiglia Colombo e i suoi oppositori. I Taino, le prime vittime di questo modello coloniale, non hanno che la scelta tra accettare una insopportabile schiavitù o morire: e essi muoiono, a centinaia di migliaia.
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FLORIDA: LA TERRA OSTILE I popoli della Florida Con il nome di Florida oggi intendiamo quella penisola che si protende dal Nord America a dividere l’oceano Atlantico dal Golfo del Messico, raggiungendo con la sua punta meridionale il mar dei Caraibi e le prospicienti coste dell’isola di Cuba, e divisa solo da un braccio di mare dalle isole Bahamas. Per lungo tempo con il termine di La Florida fu invece indicata una vasta parte dei possedimenti spagnoli in America, che oltre alla penisola si estendeva a tutta la costa del Golfo del Messico, fino all’estuario del Mississipi, e lungo le coste dell’Atlantico, almeno fino alla attuale South Carolina, mentre nell’interno i confini non erano definiti, essendo in larga misura ignote quelle terre, ma che aveva come suoi limiti naturali, le pendici meridionali dei monti Appalachee e il corso del fiume Tennessee, grande affluente orientale del Mississipi. Si tratta di una vasta regione pianeggiante, un tempo ricoperte di foreste e paludi, dal clima mite e temperato, dalla terra fertile e attraversata da un gran numero di fiumi, una terra che dopo la colonizzazione sarà il cuore di quel sud agricolo degli Stati Uniti, coperto dalle estese piantagioni di cotone, dove gli schiavi africani vissero il loro dramma. Negli anni in cui gli Spagnoli si insediavano a Hispaniola, di questa vasta regione, era nota solo la sua propaggine estrema, la penisola della Florida appunto, che benchè indicata come isola, in una carta geografica spagnola del 1502, era già nota ai primi invasori, e sicuramente a quei mercanti di schiavi che predavano le Bahamas; questi nella loro attività in larga misura ignota, è probabile che siano stati i primi ad approdarvi, senza ovviamente poterne rivendicare il possesso alla corona di Spagna, come era consuetudine di quanti si muovevano sulla base di un mandato ufficiale. Pur mancando informazioni precise è anche quasi certo che anche altri Europei, vittime di naufragi, abbiano raggiunto la penisola e forse anche le coste del Golfo del Messico, e che insieme ad essi possano essere giunte a terra, merci, manufatti e relitti di navi, mettendo così in grado gli indiani della regione, e soprattutto della Florida meridionale, di avere una qualche conoscenza degli invasori Europei, ancor prima che questi volgessero la loro attenzione a questa terra. A ciò va aggiunto che è altamente probabile che indios fuggitivi dalle Antille o dalle Bahamas, abbiano cercato rifugio in Florida, portando testimonianze degli abusi e delle violenze che si stavano perpetrando nelle loro isole. Tutto ciò può far ritenere che a differenza di quanto accadde nei Caraibi, dove i Taino accolsero con curiosità, timore e disponibilità gli Spagnoli, prima di rendersi conto di quale pericolo essi rappresentassero, gli indiani della Florida e della costa del Golfo del Messico, abbiano avuto il tempo di valutare e quindi decidere, come dovevano comportarsi di fronte a questo popolo aggressivo, che in poco più di un ventennio aveva soggiogato i loro vicini. Di questa vasta regione, la penisola della Florida, ed in particolare la sua parte meridionale, è quella più vicina alla regione caraibica, e costituì una sorta di ponte verso il Nord America, attraverso cui passavano informazioni, fuggitivi, manufatti e infine le armate dei “conquistadores” in cerca di oro e terre da dominare. Non è chiaro, se e quanto, gli indiani della Florida fossero in contatto con gli indios dei Caraibi, anche
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se è certo che essi erano etnicamente e linguisticamente diversi dai Taino, i quali erano giunti nei Caraibi solo nei primi secoli dell’era cristiana, mentre la colonizzazione della Florida è sicuramente più antica. D’altra parte almeno le tribù della Florida meridionale, di cui abbiamo scarsissime notizie, essendosi estinte già all’inizio del ‘700, sembrano non avere parentela linguistica nemmeno con gli altri popoli del Nord America, mostrando anche sul piano culturale, una originalità rispetto, per esempio, ai vicini Timucuan della Florida settentrio- Questa è la rappresentazione del Florida Museum of Natural History di un capo Calusa circondato dai suoi dignitari nale. Divisi in diverse tribù, di cui la più potente era quella dei Calusa, della Florida sud-occidentale, queste popolazioni avevano costituito a partire dal I millennio a.C. un loro specifico modello culturale, le cui principali varianti sono note come Glades e Belle Glades, che si svilupparono a partire dal V sec. d.C. nella cultura di Caloosahtchee, che si protrasse fino al contatto con gli Europei. Il tratto più significativo di questa cultura è nella apparente assenza di relazioni con gli sviluppi che riguardavano tutte le regioni sud-orientali del Nord America, e che avevano al centro l’acquisizione e lo sviluppo delle pratiche agricole. Al contrario i popoli della Florida meridionale dipendevano esclusivamente dalla selvaggina, dai vegetali selvatici e soprattutto dal pesce e da crostacei e molluschi marini, risorse che in una regione di foreste, acquitrini e lagune costiere, erano in grado di sostenere una popolazione numerosa e un modello sociale complesso e strutturato. Pur dipendendo da un modello di sussistenza estremamente semplice, la grande disponibilità di risorse che l’ambiente offriva, permise alle comunità di crescere di numero e costituire delle entità politiche, che sotto molti aspetti ricordavano i caciccati più sviluppati dei Caraibi, con un impianto di tipo teocratico che garantiva ai capi un grande potere, esteso su ampi territori e numerose comunità, e una classe nobile costituita dai parenti del capo, da cui venivano scelti i sacerdoti e i capi militari; al di sotto vi era la gente comune, il cui lavoro serviva anche al sostentamento della casta nobiliare. Sia nel loro modo di apparire, sia in molti aspetti della vita materiale, i popoli della Florida meridionale sembrano essere più assimilabili a quelli dei Caraibi che non a quelli del Nord America, ed in particolare le loro canoe, fondamentali per spostarsi nelle lagune costiere e nelle paludi dell’interno, sembra che fossero di fattura simile a quelle dei popoli caraibici. Era invece probabilmente di origine settentrionale, l’uso di costruire le grandi abitazione dei capi su tumuli di terra, che pur ampi, non si elevavano però in altezza come i contemporanei “mounds” della cultura del Mississipi che si sviluppava più a nord. E’ ormai opinione diffusa che questi popoli, colonizzarono in tempi molto antichi la Florida provenendo dalla regione dei Caraibi, molto prima che i Taino occupassero le isole, introducendovi le pratiche agricole. E’ quindi possibile che la colonizzazione della Florida meridionale, sia stata opera dei più antichi abitatori dei Caraibi, popoli come i Guanajatebey di Cuba, che non praticavano l’agricoltura, e che successivamente questi colonizzatori, abbiano mantenuto i contatti con le regioni caraibiche, mutuandone usi e abitudini, ma non acquisendo l’agricoltura, a cui il loro territorio poco si prestava, e di cui, soprattutto, non avevano alcuna necessità. Più a nord di questi popoli di provenienza caraibica, sempre nella penisola della Florida, vivevano un gran numero di piccole tribù accomunate dalla lingua comune e da una simile cultura. I Timucuan, questo il loro nome, parlavano una lingua isolata, che forse aveva una qualche lontana relazione con il Mu-
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skogean, parlato dai popoli che vivevano più a nord; a differenza dei Calusa essi erano agricoltori, coltivano il mais e vari tipi di zucca, ma integravano abbondantemente la loro alimentazione con le risorse della caccia e della pesca, e dalla raccolta di molluschi, in una terra dalla vegetazione lussureggiante, bagnata dal mare e in cui abbondavano laghi e fiumi. Al tempo del contatto con gli Europei questi popoli vivevano secondo due modelli culturali simili, con differenze che gli archeologi hanno riscontrato principalmente nella ceramica e in altre attività arImmagine dei Timucua diJacques Lemoyne, che partecipò ad un tenta- tigiane: la cultura di St.John aveva il suo tivo francese d colonizzazione della Florida nella seconda metà del ‘500 centro lungo il corso del fiume omonimo, nel nord-est della Florida, e la cultura di Safety Harbor nella zona nord-occidentale della penisola, con centro intorno alla baia di Tampa. Come i loro vicini meridionali, e in generale i popoli del sud-est del Nord America, la loro organizzazione sociale era di impianto teocratico e stratificato, con una classe più elevata costituita da capi, sacerdoti e da una elite di nobili, al di sotto della quale erano i guerrieri, e quindi il resto della popolazione che si dedicava alle attività agricole; in fondo alla gerarchia erano gli schiavi, prigionieri di altre tribù, impegnati come servi. Le abitazioni di capi e sacerdoti erano costruite su mounds, i tumuli di terra diffusi in tutte le regioni del sud-est, mentre altri tumuli erano costruiti a scopo funerario. Le comunità erano abitualmente autonome, anche se attraverso matrimoni, i capi e le elites dei diversi villaggi mantenevano relazioni, che in alcuni casi, quando emergevano capi di particolare autorevolezza, potevano produrre vere e proprie entità politiche, anche se nel complesso, i Timucuan rimasero sempre piuttosto frazionati e divisi da rivalità. Oltre la penisola della Florida, dalla costa del Golfo del Messico a quella Atlantica, fino alle pendici meridionali dei monti Appalachee, era la terra dei popoli di lingua Muskogean, le cui principali tribù, i Choctaw, i Chickasaw e la grande confederazione dei Creek, furono protagoniste delle vicende storiche del Nord America, durante il ‘700 e fino ai primi decenni dell’800. A ovest dei Muskogean, sul basso corso del Mississipi, vivevano popoli ormai estinti, e di cui sono rimasti pochi discendenti, che parlavano lingue diverse, i Natchez, i Tunican, i Chichemaca, tribù un tempo potenti e ricche, presto travolte dall’impatto con i primi Europei con cui entrarono in contatto. Ancora più a ovest, oltre il Mississipi, erano le tante tribù di lingua Caddoan, popoli agricoli che vivevano al margine delle Grandi Pianure, con uno stile di vita che coniugava le risorse delle fertili terre dell’est, con la grande risorsa dei bisonti, delle praterie che si estendevano a ovest. A nord dei Muskogean, nella zona oggi compresa negli stati del South e North Carolina, si estende il Piedmont degli Appalachee, anch’essa una delle terre più adatte alla vita umana, con un buon clima, ricca di acque e di una lussureggiante vegetazione, dove vivevano genti di lingua Siouan, lontanamente imparentate ai famosi guerrieri Lakota delle Grandi Pianure, che conducevano una vita abbastanza semplice, coltivando le ricche terre, e cacciando e pescando nelle foreste. Nelle regioni montuose degli Appalachee meridionali, viveva invece una piccola tribù, all’epoca marginale e subalterna ai suoi più potenti vicini meridionali: i Cherokee, di lingua Iroquaian, che a partire dall’inizio de ‘700, furono protagonisti del conflitto con gli invasori bianchi. Tutta quest’area era sede della cultura agricola del Mississipi, che aveva avuto origine a partire dal IX sec. d.C. nella zona del medio corso del fiume Mississipi, nel cuore degli attuali Stati Uniti, ma che successivamente si era estesa a sud-est e a sud-ovest, laddove le condizioni ambientali permettevano l’affermarsi di modelli di sussistenza, incentrati sulle colture agricole. Furono i popoli del Middle Mississipi, i primi a produrre il modello sociale teocratico e stratificato diffuso in tutta l’area, insieme all’uso di costruire i grandi tumuli, vere e proprie piramidi di terra, ove erano posti i templi e le abitazioni di capi e sacerdoti; nei villaggi erano poi presenti ampi spazi (plazas), per le cerimonie e i riti collettivi, mentre la presenza di palizzate, fortificazioni e torri in legno, fa pensare a società aggressive in cui il tema della guerra, aveva una grande rilevanza. Tutta quest’area, abitualmente definita “Sud-Est”, al tempo del contatto con gli Europei era una regione molto popolata, con grandi centri politici e rituali, che esercitavano la loro influenza e il loro potere su
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vasti territori e numerose comunità, e che spesso erano in guerra fra di loro. Tali centri politici e rituali, erano alla guida di confederazioni di villaggi, i cui abitanti parlavano la stessa lingua, o dialetti simili, avevano comuni credenze religiose, ma che mantenevano propri capi e proprie e autonome aristocrazie. Si trattava di un modello di integrazione politica piuttosto labile, che poteva rafforzarsi solo in caso di leadership particolarmente autorevoli, ma che alla prova dei fatti mostrò, Come doveva apparire Mounville uno dei principali centri della cultura del Mississipi grazie alla sua flessibilità, una capacità di tenuta maggiore, di quella degli imperi centralizzati degli Azteche e Inca. Anche sul piano della sussistenza il modello era estremamente duttile, e pur incentrando la loro attività nella coltivazione dei campi, attività che comunque abitualmente competeva principalmente alle donne, gli uomini dedicavano molto del loro tempo a sfruttare le risorse che la natura metteva a disposizione, cacciando cervi, orsi neri, tacchini selvatici ecc., e pescando nel gran numero di fiumi e laghi della regione o lungo le sue coste. Le donne poi erano abitualmente esperte nelle attività di raccolta di frutta e vegetali selvatici, che la natura spontaneamente offriva. Quando il conflitto con il mondo dei bianchi portò alla crisi delle Culture Mississipi, questa flessibilità economica, divenne una risorsa per gli indiani della regione e permise loro di adattarsi al nuovo contesto prodotto dall’arrivo dei bianchi. Le Culture del Mississipi si differenziavano principalmente sulla base della produzione artistica e manifatturiera, e gli archeologi hanno individuato alcune grandi aree geografico-culturali, a loro volta suddivise in un gran numero di varianti locali o temporalmente limitate; le principali aree geografico culturali, sono quelle del Middle Mississipi, lungo il medio corso del grande fiume, che solo marginalmente è parte dell’area del Sud-Est, ed era rappresentata dai popoli di lingua Tunican; c’era poi l’area Planquemine, sul basso Mississipi, i cui rappresentanti erano i Natchez, oggi estinti; quindi l’area Caddo-Mississipi a ovest del fiume, tra le genti di lingua Caddoan; l’area più estesa era quella nota come South Appalachian, nel cuore del Sud-Est, abitato da popoli Muskogean; infine l’area di Ft.Walton, lungo le coste del Golfo del Messico, di Culture e popoli del sud-est del Nord America cui i principali esponenti
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erano gli Appalachee, anch’essi di lingua Muskogean. A parte la regione del Middle Mississipi, che viveva una fase di decadenza almeno dalla metà del XIV secolo, tutte le culture elencate, nei primi decenni del ‘500, vivevano un momento di sviluppo economico, politico e demografico. Questi erano i popoli che gli Spagnoli tentarono di sottomettere nel corso del XVI secolo, così come avevano fatto con i Taino dei Caraibi e con gli Aztechi e gli altri popoli del Messico: le cose però sarebbero andate in modo molto diverso, e il primo a sperimentarlo fu Ponce de Leon, il conquistatore di Puerto Rico.
Ponce de Leon in Florida
Secondo una diffusa “leggenda” Ponce de Leon, il primo Europeo ad approdare in Nord America con propositi di conquista e colonizzazione, avrebbe raggiunta la sconosciuta Florida, per cercarvi la “Fontana della Eterna Giovinezza”: ovviamente in nessun documento dell’epoca si fa alcun riferimento ad un simile obbiettivo, che risulta ancor più incredibile se si guarda alla figura di colui che avrebbe dovuto compiere questa romantica impresa. Soldato in Spagna e nel Nuovo Mondo, ricco e capace encomiendero a Hispaniola, conquistador e governatore di Puerto Rico, di cui fu il primo ad individuare le ricchezze che celava fra i suoi monti, uomo di fiducia di re Ferdinando in America, anche quando fu costretto ad accettare Diego Colombo come vicerè, protagonista nella lotta tra i diversi gruppi di potere che si contendevano il controllo delle colonie: questo era Ponce de Leon, tutt’altro che un sognatore alla ricerca di leggendarie meraviglie, ma un uomo pratico e concreto, obbligato ad impegnarsi in un’avventura nell’ignoto, quando realizzò che tutto ciò che aveva costruito in termini di ricchezza e di potere, poteva andare distrutto nello scontro che lo contrapponeva al vicerè Diego Colombo e agli ambienti di Corte che lo sostenevano. E’ nel novembre del 1511 che egli deve cedere il suo incarico di governatore di Puerto Rico a Juan Ceron, un uomo di Diego Colombo, che lui stesso, con il sostegno del re, poco tempo prima aveva fatto incarcerare. Gli equilibri a Corte erano cambiati e neanche re Ferdinando può più difenderlo, e per lui l’unica prospettiva sembra essere quella di vivere, da semplice possidente, nell’isola attraversata dalla rivolta Taino e governata dai suoi acerrimi nemici. Ma il re gli offrì una possibilità, quella di cercare nuove terre, prenderne possesso in nome della Spagna e assumerne il governo, senza alcuna subalternità nei confronti del vicerè delle Indie suo nemico: ovviamente l’allestimento della spedizione sarà a sue spese. Ponce de Leon lasciò Puerto Rico il 4 marzo 1513, con circa 200 uomini e tre vascelli, navigando in direzione nordovest verso le Bahamas, essendo al corrente delle voci riportate dai cacciatori di schiavi che predavano l’arcipelago, su una grande isola ancora sconosciuta. Dopo aver navigato tra le Bahamas, il 2 di aprile la piccola flotta approdò in un punto non definito della costa orientale della Florida, dove si fermò per cinque giorni. Negli anni successivi si ritenne che il luogo di questo primo approdo fosse nelle vicinanze del futuro presidio spagnolo di San Augustine, nella parte settentrionale della costa, ma tale identificazione è forse dovuta alla necessità degli Spagnoli di legittimare le loro L’itinerario del primo viaggio di Ponce de Leon in Florida
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pretese nella regione, contro i tentativi francesi di fondarvi una colonia; oggi gli studiosi ritengono più probabile che Ponce de Leon abbia preso terra più a sud, nella zona di Melbourne Beach, o forse ancora oltre. Durante questa prima tappa gli Spagnoli ebbero qualche contatto pacifico con gli indiani della regione, o con una delle diverse tribù Timucuan, se essi approdarono nella zona di San Augustin, o invece con gli Ais, se come appare più probabile, essi presero terra a Melbourne Beach. In ogni caso questi primi contatti furono pacifici e senza apparenti conseguenze. Fu in questa occasione che la nuova terra fu battezzata La Florida, con riferimento alla bellezza del paese e della sua vegetazione. Dopo essere ripartito, Ponce de Leon continuò a navigare verso sud lungo la costa, fermandosi il 4 di maggio nella zona di Biscayne Bay, nel territorio degli indiani Tekesta; questa tribù doveva già aver avuto qualche cattiva esperienza con i bianchi, dato che al loro arrivo abbandonarono il villaggio, per nascondersi nelle foreste dell’interno. Ripartite da Biscayne Bay, le navi esplorarono l’arcipelago delle isole Keys, all’estremità meridionale della Florida, poi volta la prua a nord e a nord-ovest, raggiunsero le coste sud-occidentali della Florida, dove il 23 maggio presero terra forse alla foce del fiume Callosahatchee, o poco più a nord, a Charlotte Harbor. Era questo il territorio dei Calusa, la più potente fra le tribù della Florida meridionale, e quella a cui certamente erano giunte notizie della presenza spagnola nei Caraibi, avendo probabilmente anche ospitato dei fuggitivi da Cuba. Fermatisi per opere di manutenzione alle navi, gli Spagnoli furono visitati da alcuni Calusa, che si mostrarono disponibili a commerciare, e dopo dieci giorni di rapporti non ostili, fu loro annunciato l’arrivo di un capo con il quale poter fare più ricchi scambi. Il giorno successivo, invece di un capo e del suo seguito, si presentarono una ventina di canoe, colme di guerrieri che diedero l’assalto alle navi spagnole; i Calusa furono alla fine respinti, con molte perdite e diversi prigionieri, ma il giorno successivo l’attacco si ripetè, con una forza di 80 canoe cariche di guerrieri. Questa volta la battaglia fu più dura e dall’esito incerto, e alla fine Ponce de Leon decise di abbandonare la regione, rinunciando, per il momento a mettere in pratica i suoi propositi di colonizzazione. Lungo la via del ritorno, navigando tra Cuba e le Bahamas, raccolse i naufraghi dell’equipaggio di Diego Miruelo, un cacciatore di schiavi che probabilmente il vicerè Diego Colombo aveva inviato sulle sue tracce per spiarlo. Il primo viaggio si concludeva con un nulla di fatto, ma Ponce de Leon poteva vantare diritti sulle terre da lui scoperte, anche se al suo ritorno a Puerto Rico, nell’ottobre del 1513, ebbe altro di cui occuparsi: i ribelli Taino avevano attaccato Caparra, la città da lui fondata, e quasi distrutto la sua casa, mettendo in pericolo la sua stessa famiglia, mentre il governatore Juan Ceron, continuava a tramare contro di lui. Nell’aprile del 1514 fece ritorno in Spagna per incontrarsi con re Ferdinando, il quale nel 1515, lo reinsediò nel suo incarico di governatore di Puerto Rico, affidandogli il compito di domare i Taino, e sottomettere i Caribi delle Piccole Antille. Per qualche anno i progetti di colonizzazione della Florida, furono messi da parte, anche se le sue pretese sulle nuove terre, venivano confermate da re Ferdinando. Ma al di la delle pretese legali, le nuove terre suscitavano l’interesse e l’avidità anche di altri avventurieri: nel 1516, Diego Miruelo, il cacciatore di schiavi soccorso da Ponce de Leon, partì da Cuba, senza alcun mandato ufficiale e navigò in direzione nord-ovest, fino a raggiungere l’attuale Florida occidentale, tra la baia di Apalachee e quella di Pesancola; gli indiani che vivevano in quell’area appartenevano alle tribù Apalachee e Chatot, agricoltori di lingua Muskogean, che fino a quel momento non avevano mai incontrato i bianchi, e che lo accolsero amichevolmente. Presso di loro Miruelo trovò piccole quantità di oro e argento, recuperato dagli indiani dai resti di qualche naufragio spagnolo, ed essi furono ben lieti di scambiarlo con specchietti e qualche oggetto di ferro. Dopo quest’avventura Miruelo fece ritorno a Cuba, con l’idea di una seconda spedizione, ma avendo errato nel prendere nota della latitudine, non fu in grado di mostrare le sue scoperte, e non riuscì a organizzare un secondo viaggio: in seguito a questa delusione, impazzì. L’anno successivo altri Spagnoli raggiunsero le coste della Florida: si trattava della piccola flotta di Hernando de Cordoba, di ritorno dal primo viaggio di esplorazione dello Yucatan, dove si erano dovuti scontrare con le popolazioni Maya, e da cui erano stati obbligati a partire senza nemmeno il tempo di rifornirsi d’acqua. Uno dei piloti delle navi di Cordoba, aveva navigato con Ponce de Leon, e consigliò agli Spagnoli, spossati dalle sete, di raggiungere le coste della Florida per rifornirsi d’acqua, prima di far rotta su Cuba. Raggiunta la stessa zona visitata da Ponce de Leon, una ventina di Spagnoli scesero a terra per rifornirsi d’acqua, ma furono immediatamente attaccati dai guerrieri Calusa: fecero la loro scorta d’acqua difendendosi dagli attacchi, e subito tornarono alle navi e ripresero il mare. Il viaggio di Cordoba nello Yucatan, svelando la ricca civiltà Maya, aveva suscitato nuove ambizioni e nuove cupidigie; dopo che per quasi trent’anni gli Spagnoli avevano incontrato solo selvaggi che vivevano in capanne, finalmente un ricco impero da conquistare, città con piramidi che evocavano quel-
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l’Oriente che da sempre era il sogno degli Europei: non casualmente Cordoba aveva nominato la prima città che aveva incontrato “El Gran Cairo”. L’anno dopo Juan de Grijalva raggiungeva le coste del Messico e si incontrava con Montezuma, poi nel 1519 Hernan Cortez dava inizio alla leggendaria ed efferata impresa che l’avrebbe portato a conquistare l’impero Azteco. Dopo il suo successo e dopo aver visto le immense quantità d’oro predato, tanti furono gli avventurieri che tentarono di emularne le imprese, ma di questi il solo Pizarro ebbe successo, conquistando l’impero Inca e il Perù; altri cercarono gli imperi dorati al nord, compiendo imprese tanto audaci, da apparire oggi folli. In questo clima di rinnovate speranze e di grandi entusia- Ponce de Leon ferito dai Calusa è riportato alla sua nave smi, Ponce de Leon comprese che se voleva mantenere i suoi diritti sulla Florida, doveva darsi da fare; nel 1516 il suo protettore re Ferdinando era morto, ed egli rischiava di essere messo ai margini nelle lotte di potere che attraversavano le colonia d’America. Nel 1521 una nuova spedizione partiva da Puerto Rico: due navi, duecento uomini, tra cui preti, contadini e artigiani, 50 cavalli e altri animali domestici, il necessario per costruire una nuova comunità. Questa volta le navi fecero subito rotta perla Florida sud-occidentale, puntando alla stessa ragione dove Ponce de Leon si era scontrato con i Calusa otto anni prima. Evidentemente doveva essere convinto che quello fosse il posto giusto per insediare la sua colonia, malgrado l’ostilità degli indiani, ma l’errore gli costò caro: appena approdati, gli Spagnoli furono immediatamente attaccati dai Calusa, e lo stesso Ponce de Leon fu gravemente ferito da una freccia, probabilmente avvelenata. Il secondo tentativo di fondare una colonia in Nord America si esauriva così: l’intera spedizione tornava precipitosamente a Cuba, dove Ponce de Leon arrivava morente. Mentre nel Messico un pugno di avventurieri distruggeva un grande impero, iniziava così la difficile conquista del Nord America.
Vasquez de Ayllon e il primo insediamento in Nord America
Pochi mesi prima del ritorno a Cuba di Ponce de Leon morente, iniziava la vicenda che avrebbe portato al primo, ed effimero, insediamento europeo in Nord America. A quell’epoca le imprese di Cortez nel Messico stavano ridando un nuovo slancio all’espansionismo spagnolo, mentre l’accertata presenza di terre a nord delle Antille, La Florida scoperta da Ponce de Leon, offrivano nuove opportunità a quanti volevano tentare la fortuna. Tra questi vi era Lucas Vasquez de Ayllon, un uomo di legge e grande encomiendero, che era giunto a Hispaniola nel 1502 con Ovando, divenendo poi un alto magistrato sull’isola; nel 1520 Ayllon iniziò a preparare il suo progetto di una colonia sul continente, affidando al suo sottoposto, il capitano Francisco Gordillo, il compito di esplorare le coste della Florida, per individuare il luogo più adatto alla sua impresa. Nei primi mesi del 1521 Gordillo si diresse verso nord, navigando tra le Bahamas, le isole ormai deserte e abbandonate dopo anni di raids di cacciatori di schiavi; qui incontrò il suo conoscente o forse cugino Pedro de Cueja, impegnato nell’ennesima spedizione a caccia di schiavi, che però aveva trovato solo
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isole deserte e villaggi abbandonati, e si avviava al ritorno con la stiva vuota di merce umana. Pedro de Quejo decise di unirsi a Gordillo nella sua spedizione di esplorazione, evidentemente contando di trovare nuove terre per il suo infame commercio. Navigando verso nord e poi verso ovest, i due dopo una decina di giorni, il 24 di giugno, avvistarono terra in un luogo che oggi è stato identificato come la foce del fiume Pedee, nell’attuale South Carolina, una regione mai visitata prima d’allora da alcun Europeo; qui essi furono accolti da un gran numero di indiani, che si radunarono sulla costa all’apparire delle navi, per poi fuggire a nascondersi nella vicina macchia, quando gli Spagnoli vennero a terra. Due di loro comunque furono cat- Lucas Vasquez de Ayllon turati, e portati a bordo, dove furono fatti loro regali e donate vesti nuove, prima di essere inviati di nuovo a terra con la richiesta di cibo e di acqua. L’iniziativa servì a conquistarsi la fiducia degli indiani, e un folto numero di loro si ripresentò portando quanto richiesto, e venendo accolto a bordo delle due navi. Una volta a bordo comunque, forse per le pressioni del cacciatore di schiavi, Gordillo decise di riprendere il mare portando con se gli indiani che si erano fidati della buona fede degli Spagnoli. Con le stive cariche di 70 schiavi, i due fecero ritorno a Hispaniola, dove Gordillo consegnò le sue prede a Vasquez de Ayllon, facendogli anche un entusiastico resoconto delle terre che aveva visitato. A quanto risulta Vasquez de Ayllon non approvò il comportamento del suo sottoposto, anche perché la caccia agli schiavi, seppur ampiamente tollerata, era pur sempre un’attività illegale. Forse Ayllon era contrario a tale pratica, forse riteneva un errore rovinare i rapporti con gli indiani, nella prospettiva di fondare una colonia nelle loro terre, o forse semplicemente la sua posizione di alto magistrato gli imponevano di salvare almeno le apparenze, sta di fatto che anche con l’intervento del vicerè Diego Colombo, i 70 indiani furono liberati, e fu stabilito che essi dovevano essere riportati nella loro terra: ovviamente i soldi per il viaggio non furono mai disponibili, e gli indiani furono abbandonati a se stessi, alcuni finendo a mendicare nelle vie di Santo Domingo, i più fortunati finendo impiegati come servi. Nel giro di due anni tutti gli indiani erano morti, salvo uno, conosciuto come Francisco de Chicora, che dopo esser stato battezzato, ed essere impiegato come servo da Ayllon, era riuscito ad imparare a parlare lo spagnolo. Francisco de Chicora aggiunse informazioni dettagliate sulla sua terra, al già entusiastico resoconto fatto da Gordillo, chiamando Chicora la zona da cui proveniva, e dando notizie sulla sua tribù, gli Yenyohol, poi conosciuti come Winyaw, i Guacaya che vivevano a nord, probabilmente corrispondenti agli Waccamaw del XVIII secolo, gli Xoxi a sud, quasi certamente i Sewee, che più tardi accolsero i coloni inglesi. Si trattava di piccole tribù di lingua Siouan, affini ai più noti Catawba, che vivevano lungo la costa del South Carolina in villaggi agricoli. I resoconti di Gordillo e Francisco de Chicora dovettero entusiasmare Vasquez de Ayllon, che nel 1523 li portò con se in un viaggio in Spagna, dove essi ripeterono i loro racconti a corte, convincendo così l’imperatore Carlo V a permettere una nuova spedizione e a garantire concessioni sulle nuove terre. L’anno successivo Gordillo, ancora una volta con Pedro de Quejo, fu inviato da Ayllon in un viaggio esplorativo della costa, per cercare un luogo adeguato alla fondazione di una nuova colonia, e a tentare di stabilire relazioni amichevoli con gli indiani; malgrado le dichiarate buone intenzioni di Ayllon, alcuni indiani furono comunque uccisi nel tentativo di indurli ad accompagnare gli Spagnoli a Hispaniola, per essere impiegati da Ayllon come interpreti. Gordillo e de Cueja navigarono fino a raggiungere le coste dell’attuale Virginia, entrando fin nella baia di Chesapeake, e poi ancora più a nord, fino alla baia di Delaware. Mentre i suoi inviati continuavano ad esplorare le terre sconosciute, Ayllon lavorava alla preparazione di una grande spedizione, che fu pronta nel 1526. Alla metà di luglio tre navi, con 600 uomini, alcune donne, religiosi, un gruppo di schiavi africani e 100 cavalli, partirono da Puerto Plata a Hispaniola, per arrivare in settembre alla foce del fiume Santee, nel South Carolina, dove una nave andò persa; di lì le
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due navi rimaste seguirono la costa verso nord fino alla baia di Winyah, alla foce del Pedee, dove gli Spagnoli presero terra. Era questa la terra di Francisco de Chicora, l’uomo su cui Ayllon puntava come guida e interprete; Francisco però doveva avere altri progetti perchè appena sbarcato dalla nave, trovò il modo di far perdere le sue tracce e scomparire per sempre. Di ciò che gli accadde non abbiamo alcuna notizia, ma certo l’esperienza vissuta da questo primo indiano del Nord America, di cui ci è rimasto un nome, dovette essere sconvolgente: il rapimento, la schiavitù, il viaggio in Europa e poi finalmente il ritorno alla sua terra, un ritorno che non abbiamo alcuna idea di come fu accolto. E’ un fatto comunque che dopo cinque anni di vita tra gli Spagnoli, avendone conosciuto lingua, religioni e usanze, appena le condizioni si presentarono egli preferì fuggire. La zona in cui erano approdati non sembrava a Ayllon adatta per costruire un insediamento, così la spedizione decise di spostarsi verso sud, alla ricerca di un luogo adeguato; mentre le navi seguivano la costa, parte della spedizione proseguiva a piedi, primi Europei ad affrontare un viaggio di terraferma in Nord America. Nel corso del viaggio essi incontrarono il “re di Duhae”, probabilmente il capo degli Etiwaw, uno dei tanti gruppi della tribù dei Coosabo, un popolo di lingua Muskogean; l’incontro fu pacifico e gli Spagnoli continuarono verso sud fino a raggiungere le coste dell’attuale Georgia. In ottobre la spedizione si fermò all’isola di Sapelo, poco a nord dell’estuario del fiume Altamaha, e qui fu fondata la colonia San Miguel de Guadalpe, nel territorio degli indiani Guale, un’altra tribù di lingua Muskogean; gli indiani Guale, come altri popoli affini della regione, a quell’epoca erano parte del complesso culturale del Mississipi, costituivano una confederazione di villaggi agricoli, guidati da una oligarchia teocratica e costruivano mounds (tumuli di terra), al vertice dei quali erano posti i templi e le case di capi e sacerdoti. I rapporti con i Guale non furono esplicitamente ostili, ma i Guale evitarono di offrire sostegno alla colonia, mantenendo un atteggiamento di preoccupata diffidenza. Al mancato sostegno degli indiani si aggiunse la scarsità di cibo, il clima a cui i coloni non erano abituati e che causava febbri, poi a questi problemi si aggiunse una rivolta degli schiavi africani, i primi giunti in Nord America e i primi a ribellarsi, che riuscirono a fuggire, e a trovare ospitalità tra gli indiani. Lo stesso Ayllon fu tra i primi a morire di malattia fra le braccia di un frate dominicano, poi nei mesi successivi, dei 600 coloni che erano partiti a luglio, nella colonia non ne sopravvivevano più di 150, senza più una guida, divisi da diatribe e recriminazioni, senza alcun contatto con le colonie spagnole, e sempre in pericolo per i precari rapporti con gli indiani Guale. Alla fine di un terribile inverno, sotto la guida di un frate dominicano, i coloni ripresero il mare per fare ritorno alle Antille: portavano con loro le spoglie di Vasquez de Ayllon, per dargli un’onorevole sepoltura, ma anche queste andarono perdute nel corso di una tempesta. Anche il secondo tentativo spagnolo di stabilirsi in Florida era stato un drammatico fallimento, e La spedizione di Vasquez de Ayllon
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come era già accaduto a Ponce de Leon, anche Vasquez de Ayllon, pagava con la vita la sua audacia. Va rilevato comunque che Ayllon appare come una figura anomala nel panorama dei “conquistador” dell’epoca; non un soldato in cerca di conquiste e di terre da depredare, ma un colonizzatore, attento ai rapporti con gli indiani, con cui evitò di giungere a conflitto, un’immagine leggermente diversa del dominio spagnolo, in cui violenza e sopraffazione, erano la principale caratteristica. Comunque dal punto di vista degli indiani, neanche questa immagine meno feroce poteva essere accettata, e la figura di Francisco da Chicora, con il suo rifiuto di ogni collaborazione e la sua fuga, è la rappresentazione emblematica della totale e irriducibile alterità degli indiani ad ogni incontro con gli Europei.
La disastrosa spedizione di Panfilo de Narvaez
All’inizio degli anni ’20 del ‘500, dopo aver completato la conquista dei Caraibi, gli Spagnoli riuscivano finalmente ad imporsi anche sul continente, con la spedizione audace e feroce di Hernan Cortez, che tra il 1519 e il 1521, aveva conquistato il potente impero Azteco, portando alla Spagna di Carlo V immense ricchezze in oro, oltre alla pretesa di dominio su una estensione di terre immensa e conosciuta. Ovviamente di fronte alle grandi opportunità di potere e ricchezza che le nuove terre offrivano, le ambizioni dei maggiorenti spagnoli dei Caraibi, producevano aspre rivalità e contrapposizioni, il cui punto più estremo fu raggiunto proprio nel corso della spedizione di Cortez. Diego Velasquez de Cuellar, il governatore di Cuba che nel 1518 aveva dato l’incarico a Cortez di organizzare la spedizione in Messico, preoccupato che questi potesse dimostrarsi troppo indipendente, decise di revocargli l’incarico, negandogli l’autorizzazione alla partenza; de Cuellar non aveva tutti i torti, dato che Cortez effettivamente, ignorò gli ordini del governatore, e con i suoi 300 uomini e la spedizione già pronta, nel 1519 prendeva il mare per Panfilo de Narvaez raggiungere le coste del Messico. Di fronte a questa chiara insubordinazione, de Cuellar decise di agire con durezza, affidando ad un suo parente, Panfilo de Narvaez, il compito di raggiungere il ribelle, destituirlo dal comando e sostituirlo nell’impresa, assumendo la carica di governatore del Messico. Panfilo de Narvaez, era giunto dieci anni prima in America, e aveva partecipato alla conquista di Cuba, distinguendosi nel massacro dei Taino, aveva così l’occasione di essere il protagonista della più sensazionale impresa della scoperta del Nuovo Mondo. All’inizio del 1519 Narvaez partiva con 1.400 uomini e 19 navi, prendendo terra a Veracruz, dove Cortez aveva lasciato un piccolo presidio. Malgrado la sproporzione tra le forze dei due contendenti, Cortez non si fece impressionare e ritornato a Veracruz, si scontrò in battaglia con gli uomini di Narvaez; per questi fu una debacle totale: non solo venne sconfitto, ma tutti i suoi uomini si unirono a Cortez, allettati dalle promesse di ricchezza che questi offriva, mentre lui stesso perse un occhio in battaglia e venne imprigionato per due anni. Poi Cortez, dopo aver preso possesso delle terre in cui era giunto in nome del re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero, dichiarò di sottrarsi ad ogni altra autorità che non fosse quella di Carlo V; questi ovviamente a fronte dei successi dell’avventuriero, rinunciò ad ogni proposito di punizione, e lo insignì del titolo di marchese di Oaxaca, la regione del Messico da lui conquistata. Questa vicenda da in qualche modo l’idea di chi fosse l’uomo a cui per l’ennesima volta fu affidato il tentativo prendere possesso della Florida. Narvaez fu liberato nel 1523, poi l’anno successivo, il suo protettore de Cuellar moriva, e così egli faceva ritorno in Spagna, senza aver rinunciato alla speranza
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di poter realizzare in America i suoi progetti di ricchezza e di potere. Finalmente nel dicembre del 1526, Carlo V autorizzava Panfilo de Narvaez ad organizzare una spedizione verso La Florida; nel contratto stipulato con la corona, a Narvaez veniva garantito il titolo di governatore delle terre che avrebbe conquistato. Panfilo de Narvaez partì dalla spagna il 17 giugno del 1527, con 600 uomini, di cui 450 soldati, e 150 tra servitori, marinai, un certo numero di donne sposate ai soldati, e alcuni mulatti africani; non c’erano solo Spagnoli, ma anche molti Portoghesi, alcuni Greci e 22 Italiani. Il re aveva inviato con Narvaez, come vicecomandante e tesoriere, Alvar Nunez Cabeza de Vaca, che avrebbe dovuto garantire i proventi economici dell’impresa alla corona, oltre ad essere l’uomo di fiducia dell’imperatore nella spedizione. Cabeza de Vaca sarebbe successivamente divenuto il protagonista di una delle più incredibili vicende nella esplorazione del nuovo continente, e avrebbe narrato sia le vicende della spedizione di Narvaez, sia il suo eccezionale epilogo, in un opera che è un classico della storia delle scoperte geografiche, ed un importantissimo documento etnografico. Giunto a Hispaniola nel mese di agosto, per Narvaez iniziarono i problemi: subito un centinaio di uomini, messi al corrente del disastroso esito della spedizione di Vasquez de Ayllon, disertarono; poi mentre navigava per andare a rifornirsi di cavalli, una parte della sua flotta fu colpita da un uragano: due navi fecero naufragio e 60 uomini perirono. L’autunno e l’inverno furono impegnati a reintegrare la spedizione di uomini, cavalli e navi, mentre Narvaez si assicurava i servigi di pilota di Diego Miruelo, nipote di quell’altro Diego Miruelo che nel 1516 era stato il primo a raggiungere le coste del Golfo del Messico, tra il Golfo di Appalachee e la Baia di Pesancola. Pur non essendo mai stato nella regione, Miruelo vantava conoscenze di quelle coste, che divennero l’obbiettivo della spedizione. Finalmente alla fine di marzo del 1528, le cinque navi della flotta salparono, dovendo rinunciare, per le condizioni del mare, ad un’ultima tappa a L’Avana per gli ultimi rifornimenti, e puntando direttamente a nord. La navigazione fu difficile e pericolosa sempre per le condizioni del mare, quindi con cibo e acqua già ridotti, il 12 aprile del 1528, gli Spagnoli avvistavano la costa occidentale della Florida, a nord della Baia di Tampa, e molto più a sud del Golfo di Appalachee, dove Miruelo li avrebbe dovuti guidare; per due giorni le navi esplorarono la costa sperando di trovare conferma di essere giunti alla loro metà, ma si spostarono ulteriormente più a sud, perdendo anche un’altra nave, fin quando a corto di viveri, decisero di entrare nella baia di Tampa, dove era stato avvistato un villaggio indiano, con i caratteristici mounds, su cui erano poste le abitazioni di capi e sacerdoti. La terra a cui Narvaez era approdato, era a nord del territorio dei Calusa che avevano scacciato e ucciso Ponce de Leon, ed era abitata dalla piccola tribù dei Tocobago, di lingua Timucuan; a differenza dei Calusa, i Tocobago erano agricoltori, probabilmente non avevano mai avuto diretti contatti con i bianchi, ma certo dovevano già essere entrati in possesso di merci e manufatti europei, perché quando i primi Spagnoli si recarono a terra essi si mostrarono subito disponibili a scambiare pesce fresco e selvaggina, con campanelli, biglie di vetro e altri oggetti. Vista la reazione pacifica degli indiani, Narvaez fece sbarcare gli altri uomini, e fece campo nelle vicinanze del villaggio; il giorno successivo, quando si svegliarono, gli indiani erano scomparsi e il villaggio era deserto. Come da procedura, Narvaez prese formale possesso delle terre su cui era approdato, in nome del re di Spagna, poi nel pomeriggio alcuni indiani si fecero vivi, ma solo per invitarli a gesti ad andarsene; evidentemente gli indiani avevano discusso dell’arrivo dei bianchi, e per precauzione avevano deciso di nascondersi, ma il loro atteggiamento si stava facendo minaccioso. Preso atto che quel L’arrivo di Panfilo de Narvaez in Florida
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luogo non era quello che doveva essere la loro meta, Narvaez inviò Diego Miruelo con una nave a cercare il golfo e la costa di cui mostrava di avere tanta conoscenza, ordinandogli qualora la ricerca si fosse mostrata infruttuosa in tempi brevi, di tornare a Cuba per fare nuovi rifornimenti, e poi raggiungerli. Di Diego Miruelo non avranno più notizie. Nei giorni successivi, Narvaez, Cabeza de Vaca e una quarantina di uomini, esplorarono la regione, incontrando pochi indiani, qualche villaggio deserto, campi di mais, e un paio di oggetti d’oro lasciati dagli indiani in fuga. In uno dei villaggi trovarono tessuti e altri oggetti spagnoli, probabilmente resti di qualche naufragio, e alcune casse di legno di fabbricazione spagnola, in cui gli indiani avevano posto i corpi di loro defunti: il responsabile per le questioni religiose della spedizione, ritenendo la cosa come una sospetta opera del demonio, diede ordine di bruciare tutto. Da quattro indiani incontrati e presi prigionieri, con cui non riuscivano a comunicare, l’unica cosa che riuscirono a capire, era che ciò che essi cercavano, oro, cibo e ogni ben di Dio, l’avrebbero trovato a nord-ovest, in una terra chiamata Appalachee: ovviamente gli indiani delle tribù Timucua erano nemici degli Appalachee, e con queste informazioni, cercavano di liberarsi degli indesiderati ospiti. Al ritorno della spedizione, il cui unico risultato era stato l’aver trovato un po’ di mais, Narvaez riunì gli ufficiali e propose loro di dividere gli uomini, una parte sulle navi a seguire la costa in direzione nord-ovest in cerca del famoso golfo, il grosso degli uomini nella stessa direzione via terra: il primo gruppo che avesse individuato la meta, avrebbe atteso l’altro. La maggior parte degli uomini, che avevano sofferto molto le condizioni del mare furono d’accordo, mentre Cabeza de Vaca, che non aveva fiducia delle conoscenze vantate da Miruelo e dagli altri piloti, fece presente che era rischioso addentrarsi in una terra ignota, con scarse provviste e i pochi cavalli rimasti dopo il terribile viaggio, che non erano in condizioni di essere usati, alla ricerca di un luogo sconosciuto, e senza nemmeno sapere dove effettivamente essi si trovavano. La sua proposta di prendere tutti insieme il mare alla ricerca del fatidico golfo, non fu accolta, e Narvaez lo invitò a rimanere lui con le navi, se temeva di proseguire via terra, adombrando così una accusa di codardia: Cabeza de Vaca ovviamente non accettò, nemmeno quando tale invito fu fatto in modo più rispettoso, dato che Narvaez non sapeva a chi affidare il comando delle navi. A detta di Cabeza de Vaca, egli disse chiaro e tondo a Narvaez, che chi rimaneva a terra, non avrebbe mai più visto le navi, e che quindi lui preferiva rimanere a terra, affrontando il rischio, piuttosto che sopportare anche solo il sospetto di codardia. Questa fu la prima occasione in cui la guida di Narvaez fu posta in discussione, e altre ve ne sarebbero state; la fiducia con cui Narvaez si lanciava in una impresa al buio, era fondata su due motivi: il timore di affrontare il mare, che era stato ostile alla spedizione fin dalla partenza, e la generica convinzione che la distanza tra le coste della Florida e quelle del Messico fosse di molto inferiore, e che al peggio continuando lungo la costa si sarebbe raggiunto il presidio spagnolo di Panuco. Il primo di maggio 1528, 300 uomini con 42 cavalli e alcuni indiani prigionieri come guide, mossero verso l’interno dirigendosi a nord-ovest, parallelamente alla costa; avevano con se scarsissime razioni di gallette e lardo, si muovevano in una terra senza piste ne sentieri, in una fitta foresta attraversata da acquitrini, portando sulle spalle il peso delle armi. Ovviamente all’avvicinarsi della colonna la selvaggina scompariva, ne si osava allontanarsi per tentare di cacciare: solo qualche frutto selvatico integrava la magra dieta. Dopo quindici giorni di calvario alla metà di maggio giunsero al fiume Withlacoochee, che fu attraversato con zattere di fortuna e grandi difficoltà. Sull’altra sponda trovarono ad accoglierli circa 200 indiani, che per loro fortuna non li attaccarono, ma anzi li portarono al villaggio, li sfamarono con il mais che avevano, e permisero loro di fare una sosta; gli indiani dovevano appartenere alla tribù degli Ocala, e anch’essi confermarono i racconti sulla favolosa terra degli Appalachee. Durante la sosta Cabeza de Vaca e un altro ufficiale guidarono due ricognizioni sulla costa, nella speranza di trovare le navi e il golfo che cercavano, ma la ricerca non ebbe alcun esito. Dopo pochi giorni ripartirono, sempre alla ricerca della terra di Appalachee, continuando a marciare per un altro mese in condizioni di estrema difficoltà, fino al fiume Suwanee, nel corso del cui attraversamento un uomo e un cavallo annegarono: il cavallo ovviamente fu mangiato. Ad osservare gli Spagnoli impegnati ad attraversare il fiume, c’era un capo e il suo seguito, quasi certamente della tribù Timucuan degli Yustaga; il capo e Narvaez si incontrarono poi alla metà di giugno e comunicando a gesti si scambiarono doni e gesti di pace, e quando gli Spagnoli spiegarono che erano diretti ad Appalachee, il capo fece capire che la loro meta era vicina, che gli Appalachee erano loro nemici, e che lui li avrebbe sostenuti nell’impresa. In realtà gli indiani diedero agli Spagnoli un po’ di mais, poi scomparirono, lasciando come solo inquietante segno della loro presenza, il lancio di una freccia che però non colpì nessuno; nei giorni successivi comunque gli Spagnoli si accorsero di essere seguiti,
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e lasciata una pattuglia in retroguardia, tesero una trappola e uccisero alcuni indiani. Alla fine di giugno, dopo immensi sforzi giunsero in vista di un villaggio, che loro credettero la capitale di Appalachee, mentre era solo un villaggio minore di una quarantina di capanne: l’idea che finalmente erano giunti alla favolosa meta, sollevò gli animi di tutti, ma quando il villaggio, dove c’erano solo donne e bambini, fu occupato, essi non vi trovarono ne oro ne ricchezze, ma solo una gran quantità di mais, con cui potersi finalmente saziare. Il giorno successivo, gli uomini del villaggio si presentarono, chiedendo il rilascio delle loro donne, cosa che gli Spagnoli concessero, tenendo però in ostaggio un capo. Gli Appalachee furono offesi dal comportamento di questi invasori e senza mostrare alcun timore, il giorno dopo in circa 200 attaccarono gli Spagnoli, e così ancora il giorno successivo: gli indiani usavano frecce incendiare, erano ottimi arcieri e persero un solo uomo in ognuno dei due attacchi, poi passarono a compiere azioni di guerriglia, nascosti nella fitta foresta o tra le alte piante di mais. Iniziò così una sorta di assedio, con gli Spagnoli nel villaggio in grado difendersi dagli attaccanti, che però non potevano neanche allontanarsi per rifornirsi d’acqua, senza il rischio di cadere in un agguato; tre spedizioni furono inviate in ricognizione, alla ricerca di qualcosa che potesse confermare i racconti di ricchezze che li avevano portati in quella terra, tutte senza esito. Dai prigionieri Appalache e Timucua, le notizie erano ancora più deprimenti: gli Appalachee era il popolo più ricco, le tribù nei dintorni non avevano nulla di più da offrire, e andando a ovest, c’era una terra spopolata. La permanenza nel villaggio durò tre settimane, poi alla seconda metà di luglio, Narvaez ormai sfiduciato, decise di puntare a sud e alla costa, nella speranza di incontrare le navi. La meta era il villaggio di Aute, di cui avevano parlato i prigionieri, in cui il cibo abbondava e gli abitanti erano ottimi pescatori. Partiti alla ricerca di ricchezze, gli Spagnoli speravano ora di trovare almeno del pesce, con cui integrare la magra dieta di mais. Gli indiani seguirono la partenza degli Spagnoli senza disturbarli, poi quando nel cammino essi giunsero in una vasta area paludosa, dove i cavalli avevano difficoltà a muoversi e le pesanti armature erano d’intralcio, iniziò uno stillicidio di piccoli agguati, azioni di disturbo, frecce che giungevano dal nulle e colpivano, e fughe precipitose nella selva prima ancora che gli Spagnoli potessero reagire. Alcuni uomini furono uccisi, altri feriti, molti malati, tutti affamati. In queste condizioni giunsero ad Aute, trovando il villaggio deserto e bruciato, ma gli orti e i campi ancora intatti, in cui ancora abbondava il mais, le zucche, i fagioli, con cui sfamare i quasi 300 uomini della spedizione. Narvaez era tra i malati e fu quindi Cabeza de Vaca a proseguire alla ricerca del mare, trovando solo una costa di bassifondi, tappezzata di taglienti ostriche, inadatta all’approdo di navi. Comunque nelle difficili condizioni in cui si trovavano, anche le ostriche potevano essere una risorsa per sopravvivere, così gli Spagnoli si trasferirono sulla costa. A quell’epoca le navi della flotta e lo stesso Miruelo, che nessuno ormai sperava più di incontrare, cercavano inutilmente la spedizione più a sud, lungo le coste della Florida, e nel corso delle ricerche alcuni uomini erano stati uccisi dai Tocobago, e uno di loro preso prigioniero. Narvaez e i suoi uomini erano invece finalmente giunti a quello stesso Golfo di Appalachee visitata da Diego Miruelo nel 1516. Gli Spagnoli rimasero sulla costa del Golfo di Appalachee dai primi di agosto al 20 settembre, e durante questo tempo misero in campo il progetto disperato di costruire una piccola flotta di barche, con cui prendere il mare per raggiungere le coste del Messico. Incredibilmente essi riuscirono a costruire una fucina, usando per il mantice una pelle di cervo, trovarono il modo di ricavare la colla dalla resina dei pini e la stoppa dalla corteccia di palma, fusero speroni, staffe e ogni oggetto di metallo per ricavarne chiodi e altri utensili, con i crini di cavallo fecero corde, e con le camicie, vele. Per sostentarsi lanciarono incursioni ad Aute per prendere cibo, mentre gli Appalachee continuavano a pressarli con costanti azioni di guerriglia; i cavalli superstiti, che non potevano essere portati via furono uccisi, uno ogni tre giorni per nutrire gli ammalati e so- Gli Spagnoli alla Baia dei Cavalli
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prattutto quanti lavoravano alle barche: in onore degli animali uccisi, che per i “caballeros” avevano un valore affettivo immenso, il luogo fu chiamato “Baia dei Cavalli”. Quando ormai erano alla vigilia della partenza, un altro attacco degli Appalachee, uccise 10 uomini; il 20 settembre, meno di 250 uomini, divisi su cinque grandi barche, lasciavano finalmente quella terra che li aveva delusi e sconfitti. Non sappiamo se gli Appalachee li guardarono partire, ma certo nei loro villaggi avevano di che festeggiare: avevano sconfitto il primo vero tentativo di invasione del Nord America. Gli uomini che partirono dalla Baia dei Cavalli, non erano più una spedizione militare, ma solo una torma di disperati, che si spingeva a ovest lungo la costa, spinta solo dall’errata convinzione che una possibile meta, un luogo in cui trovar soccorso, il presidio di Panuco che era la loro unica speranza, fosse se non vicino, almeno non irraggiungibile. Dopo alcune settimane di navigazione, alla metà di ottobre, la fame e la sete obbligarono gli Spagnoli a prendere terra in una baia riparata, probabilmente la baia di Pesancola, dove dopo una prima accoglienza pacifica, furono attaccati dagli indiani Pesancola; pochi giorni dopo, sempre spinti dalla necessità di rifornirsi d’acqua e di cibo, si fermarono ancora nella terra dei tribù dei Mobile, e anche essi dopo una prima apparente disponibilità, li attaccarono e cacciarono. Alla fine l’acqua dolce la trovarono in alto mare, dove il poderoso flusso del Mississipi si spinge fino al largo, ma la stessa forza della corrente disperse la flottiglia mentre tentava di doppiare il promontorio formato dall’estuario del grande fiume. A ovest del delta del Mississipi, la barca guidata da Narvaez decise di prendere terra, mentre il capo della spedizione rinunciava di fatto al comando, lasciando libero ognuno di pensare alla propria salvezza; Cabeza de Vaca e altri continuarono la navigazione, fino ai primi di novembre, quando un’ennesima tempesta, causò il naufragio della flottiglia, e solo 80 uomini riuscirono a raggiungere terra su un isola nelle vicinanze della baia di Galveston, sulle coste del Texas. Dei quasi 250 uomini partiti dalla Baia dei Cavalli, la maggior parte era morta durante il viaggio, di sete, di stenti, malattie, annegata o uccisi dagli indiani, e forse un centinaio di superstiti nell’autunno del 1528 erano dispersi lungo le coste al confine tra Texas e Louisiana. Panfilo de Narvaez era stato visto l’ultima volta sulla barca sui cui s’era attardato, che rotti gli ormeggi era stata spinta al largo dalle correnti; del gruppo che era con lui, Cabeza de Vaca seppe che ridotti alla fame, si erano mangiati l’un l’altro, finchè l’ultimo era stato ucciso dagli indiani; il gruppo più grande, che era approdato nella zona della Baia di Galveston, trovò un povero soccorso dagli indiani locali, bande di Atakapa e Karankawa, nomadi, raccoglitori e pescatori che avevano essi stessi poco da offrire; poi forse a causa dell’alimentazione a cui non erano usi, la maggior parte morì di una malattia intestinale che si estese anche agli indiani. Quelli che rimanevano, una quindicina furono fatti schiavi e divisi tra le diverse bande di indiani, e il loro destino dipese dalla mutevole volontà dei loro padroni. Dopo un anno solo quattro di loro, Alonso del Castillo Maldonado, Andres Dorantes del Carranza, Estevanico, lo schiavo africano di Do-
La spedizione di Panfilo de Narvaez
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rantes, e Alvar Nunez Cabeza de Vaca, ancora sopravvivevano, e dopo un’incredibile avventura sarebbero anche riusciti a raggiungere i possedimenti spagnoli in Messico, e a dare così testimonianza della terribile fine della spedizione . Come le due che l’avevano preceduta la spedizione di Narvaez aveva fallito l’obbiettivo di insediarsi in Florida, come Ponce de Leon e Vasquez de Ayllon, anche Narvaez era morto nel tentativo, ma come in una sorta di catastrofico crescendo, la sua impresa era stata la più disgraziata, dato che per ben otto anni, quando finalmente Cabeza de Vaca e i suoi compagni riuscirono a far ritorno, nessuno seppe nemmeno che fine avevano fatto i 300 uomini partiti per conquistare la Florida. Ovviamente, durante questo periodo, la Florida fu “dimenticata” dai piani d’espansione coloniale Spagnola.
Hernando de Soto tra i Popoli del Mississipi Della spedizione di Panfilo de Narvaez, partita nel 1528, si ebbero notizie solo otto anni dopo, nel 1536, quando gli unici quattro superstiti riuscirono a fare ritorno alle colonie del Messico; durante quegli otto anni nessun nuovo tentativo di colonizzare o addirittura conquistare il Nord America fu concepito, anche perché dopo la conquista dell’impero Azteco, un altro regno dorato aveva attirato l’attenzione dei governanti e degli avventurieri spagnoli. Nell 1531 un pugno di uomini guidati da Francisco Pizarro, aveva raggiunto la costa del Pacifico in Sud America, e con la solita spregiudicata decisione ed efferata crudeltà, nel giro di tre anni, aveva distrutto l’impero degli Inca e conquistato il Perù; l’oro e le ricchezze di cui gli Spagnoli si impossessarono furono immense, e per qualche tempo nessuno pensò di tentare la fortuna nelle ostili terre del nord, dove di oro se ne era trovato poco, e gli indiani s’erano dimostrati un avversario ostico. Tra i più stretti collaboratori di Pizarro vi era però Hernando de Soto, un esperto soldato, già protagonista della conquista delle regioni di Panama e del Nicaragua negli Hernando de Soto anni ’20 del ‘500, la cui ambizione probabilmente andava al di la della semplice sete di ricchezza che guidava altri “conquistador”. Nel 1534, quando il Perù era ormai conquistato, de Soto avrebbe dovuto essere il secondo in comando nella spedizione per la conquista del Cile, guidata da Diego de Almagro, uno dei soci originari di Francisco Pizzarro, ma all’ultimo momento, si vide togliere l’incarico dallo stesso Almagro; decise quindi di considerare chiusa l’esperienza in Sud America, dove di li a poco Pizarro e Almagro si sarebbero ammazzati fra di loro per il controllo delle ricche terre conquistate, e di fare ritorno in Spagna nel 1536. L’uomo che tornava in Spagna non era più un semplice soldato e avventuriero, ma un signore di grandi ricchezze, in grado di contrarre un matrimonio che lo inseriva nella più esclusiva aristocrazia spagnola, e gli garantiva importanti entrature a corte: aveva a quell’epoca poco più di 40 anni e un avvenire di potenza e ricchezza assicurato, un uomo che aveva certo raggiunto gli obbiettivi che doveva avere avuto, quando giovane di poche risorse, proveniente dalla piccola nobiltà di una delle zone più povere della Spagna, aveva deciso di attraversare l’oceano in cerca d’avventura. Pare però che oltre alle ricchezze e al potere, altre cose affascinassero de Soto: i resoconti di Ponce de Leon sulla Florida, il viaggio di circumnavigazione di Ferdinando Magellano del 1525, la ricerca del fatidico passaggio verso le Indie Orientali, e infine gli stessi resoconti dei superstiti della spedizione di Narvaez, resi noti dopo il 1536: sta di fatto che in Spagna de Soto riuscì ad ottenere l’incarico di governatore di Cuba, e soprattutto l’autorizzazione ad organizzare una nuova spedizione in Florida e nel Nord America allora sconosciuto. Fu così che iniziò una delle imprese di esplorazioni più avventurose e incredibili della storia delle scoperta del Nord America, una vera e propria odissea americana, che avrebbe portato gli Europei per la prima volta nel cuore del nuovo continente; la spedizione di de Soto ha poi un immenso valore etnografico, perchè dalle testimonianze degli uomini che ne fecero parte, ci giungono le sole notizie sulla cultura dei Popoli del Mississipi, quelle genti che nell’est degli Stati Uniti costruivano grandi piramidi
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di terra e importanti centri rituali, organizzavano la loro vita sociale secondo una rigida gerarchia, davano vita a veri e propri principati, un‘intera cultura che di li a cent’anni scomparirà, lasciando dietro di se poche tracce. Ma ancor prima di raggiungere il cuore del Nord America, de Soto avrebbe dovuto confrontarsi con quei popoli che già conoscevano l’uomo bianco, sapevano che malgrado i suoi cavalli, le sue armature, i suoi archibugi, non erano una divinità da temere, ma esseri umani come gli altri, che potevano soffrire la fame, le malattie e che potevano essere uccisi. La penisola della Florida che già era stata fatale per Ponce de Leon e Panfilo de Narvaez, sarebbe stata anche per de Soto, la prima tappa.
Attraverso la Florida Nel 1539 Hernando de Soto aveva completato i preparativi per la sua grande spedizione di esplorazione e conquista della Florida e delle terre a nord del Golfo del Messico, e partiva dalla Spagna con nove navi di varia stazza; con lui portava oltre 600 uomini, per lo più soldati, ma anche artigiani, mercanti e ovviamente preti. Sulle navi c’erano anche donne, compresa la moglie dello stesso de Soto, donna Isabela, dato che all’epoca era vietato agli uomini sposati andare nelle Indie Occidentali senza le loro mogli, forse per evitare che i minori controlli alla morale sessuale in quelle terre selvagge, potessero incrinare la sacralità del matrimonio cristiano. Oltre agli uomini c’erano anche 220 cavalli, e altro bestiame, tra cui una mandria di maiali, per assicurare un approvvigionamento di carne. Dopo aver fatto tappa a Cuba, dove le donne furono sbarcate, le navi presero il mare per le coste della Florida dove approdarono alla fine di maggio del 1539, probabilmente sulla parte meridionale di Tampa Bay, la stessa zona in cui undici anni prima era sbarcato Panfilo de Narvaez. Dalle navi gli Spagnoli individuarono il villaggio di Uzita, alcune capanne di rami e foglie di palma e due collinette di terra su cui erano poste la casa del capo e un tempio; il nome di Uzita non ricompare più nelle vicende degli indiani della Florida, ma è probabile che gli abitanti del villaggio appartenessero alla tribù Timucuan dei Pohoy, la cui presenza nell’area è testimoniata nei decenni successivi. Il primo gruppo di uomini che scese a terra per compiere una prima ricognizione, al comando di Vasco Porcallo de Figueroa, trovò un gruppo di sei indiani che fuggirono prima che loro riuscissero a catturarli e usarli come guide; due indiani comunque rimasero uccisi durante il tentativo di cattura, e così gli Spagnoli presentarono il loro biglietto da visita agli indiani. Quando il giorno successivo de Soto sbarcò con il resto degli uomini e si recò al villaggio di Uzita, ovviamente lo trovò deserto, mentre lungo la costa fumate si elevavano, ad avvertire i villaggi della regione dell’arrivo degli stranieri; gli Spagnoli si insediarono a Uzita e vi fecero il loro primo campo base. Senza interpreti e guide, ne alcuna conoscenza della regione, gli Spagnoli necessitavano degli indiani per avere un’idea di come proseguire, così de Soto inviò un suo luogotenente con un gruppo di uomini a cavallo, nelle regioni interne per catturare qualche indiano, e un altro gruppo a piedi, per esplorare le zone paludose vicine, dove muoversi a cavallo era difficile; questo secondo gruppo, guidato da Juan Rodriguez, trovò un piccole villaggio in cui potè rapire alcune donne, prima che gli altri indiani fuggissero, ma fu poi costretto a ritirarsi velocemente di fronte alla controffensiva degli indiani infuriati, le cui frecce procurarono sei feriti e un morto tra gli Spagnoli. Più fortunato fu l’altro gruppo, guidato da Baltasar de Gallego, che dopo aver fatto meno di una decina di chilometri da Uzita, si imbattè in un gruppo di una decina di indiani a cui si apprestava a dare la caccia, quando uno di loro parlando in castigliano, si fece loro incontro a mani alzate, dichiarandosi spagnolo e supplicandoli di non ucciderlo: si trattava di Juan Ortiz, membro della flottiglia mandata in soccorso di Panfilo de Narvaez dieci anni prima, che era stato catturato dagli indiani di Uzita, e dopo tre anni di prigionia e aver più volte rischiato la vita, era fuggito presso la vicina tribù dei Mocoso, dove aveva trovato rifugio e con cui viveva da otto anni. La figura di Juan Ortiz è interessante, così come quella di Francisco de Chicora, l’indiano che per anni era vissuto tra i bianchi al servizio di Vasquez de Ayllon, perché sono le prime testimonianze di uomini che si trovarono a dover, loro malgrado, imparare a vivere secondo una cultura completamente diversa. Sappiamo che Francisco de Chicora, appena se ne presentò l’occasione, fece ritorno alla propria gente, senza che di lui si sapesse più nulla; al contrario Juan Ortiz, che agli Spagnoli comparve in tutto e per tutto simile agli altri indiani, con il corpo tatuato e dipinto, chiese esplicitamente a de Soto di poter continuare a mostrarsi come un indiano, rifiutando gli abiti che gli furono offerti, e suscitando la riprovazione dei suoi connazionali. De Soto comunque non ebbe problemi ad accontentarlo, anche perché grazie a Ortiz, che parlava la lingua dei Timucuan, uno dei principali problemi della spedizione, quello degli
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interpreti, era risolto. Attraverso Ortiz, de Soto incontrò il capo dei Mocoso, che venne in visita al campo spagnolo, ottenendo in regalo degli abiti e altri oggetti; da Ortiz e dal capo Mocoso, de Soto venne a conoscenza della provincia di Paracoxi, nell’interno, il cui capo era il più potente della regione, a cui sia i Mocoso, che gli Uzita pagavano tributo. Il termine “Paracoxi” è probabilmente un titolo onorifico, che non indica una specifica tribù o regione, e quindi oggi è impossibile determinare quale fosse la potente tribù a cui versavano tributo i Mocoso e gli Uzita; c’è comunque da tenere conto del fatto, che era uso degli Spagnoli, quello di indicare una tribù o una regione con il solo nome del capo che la guidava, e molti dei nomi storicamente utilizzati per definire i popoli della Florida, traggono origine da un singolo capo. Comunque il termine Paracoxi, non compare in alcun documento spagnolo successivo. Nella speranza di trovare un potente sovrano e ricche città, de Soto inviò Gallego e un gruppo di un centinaio tra cavalieri e fanti, nelle regioni interne alla ricerca di Paracoxi; il capo di Paracoxi, prudentemente, evitò di incontrare gli Spagnoli, indicando loro, attraverso messaggeri, la provincia di Ocala, con cui era in guerra, come la terra in cui c’era abbondanza di cibo e di oro. Gallego non avendo potuto incontrare il capo, decise di imprigionare gli indiani attraverso cui aveva comunicato con lui, e messili in catene, ne aggregò una quarantina agli Spagnoli come portatori. Alla notizia che a nord c’era l’oro che cercavano, de Soto decise di partire, lasciando un centinaio di uomini alla base, che aveva nominato Porto dello Spirito Santo, e mandando indietro le navi perché andassero a Cuba a prendere altri rifornimenti; organizzate le retrovie, raggiunse Gallego, e con tutti gli uomini si mise in viaggio verso nord per Ocala. Lungo la strada la spedizione trovò altri piccoli villaggi abbandonati dagli indiani al loro arrivo, fino al fiume Withlacoochee, oltre il quale si trovava il grande villaggio di Ocala; gli Ocala che anni prima avevano accolto pacificamente Narvaez, questa volta si mostrarono meno disponibili, preferendo anche loro abbandonare il villaggio: tre indiani che erano stati lasciati indietro a spiare gli Spagnoli furono catturati, poi mentre gli Spagnoli si fermavano al villaggio, facendo provvista di mais dai campi degli indiani, gli Ocala li attaccarono, uccidendo tre uomini. Comunque neanche a Ocala c’era traccia d’oro, ma uno degli indiani catturati, disse a de Soto che l’oro l’avrebbero certo trovato, a sette giorni di viaggio in direzione nord, nella terra degli Appalachee: de Soto ovviamente ci credette, forse senza sapere che anni prima Narvaez aveva inseguito la stessa illusione. Lasciato il grosso degli uomini a Ocala, al comando di Luis de Moscoso, il 12 di agosto de Soto con un centinaio di uomini mosse a nord, passando per i villaggi deserti di Ytara, Potano e Utiname, nella terra della tribù dei Potano, fino ad un luogo che gli Spagnoli chiamarono Mala Paz (Luogo Cattivo), probabilmente nella terra dei Timucua veri e propri; qui un capo di nome Agualacaylequen si presentò pacificamente per richiedere la liberazione di una trentina di indiani che gli Spagnoli avevano catturato durante il viaggio. De Soto non ebbe problemi a liberare gli indiani, ma tenne il capo come ostaggio, per garantirsi la sicurezza del viaggio; era questa la prassi ordinaria, che aveva già dato frutti in Perù, quando con il solo imprigionare un capo, si teneva in scacco un popolo. Sicuro di non subire attacchi, raggiunse il villaggio di Cholupaya, dove si rifornì di mais, per poi arrivare al villaggio di Caliquen, il centro principale dei Timucua, dove gli indiani gli narrarono dell’arrivo di Narvaez nella terra degli Appalachee, e di come essi avevano costruito navi per abbandonarla, non avendovi trovato ciò che cercavano. La notizia che neanche ad Appalachee c’era l’oro, lasciò nello scoramento i soldati, che ormai da tre mesi avanzavano faticosamentre tra foreste e paludi, con poco cibo e sempre sotto la pressione dell’ostilità degli indiani, ma de Soto non si diede per vinto e richiamati gli uomini che erano rimasto a Ocala, attese che arrivassero a Caliquen, per raggiungere insieme Appalachee; a Ocala intanto gli Spagnoli esauriti i viveri, si erano riforniti razziando i villaggi dell’interno e scontrandosi con gli indiani Acuera. Riuniti gli uomini, il 10 settembre de Soto si muoveva, deciso a rinunciare all’impresa solo dopo aver visto con i propri occhi la terra di Appalachee. Ripartiti in direzione nord-ovest portando con loro il capo dei Timucua, gli Spagnoli raggiunsero il villaggio di Napituco tre giorni dopo, dove gli indiani si presentarono numerosi chiedendo la liberazione del loro capo; la richiesta era fatta in modo pacifico, ma Juan Ortiz era venuto a conoscenza della loro volontà di attaccare gli Spagnoli, e quando de Soto ne fu informato, fece nascondere una parte degli uomini nelle capanne del villaggio, lasciando che circa 400 indiani si avvicinassero senza sospetti, prima di attaccarli all’improvviso; la battaglia di Napituco fu disastrosa per gli indiani, che in campo aperto non potevano competere con la cavalleria, e quindi cercarono rifugio in un lago nelle vicinanze, dove vennero circondati, avendo come sola possibilità di scampo quella di nuotare fin dove gli Spagnoli non
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potevano raggiungerli. Alla fine stanchi e infreddoliti, gli indiani furono costretti ad accogliere l’appello di Juan Ortiz, che li invitava ad arrendersi per aver salva la vita; quando però si resero conto che il loro destino era quello di finire servi degli Spagnoli, la disperazione li spinse ad una rabbiosa rivolta, aggredendo corpo a corpo e a mani nude gli Spagnoli che gli erano vicini. La rivolta fu domata a fatica e lo stesso de Soto fu ferito al volto: poi tutti, salvo alcuni giovani che potevano essere utili come portatori, furono legati ai pali del villag- La marcia Hernando de Soto attraverso le paludi e le foreste della Florida gio e trafitti da frecce. L’ordine di compiere l’esecuzione fu assegnato agli indiani sequestrati a Paracoxi, forse per essere sicuri della loro fedeltà. Dopo la battaglia di Napituco, il 23 settembre gli Spagnoli si rimisero in viaggio, attraversarono il fiume Suwanee, ed entrarono nella terra degli Yustaga, alleati dei Timucua, e che forse li avevano sostenuti nella battaglia: gli Spagnoli continuavano a viaggiare attraverso terre e villaggi abbandonati, circondati dall’ostilità degli indiani che in piccoli gruppi seguivano la spedizione, uccidendo se potevano chi rimaneva isolato. A Uzachili, il principale villaggio degli Yustaga, anch’esso deserto, due contingenti di soldati furono inviati nei dintorni a rifornirsi di servi e portatori e a duecento fra uomini e donne, fu messo il collare di ferro e le catene ai piedi e caricati di pesi, fin quando la fame, la fatica e gli stenti non li ammazzavano, o se fortunati, riuscivano in qualche modo a fuggire, magari con le catene ai piedi. Al primo di ottobre gli Spagnoli giunsero al fiume Aucilla, oltre il quale iniziava la terra degli Appalachee, fermandosi al villaggio di Ivitachuco, che gli indiani avevano bruciato, prima di attaccare gli Spagnoli e poi ritirarsi nei boschi. Nel territorio Appalachee la tappa successiva fu il villaggio di Uzela il 5 ottobre e finalmente il 6 di ottobre, entrarono ad Anhaica, la capitale della tribù, un grande centro politico e religioso, situato nel luogo ove oggi sorge Tallahasse, la capitale della Florida. Come era già successo a Narvaez, de Soto non trovò traccia d’oro in quello che era il principale centro della regione, con più di 250 tra abitazioni, templi e altri edifici; dalle ricerche archeologiche sembra che ad Anhaico mancassero i caratteristici mounds su cui erano edificati templi, e forse ciò può significare che l’insediamento era piuttosto recente, fatto che potrebbe essere confermata dal fatto che di questa città non si fa menzione, nella cronaca della spedizione di Narvaez. Comunque l’inverno ormai alle porte, imponeva a de Soto di fermarsi, e il grande villaggio abbandonato, con le abitazioni e i magazzini stracolmi di mais, zucche e fagioli, era il luogo giusto per svernare. Da Anhaica, che venne a sapere era a dieci leghe (40 km) dal mare, de Soto inviò un gruppo di uomini alla costa, dove essi trovarono i crani e le ossa dei cavalli macellati dagli uomini di Narvaez, avendo così conferma della verità di quanto detto loro dagli indiani, sulla fine di coloro che l’avevano preceduto. Neanche questo scoraggiò de Soto che subito riorganizzò la spedizione per essere pronto a ripartire a primavera: inviato un suo luogotenente a Tampa Bay, dove c’erano un centinaio di uomini e le navi che tenevano i collegamenti con Cuba, ordinò loro di raggiungerli ad Appalachee, mentre costruita una grande piroga, e mandava trenta uomini ben armati a navigare lungo la costa, per avvistare l’arrivo
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delle navi. Lungo la via gli indiani attaccarono gli uomini che venivano da Tampa Bay a piedi, facendo perdere loro parte delle scorte che portavano, e anche quelli sulla piroga che navigavano lungo la costa, dovettero più volte difendersi. Poi fu la volta della stessa Anhaica, che il 29 novembre fu incendiata dagli indiani che la circondavano stringendola d’assedio, e uccidendo chiunque L’itinerario della spedizione di Hernando de Soto, attraverso la Florida si allontanava da solo. Alla fine di dicembre i brigantini che de Soto attendeva erano giunti, e inviato un suo ufficiale alla ricerca di un luogo adatto all’approdo, questi individuò la baia di Ochuse (Pesancola), 60 leghe (240 km) a ovest, come il luogo in cui far giungere altri rifornimenti l’anno successivo, dopo aver ulteriormente esplorato la regione. Di oro non se ne era trovato, ma la speranza era rinata quando un giovane indiano di nome Perico, catturato nella regione, ma originaria di una terra più a nord, aveva fatto un racconto così dettagliato e credibile, che tutti avevano preso fiducia: l’oro era nell’interno, sui monti, in una terra ricca e governata da una grande regina. Circondati dagli indiani, lontani da ogni luogo conosciuto, gli Spagnoli passarono i mesi di gennaio e febbraio 1540, sognando quell’oro di cui ancora non s’era vista traccia, e preparandosi ad entrare nell’interno del continente, come nessuno aveva fatto prima d’allora.
Il Figlio del Sole La permanenza ad Anhaica durante l’inverno 1539-1540, aveva forse ritemprato le forze dei quasi 600 Spagnoli al seguito di Hernando de Soto, ma c’è da chiedersi quale fossero le loro aspettative, quando all’inizio di marzo del 1540 essi ripresero la via del nord, verso una terra ignota, senza altra guida di quella di un giovane indiano prigioniero, che aveva parlato loro della terra di Yupaha, dove finalmente avrebbero trovato l’oro, che era la ragione prima per cui in tanti si erano aggregati all’impresa. La prima tappa dopo la partenza da Anhaico, non offriva novità, e dopo quattro giorni di cammino e il superamento di un grande fiume, quasi certamente il Flint, nella Georgia sud-occidentale, raggiungevano il villaggio di Copachiqui, come al solito deserto e con gli abitanti in fuga al loro arrivo, ma non così timorosi da non attaccarli, quando se ne presentò l’occasione, uccidendo uno Spagnolo e ferendone diversi. Evidentemente gli abitanti Copachiqui, dovevano essere in contatto con le tribù che vivevano più a sud, ed informate sull’arrivo degli invasori, s’erano preparati ad accoglierli; non è chiaro a quale tribù appartenessero gli abitanti di Copachiqui, se fossero affini agli Apalachee o ai Timucua, e una delle ipotesi è che essi fossero riconducibili ai Caparraz, una piccola tribù quasi sconosciuta, il cui nome è ricordato nei registri delle missioni spagnole in Florida, e estintasi prima della fine del ‘600. Comunque continuando il viaggio verso nord, e entrando in terre abitate da genti diverse dagli indiani della Florida, gli Spagnoli potevano almeno contare sull’effetto di sorpresa e di timore che poteva imporre l’arrivo di una armata di 600 uomini, vestiti in modo mai visto, con armature di metallo, armi
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sconosciute e i temuti cavalli che intimorivano gli indiani; il capo di una simile meravigliosa armata, poteva certo vantare un’ascendenza divina, e così de Soto divenne il Figlio del Sole. Di fatto da questo momento la strategia di de Soto nell’incontro con gli indiani cambia, e più che puntare brutalmente ad imporsi con la violenza su di loro, egli cerca di ottenerne l’accoglienza sottomessa e reverente, che si deve ad un Figlio del Sole, proveniente dalle terre in cui il Sole nasce, e giunto in terra a visitare e giudicare gli umani, e a punire quanti non si adeguavano prontamente ai suoi voleri. Che gli indiani fossero convinti o meno di trovarsi davanti al Figlio del Sole è forse discutibile, sta di fatto che 600 uomini in armi, e gli sconosciuti e temuti cavalli, erano comunque una buona ragione per dare al Figlio del Sole il beneficio del dubbio; l’operazione funzionò e a differenza di quanto era accaduto in Florida, gli indiani piuttosto che fuggire all’arrivo dei bianchi, il più delle volte si preparavano ad accoglierli con discorsi di benvenuto, e disponibilità ad offrire quanto di cui necessitavano: cibo, portatori e soprattutto notizie sulla ricca terra posta a settentrione che era la loro metà. Dopo il villaggio di Copachiqui, il viaggio proseguì per diversi giorni in direzione nord-est, nel cuore dell’attuale Georgia, fino a quando il 23 di marzo fu avvistato il villaggio di Toa, probabilmente abitato dalla tribù Muskogean dei Tamathly. Gli Spagnoli notarono che le capanne erano diverse da quelle della Florida, più adatte a sopportare i mesi invernali, con tetti di canne intrecciate e pareti di rami, ma intonacate con fango e argilla all’interno e all’esterno; gli indiani di Toa non opposero alcuna resistenza e accolsero gli Spagnoli che si fermarono tre giorni, appropriandosi di tutto ciò di cui necessitavano, ma riducendo al minimo le vessazioni. A pochi giorni da Toa, era il villaggio di Ochise, parte del dominio di Ocute, che esercitava la sua influenza nel cuore della Georgia, tra fiumi Ocmulgee e Oconee, ed era abitato da Muskogean del gruppo Hitchiti, tribù che in tempi storici saranno conosciuti come Lower Creek. Gli abitanti del villaggio di Ochise all’arrivo degli Spagnoli, furono presi dal panico e fuggirono tra i boschi, ma quando de Soto attraverso Perico e altri interpreti chiamò il capo, questi si presentò facendo immediatamente atto di sottomissione al Figlio del Sole; da Ochise la notizia dell’arrivo degli Spagnoli fu inviata a tutta la regione, e la spedizione potè proseguire, accolta nel timore reverenziale, attraverso i villaggi di Altamaha, Ocute e Cofaqui. De Soto si mostrava ai capi che l’omaggiavano con autoritario paternalismo, disponibile a blandire con piccoli regali, ma pronto a punire ogni tentativo di opporsi alla sua volontà, e con questa modalità la permanenza nel dominio di Ocute non produsse problemi. Dal capo di Ocute, de Soto cercava notizie sulla terra di Yupaha, la loro metà che doveva essere ormai vicina, ma le notizie che ebbe non furono incoraggianti: a nord-est, la dove doveva essere Yupaha, c’erano solo foreste disabitate, e della gente che abitava oltre quelle foreste, il capo di Ocute sapeva poco, anche perché i pochi rapporti che c’erano stati non erano amichevoli; fu comunque in quell’occasione che de Soto sentì per la prima volta parlare del grande dominio di Coosa, posto a nord-ovest di Ocute, che era il più ricco e potente di tutta la regione, e il cui potere si estendeva su decine di villaggi. De Soto volle comunque fidarsi di Perico, la sua guida indiana, quindi ottenuti rifornimenti per quattro giorni, il tempo che secondo Perico li separava dalla metà, e presi con se 700 portatori indiani messi a disposizione dal capo di Ocute, alla metà di aprile riprese il viaggio, superando il corso di due fiumi, uno dei quali era sicuramente era il Savannah, e inoltrandosi nell’attuale South Carolina. Per nove giorni gli Spagnoli avanzarono nelle selvagge foreste, senza incontrare ne villaggi, ne indiani a cui chiedere informazioni, poi ormai ridotti alla fame, obbligati a mandare indietro i portatori che non potevano più sfamare, gli Spagnoli erano giunti all’esasperazione, e lo stesso de Soto minacciò Perico di darlo in pasto ai cani; il ragazzo disperato ammise, che non sapeva dove si trovavano, e solo l’intervento dell’altro interprete, Juan Ortiz, lo salvò dalla rabbia del comandante. Un consiglio fu tenuto, e a chi proponeva di rinunciare e tornare indietro, de Soto fece presente che i viveri non sarebbero bastati per tornare a Ocute, spiegando poi che se fossero tornati indietro sconfitti, il minimo che si potevano attendere, era di essere attaccati dagli indiani, a cui s’erano mostrati come invincibili divinità: non c’era scelta, dovevano andare avanti. Fatto campo la dove erano arrivati, quattro gruppi di cavalieri furono inviati in diverse direzioni in cerca di un villaggio in cui trovare almeno un po’ di mais; finalmente il 26 di aprile, Juan de Anasco tornò con la notizia di un piccolo villaggio chiamato Amay, a dodici leghe di distanza. Al villaggio trovarono scorte di mais, carne e solo quattro indiani che catturarono e a cui chiesero informazioni su altri centri nella regione: dopo che il primo ad essere interpellato fu bruciato vivo, per aver detto di non sapere nulla, il secondo disse loro che erano nel dominio di Cofichatequi, a cui capo c’era una regina, così come aveva narrato Perico: gli Spagnoli erano finalmente giunti alla meta. Il dominio di Cofitachequi si estendeva su gran parte dell’attuale South Carolina, una regione abitata
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in tempi storici da tribù di lingua Siouan, anche se gli studiosi sono abitualmente concordi nel ritenere che le genti di Cofitachequi fossero di lingua Muskogean, affini a quelle che vivevano più a sud. L’occupazione di quelle terre da parte dei Muskogean, sembra essere stata piuttosto recente, probabilmente nel corso del XIV secolo, ad opera di un gruppo di emigranti e colonizzatori che, forti di un modello sociale ed economico più complesso ed avanzato, si erano insediati tra popoli di lingua Siouan, imponendo la loro egemonia politica, che si sostanziava di fatto nella raccolta di tributi in natura, dai popoli vicini. Il cuore del dominio di Cofitachequi era rappresentato dal principale villaggio e centro religioso, lungo il fiume Wateree, a monte della confluenza con il Congaree, e da un certo numero di villaggi satellite, come Amay, ma l’autorità della “regina” di Cofitachequi si estendeva fin sulla costa, tra le tribù Siouan incontrate da Vasquez de Ayllon, e lo stesso Francisco de Chicora aveva narrato di un grande “regno”, a cui la sua gente pagava tributo. Cofitachequi era quindi un avamposto isolato dei Popoli del Mississipi, di esso si hanno notizie fin verso il 1670, quando era ormai in stato di decadenza, e scompare dalle cronache dall’inizio del ‘700, quando nella località dove sorgeva la capitale di Cofitachequi, risiedeva solo la piccola tribù dei Congaree, che pare parlasse una lingua diversa dal Siouan, e che poco tempo dopo veniva assimilata dai popoli limitrofi. Dopo l’arrivo degli Spagnoli ad Amay, la notizia del loro avanzare raggiunse la capitale di Cofitachequi, e da li la “regina”, o forse sua sorella, partì con tutto il suo seguito a bordo di canoe, per andare ad incontrare gli invasori, e offrire loro amicizie e alleanza; quando l’incontro avvenne, la “regina” fece dono a de Soto di una ricca collana di perle di fiume, confermando gli Spagnoli nella loro speranza di essere giunti finalmente nella terra di ricchezze che agognavano. Gli Spagnoli si installarono a Cofitachequi appropriandosi come al solito delle scorte di mais e altro cibo, ma alla richiesta di oro o di argento l’unica cosa che la “regina” potè offrire loro, furono pochi oggetti e monili di rame, che per gli indiani avevano un grande valore. Tra gli indiani furono rinvenuti alcuni oggetti di fabbricazione europea, e ebbero notizia di una epidemia che aveva falcidiato la popolazione, lasciti evidenti del passaggio di Vasquez de Ayllon sulla vicina costa. Di fronte all’ennesima delusione, la gran parte degli Spagnoli era decisa a fermarsi: la terra che avevano raggiunto era ricca e bella, il clima era buono, gli indiani erano sottomessi e avrebbero potuto essere sottoposti al sistema dell’econcomendias e lavorare per gli Spagnoli; in più, una colonia lungo la costa avrebbe potuto divenire un’importante tappa per i convogli navali che collegavano i Caraibi e la Spagna, permettendo così ricchi commerci. Dopo un anno di peregrinazioni, la speranza di trovare oro e ricchezze si era ormai ridotta al lumicino, ma de Soto, che aveva ancora il ricordo dell’impero dorato del Perù, la pensava diversamente: ricordò ai suoi uomini l’appuntamento che essi avevano con la flotta di rifornimenti ad Ochuse, disse loro che se non si fosse trovato di meglio avrebbero sempre potuto tornare in quelle terre; poi dato che era lui che comandava, dopo aver ascoltato tutti, decise che la spedizione sarebbe continuata, inoltrandosi ancora più verso l’interno e i monti, verso il grande dominio di Coosa, di cui anche la regina di Cofitachequi aveva confermato l’esistenza. Il 3 di maggio, esaurite le scorte di cibo a Cofitachequi, i 600 uomini della spedizioni ripartivano in direzione nord, per rifornirsi presso altri villaggi, prima di puntare verso i monti dell’interno; con loro portavano la regina di Cofitachequi, e alcune donne del suo seguito che la servivano. De Soto non voleva avere problemi con gli indiani che avrebbe incontrato, e la presenza di un ostaggio importante, avrebbe garantito una L’incontro tra Hernando de Soto e la “regina” Cofichatequi
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Ricostruzione del sito di Etowah, nel nord della Georgia probabilmente la capitale di Coosa visitata da Hermando de Soto
buona accoglienza nei villaggi nella regione. A Talimeco e Ilasi, ad un ordine della regina di Cofitachequi, gli abitanti portarono agli Spagnoli tutto ciò di cui disponevano, poi la spedizione volse a nordovest, raggiungendo la terra di Chalaqui, sulle pendici dei monti Appalachee. Chalaqui era la terra dei Cherokee, una tribù di lingua Iroquaian, che avrebbe svolto un ruolo da protagonista nei secoli successivi, ma che all’epoca era solo un gruppo minore di montanari, che viveva principalmente di caccia, praticando poco l’agricoltura e subendo l’egemonia dei potentati Muskogean della regione; a Chalaqui gli Spagnoli trovarono poco mais, e genti più selvagge di quelle di Cofitachequi, quindi continuarono a inoltrarsi fra i monti, fino a Xuala, abitata dalla tribù Siouan dei Cheraw. A Xuala la regina di Coficatachequi riuscì a fuggire, allontanandosi con la scusa di dover fare i propri bisogni, ma gli Spagnoli proseguirono anche senza di lei, dato che ormai erano giunti fuori dalle sue terre; dopo Xuala, c’erano i villaggi di Guaxile e Canasagua, probabilmente abitati dalla stessa tribù, attraversati senza problemi, dato che ormai gli indiani attendevano il passaggio del “divino” personaggio con timore, ma pronti a soddisfare ogni sua richiesta. La regione comunque era povera e montuosa, il mais scarso e il percorso difficile metteva a dura prova la resistenza dei cavalli, per cui attraverso messaggeri indiani, de Soto ordinò al capo di Chiaia, il villaggio più vicino, di mandargli incontro le provviste di cui aveva necessità. Ai primi di luglio i monti erano superati, e gli Spagnoli discendevano il corso del fiume Little Tennessee per raggiungere il 5 del mese, il villaggio di Chiaia, abitato dalla omonima tribù Muskogean, che era l’insediamento più settentrionale del dominio di Coosa. Il nome di Coosa compare con continuità nella storia degli indiani del sud-est dai tempi di de Soto, fino alla prima metà dell’800, quando indica uno principali gruppi della tribù dei Muskogee, anche nota come Upper Creek. Gli Upper Creek erano il gruppo principale della potente confederazione politicoreligiosa dei Creek, che raccoglieva, oltre ai Muskogee veri e propri, diverse tribù Muskogean della regione, i Koasati, i Tuskegee, i Chiaia, e le tribù che vivevano più a sud, gli Hitchiti, gli Oconee, gli Okmulgee, gli Appalachicola, i Sawoklee, tutte note come Lower Creek, e altre ancora che si unirono nel corso dei secoli. Questa importante confederazione, che per secoli svolse un ruolo centrale nelle vicende storiche della regione, ha evidentemente radici nel potentato di Coosa, visitato da de Soto, e avendo avuto origine probabilmente nel XII o XIII secolo, rappresenta la più longeva struttura politica degli indiani d’America. A Chiaia gli Spagnoli trovarono abbondanza di cibo, e fecero la conoscenza con il burro d’arachidi, poterono far pascolare i cavalli, ma neanche li trovarono oro o ricchezze, ne ebbero alcuna notizia su un luogo in cui trovarne; i monti Appalachee che potevano forse offrire risorse aurifere, erano stati raggiunti, ma nessuna traccia di giacimenti era stata trovata: in realtà l’oro c’era, e proprio nelle terre di Coosa, ma verrà scoperto solo intorno al 1830, e fu la causa della definitiva cacciata degli indiani dalla
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regione. A quel punto agli Spagnoli non rimaneva che puntare a sud, verso la capitale di Coosa, e poi ancora oltre, alla Baia di Ochuse, sulla costa del Golfo del Messico, dove per l’estate successiva aveva dato appuntamento alla flotta con i rifornimenti. La loro situazione era evidentemente precaria, circondati da migliaia di indiani, lontani da ogni possibile soccorso, essi dipendevano in buona misura dal rispetto che riuscivano ad imporre presentandosi come semidei, una favola che si sarebbe immediatamente dissolta qualora, per un qualsiasi incidente, un singolo Spagnolo fosse stato ucciso da un indiano. Al villaggio di Coste, a valle di Chiaia sul Little Tennessee, abitato dalla tribù Muskogean dei Koasati, l’incidente stava per prodursi quando alcuni Spagnoli ebbero una violenta discussione con un gruppo di indiani, mentre de Soto era impegnato a parlare con il capo; gli Spagnoli erano in minor numero e avrebbero potuto essere sopraffatti, e de Soto fu costretto a brandire un bastone e intervenire contro i suoi stessi uomini, per assicurare gli indiani della sua superiore autorità; poi con uno stratagemma accompagnò il capo presso il suo accampamento e lo prese come ostaggio, per stare più sicuro. Mentre era a Coste, ritornò un gruppo di uomini inviati presso il villaggio di Chisca, oltre le Smoky Mountans, lungo il corso del fiume Holston, abitato dagli Yuchi, un popolo di lingua diversa dai Muskogean; da lì secondo alcune informazioni avute dagli indiani, giungevano oggetti Così si mostrava in pubblico il capo di Coosa di metallo, sicuramente di rame, e forse d’oro, ma anche questa volta giunse una delusione, e Chisca, era solo un altro villaggio agricolo, con i suoi mounds e i suoi templi, oltretutto difficilmente raggiungibile a causa delle Smoky Mountains, difficili da valicare per i cavalli; gli uomini tornati da Chisca portavano con loro una strana pelle di bue, in parte coperta da un vello come quello delle pecore: si trattava di una pelle di bisonte, animali che a quell’epoca erano stati visti solo da Cabeza de Vaca e dai suoi compagni, dopo essere naufragati sulle coste del Texas. Il viaggio comunque proseguì in di direzione di Coosa, attraversando altri villaggi, fino a Tasqui, abitata dagli indiani Tuskegee, e poi finalmente a Coosa, dove arrivò l’ennesima delusione: la capitale del potentato di Coosa non era una vera e propria città, ma un grande centro cerimoniale, circondato da un gran numero di comunità agricole satellite; di oro, neanche a parlarne. Comunque la regione era ricca e popolata, i campi coltivati si estendevano da un villaggio all’altro, i magazzini erano stipati di mais e altro cibo, e l’accoglienza del grande capo del potentato di Coosa era stata amichevole e disponibile, anche se gli Spagnoli avevano ordinato agli indiani di lasciare le loro abitazioni, perché fossero occupate da loro. Gli Spagnoli che erano giunti alla fine di luglio si trattennero a Coosa fino al 20 agosto, tempo durante il quale il loro comportamenti fecero dubitare gli indiani di essere di fronte a esseri soprannaturali; durante la permanenza, de Soto venne a conoscenza di un altro grande capo, di nome Tascaloosa, che dominava le terre e i villaggi a sud-ovest, lungo la strada che gli Spagnoli dovevano fare per tornare alla costa. Al momento della partenza de Soto comunicò al capo di Coosa che egli l’avrebbe dovuto accompagnare, insieme ai portatori necessari, almeno fino a quando non fossero giunti da Tascaloosa; alla notizia che il loro capo era trattenuto in ostaggio, gli indiani lasciarono i villaggi, fuggendo nei boschi, ma de Soto inviò gruppi di cavalieri a rastrellare la regione, che riportarono indietro centinaia di indiani, tratti in catene e costretti a seguire la spedizione. Dopo Coosa gli Spagnoli ricominciarono a trovare davanti a loro villaggi abbandonati e indiani in fuga, poi al villaggio fortificato di Hoolivaly, incontrarono un folto gruppo di indiani in armi, pronti a tentare la liberazione del loro capo, qualora questi l’avesse ordinato loro; la battaglia non ci fu probabilmente perché il capo ritenne opportuno evitare un sanguinoso scontro, il cui esito era almeno incerto. Nel frattempo, dopo aver attraversato una regione scarsamente popolata, erano giunti al villaggio di Talise, oc-
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cupato dagli indiani Tawasa, il cui capo era vassallo di Tascaloosa, che venne a rendere omaggio agli Spagnoli, portando il benvenuto del suo capo e offrendo rifornimenti e portatori; a quel punto de Soto rilasciò gli indiani di Coosa e il loro capo, sicuro di poter continuare il suo viaggio attraverso le terre di Tascaloosa. L’obbiettivo era ormai raggiungere la Baia di Ochuse (Pesancola), attendere le navi con i rifornimenti e organizzare una colonia stabile, che potesse essere base per la conquista delle terre esplorate: a questo scopo, in uno dei villaggi attraversati di recente, de Soto avevo preso 30 donne, perché potessero essere divise tra i suoi uomini, e dopo essere state battezzate, divenire le loro legittime mogli. Era quasi la fine di settembre del 1540, L’itinerario di Hernando de Soto tra il marzo e il settembre del 1540 erano passati sedici mesi da quando erano approdati in Florida e mai nessuno s’era trattenuto così tanto in quelle terre, esplorandole fin nelle regioni interne, ottenendo la sottomissione pacifica di gran parte dei popoli che aveva incontrato, perdendo un numero di uomini limitato. Non era il Perù degli Inca quella terra, e non c’era oro da raccogliere a piene mani, ma una terra ricca e popolata era davanti a lui, lui l’aveva esplorata e avrebbe potuto vantare diritti di conquista: doveva solo raggiungere la costa e porre un limite all’impresa eccezionale che aveva compiuto, riorganizzarsi e poi ripartire: ma le cose non andarono così.
Sangue e fuoco a Mabila Tascalusa è il primo importante capo indiano che si affaccia alla Storia, e il primo grande oppositore e antagonista dei piani di conquista e degli invasori Europei; è probabile che egli appartenesse alla tribù Muskogean dei Tohome o a quella dei Mobile, che all’epoca e fino a tutto il ‘600, occupavano gran parte dell’Alabama centro-meridionale, ma che al tempo della espansione francese e spagnola nell’area, ave-
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vano di molto ridotto la loro importanza, e nel corso del XVIII secolo, sarebbero del tutto scomparse. Al tempo dell’incontro tra Hernando de Soto e Tascalusa, la regione e le tribù che l’abitavano erano parte di un grande potentato, il cui principale centro cerimoniale era nell’attuale sito di Moundville, nei pressi della città di Tuscaloosa, il secondo per estensione tra centri cerimoniali dei Popoli del Mississipi, dopo Cahokia; Moundville fu attivo tra l’XI e il XVI secolo, andando in decadenza dopo il passaggio degli Spagnoli nella regione. Tascalusa viene raccontato dai testimoni della vicenda di Hernando de Soto, come un uomo di grande statura e prestanza fisica, che si presenta agli Spagnoli circonTarga che illustra l’incontra tra Hernando de Soto e il capo Tascalusa dato da dignitari, seduto su cuscini nella sua dimora, mentre i servitori lo proteggono dal sole, con una sorta di ventaglio fatto di pelle di cervo; non era certo un anziano, ma un capo nell’età in cui si mantiene la forza e la determinazione della giovinezza, insieme alla misura e la prudenza della maturità. Come i capi che l’avevano preceduto, quando incontrò de Soto, anche lui si presentò rispettoso e disponibile, pur mantenendo un atteggiamento di orgogliosa dignità; dal villaggio in cui si trovava e in cui l’incontro era avvenuto, Tascalusa accompagnò gli Spagnoli, di sua spontanea volontà, sicuramente desideroso di capire, chi erano quegli uomini o dei, con i loro animali sconosciuti e le loro temibili armi. Poi giunto al villaggio di Piache, sul medio corso del fiume Alabama, accadde un incidente che probabilmente lo indusse a riflettere: uno Spagnolo, allontanatosi alla ricerca di una schiava indiana fuggita, era scomparso, forse disperso, ucciso o fatto prigioniero; de Soto a quel punto disse a Tascalusa, che non sarebbe stato lasciato andare, fin quando lo Spagnolo non avesse fatto ritorno in buona salute. Fu a quel punto che Tascalusa si rese conto che la sua disponibilità, si stava trasformando in prigionia e così decise di cambiare atteggiamento. Disse a de Soto che avrebbe inviato messaggeri al vicino villaggio di Mabila, per preparare i rifornimenti di cui gli Spagnoli necessitavano, ma in realtà il messaggio reale che inviò ai suoi sottoposti, era quello di riunire tutti i guerrieri e prepararsi a tendere una trappola agli Spagnoli. Il 18 di ottobre gli Spagnoli raggiunsero il villaggio fortificato di Mabila, nei pressi della città di Selma in Alabama, dove vennero accolti dal locale cacicco con canti e suono di flauti, anche se uno Spagnolo che era giunto prima al villaggio, aveva avuto l’impressione che gli indiani non fossero ben disposti; Luis de Moscoso, luogotenente di de Soto, propose di non entrare nel villaggio, ma il comandante decise invece di entrare con una piccola scorta, perché era stanco di dormire all’aperto. Quando furono nel villaggio, Tascalusa disse a de Soto, che se voleva rimanere in buoni rapporti con lui, avrebbe dovuto rinunciare a portarlo con se, poi si ritirò in una capanna con i suoi dignitari, rifiutandosi di rispondere a de Soto che tentava di convincerlo, almeno a mettergli a disposizione dei portatori. La situazione già tesa, esplose quando Baltasar de Gallego tentò rudemente di prendere Tascalusa per il suo mantello, colpendolo quando questi si era liberato: gli indiani, nascosti nelle capanne vicine uscirono in armi, ferendo gli Spagnoli e costringendoli a fuggire dal villaggio, e poi inseguendoli fino a fuori, dove solo l’intervento della cavalleria, li obbligò a ritirarsi. Nel frattempo i portatori indiani che erano nei pressi della palizzata del villaggio, venivano liberati e anch’essi munitisi di archi si univano ai ribelli, mentre i loro carichi, venivano portati all’interno del villaggio: oltre alle scorte alimentari, c’erano abiti e altri oggetti di valore, le perle che erano tutte le ricchezze fino ad allora raccolte, i paramenti sacri dei religiosi, e addirittura parte delle armi, che alcuni soldati avevano lasciato portare agli indiani in catene, per risparmiarsi la fatica; due preti e un servitore di de Soto, erano rimasti nel villaggio, barricati all’interno di una capanna. Da dietro la palizzata gli indiani continuavano a bersagliare di frecce gli Spagnoli, che a quel punto si riorganizzarono per il contrattacco; divisi in quattro gruppi i suoi soldati, de Soto li lanciò all’assalto della palizzata, che dopo una accanita difesa, venne incendiata in un punto, dove gli Spagnoli riuscirono a sfondare, poi il combattimento proseguì accanito casa per casa, mentre l’intero villaggio andava a
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fuoco, e gli scontri si estendevano ai campi vicini, dove gli indiani fuggivano combattendo. Alla fine della giornata gli Spagnoli avevano vinto, un numero impreciso di indiani tra guerrieri, donne e bambini, era stato ucciso almeno un migliaio, forse migliaia, mentre gli Spagnoli ebbero alcune decine di morti, tra cui il fratello di de Soto, oltre 150 feriti, una parte dei quali morì nelle settimane successive; dei cavalli quasi la metà erano morti o feriti, mentre gran parte dei loro beni, compreso il piccolo tesoro di perle, era andato distrutto nell’incendio del villaggio. Alcuni Spagnoli che Mabila in fiamme dopo la battaglia erano andati ad abbeverarsi ad una vicina fonte, avevano dovuto rinunciarvi, avendola trovata l’acqua rossa di sangue. La battaglia di Mabila, vinta sul piano militare, era stata di fatto una sconfitta sul piano strategico, perchè cambiò l’esito della spedizione, e indebolì definitivamente gli Spagnoli. Dopo Mabila agli indiani della regione era ormai chiaro che quelli che si presentavano come divinità, erano solo uomini, uomini pericolosi, guerrieri audaci, crudeli e ben armati, ma uomini che una freccia poteva uccidere; fin dove le notizie della battaglia giunsero, gli Spagnoli erano ormai scoperti, e nessuno avrebbe più creduto alla favola del Figlio del Sole. Ma questa fu solo una delle gravi conseguenze della battaglia. De Soto si proponeva di giungere alla Baia di Ochute, dove avrebbe incontrato le navi con i rifornimenti, e inviato a Cuba le perle che aveva raccolto, come anticipo delle future ricchezze, insieme alle notizie sulla ricchezza delle terre, e sul successo da lui ottenuto nell’imporsi agli indiani, e sulla base di queste notizie, avrebbe chiesto l’invio di altri uomini alla nuova colonia. Dopo Mabila, non c’erano più perle da inviare, e le notizie che poteva dare sulle terre che aveva scoperto e sui suoi abitanti, erano tali, che difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto a seguirlo nella nuova colonia; senza contare il rischio che gli stessi suoi uomini potessero ammutinarsi e far ritorno a Cuba, dopo un anno e mezzo di inutili fatiche. Da alcuni indiani superstiti di Mabila, de Soto era venuto a sapere che le navi dei rifornimenti lo attendevano sulla costa, alla Baia di Ochuse, e questa notizia di cui erano al corrente solo lui, e l’interprete Juan Ortiz, fu tenuta segreta: de Soto piuttosto che tornare sconfitto, cambiò i suoi programmi, e invece di raggiungere le navi dei rifornimenti e stabilire una base sulla costa, decise che avrebbe continuato ad esplorare la terra sconosciuta, fin quando non avesse trovato l’unica cosa che avrebbe potuto farlo tornare vincitore: l’oro. Intanto però gli Spagnoli dovettero fermarsi nel villaggio devastato, in attesa che i feriti, tra cui c’era lo stesso de Soto, potessero essere in condizione di riprendere il cammino; la sosta obbligata durò un mese, fino al 18 di novembre, durante il quale gli Spagnoli si sostennero con il mais dei campi abbandonati dagli indiani; intanto il loro numero si era ridotto a meno di 500. Di nuovo la spedizione si mise in cammino, ma non più a sud, ma in direzione nord-ovest, senza una precisa meta, alla ricerca di una ragione, per dare un senso ad un’ impresa che appariva sempre più disperata. Dopo aver viaggiato per alcuni giorni, esaurendo le scorte di mais, gli Spagnoli raggiunsero un fiume, probabilmente il Black Warrior in Alabama, oltre il quale c’erano centinaia di indiani minacciosi intenzionati a impedire il guado; per passare de Soto fu costretto a costruire una piroga, caricarla di una trentina di uomini ben armati e inviarli a monte per colpire gli indiani alle spalle: gli indiani si accorsero della manovra e attaccarono gli Spagnoli, che però alla fine riuscirono ad attraversare il fiume, raggiungendo i villaggi sull’altra riva, dove poterono rifornirsi di mais. Gli abitanti di questa zona pochi decenni
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dopo saranno noti come Napochi, una tribù Muskogean di cui si hanno scarsissime conoscenze, ma nel cui territorio è il sito di Moundville, che è proprio sulla sponda sinistra del Black Warrior, e che quindi potrebbe essere uno dei villaggi abbandonati dagli indiani all’arrivo degli Spagnoli. La spedizione continuò a muovere in direzione nord-ovest, fino ad un altro fiume il Tongbigbee probabilmente, nel nord-est dello stato del Mississipi, dove ancora una volta gli Spagnoli trovarono ad attenderli sull’altra sponda gli indiani armati e ostili; questa volta de Soto tentò di aprire pacifiche trattative, ma l’uomo da lui inviato a parlamentare fu subito ucciso. In qualche modo gli Spagnoli riuscirono a proseguire fino al piccolo villaggio di Chickasa, non più di una decina di capanne, dove giunsero il 17 di dicembre; l’inverno era ormai arrivato e con esso le prime nevi, la regione che stavano attraversando era si popolata, ma non c’erano grandi villaggi, in cui trovare alloggio a tutti gli uomini della spedizione, per cui de Soto decise di fermarsi li dove erano, in attesa della buona stagione. Inviati alcuni cavalieri alla ricerca degli indiani, questi ne catturarono alcuni fra cui un alto dignitario locale, e attraverso di lui de Soto aprì relazioni con i capi delle tribù locali, sicuramente i Chickasaw, e un'altra che è chiamata Alibamu, esattamente come il popolo che nel ‘700 viveva nello stato dell’Alabama, e di cui non c’è alcuna menzione quando la spedizione attraversava la regione in cui essi avrebbero dovuto vivere: è quindi possibile che gli Alabama, storici vivessero nel ‘500, più a ovest. L’inverno passò tra tensioni e reciproche diffidenze, con de Soto impegnato ad ottenere rifornimenti dagli indiani, usando tutta la diplomazia possibile, facendo piccoli regali ai capi e invitandoli spesso al suo accampamento; quando alcuni Chickasaw rubarono dei maiali alla spedizione, egli li punì con severità, ma allo stesso modo si comportò quando quattro Spagnoli rubarono pelli agli indiani. Dopo l’esperienza di Mabila, de Soto voleva evitare incidenti con gli indiani, specialmente durante il difficile inverno, ma in marzo, quando la spedizione era pronta a rimettersi in movimento, la richiesta di portatori fece esplodere le tensioni. L’8 di marzo, alla richiesta di portatori il capo Chickasaw rispose che l’indomani avrebbe inviato gli uomini richiesti, ma de Soto si rese conto che l’ostilità cresceva fra gli indiani; al mattino dopo, prima dell’alba i Chickasaw provenienti da tutte le direzioni, attaccarono il villaggio, riuscendo a bruciare gran parte delle capanne. Gli Spagnoli presi alla sprovvista caddero nel panico, alcuni morirono nell’incendio, la maggior parte fuggiva come poteva, mentre i cavalli che non erano rimasti intrappolati nelle stalle, imbizzarriti fuggivano al galoppo. Forse fu proprio il galoppo dei cavalli a salvare in parte gli Spagnoli, perché nell’oscurità i Chickasaw temettero una carica di cavalleria e si ritirarono, lasciando quindi un varco per la fuga degli Spagnoli. Nell’attacco a Chickasa, e nella precipitosa fuga, gli Spagnoli subirono oltre a diversi morti e feriti, la perdita decine di cavalli, e soprattutto perdettero i pochi beni che erano scampati dall’incendio di Mabila; prima di riprendere il cammino gli Spagnoli dovettero fermarsi a poca distanza da Chicasa, per cercare di reintegrare almeno in parte gli equipaggiamenti persi, fabbricando lance e selle, rifacendo il filo alle spade, costruendo una rudimentale forgia. Il 15 marzo i terribili Chickasaw ancora una volta attaccarono gli Spagnoli, ma questa volta furono respinti. Nei due secoli successivi i Chickasaw continueranno ad impedire l’accesso agli Europei nelle loro terre, divenendo la spina nel fianco dei Francesi che costruivano il loro impero coloniale. La terra dei Chickasaw fu finalmente lasciata alle spalle il 25 aprile, ma ad attenderli c’erano L’itinerario di Hernando de Soto tra il settembre del 1540 gli Alibamu, che lungo la loro via avevano co- e il maggio 1541
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struito una fortificazione dietro cui attendevano gli Spagnoli. De Soto avrebbe potuto aggirare la posizione e procedere oltre, ma preoccupato che gli indiani potessero essere incoraggiati dal loro timore, e che li potessero attaccare di nuovo, magari con un improvviso agguato, decise di dare battaglia in campo aperto e attaccare la fortificazione: gli Alibamu si ritirarono lasciando tre morti sul terreno, poi attraversato un corso d’acqua dietro la fortificazione, continuarono a bersagliare gli Spagnoli di frecce; questi dal canto loro ebbero un gran numero di feriti, una quindicina dei quali morì successivamente, e non poterono neanche inseguire gli indiani, non trovando un guado per i cavalli. Dopo la battaglia contro gli Alibamu gli Spagnoli attraversarono un vasto territorio spopolato, oltre il quale sarebbero giunti nella terra di Quizquiz, dove avrebbero incontrato altri popoli ignoti, nel cuore del continente, giungendo fino alle sponde le grande fiume Mississipi, dove la loro epopea sarebbe continuata, ancora più drammatica: era ormai il maggio del 1541 e da due anni centinaia di uomini si muovevano attraverso una terra ignota, vagando per migliaia di chilometri, in mezzo a popoli sconosciuti. Erano stati una potente spedizione militare, s’erano presentati come Figli del Sole, avevano dovuto combattere contro nemici agguerriti, avevano perso più di un quarto degli uomini, quasi tutte le armi, i cavalli, gli abiti, ed erano ormai una torma di disperati, la cui unica forza era nella ferocia di cui erano capaci. A guidarli un uomo, la cui ostinazione era ormai più simile ad una lucida follia.
Il Grande Fiume La regione di Quizquiz raggiunta da de Soto, era quella corrispondente alla zona tra gli attuali stati del Mississipi, del Tennessee e dell’Arkansas, attraversata dal corso del Mississipi, che fa da confine ai tre stati; a quel tempo la regione era sede di popoli di lingua Tunican, anch’essi di cultura Mississipi, ma che probabilmente stavano vivendo già i primi elementi di una crisi, che da almeno un secolo stava colpendo i principali centri politici e religiosi dell’area più a nord, detta del Middle Mississipi. Era infatti almeno dalla metà del ‘300, che quest’area, che era stata il luogo d’origine della cultura Mississipi, vedeva l’abbandono di città e villaggi e il progressivo scomparire di tale cultura nelle zone più settentrionali. Cahokia nel sud dell’Illinois, che era stato il più grande centro politico e religioso del Nord America, veniva del tutto abbandonato e i suoi abitanti scompaiono nel mistero, stessa sorte per altri centri, mentre in altri casi i reperti archeologici fanno supporre che gli abitanti di molti villaggi, abbiano edificato nuovi centri più a sud. Tra le principali cause individuate per spiegare questa crisi, c’è il cambiamento climatico definito “piccola età del ghiaccio” che in tutto l’emisfero settentrionale portò ad una riduzione delle temperature, e che certo ebbe conseguenze gravi nelle zone più settentrionali, soprattutto per i popoli il cui modello di sussistenza era incentrato sull’agricoltura. L’area in cui giunse de Soto, che era posta più a sud, certo non dovette subire gravi conseguenze dai cali di temperature, ma probabilmente essa fu attraversata da tensioni politiche e conflitti, determinati da quanto accadeva poco più a nord, dove grandi entità politico religioso andavano in crisi, e diversi popoli si spostavano da un luogo all’altro. Ne possiamo escludere che almeno parte delle tribù Tunican incontrate da de Soto, fossero giunti nell’area da nord in tempi recenti, dato che almeno alcuni dei siti archeologici riconducibili a villaggi citati nelle cronache del viaggio di de Soto, non sono più antichi dell’inizio del ‘400. E’ quindi anche ipotizzabile che i popoli di quest’area avessero scarsi o nulli rapporti con le genti Muskogean con cui s’era scontrato de Soto, a Mabila, a Chickasa, e Alibamu. Questi elementi probabilmente spiegherebbero i due fattori che caratterizzano questa fase della spedizione, e cioè il ritorno di de Soto al ruolo di Figlio del Sole, di natura divina, e quindi l’accoglienza reverente e temuta tra i popoli che incontrava, e la conflittualità tra le diverse comunità di indiani, pur linguisticamente e culturalmente affini, su cui lo stesso de Soto potè giocare per imporsi nella regione. Infatti a differenza di quanto fino allora era accaduto, dove i diversi villaggi incontrati lungo il percorso erano tra loro in relazione, facevano capo a leadeship che governavano estesi territori, e accoglievano gli Spagnoli secondo un comune indirizzo, ostile, nella prima parte del viaggio in Florida, pacifico nella seconda, in Georgia e South Carolina, ancora una volta ostile tra Alabame e Mississipi, in questa zona sembra che le comunicazioni fra le comunità fossero minori, e che ogni gruppo vivesse più isolato. De Soto così ebbe più volte occasione di entrare di sorpresa in villaggi, che non avevano avuto informazione alcuna dai loro vicini sull’arrivo degli invasori, oppure si trovò svolgere il ruolo di mediatore tra comunità in conflitto, o ad agire al fianco di una tribù per colpirne un’altra. Evidentemente una crisi politica aveva dissolto ogni relazione tra popoli affini, e la guerra era la condizione endemica dell’area, e tale elemento sarebbe confermato, oltre che dalle caratteristiche dei villaggi, tutti fortificati, anche dai riscontri archeologici, che segnalano attività artigiane differenziate da sito a sito, segno di assenza di
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scambi e di isolamento tra le diverse comunità. A differenza di quanto si è fin qui fatto, cercando di ipotizzare una corrispondenza tra i nomi di villaggi riportati dalle cronache della spedizione, e le tribù storiche dell’epoca della colonizzazione, è impossibile in questo caso ipotizzare tali precise relazioni, dato che tra il viaggio di de Soto e le prime notizie precise sule tribù del basso Mississipi, risalenti alla fine del ‘600, tutta l’area vide traumatici cambiamenti, e i Tunican in particolare, furono scacciati dalle terre occupate al tempo di de Soto, dall’arrivo dei Quapaw, di lingua Siouan, provenienti dalla valle dell’Ohio, e anch’essi fuggitivi davanti all’espansione della Lega Iroquois, nella regione dei Grandi Laghi. Il lasso di tempo compreso tra la metà del XVI secolo e quella del XVII, fu un periodo di drammatici sconvolgimenti nella parte orientale del Nord America, e le tribu Tunican che al tempo di de Soto erano numerose, ricche e potenti, un secolo dopo erano ridotti ad una presenza debole e marginale, nella zona di confine tra gli attuali stati di Louisiana e Mississipi. Gli Spagnoli raggiunsero Quizquiz, nei pressi della sponda orientale del Mississipi, ai primi di maggio del 1541, e il loro arrivo fu improvviso e inaspettato, cosicchè tutti gli indiani furono presi prigionieri, prima ancora di capire cosa stava loro accadendo; dagli abitanti di Quizquiz, de Soto seppe che essi erano vassalli del potente capo di Aquixo, sull’altra sponda del fiume, la cui madre era fra i prigionieri di Quizquiz. Intenzionato ad evitare conflitti con gli indiani, de Soto rilasciò la madre del capo e gli altri prigionieri, inviandoli come messaggeri al capo di Aquixo, presentandosi come Figlio del Sole e invitandolo ad un incontro. Di li si mosse per raggiungere il Mississipi, dove si fermò diversi giorni, necessari per organizzare l’attraversamento del grande fiume con uomini e cavalli. Il giorno successivo al suo arrivo sul Mississipi, il capo di Aquixe si presentò accompagnato da decine di canoe colme di guerrieri, ornati di piume, con il volto e il corpo dipinto e gli archi già pronti a colpire; de Soto cercò di convincere il capo a sbarcare, sicuramente con l’obbiettivo di prenderlo come ostaggio, come già aveva fatto in altri casi, ma questi sospettoso, rifiutò di incontrarlo, e a quel punto si ebbero piccole scaramucce con gli indiani, che scendevano a terra per lanciare qualche freccia, ma risalivano sulle canoe, non appena gli Spagnoli avanzavano. Alla fine il capo e la sua gente si ritirarono ordinatamente, e agli Spagnoli non rimase che dedicarsi alla costruzione delle piroghe. Il trasbordo di tutta la spedizione sull’altro lato del Mississipi, con poche piroghe ricavate da grandi tronchi d’albero, fu piuttosto lungo e complesso e quando finalmente gli Spagnoli giunsero ad Aquixo, trovarono il villaggio deserto, e solo poche decine di indiani nei paraggi, che furono quasi tutti uccisi o presi prigionieri. Da Aquixo raggiunsero il villaggio di Casqui, posto poco più a nord, dove il capo lo accolse con deferenza, facendo atto di sottomissione, rifornendo gli Spagnoli di cibo e offrendo loro pelli pregiate; a Casqui de Soto seppe del villaggio di Pacaha, in guerra con Casqui e si mise in cammino con gli indiani per raggiungerlo. Prima di giungere a Pacaha, furono inviati messaggeri al capo del villaggio, assicurandolo, che il capo di Casqui non avrebbe fatto alcuna violenza agli abitanti di Pacaha, e che lui sarebbe stato accolto come un fratello da de Soto; il capo accolse con interesse le parole di de Soto, ma non fidandosi dei vicini, preferì abbandonare il villaggio con tutta la sua gente. De Soto entrò nel villaggio di Pacaha, fortificato come tutti quelli della regione, e prese possesso della casa del capo, mentre i suoi uomini avanzavano ad un villaggio minore dove presero prigionieri alcuni fuggitivi di Pacaha, salvadoli dagli indiani di Casqui che li volevano uccidere. Nel frattempo comunque, guerrieri di Casqui, che si muovevano lungo il fiume con le canoe, avevano trovato un gran numero di fuggitivi di Pa- Ricostruzione del sito di Nodena, in Arkansas, quasi certamente caha, per lo più donne e la Pacaha visitata da Hernando de Soto
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bambini, nascosti su una piccola isola, li avevano attaccati uccidendone molti, mentre altri annegavano cercando di fuggire a nuoto. Quando venne a sapere del fatto, de Soto ne fu profondamente contrariato, dato che l’atto degli indiani di Casqui, non solo aveva messo in discussione la sua autorità, ma rischiava di coinvolgere gli Spagnoli nei conflitti tribali degli indiani, cosa che poteva pregiudicare le ricerche che egli contava di fare nella regione alla ricerca dell’introvabile oro. Convocato a Pacaha il capo di Casqui, già si preparava ad attaccarlo, quando questi si presentò scusandosi per quanto era accaduto; nel frattempo era giunto anche il capo di Pacaha, e de Soto impose ai due di fare la pace. Un banchetto fu offerto per sugellare l’accordo, dopo il quale entrambi i capi offrirono le loro figlie in sposa al Figlio de Sole. La nuova terra in cui erano giunti era ricca e popolosa, almeno quanto il principato di Coosa, il cibo era abbondante, in particolare il pesce, e in tutti i villaggi vi era un gran numero di pelli pregiate, e durante i mesi successivi gli Spagnoli non ebbero da temere la fame, dato che dopo le piccole scaramucce con la gente di Aquixo, in ogni villaggio i capi facevano atto di sottomissione, alcuni convintamente, cercando di ottenere la benevolenza dei potenti forestieri e far di loro alleati nei conflitti tribali, altri solo per semplice timore, cercando di indurre gli Spagnoli a fermarsi il meno possibile. De Soto, dopo la vicenda di Pacaha, continuò ad esplorare la regione, cercando di trovare una qualche notizia che potesse riaprire la speranza di trovare in qualche modo l’oro, sia come gioielli presso qualche potente regno, sia come giacimenti. Nel corso delle esplorazioni egli si spinse a ovest vagando per l’attuale stato dell’Arkansas, superando le terre dei Tunican, e giungendo alla tribù dei Tula, bellicosi guerrieri di lingua Caddoan, che vivevano sul corso del fiume Arkansas, al confine con l’attuale Oklahoma; i Tula all’inizio si mostrarono ostili agli Spagnoli, ma quando alla fine de Soto riuscì a trovare il modo di comunicare con il loro capo, anch’essi preferirono evitare ulteriori conflitti con il “Figlio del Sole”. A differenza dei Tunican, i Tula, come le altre genti Caddoan, non vivevano in villaggi fortificati, ma in insediamenti estesi, composti da fattorie, l’una vicina all’altra, tutte facenti riferimento ai centri cerimoniali, dove erano le “plazas” per i riti collettivi, e le piramidi di terra con i templi e le case dei capi. Proprio nella zona visitata da de Soto, c’era il principale di tali centri cerimoniali, quello di Spiro Mound, abbandonato alla metà del ‘400, come altri insediamenti Mississipi nelle zone più settentrionali. I Tula incontrati da de Soto, erano certamente i discendenti degli indiani di Spiro Mound, che stavano già vivendo in una fase di decadenza, che successivamente avrebbe portato questi gruppi Caddoan ad abbandonare il basso corso del fiume Arkansas, anche se non è chiaro se essi si siano spostati a sud, per unirsi a gruppi affini come i Kaddoadache del Red River, o a ovest, per unirsi a una delle tribù Caddoan delle pianure (Pawnee, Wichita, Arikaree, Kichay). L’estate e l’autunno passarono così vagando senza una metà precisa, tra i tanti villaggi della ricca regione, poi quando giunse l’inverno e la neve, de Soto iniziò a fare ritorno a est fermandosi a svernare nel villaggio di Utiangue, sul fiume Arkansas presso le Ouachita Mountains. Durante quell’ultimo periodo il cibo era stato sufficiente, i cavalli rimasti erano tornati in buone condizioni, e gli indiani non erano stati ostili, ma ormai la spedizione era in viaggio da quasi tre anni, ed erano necessari rifornimenti, manutenzione per le armi e i finimenti dei cavalli, molti dei quali non avevano più i ferri, abiti per gli uomini che vestivano di pelli, e forse anche il Le esplorazioni di Hernando de Soto, a ovest del Mississipi
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desiderio di quei semplici piaceri, come un bicchiere di vino, a cui da tempo avevano dovuto rinunciare. Gli uomini erano comunque stanchi, non c’erano stati uccisi dagli indiani negli ultimi mesi, ma molti erano malati e quelli in grado di combattere erano meno di 300, una forza ancora notevole, ma che necessitava di essere integrata e rinnovata. Dell’oro non s’era trovata traccia, e anche se la terra poteva offrire grandi opportunità di ricchezza, era necessario riprendere i contatti con i possedimenti Spagnoli, e pianificare la costruzione di una vera e propria colonia. Durante l’inverno de Soto iniziò a cercare informazioni sulla distanza che separava quelle terre dal mare, la cui via era certo segnata dal grande fiume che scendeva a sud. L’inverno a Utiangue passò senza particolari incidenti, a parte qualche tensione con il capo locale, che ovviamente desiderava veder partire gli Spagnoli e riprendere possesso della sua casa e del suo villaggio; grave fu invece la morte per malattia dell’interprete Juan Ortiz, che era stato fino ad allora in grado di districarsi tra le tante lingue e dialetti degli indiani incontrati. Ai primi di marzo gli Spagnoli lasciarono Utiangue, per raggiungere il villaggio di Nilco, alla confluenza tra l’Arkansas e il Mississipi, dove contavano di organizzarsi per discendere il grande fiume. Giunti però a Nilco alla fine di marzo, de Soto invece di essere accolto dagli indiani, trovò il villaggio deserto e i suoi abitanti che intimoriti si erano trasferiti sull’altra sponda del fiume Arkansas; mentre meditava sulla possibilità di punire gli abitanti di Nilco, ricevette gli emissari del capo di Guachoyo, un villaggio più a sud, lungo il corso del Mississipi, che era in guerra con gli indiani di Nilco e veniva a proporsi come alleato e vassallo degli Spagnoli. De Soto decise quindi di traferirsi a Guachoye, dove contava di avere informazioni sul viaggio che intendeva compiere per raggiungere la costa; dagli abitanti di Guachoye venne quindi a sapere dell’esistenza della terra di Quigualtam, più a sud sulla sponda orientale del Mississipi, governata da un capo potente e ricco. Non era la prima volta ormai che sentiva parlare di ricchi paesi governati da potenti re, ed ebbe il sospetto che il capo di Guachoye, volesse solo liberarsi della sua presenza, inducendolo a partire in fretta; decise così di inviare degli indiani a Quigualtam, per annunciare l’arrivo del Figlio del Sole e invitarlo ad un incontro; nel frattempo inviò una parte dei suoi uomini con gli indiani di Guachoye, a punire il villaggio di Nilco. Durante la battaglia gli indiani di Guachoye si abbandonarono a tali atrocità, anche nei confronti di donne e bambini, che alcuni degli stessi Spagnoli ne furono inorriditi. De Soto non aveva partecipato alla spedizione contro Nilco, perché appena giunto a Guachoye era stato colpito da forti febbri e costretto rimanere a letto; mentre era malato, tornarono gli emissari che aveva inviato a Quigualtam, riportando la risposta del capo che era tutt’altro che rassicurante. A quanto pare Quigualtam era un potentato che si estendeva in gran parte della zona occidentale dello stato del Mississipi, ed era parte del complesso culturale Planquemine, che era una delle espressioni più strutturate e complesse della cultura del Mississipi; gli indiani che l’abitavano erano quasi certamente Natchez, l’unico popolo di cultura Mississipi che riuscì a preservare integra la sua cultura, fino ai primi decenni del ‘700, quando furono massacrati dai Francesi. In tempi storici il capo dei Natchez era un potente sacerdote, al vertice di una società estremamente gerarchizzata, che si faceva chiamare Grande Sole; se questo titolo era quello che usava per se anche il capo di Quigualtam, è possibile immaginare la sua reazione di fronte all’annuncio dell’imminente arrivo del suo improbabile “parente”. La risposta del capo di Quigualtam fu chiara e sprezzante: se il Figlio del Sole era veramente tale, lo mostrasse, prosciugando con il suo potere il grande Mississipi; lui comunque avrebbe concesso agli Spagnoli di attraversare il grande fiume, se essi desideravano visitarlo: l’avrebbe atteso con i suoi guerrieri, per parlare in pace o fare la guerra, a secondo dei casi. Mai de Soto aveva ricevuto una risposta simile, e di fronte a quella che a lui apparve come arroganza, avrebbe certo risposto come era uso: ma il suo tempo era ormai agli sgoccioli; le febbri che l’avevano colpito, in tre giorni si aggravarono fortemente, rendendo chiaro che la morte era vicina. Riuniti attorno a se gli ufficiali più importanti egli concordò con loro il passaggio del comando al suo luogotenente Luis de Mocoso, poi assolto a quest’ultimo compito, spirò: era il 21 maggio del 1542, tre anni erano passati da quando era approdato sulle coste della Florida, tre anni passati a vagare in una terra sconosciuta, alla ricerca di un sogno di ricchezza, che non bastava a giustificare una simile impresa. De Soto era stato insignito della carica di governatore di Cuba, carica che non svolse neanche un giorno, e sarebbe bastata a dargli ricchezze e potere notevoli, ma lui lasciò tutto per inseguire un sogno di conquista, che egli stesso probabilmente comprese come vano; come un personaggio conradiano, si spinse nel cuore di tenebra di una terra e di una cultura ignota, vivendo da Figlio del Sole, venerato e temuto, macchiandosi di gravi efferatezze, che però non giunsero mai alla crudeltà gratuita: la sua morte, fu pianta da molti degli uomini che l’avevano seguito in quella folle impresa, senza mai un atto di ribel-
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lione, accettando ciecamente la sua guida, quando la stessa guida era ormai cieca. Morto lui, il problema era il ritorno. Ma i Figli del Sole non possono morire, e quindi la sua fine fu tenuta nascosta agli indiani, a cui fu raccontato che egli era tornato in cielo, a far visita al padre, come spesso faceva, e che presto sarebbe tornato; ma non tutti gli indiani avevano creduto alla storia del Figlio del Sole, e molti scettici l’avevano Il corpo di Hernando de Soto, affidato alle acque del Mississipi accettata, chi per tornaconto, chi per timore delle armi, chi forse per la personalità stessa di De Soto. Ora che egli non c’era più, questi scettici riacquistavano voce, e forte era il timore che potessero mettersi a capo dei tanti, che avevano dovuto sopportare la crudeltà degli Spagnoli. Le domande insistenti, le ricerche degli indiani, convinsero infine Mocoso a dissotterrare le spoglie del suo ex comandante, per timore che la terra smossa ne segnalasse la sepoltura, per portarle di notte con una piroga sul Mississipi, e lasciare che il fiume che egli per primo aveva esplorato, gli offrisse anche una introvabile sepoltura. Ponce de Leon, Vasquez de Ayllon, Panfilo de Narvaez, e ora Hernando de Soto, per tutti loro la La Florida era stata l’ultima impresa.
Verso le Grandi Pianure La morte di Hernando de Soto, giungeva nel momento in cui di fatto la spedizione di conquista era ormai esaurita, quando lo stesso de Soto si apprestava a cercare di raggiungere la costa, dove secondo i suoi progetti, avrebbero dovuto costruire vascelli per raggiungere Cuba. Il nuovo comandante Luis de Moscoso, ovviamente non aveva altra idea che far ritorno in qualche modo alle colonie spagnole del Messico o dei Caraibi, ma piuttosto che continuare secondo il piano di de Soto, o cambiare tale piano secondo le sue decisioni, decise di fare una consultazione fra gli ufficiali e i personaggi più in vista, per decidere come andare avanti. Alla fine la maggioranza espresse la sua sfiducia sulla possibilità di costruire vascelli in grado di navigare fino a Cuba o a qualche altra destinazione, sfidando tempeste e tifoni così frequenti in quei mari, proponendo al contrario di continuare a spingersi a ovest, dove prima o poi avrebbero incontrato gli insediamenti spagnoli del Messico. Benchè fosse chiaro che il viaggio sarebbe stato lungo, si confidava nella possibilità di fermarsi a svernare in qualche villaggio indiano, come avevano fatto nei tre anni precedenti, ne mancava la speranza di poter incontrare lungo il cammino quel reame ricco d’oro, di cui fino ad allora non s’era vista traccia. Il 5 di giugno del 1543 gli Spagnoli lasciarono il villaggio di Guachoye, muovendosi a ovest attraverso i villaggi di Catalte, Chaguate, Aguacay, e Pato abitate da genti Tunican, che già sapevano degli Spagnoli, e che a volte fuggivano al loro arrivo, altre volte li accoglievano sottomessi, ma non osavano opporsi ad essi. Continuando ad ovest dopo Aguacay, la spedizione entrò nelle terre dei Kaddoadache, una delle confederazioni tribali in cui erano organizzati i popoli di lingua Caddoan che vivevano a ovest del Mississipi. Come gli altri popoli incontrati precedentemente, anche i Kaddoadache vivevano secondo lo stile di vita tipico dei Popoli del Mississipi, con una loro specifica variante locale; in particolare i Kaddoadache costituivano uno dei principali potentati della regione, preminente rispetto alle altre popolazioni Caddoan. Il primo centro incontrato nella terra dei Kaddoadache era il piccolo villaggio di Amaye, superato il quale gli Spagnoli si accorsero di essere spiati dagli indiani, che evidentemente volevano capire con chi avevano a che fare; inviato un gruppo di cavalieri, questi uccisero alcuni indiani trovati nei
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dintorni del loro campo e presero due prigionieri, dai quali Moscoso venne a sapere della terra di Naguatex, capitale della regione, e dei piani del capo di Naguatex, insieme ai suoi vassalli, di attaccare gli Spagnoli e cacciarli dalla loro terra. Proprio mentre l’interrogatorio era in corso gli indiani, che si erano avvicinati senza che gli Spagnoli se ne accorgessero, lanciarono l’attacco all’accampamento spagnolo; gli Spagnoli comunque non si fecero sorprendere e li mettevano in fuga, inseguendoli con la cavalleria, ma proprio mentre l’accampamento era in parte sguarnito, dall’altro lato un altro folto gruppo di guerrieri lanciava un nuovo assalto. Alla fine gli Spagnoli riorganizzarono la difesa ed ebbero la meglio, riprendendo il cammino verso Naguatex, sul corso del Red River, nel tratto in cui scorre nello stato dell’Arkansas: probabilmente Naguatex coincide con l’attuale sito archeologico di Battle Mound, il secondo per importanza, dopo Spiro Mound, tra i centri politici e religiosi, della cultura Mississipi-Caddoan. Anche Naguatex, come Tula visitata l’anno prima, non era un centro fortificato, ma un insediamento esteso, con abitazioni e campi coltivati lungo le due sponde del Red River, e quando Moscoso vi arrivò, non potè incontrare il capo che gli era ostile, perché questi si era spostato sull’altra sponda del fiume dove lo attendeva con i guerrieri armati. Gli Spagnoli comunque non conoscendo alcun guado, rinunciarono ad attraversare il fiume, fermandosi per diversi giorni per far riposare i feriti della battaglia del giorno prima. Durante la loro permanenza, il capo di Naguatex, probabilmente impressionato dagli Spagnoli che fino ad allora non aveva mai visto, decise infine di far visita a Moscoso, facendo anch’egli atto di sottomissione. Passò quasi un mese prima che Moscoso decidesse di riprendere la marcia, e quando infine riuscì a guadare il fiume, mandò messaggeri al capo, chiedendo guide e interpreti, ottenendoli alla fine, solo dopo aver distrutto parte dell’insediamento, come rappresaglia ai rifiuti del capo; infine guide e interpreti furono inviate, ma dopo qualche giorno fu chiaro che il loro compito era quello di far girare a vuoto gli Spagnoli, e così furono tutti impiccati. Prima di impiccare le guide, gli Spagnoli erano passati per il povero villaggio di Nishone, probabilmente corrispondente al villaggio degli Upper Nasoni, un gruppo della confederazione Kaddoadache che viveva in quell’area alla fine del ‘600, e una donna presa prigioniera a Nishone, sostituì le guide che erano state ammazzate. Dopo Nishone, gli Spagnoli proseguirono in direzione sud-ovest, attraverso una terra più povera, le zone nord- orientali del Texas, dove le grandi foreste delle regioni orientali, iniziano a lasciare il passo all’ambiente caratteristico delle pianure; era questa la terra abitata dagli Hasinay, un'altra confederazione di tribù di lingua Caddoan, il cui modello politico era probabilmente meno integrato e centralizzato di quello dei Kaddoadache, e che per la sussistenza dipendeva in misura maggiore dalla caccia e meno dall’agricoltura. In quest’area dopo il piccolo villaggio di Lacane essi raggiunsero Nondacao, probabilmente un nome ricollegabile a quello di Anandarco, una delle tribù della confederazione Hasinay nel XVIII secolo. A Nandacao gli Spagnoli trovarono mais in abbondanza, e furono accolti con deferenza dal capo locale, che offrì loro anche una guida, per portarli al villaggio di Socatino, da dove era giunta
Ricostruzione di un villaggio Hasinay ad opera dell’illustratore contemporaneo George C. Nelson
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notizia del passaggio di altri uomini bianchi: la notizia ovviamente sollevò molte speranze, perché poteva essere la conferma della vicinanza degli insediamenti spagnoli; rifornitosi ancora di mais per le centinaia di persone della colonna, Moscoso si rimise in marcia, sempre puntando a sud-ovest. Lungo la via giunse al villaggio di Aays, i cui abitanti, che nulla sapevano degli uomini bianchi furono presi di sorpresa, ma malgrado ciò reagirono impegnando gli Spagnoli in una serie di scaramucce, che si protrassero per una intera giornata. Gli abitanti di Aays potrebbero coincidere con la tribù storica degli Eyeish, un piccolo gruppo estintosi nel ‘700, che viveva lungo il fiume Sabine, ed era linguisticamente e culturalmente affine ai Caddoan, ma politicamente separata da loro; ciò spiegherebbe sia il fatto che non fossero stati avvertiti dell’arrivo degli Spagnoli, sia la loro Probabile percorso di Moscoso, attraverso il Texas orientale violenta reazione, diversa da quella degli abitanti di Nandacao. Comunque neanche il capo di Nondacao era stato poi così amichevole, dato che dopo due giorni di cammino, gli Spagnoli cominciarono a sospettare della guida che era stata loro offerta, e alla fine questi, sotto tortura, confessò che il compito affidatogli dal suo capo, era guidarli in terre spopolate e povere in cui farli perdere. Gli Spagnoli lo diedero in pasto ai cani. Giunsero infine a Socatino, un povero villaggio in cui il mais era scarso, e lì vennero a sapere che uomini bianchi erano passati, da qualche parte a sud-ovest; continuò quindi il cammino in una terra che si faceva sempre più povera e spopolata, fino al villaggio di Guasco, dove presero il mais che trovarono, per riprendere il viaggio, fino villaggio successivo di Naquiscoza. Qui chiesero informazioni sui bianchi nella regione, senza ottenere alcuna risposta, fin quando sotto tortura, un indiano disse loro di andare a Nazcahoza, i cui abitanti avevano incontrato i bianchi. Finalmente a Nazcahoza una donna raccontò loro di come era stata rapita dagli uomini bianchi, dei giorni terribili vissuti con loro e di come poi fosse riuscita a fuggire; subito una squadra a cavallo accompagnò la donna nel luogo, lungo un corso d’acqua, in cui i bianchi l’avevano rapita, per individuarne le tracce e cercare di raggiungerli; ma non c’erano tracce di zoccoli, ne null’altro che indicasse la presenza di Spagnoli: in lacrime la donna ammise, che si era inventata la storia. Dopo l’ennesima beffa Moscoso decise di tornare a Guasco, dove almeno c’era da mangiare; qui ebbero l’ultima speranza, quando gli indiani locali dissero loro che a dieci giorni di viaggio, oltre un grande fiume, in un luogo in cui si recavano a cacciare, c’era una tribù, con cui loro non avevano rapporti, ma che forse sapeva qualcosa dei bianchi. Ancora una volta la colonna di oltre 300 uomini e centinaia di schiavi si mise in cammino in direzione sud-ovest, fino a un grande fiume, il Brazos, che scorre nel Texas centrale, superato il quale trovarono un piccolo accampamento di nomadi, che viveva in semplici ripari di frasche, e che al loro apparire presero la fuga. Si trattava forse della tribù dei Bidai, un piccolo gruppo affine a quegli Atakapa che avevano raccolto i naufraghi della spedizione di Narvaez, ed è probabile
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che i bianchi sulle cui tracce si erano messi gli Spagnoli erano proprio Cabeza de Vaca e i suoi compagni, passati in quelle terre più di dieci anni prima. Moscoso riuscì a catturare due di loro, e li riportò a Guasco, per farli parlare, ma nessuno degli indiani del villaggio conosceva la loro lingua e nessuna informazione ne fu ricavata. Erano ormai in ottobre, l’inverno si avvicinava, e la terra che avevano davanti era una prateria vasta e spopolata, abitata da poveri nomadi, dove non era possibile trovare mais ne altro cibo; a chi conosceva il resoconto del viaggio di Cabeza de Vaca, era ormai evidente che la via per gli insediamenti Spagnoli era lontana, oltre terre povere e in gran parte deserte. Tra gli Spagnoli ormai v’era confusione, divisioni e alla preoccupazione per il futuro, si aggiungeva la delusione per la spedizione che non aveva ottenuto alcun concreto risultato. In molti continuavano a temere l’idea di un viaggio via mare, mentre altri, i più disperati, quelli che non avevano nulla da perdere, non si rassegnavano all’idea di aver dedicato più di tre anni ad una impresa, alla fine della quale si trovavano più poveri di prima; negli ultimi villaggi che avevano visitato, avevano trovato qualche tessuto di cotone e turchesi, provenienti certamente dagli indiani Pueblo che si trovavano molto più a ovest, sul corso del Rio Grande, e ciò aveva fatto sperare ancora nell’esistenza di popoli più ricchi e civili, in cui finalmente trovare soddisfazione per tutte le loro fatiche. Alla fine però a decidere furono gli ufficiali e i personaggi più importanti, quelli che in patria avevano qualcosa a cui tornare, e che in quell’impresa avevano ormai solo da perdere. Non c’era altra possibilità, dovevano tornare al Mississipi, da cui erano partiti. Il viaggio di ritorno fu penoso, passando per terre ostili, fra poveri villaggi già spogliati delle loro riserve di mais, con la prospettiva di un altro inverno da passare in quelle terre, prima di riprendere il rischioso progetto del loro capo defunto, e discendere il Mississipi, per poi affidarsi all’incerta fortuna di un mare ignoto. Meno di un anno prima che Moscoso guidasse i suoi uomini fino al margine delle grandi pianure dei bisonti da est, altri Spagnoli, anch’essi alla ricerca di città dorate da conquistare, da ovest, dalla costa del Pacifico nel Messico settentrionale, si avvicinavano a quella stessa terra sconosciuta, passando attravero l’attuale New Mexico: erano gli uomini di Francisco Coronado, il cui destino fu meno sfortunato di quello di de Soto, ma la cui impresa non ebbe miglior esito. L’incontro tra le due armate di “conquistadores”non ci fu per qualche mese di tempo e poche centinaia di chilometri di distanza.
In fuga sul Mississipi Era ormai la fine dell’autunno quando gli Spagnoli riuscirono a raggiungere Nilco, il villaggio nei pressi del Mississipi, che avevano distrutto mesi prima, e dove non trovarono mais, dato che gli abitanti avevano abbandonato i campi dopo il massacro subito ad opera degli Spagnoli e degli abitanti di Guachoye. L’inverno ormai vicino rendeva quasi impossibili gli spostamenti, specialmente in quella terra in larga misura coperta da acquitrini, con i fiumi gonfi d’acqua, mentre le piogge e i venti freddi rendevano penoso il cammino e procuravano malanni e febbri. Gli Spagnoli dovevano trovare un villaggio ben fornito di scorte alimentari, di cui appropriarsi e in cui sopravvivere, mentre si dedicavano al difficile lavoro di approntare una flotta di vascelli, con cui discendere il Mississipi e raggiungere il mare. A Nilco vennero a sapere di un villaggio più a monte, sul corso del Mississipi, Aminoye, che era ben fornito e avrebbe potuto fare al caso loro; cosi impossessatisi del villaggio e delle sue scorte di mais, con gli indiani scacciati dalle case e ridotti al freddo alla fame, Moscose si preparò a passare l’inverno; la questione del cibo era stata risolta, ma rimaneva la preoccupazione che gli indiani della regione potessero tramare contro di loro, preparando un attacco improvviso, contro il quale avrebbero avuto difficoltà a difendersi. Dal canto loro gli indiani continuavano a mostrarsi amichevoli e sottomessi, facendo frequenti visite, curiosi dell’improvvisato cantiere navale a cui gli Spagnoli stavano lavorando. Si trattava di un impegno gravoso, la costruzione di alcuni brigantini, che insieme ad un buon numero di piroghe, dovevano caricare oltre 300 persone, i cavalli di cui ancora disponevano e tutto ciò di cui potevano aver bisogno durante il viaggio e che potevano portare con loro; i brigantini poi dovevano essere in grado di navigare in mare, oltre che sul fiume, un mare che in più occasioni aveva riservato amare sorprese. L’impresa fu possibile grazie alla presenza tra gli uomini, di un genovese che aveva esperienza di costruzioni navali, di un altro genovese e un di sardo che sapevano calafatare gli scafi, e di alcuni carpentieri baschi. Una forgia fu costruita e chiodi e altri strumenti di ferro furono ottenuti fondendo le catene usate per gli schiavi indiani, e ogni altro ferro, a parte quello delle armi e dei finimenti dei pochi cavalli rimasti; per le vele furono usate pelli, e fibre vegetali per la stoppa, mentre il legname ovviamente abbondava. Ad Aminoya la condizione degli Spagnoli era veramente precaria, e solo le divisione e le rivalità tra i
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diversi capi indiani li salvarono dal disastro finale, dato che nel loro villaggio isolato a causa della piena del Mississipi, essi avevano problemi a spostarsi e non potevano usare i cavalli, mentre gli indiani si muovevano con le canoe ed erano abili nuotatori; un assedio o anche semplici azioni di guerriglia, avrebbero reso quasi impossibile agli Spagnoli muoversi alla ricerca dei materiali necessari alla costruzione dei vascelli, e comunque avrebbero ostacolato lavori condotti in condizioni già enormemente precarie. I capi dei villaggi Tunican dell’area comunque, continuavano a mostrarsi più interessati a cercare di ottenere il favore degli Spagnoli nelle loro continue rivalità, anche se non può essere escluso che essi avessero La punizione agli indiani sospettati di ribellione, Illustrata in una delle ormai capito che presto si sarebbero li- prime pubblicazioni del resoconto del viaggio di Hernando de Soto berati della sgradita presenza, e fossero curiosi di vedere quale altra meraviglia gli uomini bianchi stavano preparando. Alla fine di marzo la piena del Mississipi era tale da bloccare i lavori per due mesi, e durante questo periodo i sospetti di un complotto degli indiani si fecero più forti, supportati dalle dichiarazioni di un indiano, che sotto tortura aveva ammesso l’esistenza di un piano concepito dai capi locali: accordarsi con gli indiani che erano schiavi tra gli Spagnoli, per dare fuoco alle loro case, e poi tendere loro un agguato mentre fuggivano dall’incendio. Alla scoperta del complotto Moscoso reagì prendendo trenta indiani di Guacoya in visita, e mozzando loro il braccio destro, per rimandarli al loro capo, con il messaggio che qualsiasi cosa essi stessero tramando, lui ne sarebbero venuti a conoscenza ancor prima che loro l’avessero solo pensato. Il capo di Guacoya non perse tempo a denunciare i capi di Nilco e Taguanete, come i soli colpevoli; poi fu il capo di Nilco a recarsi da Moscoso, per parlare e cercare di evitare la punizione, ma Moscoso lo consegnò alla gente di Guacoya, che lo uccise. Fu poi la volta di alcuni dignitari di Taguanete, venuti a cercare di discolparsi, a cui furono tagliati il naso e il braccio destra; infine, dato che gli Spagnoli avevano necessità di rifornirsi per il viaggio ormai imminente, insieme ai guerrieri di Guacoya, attaccarono il villaggio di Taguanete, prendendo tutto ciò di cui avevano bisogno compresi gli schiavi da portare con loro. Intanto la partenza doveva essere rimandata, dato che la piena del fiume a primavera rendeva difficile la navigazione, e così passarono altri mesi. Alla fine dell’inverno gli abitanti di Aminoye, ormai ridotti alla fame, si presentarono al loro villaggio mendicando un po’ di cibo per sopravvivere, e Moscoso alla fine si decise a dare loro un po’ del mais rimasto, facendoli però lavorare agli ultimi preparativi per la partenza. Il 2 luglio del 1543 gli Spagnoli erano pronti a partire, e il giorno prima Moscoso diede ordine di rilasciare tutti gli schiavi che gli Spagnoli si portavano dietro come loro proprietà, garantendo il privilegio di mantenere i propri schiavi, solo agli uomini più importanti o a lui più vicini. Su sette brigantini, e un buon numero di piroghe, quasi 350 Spagnoli, i cavalli rimasti, e un piccolo numero di schiavi iniziarono a discendere il Mississipi; ad accompagnarli c’erano le canoe colme di guerrieri di Guachoye, il cui capo si era offerto per andare con gli Spagnoli a far la guerra a Quigaltam, il potentato che dominava le terre più a valle sul Mississipi. Lungo la via gli Spagnoli si fermarono a razziare un villaggio vassallo di Quigaltan, dove vennero a sapere che il capo di quelle terre, il cui nome era Huhasene, li aspettava più a valle; si trattava dello stesso capo dei Natchez, che l’anno precedente aveva risposto in modo sprezzante all’invito di Hernando de Soto a recarsi da lui, e ora gli Spagnoli se lo trovavano di fronte. Il viaggio lungo il Mississipi fu per gli Spagnoli un calvario di continui attacchi da parte di canoe cariche di indiani, che si avvicinavano ai vascelli senza alcun timore, lanciavano frecce, ammazzavano i piccoli gruppi che si spostavano in canoa, trasformando la navigazione in una battaglia itinerante lungo il corso del Mississipi. Durante i diciassette giorni del viaggio una ventina di Spagnoli furono uccisi e un gran numero feriti; per sfuggire all’inseguimento e muoversi più velocemente, gli ultimi cavalli furono am-
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mazzati e la loro carne caricata come scorta alimentare. Dopo Quiguantam, anche le genti che vivevano più a valle, quasi certamente anch’essi di lingua Natchez, continuarono ad attaccare gli Spagnoli, fino a che fu raggiunto il delta del Mississipi; qui vivevano indiani di lingua Chichemaca, delle tribù Washa e Chawasha, e per quanto meno numerosi e certo meno potenti dei Natchez loro vicini, anch’essi attaccarono le navi spagnole. Di fatto i diciassette giorni di discesa del fiume, furono una lunga fuga, compiuta aprendosi il passaggio tra decine di canoe cariche di guerrieri, che si muovevano con esperienza e conoscenza dei corsi d’acqua, lanciavano frecce con abilità e precisione, scomparivano ogni volta che lo ritenevano opportuno; senza poter usare i cavalli, abituati a sovrastare i nemici con le loro spade e lance di metallo, utili a distanza ravvicinata, ma inutilizzabili nel combattimento sul fiume, gli Spagnoli potevano rispondere agli arcieri nemici, con le poche balestre ancora in buone condizioni. Se passarono fu solo perché gli indiani li vedevano fuggire, e non erano certo intenzionati a fermarli, ma solo a non farli più tornare. Il 18 di luglio la piccola flotta raggiungeva finalmente la foce del Mississipi, scegliendo di non tentare di raggiungere Cuba attraverso il mare aperto, ma di seguire la costa puntando a raggiungere il Rio de las Palmas e di lì la colonia di Panuco, il più settentrionale tra gli insediamenti Spagnoli sulla costa del Messico. Il 10 di settembre, dopo quasi due mesi di navigazione, fermandosi periodicamente per rifornirsi d’acqua e perdendo una nave a causa di una tempesta, 312 Spagnoli, vestiti di pelle di cervo, con gambali e casacche arrivavano nella piccola colonia di Panuco, tra lo stupore degli abitanti e delle autorità, che non avevano notizia della spedizione di de Soto da più di tre anni. Ovviamente la loro prima tappa fu la chiesa, in cui si recarono a ringraziare il loro Dio; poi vennero ospitato dagli abitanti di Panuco, e notizia del loro arrivo fu inviata alle autorità della Nuova Spagna. Dopo quattro anni la spedizione di Hernando de Soto era conclusa, e per quanto terribile era stata la vicenda per gli uomini che l’avevano vissuta, essa era stata meno disastrosa di quelle che l’avevano preceduta, dato che più della metà degli Spagnoli erano ancora vivi per raccontarla. Del sogno di trovare oro e conquistare ricchi imperi, non era rimasto nulla, e se la spedizione aveva raggiunto un obbiettivo, questo era sgombrare definitivamente il campo da ogni illusione delle terre del Nord America: non sarebbe bastato un pugno di avventurieri per impossessarsene, e non sarebbe stata un’impresa di pochi anni; gli indiani che vi risiedevano erano forse meno civili di quelli del Messico o del Perù, ma più difficili da sottomettere. Erano passati trent’anni dal primo viaggio di Ponce de Leon, e per gli Spagnoli La Florida, rimaneva una terra ostile.
L’itinerario completo della spedizione di Hernando de Soto
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Gli indiani, che per quattro anni avevano dovuto subire le scorrerie, le vessazioni, le atrocità degli Spagnoli, per il momento l’avevano avuta vinta, cacciando dalle loro terre quegli invasori, che in Messico o in Perù erano divenuti i padroni; ma il lascito della spedizione di de Soto sulla loro vita e la loro cultura fu drammatico, e dopo il passaggio dei “conquistador”, nulla sarebbe stato più come prima in quelle terre.
Ancora fallimenti: Luis de Cancer e Tristan de Luna
Dopo la spedizione di De Soto, e quella quasi contemporanea di Coronado a nord del Messico, l’epoca dei “conquistadores” può dirsi definitivamente conclusa, anche se le leggende su mitici regni dorati continuarono a circolare ancora per anni: l’Eldorado o le 7 città d’oro di Cibola”, infiammeranno ancora le menti di solitari cercatori di tesori, ma nessuno investirà più tempo, denaro e uomini, per organizzare grandi spedizioni da inviare in terre sconosciute, con l’obbiettivo di fare il pieno di ricchezze in pochi anni: a Cortez e Pizarro era andata bene, ma ormai il gioco era finito. Quanto alla Florida e alle coste del Golfo del Messico, dopo l’avventura di Hernando de Soto, era ormai certo che non era quella la terra in cui poter fare un buon colpo. Purtroppo per gli indiani però, la cupidigia, passione semplice e immediata, non era l’unica spinta all’azione del civile uomo bianco, il quale nel suo agire trovava motivazioni più elevate e nobili, come quelle della religione, o più complesse e apparentemente incomprensibili, come quelle della geopolitica, e sia alla luce dell’una che dell’altra, l’idea che le vaste terre a nord dei possedimenti spagnoli dei Caraibi, fossero precluse all’uomo bianco, pareva inaccettabile. Ed è questa forse, la forza di una “civiltà superiore”, nel trovare ragioni per imprese, che ad una mente semplice appaiono immotivate, quando non anche ingiuste. Così pochi anni dopo il ritorno dei superstiti della spedizione di de Soto, fu un uomo mosso dalle migliori intenzioni, a fare l’ennesimo tentativo di portare la civiltà fra i selvaggi della Florida. Luis de Cancer era un domenicano, che da decenni operava nelle colonie del Nuovo Mondo, secondo le indicazioni e gli insegnamenti del suo più noto e anziano confratello, Bartolomè de las Casas: convinto della necessità di convertire gli indios con la forza delle parole e dell’esempio, con un trattamento umano, ed evitando violenze e sopraffazioni, aveva con successo praticato suoi principi a Puerto Rico e in Guatemala. Con il suo fervore e la salda fede nei principi della non violenza, egli era riuscito non solo ad ottenere la conversione di tanti indios, ma anche a pacificare regioni dove gli indios s’erano ribellati, e dove le armi spagnole avevano fallito. Nel 1546 s’era inoltre fatto notare per la capacità e la determinazione con cui difendeva i diritti dei nativi, in occasione di un’assemblea di ecclesiastici del Messico; si trattava quindi di un uomo in prima linea nello scontro politico che si giocava sulle condizioni degli indios, e quindi sul modo di governare il Nuovo Mondo. Forte dei risultati raggiunti fino ad allora e certamente della della fiducia nel sostegno del suo Dio, nel 1547 Luis de Cancer sottopose all’imperatore Carlo V il suo progetto di apertura di una missione, fra quegli indiani della Florida, che fino ad allora s’erano mostrati irriducibilmente ostili; quasi certamente il suo obbiettivo era dimostrare che si potevano ottenere risultati con la croce, laddove la spada aveva fallito. L’imperatore decise di accettare il progetto, ma ben consigliato da chi conosceva la situazione, pose come unica condizione, che il luogo della missione non fosse sulla costa occidentale della Florida o su quella del Golfo del Messico, dove già in troppi avevano fallito, ma piuttosto da qualche parte lungo la costa dell’Atlantico, dove non c’erano stati conflitti con gli indiani: in effetti la mancata riuscita dell’unico tentativo condotto in quell’area, da parte di Vasquez de Ayllon, non era direttamente legato all’ostilità degli indiani. Nei primi mesi del 1549 Luis de Cancer, insieme ad alcuni confratelli, partì con una caravella da Veracruz per raggiungere Cuba, dove avrebbero imbarcata Magdalena, una indiana della Florida convertita, che era considerata estremamente affidabile, e avrebbe fatto loro da guida e da interprete; da Cuba poi continuarono verso le coste del Nord America, dove approdarono in giugno, scegliendo però proprio il posto meno adatto ad iniziare la loro missione, poco a sud di Tampa Bay, dove già erano passati Panfilo de Narvaez e Hernando de Soto; non è chiaro quale sia la ragione di tale approdo, se un errore da parte del capitano della nave, o se una scelta voluta da lo stesso domenicano, che forse poteva meglio usare delle conoscenze della sua interprete, che era di quelle terre. Sceso a terra insieme ad altri due frati, a un marinaio e Magdalena, de Cancer incontrò un gruppo di indiani che si mostrarono amichevoli, e che li invitarono al vicino villaggio di Tocobago, dove tutti si
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recarono, salvo de Cancer, che tornò alla nave per guidarla a Tampa Bay, nei pressi del villaggio, dove tutti si sarebbero riuniti. Il 24 giugno de Cancer raggiunse il tratto di costa dove era l’appuntamento, dove però ad accoglierlo trovò la sola Magdalena, già “vestita” come un’indiana, che disse loro di aver spiegato al capo di Tocobago della loro missione di pace, e che gli altri Spagnoli erano ospiti al villaggio; dopo il colloquio sulla riva, de Cancer fece ritorno alla caravella, ma lì trovò un marinaio spagnolo, naufrago e fatto schiavo dai Tocobago da cui era appena fuggito, che li avvertì che gli “ospiti” degli indiani, erano già stati ammazzati tutti e tre. Alla notizia gli altri frati erano pronti ad abbandonare subito quella terra, ma de Cancer, con il coraggio della fede, disse loro che non poteva abbandonare una terra, “consacrata dal sangue vivo” dei propri fratelli. Il giorno dopo lui e altri due frati si spinsero a riva, esplorando i dintorni con una barca, fin quando visti un gruppo di indiani, Luis de Cancer, scese a terra e si fermò a pregare davanti a loro: gli indiani lo uccisero a colpi di mazza. Luis de Cancer fu il primo martire cristiano del Nord America, e la sua vicenda rende bene l’idea di quanto le passioni, tutte le passioni, fossero estreme per gli uomini che si misuravano con le opportunità e i rischi di un nuovo mondo. Ma interessante è anche la figura di Magdalena, di cui sappiamo poco ma che possiamo immaginare, deportata e asservita fra genti ignote, costretta ad accettare una fede che non comprende, ma che a differenza di altri nella sua stessa condizione, riesce a sopravvivere, a imparare la lingua dei propri padroni, fin quando non le si presenta l’occasione che attendeva; che sia stata proprio lei a indurre de Cancer a puntare su Tampa Bay, dove viveva la propria gente? E che sia stata proprio lei, tornata subito indiana, libera da quelle vesti che la pudicizia cattolica le aveva imposto, a cercare una vendetta a lungo attesa? Ovviamente di Magdalena, tornata alla sua gente, non ci sono più notizie, quindi la domanda non ha risposte. Dopo il fallimento dell’uomo di fede, passarono altri dieci anni, prima che qualcuno osasse ancora mettere piede nella ostile Florida, e il successivo tentativo, non aveva come motivazione l’ambizione di un condottiero, ne gli ideali di fede di un missionario, ma le strategie di una geopolitica, che trasformava carte geografiche ancora appena delineate, nello scacchiere su cui dispiegare la potenza di un impero. Alla metà del ‘500 la Spagna dominava i Caraibi ed il Messico, ma l’assenza di basi sulle coste del Nord America, ed in particolare sulla costa Atlantica, rendeva difficoltose le relazioni tra le colonie, e tra queste e la madrepatria, in un mare come quello dei Caraibi spesso sconvolto da uragani e tempeste; senza poi contare il rischio che quelle stesse coste, potessero divenire le basi per competitori europei, i Francesi in particolare, con cui in Europa l’imperatore era in guerra. Fu così concepito il progetto di una via di terra che collegasse il Golfo del Messico all’Atlantico attraverso le regioni dell’odierna Georgia, via di terra che sarebbe dovuta partire dall’odierna baia di Mobile nel Golfo del Messico, esplorata dal mare proprio in quegli anni, per giungere alla regione di Santa Elena, la terra già visitata da Vasquez de Ayllon, e che era stata scelta per costituirvi una nuova base. La regione di Mobile sarebbe divenuto il riferimento per i convogli che partivano dal Messico, che di li, via terra sarebbero dovuti giungere sull’Atlantico, riducendo al minimo i rischi e le insidie della navigazione nei Caraibi. Le due basi poi avrebbero rappresentato un buon presidio verso ogni progetto di altre potenze europee, di insidiare il dominio spagnolo dell’area. Era un progetto ambizioso, ma che evidentemente scontava problemi strutturali, primo fra tutti la quasi totale assenza di informazioni, sulla regione lungo cui la via di terra doveva passare, e probabilmente anche una errata valutazione sulla distanza tra i due luoghi da collegare. In ogni caso nel 1559 il progetto fu messo in campo, con grande dovizia di mezzi, e con l’importante contributo dei Domenicani, che non rinunciavano al loro progetto di conversione degli indiani della Florida; l’impresa fu concepita quindi più come una vera e propria opera di pacifica colonizzazione, che non come una conquista militare. La direzione fu affidata a Tristan de Luna y Arellana, un nobile spagnolo, imparentato con il governatore di Cuba, Luis de Cuellar che aveva fortemente caldeggiato l’iniziativa davanti al re Filippo IV; de Luna aveva una esperienza militare maturata al seguito di Francisco de Coronado, e nella repressione degli indios di Oaxaca. La spedizione, la più grande mai organizzata per la Florida, era composta da circa 1200 coloni e 600 militari, imbarcati sui 17 navi, e nel luglio del 1559 approdava non a Mobile Bay come previsto, ma a Pesancola, la baia di Ochuse esplorata da Francisco Maldonado ai tempi della spedizione di de Soto; a Pesancola gli Spagnoli inviarono subito missioni nell’interno, ritardando lo scarico della gran quantità di merci e rifornimenti di cui la colonia aveva necessità per sopravvivere i primi mesi. L’errore fu fatale perché il 19 settembre un uragano colpì la zona e quasi tutte le navi furono affondate con gran parte del loro carico; da quel momento il problema dei 1800 spagnoli non fu più quello di costruire una nuova via, ma di come riuscire a sfamarsi.
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Come già avevano fatto quanti li avevano preceduti, gli uomini di Tristan de Luna si misero alla ricerca di villaggi indiani in cui t r o v a r e scorte di mais e di altri alimenti, ma le regioni dell’interno erano scarsamente popoLa via che avrebbe dovuto collegare il Golfo del Messico all’Atlantico lati, e le e l’itinerario della spedizione di Tristan de Luna piccole comunità che l’abitavano, si dileguarono all’arrivo dell’imponente colonna spagnola. In novembre due navi di rifornimenti furono inviati dal Messico, con la promessa di un altro invio a primavera, ma intanto gran parte degli Spagnoli si erano trasferiti in un grande villaggio finalmente trovato nell’interno, Napicana, lungo il basso corso del fiume Alabama; si trattava probabilmente di indiani Tohome, e sembra che l’insediamento fosse stato fondato dopo la distruzione di Mabila da de Soto. Divisi tra Napicana, rinominata Santa Cruz, e il piccolo insediamento a Pesancola, dove si attendevano i rifornimenti promessi, gli Spagnoli passarono un difficile inverno, senza aver contatti con gli indiani che erano fuggiti al loro arrivo, sopravvivendo grazie alle loro scorte o a quanto erano riusciti a salvare del carico delle navi. Sopravvissuti in qualche modo all’inverno in febbraio tutti gli Spagnoli si stabilirono a Napicana, rimanendovi fino a giugno, quando ormai il cibo era del tutto esaurito; l’ultima speranza era raggiungere il potentato di Coosa, che ai tempi di de Soto, era ricco e con una produzione agricola, in grado di sostenere il gran numero di bocche da sfamare della spedizione. Duecento uomini da Napicana raggiunsero il principale centro di Coosa, trovandolo però molto meno popoloso che ai tempi de Soto, e probabilmente anche meno egemone rispetto alle altre comunità dell’area; è questa la prima testimonianza delle condizioni degli indiani dopo il passaggio di de Soto, e conferma il fatto che i cambiamenti che portarono alla crisi dei popoli del Mississipi a sud degli Appalachee, siano stati causati proprio da quell’evento, ed in particolare dalle malattie che gli Spagnoli lasciavano dietro di se, e contro cui gli indiani non avevano difese. A Coosa gli Spagnoli, pur di ottenere il cibo necessario, accettarono l’invito del capo locale a partecipare ad una spedizione contro i vicini Napochi, che a suo dire, si erano rifiutati di pagare il tributo imposto ai vassalli; una cinquantina tra fanti e cavalieri si unirono ad alcune centinaia di guerrieri di Coosa, in una campagna contro i Napochi, che dal canto loro si ritirarono per sfuggire agli attacchi, facendo poi successivamente atto di sottomissione al capo di Coosa. Questo fu l’unica occasione di relazione tra gli indiani e la spedizione di de Luna; a parte ciò, sembra che la strategia degli indiani sia stata quella di evitare ogni contatto e ritrarsi all’arrivo degli invasori; anche questo è un elemento che induce a pensare che il precedente contatto con gli Spagnoli, avesse prodotto effetti disastrosi. Nel frattempo Tristan de Luna aveva perso ogni autorità sugli uomini della spedizione, che di fatto erano ormai ammutinati ad un capo che forse per malattia, forse per debolezza, o addirittura per una qualche forma di demenza, si era dimostrato assolutamente incapace. Alla fine del 1560 coloni e soldati, ridotti alla fame, senza più un capo ne una missione, fecero ritorno a Ochuse, solo sperando che dal mare giungessero i soccorsi. Nell’aprile del 1561, Angel de Villafane con l’ordine di revocare l’incarico a Tristan de Luna e di sostituirlo nel comando, giunse ad Ochuse, dove caricò sulle navi i superstiti che
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volevano tornare a Cuba, poi con una parte della flotta, faceva rotta verso Sant’Elena, circumnavigando la Florida per raggiungere la costa dell’Atlantico, e tentare di rifar partire il progetto originario da una nuova base. Neanche lui fu più fortunato, perché perdette parte delle navi in una tempesta, e dovette far ritorno a Cuba. In autunno la cinquantina di uomini rimasti a Pesancola in presidio, venivano riportati anch’essi a Cuba: anche questa spedizione finiva nel nulla. Un piano troppo ambizioso, una natura difficile e un comandante inadeguato, erano bastati, gli indiani avevano solo guardate i loro nemici soffrire la fame, ammalarsi e morire, in una terra in cui non avevano ragione di stare.
Gli Spagnoli in Florida: ragioni del fallimento e conseguenze per gli indiani
Dal primo viaggio di Ponce de Leon in Florida, al disastroso epilogo del tentativo di colonizzazione di Tristan de Luna, corre quasi mezzo secolo, un periodo storico importante nella storia del Nuovo Mondo, durante il quale il colonialismo spagnolo realizzò risultati fondamentali, estendendo il suo dominio sui Caraibi, l’America centrale e estese aree dell’America meridionale. In quegli anni gli imperi Azteco e Inca, e le grandi e complesse culture di cui erano espressioni, crollarono in breve tempo, di fronte all’azione di manipoli di avventurieri, che con spregiudicatezza, decisione e crudeltà, approfittavano della condizione di confusione e stordimento, generata fra i nativi dall’evento imprevedibile e traumatico del contatto con una società tecnologicamente più avanzata. A condurre l’impresa della conquista, non fu quindi un potente stato che impegnava il suo apparato economico, amministrativo e militare, in una azione pianificata, ma singoli avventurieri, che operano al di fuori, quando non in contrasto, con il potere politico ufficiale delle colonie: Cortez parte per il Messico senza l’autorizzazione del governatore di Cuba de Cuellar, e quando è già impegnato nell’impresa, deve addirittura battersi contro un esercito inviato contro di lui dallo stesso governatore; l’avventura di Pizarro è concepita come una iniziativa privata, che viene tentata più volte, senza trovare alcun credito ed è addirittura ostacolata dalle autorità, e solo al terzo tentativo ottiene l’autorizzazione della corona, che però non vi investe alcuna risorsa. Anche guardando i numeri, le spedizioni di Cortez e Pizarro rendono chiaro che si è ben lontani dall’impegno convinto e determinato di una grande potenza coloniale: 500 soldati e un centinaio di marinai partono con Cortez, a cui poi si aggiungono gli uomini che de Cuellar gli ha inviato contro e che Cortez ha sconfitto e tirato dalla sua parte; addirittura meno di 200 sono gli uomini che con Pizarro partono verso l’ignoto Perù; un impegno pari se non inferiore, a quello investito, negli stessi anni, nelle diverse spedizioni in Florida. A ciò va aggiunto, che sul piano strettamente militare, gli imperi del Messico e del Perù erano in condizioni di mobilitare un numero di uomini in armi, sicuramente maggiore di quello delle diverse e divise tribù indiane della Florida. Ciò nonostante in Messico e in Perù l’iniziativa spagnola ottenne un successo indiscusso, mentre in Florida fu un succedersi di fallimenti. Assunto che dal punto di vista militare le condizioni degli indiani della Florida non erano di maggior forza, rispetto ai popoli del Messico e del Perù, le ragioni dei diversi esiti dell’iniziativa spagnola nelle diverse aree, vanno quindi cercate nelle diverse condizioni “politiche” dei popoli nativi, in particolare in relazione a due aspetti: la centralizzazione delle diverse strutture politiche e il grado di consenso alla base della coesione politica, nei diversi contesti. Questi sono gli elementi di significativa differenza nelle condizioni dei nativi della Florida, e in generale del Nord America, rispetto a quelli del Messico e del Perù. Monrezuma II ostaggio di Cortez, tenta di placare la rivolta dei suoi sudditi
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Uno degli elementi centrali del successo di Cortez, fu certamente la possibilità di imporre il proprio dominio su un popolo, attraverso il controllo esercitato su un monarca assoluto, che centralizzava nelle proprie funzioni, sia la leadership politica che quella religiosa e militare. La debolezza dell’imperatore Azteco Montezuma II di fronte agli Spagnoli, di cui temeva la possibile condizione divina, e quindi il controllo che Cortez impose sulla sua persona, condizionarono la possibilità di reazione all’invasione, di un apparato militare che almeno in una prima fase, poteva ancora ricacciare in mare gli invasori. Pizarro tentò di giocare la stessa carta imprigionando l’Inca Atahualpa, ma l’operazione non ebbe lo stesso successo, dato che proprio poco prima dell’arrivo degli Spagnoli, l’impero era stato attraversato da una dura guerra di successione, nel corso della quale oltre alla figura dell’Inca, altri soggetti, competitori o sostenitori dello stesso, avevano acquisito fama e autorevolezza tra i guerrieri e nel popolo; queste figure, il generale Quizquiz, fedele ad Atahualpa, o Manco II suo nemico, dopo l’assassinio di Atahualpa, avrebbero svolto una funzione, nella resistenza agli Spagnoli, che fu più dura e più prolungata che non i Messico. Anche in questo caso però l’imprigionamento e l’uccisione di Atahualpa, e il conseguente accesso alle immense risorse di oro dell’Inca, furono determinanti per suscitare l’interesse spagnolo nell’impresa, e quindi nell’arrivo di altri soldati e coloni, che si aggiunsero al piccolo gruppo di avventurieri che aveva iniziato l’impresa. Usando una espressione sintetica è possibile affermare che determinante per il successo spagnolo in Messico e in Perù, fu la possibilità di “colpire al cuore” l’avversario, inibendone la reazione o comunque La cattura di Atahualpa alòla batytaglia di Cajamarca acquisendone le risorse. In Florida e in generale in Nord America, non c’era alcun cuore da colpire, non c’erano regni immensi guidati da sovrani potenti, la cui sottomissione poneva le basi per il successivo dominio di vasti territori. Hernando de Soto, che aveva svolto un ruolo da protagonista nella conquista del Perù e ben conosceva l’impresa di Cortez in Messico, inutilmente cercò un Montezuma o un Atahualpa nel suo lungo viaggio, ma quello che trovò, erano al massimo capi locali, che esercitavano la loro autorità su aree limitate, un autorità poi che era di carattere più formale che concreta, limitandosi al massimo alla riscossione di tributi; le diverse comunità indiane erano sostanzialmente autonome sul piano politico e militare, e la loro vita non dipendeva da un’amministrazione burocratica centralizzata, e non era sottoposta al controllo di eserciti statali. In Nord America la conquista non era questione che dipendesse dalla vittoria contro un re o un esercito ma, come avrebbero dimostrato i secoli a venire, un lungo conflitto per debellare e sottomettere, una dopo l’altra, un gran numero di tribù, la cui divisione fu ragione al contempo tanto della loro sconfitta, quanto della prolungata resistenza. Il secondo aspetto riguarda le caratteristiche della coesione politica degli imperi del Messico e del Perù, una coesione che sostanzialmente si fondava sul dominio di un soggetto etnico definito, su altri che più o meno esplicitamente, continuavano a rivendicare la propria indipendenza. Questo elemento fu evidente nell’impresa di Cortez, che da subito ottenne l’alleanza di città e popoli che mal sopportavano il dominio Azteco, reso ancora più intollerabile dal gran numero di sacrifici umani che praticava, e le cui vittime predestinate erano cercate tra i popoli limitrofi e sottomessi. Dal punto di vista di più di un popolo del Messico centrale, Cortez si presentò come un liberatore, che finalmente garantiva il riscatto da un dominio odioso; a migliaia furono i guerrieri indiani che parteciparono all’impresa di Cortez e combatterono al suo fianco contro l’impero Azteco. In Perù gli Spagnoli non ottennero lo stesso appoggiò dai popoli nativi contro l’impero Inca, e nel complesso gli Inca non erano così invisi ai popoli sottomessi come lo erano gli Aztechi, ma è un fatto che per molti di loro, l’arrivo degli Spagnoli e la successiva dissoluzione dell’impero, furono viste come un’opportunità per il ritorno ad una vita indipendente e non sottomessa ad alcun potere centrale. In effetti, i neanche duecento spagnoli che stavano portando alla fine l’impero Inca, non erano certo in grado
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di controllare un area che si estendeva dal Cile all’Equador; d’altra parte quello stesso immenso territorio, che era stato parte di un’unica entità statale per quasi due secoli, non era nelle condizioni di resistere agli invasori, quando quell’entità politica fu dissolta. Di fatto il sentimento di identità etnica e tribale, che avrebbe svolto un ruolo determinante nella resistenza dei nativi in Nord America, in Centro e Sud America era stato già indebolito dall’esistenza di entità statali interetniche, fino al punto di non costituire una risorsa per opporsi agli invasori Spagnoli, ma costituendo comunque un elemento di debolezza per quelle stesse entità statali interetniche. In Nord America i Calusa, gli Appalachee, i Chickasaw e le altre tribù che si opposero agli Spagnoli, erano entità indipendenti, sul piano politico e militare, che non avevano alcun potere centrale di cui liberarsi attraverso l’arrivo degli Spagnoli, e benchè divise da occasionali conflitti, tutte vedevano comunque i nuovi arrivati come un pericolo, di cui era necessario liberarsi, come minimo inviandoli presso i loro vicini. Nessuno tra i diversi “conquistadores” che tentarono le loro imprese in Nord America potè, avvalersi del sostegno o almeno dell’amicizia di tribù native, nel tentativo di soggiogarne altre; lo stesso de Soto, che pure nella sua permanenza nelle regioni del Mississipi potè avvalersi della rivalità e dei conflitti tra le diverse comunità indiane, non potè mai contare sulla fedeltà di nessuna di esse, dovendo sempre temere congiure o ribellioni dei capi, che pure gli facevano formale atto di sottomissione. C’è poi infine un terzo elemento che fa la differenza rispetto all’esito delle imprese di conquista nelle diverse aree: l’oro. E’ indiscutibile che l’effetto che il gran numero di regali in metallo prezioso inviati da Montezuma a Cortez per ottenerne la benevolenza, o l’oro con cui Atahualpa ormai prigioniero tentò di riscattare la propria libertà, ottennero l’effetto di decuplicare l’energia e la determinazione degli Spagnoli, di fronte ad una impresa che in molti momenti era apparsa disperata. Al contrario, gli uomini che seguirono Panfilo de Narvaez o Hernando de Soto, costretti a marce faticose e a combattimenti cruenti, solo per poter ottenere un po’ di mais di cui cibarsi, subivano una frustrazione che aveva un effetto sul morale. L’assenza di oro, faceva venir meno la prima e più importante delle motivazioni della conquista, e dopo l’impresa di de Soto, che aveva deluso ogni residua aspettativa, per quasi vent’anni nessuno pensò più ad organizzare imprese di conquista della Florida. Per quasi mezzo secolo, gli indiani del sud-est del Nord America, rimandarono il destino di sottomissione, che nello stesso periodo veniva imposto nei Caraibi, in Messico e in Sud America, ma questa fu comunque una vittoria di Pirro, in quanto il contatto con gli Spagnoli fu comunque distruttivo per i nativi della regione, la cui cultura subirà un pesante trauma. Furono le malattie importate dagli invasori Europei, a produrre un dramma di cui non possiamo valutare l’entità, ma che certo è testimoniato dai resoconti delle spedizioni di de Soto e de Luna, a circa un ventennio di distanza l’una dall’altra. In tutto il suo lungo viaggio de Soto, incontrò un gran numero di comunità indiane, in una regione densamente popolata; vent’anni dopo de Luna attraversò più o meno la stessa area, e ebbe scarsissimi rapporti con i nativi, che molto probabilmente evitavano il contatto, ma il cui numero era anche evidentemente ridotto. Fu certamente la spedizione di Hernando de Soto a causare una vera e propria catastrofe demografica, dato che essa si protrasse per diversi anni, attraversò un territorio vastissimo, ebbe contatti, anche prolungati, con decine di comunità e migliaia di indiani. Influenza, morbillo e altre patologie che in Europa raramente portavano alla morte, decimavano gli indiani il cui patrimonio immunitario si era prodotto in un contesto di isolamento di oltre 40.000 anni; un virus o un batterio trasmesso attraverso il contatto, l’uso del giaciglio, la condivisione di alimenti, o un rapporto sessuale, probabilmente diede i suoi frutti avvelenati quando gli Spagnoli avevano già abbondonato la comunità che era stata infettata, ignari colpevoli della piaga di cui erano portatori. Un altro danno ascrivibile alla spedizione di de Soto, è l’introduzione di una mandria di maiali, che diede luogo negli anni successivi alla comparsa del maiale selvatico in Nord America, un animale che rappresentava un vero pericolo per le coltivazioni degli indiani, il cui impatto sull’ambiente, almeno in una prima fase, fu certamente distruttivo. Non ultimo va considerata l’introduzione di oggetti di metallo, che imponendosi rispetto ai manufatti e agli utensili in pietra di fabbricazione indiana, poneva le condizioni per la subalternità e la dipendenza dei nativi, rispetto al commercio con i bianchi. La crisi demografica successiva alla diffusione delle malattie, insieme alle altre novità prodotte dal contatto con i bianchi, ebbero certamente influenza sulla struttura politica e sociale dei popoli nativi della regione. Nel secolo successivo al contatto con gli Spagnoli, scompaiono i grandi centri cerimoniali della Cultura del Mississipi, viene abbandonato l’uso di costruire i grandi tumuli, segno di prestigio dell’aristocrazia sacerdotale, va in crisi la struttura gerarchica che era il fondamento della Cultura del Mississipi, mentre scompaiono o si riducono di importanza i potentati incontrati da de Soto. Un secolo dopo non si ha più alcuna menzione del potentato di Ocute o di quelli di Cofitachequi, i Tunican presso cui de
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Soto s’era a lungo fermato, abbandonarono la regione, lo stesso vale per le genti di Quigualtam che scompaiono dalla storia, forse immigrate a sud presso gli affini Natchez, proprio per la pressione dei Tunican; il potentato di Coosa è già in crisi al tempo dell’arrivo di de Luna, e subirà l’offensiva dei montanari Cherokee, che occuperanno tutta la parte settentrionale dell’area e si imporrano come principale tribù della regione. L’impatto traumatico di malattie epidemiche, non agì solo sul piano demografico, ma quasi certamente sconvolse la struttura sociale e mise in discussione le leadership tribali, la cui legittimazione veniva meno a fronte di eventi inspiegabili e catastrofici; nei sistemi di impianto teocratico, in cui la leadership si presenta come intermediaria tra la condizione umana e l’entità divina, l’incapacità di far fronte ad un evento inspiegabile e ignoto, come il diffondersi di malattie sconosciute, può essere facilmente interpretato proprio come conseguenza della rottura di un rapporto armonico con la divinità, rottura la cui responsabilità è naturalmente imputabile a chi doveva svolgere un ruolo di intermediazione. Non abbiamo notizie certe di cosa accadde in questo periodo oscuro a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, ma una antica tradizione dei Cherokee, potrebbe confermare l’ipotesi qui avanzata. I Cherokee non erano tra i popoli in cui la Cultura del Mississipi era particolarmente sviluppata, ed essa si impose solo in epoca tarda, in conseguenza dell’egemonia del vicino potentato di Coosa; dai riscontri archeologici, pare che i tumuli di terra sulla cui sommità vivevano capi e sacerdoti, caratteristici della Cultura del Mississipi, fossero qui edificati al di sopra delle grandi capanne in cui si riunivano precedentemente i capi clan e gli anziani della comunità; se ciò è vero, si tratterebbe della plastica rappresentazione, del sovrapporsi di un modello sociale teocratico e gerarchizzato, al di sopra di un impianto originario più democratico ed egualitario. Secondo il mito dei Cherokee, in un epoca imprecisata, una sollevazione avrebbe scacciato un clan di maghi e stregoni, che si erano insediati al potere e che provocavano il male tra la popolazione; è evidente che l’evento a cui si fa riferimento, può essere uno dei tanti momenti di crisi della teocrazia della Cultura del Mississipi. A ulteriore conferma c’è il dato storico della vincente offensiva dei Cherokee contro i Muskogee del potentato di Coosa, iniziata proprio alla fine del ‘500 o all’inizio del ‘600, che sembra il naturale sviluppo di una guerra civile, contro un una leadeship interna espressione di una potenza esterna. A parte questo mito dei Cherokee, null’altro è giunto dalla tradizione orale degli indiani su questo periodo, e la cosa può avere diverse spiegazioni, non ultima la tendenza alla “tabuizzazione” di eventi gravi e temuti, e quindi anche il rifiuto di parlare di essi; è questa una pratica riscontrata in tempi storici tra diversi popoli nativi, che potrebbe spiegare l’assenza di riscontri nelle tradizioni orali. In conclusione il dato certo è che quando gli Europei iniziarono a rapportarsi con continuità agli indiani del Sud-Est, essi non trovarono che poche tracce residue dell’antica Cultura del Mississipi: una appena percettibile gerarchia all’interno delle comunità, con le famiglie e i clan che esprimevano i capi, i guerrieri il cui ruolo era nel frattempo divenuto prevalente rispetto a quello dei sacerdoti, il mantenimento di legami rituali e religiosi tra diverse comunità, che in alcuni casi produceva labili confederazioni politiche, come quella dei Creek, eredi del potentato di Coosa. Infine un’unica società, quella dei Natchez del basso corso del Mississipi, che ancora viveva secondo l’antico modello; forse il spravvivere dei Natchez ai traumi che subirono popoli vicini, va ricercato nel fatto che il loro unico contatto con gli Spagnoli, era stato il guardare i superstiti della spedizione di de Soto, fuggire bersagliati dalle frecce lungo il grande fiume. Va comunque rilevato che forse fu proprio il ritorno ad una struttura sociale più semplice, duttile e decentrata, a permettere agli indiani del Nord America di resistere per più tempo e con maggior successo al confronto con il mondo dei bianchi, rispetto ai grandi imperi e alle grandi civiltà del Sud e del Centro America. Quando a partire dalla fine del ‘600 la pressione degli Europei in questa regione iniziò a divenire pesante, gli indiani dell’area furono in grado di resistere, attraverso diverse strategie, per quasi un secolo e mezzo, prima di cedere definitivamente il passo agli invasori.
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MESSICO SELVAGGIO La Gran Chichimeca
L’impresa di Hernan Cortez che nel giro di pochi anni portò alla distruzione dell’impero Azteco, alla conquista di tutte le terre su cui esso si estendeva, e alla sottomissione di tutti i popoli che ne erano i vassalli, fu certamente la vicenda più eclatante della conquista spagnola del Messico, al punto che in qualche modo essa pare coincidere con la effettiva conquista del Messico, che fu in realtà fu vicenda molto più lunga, difficile e in buona misura poco documentata. L’impero Azteco si estendeva in tutta la vasta regione corrispondente all’attuale Messico centro-meridionale, forse la regione più ricca del continente, laddove l’agricoltura aveva fatto la sua prima comparsa in Nord America, migliaia di anni prima dell’era cristiana, la terra che aveva visto l’emergere di grandi civiltà, dalla più antica, quella degli Olmechi, fino ai Toltechi e agli Aztechi che gli erano succeduti, la terra che ancora oggi vede la maggior concentrazione della popolazione messicana, e quella che a tutti gli effetti può dirsi il cuore della civiltà e della storia del Messico. Ciò nonostante questa regione è solo una parte del Messico, che a nord di essa si estende per vasti territori, molto meno ricchi e ospitali, e per la cui conquista gli Spagnoli si dovettero impegnare in centocinquanta I popoli del Messico settentrionale
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anni di conflitti, durante i quali subirono durissime sconfitte e alla fine dei quali non tutte le sacche di resistenza degli indios erano state debellate: ancora negli anni ’20 del ‘900 per sedare l’ultima rivolta degli irriducibili Yaqui, il governo messicano dovette intervenire con i bombardamenti aerei. La storia della resistenza dei nativi di questa vasta regione è stata in larga misura oscurata, sia per la scarsità delle fonti storiche, sia per l’attenzione prioritariamente data dagli studiosi alla vicenda della conquista dell’impero Azteco, e a quelle di molto successive, della resistenza dei nativi a nord del Messico, gli ApaUna famiglia di indiani Chichimechi, rappresemtata nel Codice che e i Navaho, resi famosi dal cinema e dalla Fiorentino di fra Bernardino de Sahagun, del 1577 letteratura. Altra ragione per cui di questa lunga vicenda poco è rimasto, è anche il fatto che gran parte dei popoli di questa vasta area, sono ormai scomparsi da secoli, estintisi a causa delle guerre, della schiavitù e delle malattie, o nell’ipotesi migliore, confusi e mescolati a quella popolazione meticcia che è maggioritaria in Messico. Di questi popoli ormai scomparsi, ci rimangono un gran numero di nomi, a volte ricordati in una sola testimonianza e poi mai più citati, e fra questi nomi uno soprattutto che si ripresenta in vari contesti e con diversi significati: Chichimechi. Chichimechi è un termine che nella storia del Messico ha lo stesso significato di “barbari” per gli antichi Greci e Romani; Chichimechi erano tutti coloro che vivevano al di fuori delle civiltà urbane e agricole più evolute del Messico centrale, e quindi il termine non definisce un popolo in particolare, ma tutti i popoli stanziati a nord dell’area Azteca. Al tempo stesso però con lo stesso termine gli Aztechi definivano i propri antenati, nomadi bellicosi giunti dal nord come mercenari per porsi al servizio dei Toltechi, ai quali alla fine si sostituirono. Con lo stesso termine si definisce anche una regione, la “Gran Chichimeca”, l’ampia valle interna a nord dei domini Aztechi, rinchiusa le due catene parallele della Sierra Madre Orientale e Occidentale. Si tratta di una terra difficile, dalle scarse precipitazioni, povera di corsi d’acqua e di vegetazione, che poco s’adatta all’economia agricola. Questa era la terra dei Chichimechi, nomadi e seminomadi di varie tribù, i Guachichiles, gli Zacatecos, i Guamares, i Caxcanes, quasi tutte di lingua Uto-Azteca, come gli Aztechi che avevano costruito un impero, e che pochi secoli prima vivevano da nomadi come loro. Erano cacciatori ed esperti arcieri, conoscevano l’ambiente e raccoglievano frutti e radici selvatiche, ma quando se ne presentava l’occasione e le condizioni adatte, coltivavano piccoli campicelli di mais; non edificavano piramidi e grandi città, ma vivevano in ripari di frasche o grotte, giravano quasi nudi, con i capelli lunghi e il corpo tatuato e dipinto. Loro vicini erano i Pame e gli Otomi, meno bellicosi, più propensi all’attività agricola, che erano stati gli abitanti originari dell’area, che avevano dovuto in larga misura abbandonare all’arrivo dei bellicosi nomadi del nord. Oltre la Gran Chichimeca verso nord, la valle interna messicana si faceva ancora più arida e priva di risorse, un grande bacino interno noto come Bolson de Mapimi, dove i pochi corsi d’acqua che scendevano dalle pendici delle due Sierra Madre, si incontravano al centro a formare acquitrini e paludi, che durante i mesi più caldi potevano scomparire per l’evaporazione dovuta al caldo. Qui vivevano altri nomadi di cui abbiamo scarsissime notizie, i Laguneros, i Toboso e altri ancora, probabilmente affini linguisticamente e culturalmente ai Chichimechi; anche queste genti scompaiono dalla storia alla fine del ‘600, dopo decenni di conflitti con gli Spagnoli. Più a ovest nelle valli montane della Sierra Madre Occidentale, e lungo il corso del Rio Concho che raccoglie le acque dai monti per portarle fino al Rio Grande a nord, la maggiore disponibilità di acqua, torrenti e sorgenti, permetteva ad altre tribù, i Nebome, gli Yaqui, gli Opata, i Concho, i Tarahumara, gli Acaxee, i Tepehuan, tutte di lingua Uto-Azteca, di vivere in stabili comunità agricole. Queste genti, sulle loro montagne, riuscirono a sopravvivere al contatto con il mondo dei bianchi in parte adattandosi ad esso, in parte combattendolo, ma sempre rivendicando la propria autonomia e integrità etnica, che ancora oggi in qualche misura conservano nel Messico moderno. A completare il quadro del Messico selvaggio, i nomadi raccoglitori, cacciatori e pescatori della Baja California, i Cochimi, i Waicuru, i Pericu, questi ultimi due popoli forse i più antichi abitanti del Nord America, giunti in epoca remota, forse 30.000 anni fa; quindi i Seri delle zone costiere dello stato messicano di Sonora, anch’essi nomadi, capaci di sopravvivere in una terra ostile e scarsa d’acqua, guerrieri temibili e irriducibili,
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che si opposero ai bianchi fino a primi anni del ‘900; infine le genti delle pianure e delle lagune costiere del nord-est del Messico, anch’essi nomadi, assimilabili ai popoli del Texas meridionale e genericamente noti come Coahuiltec, di cui le notizie sono veramente scarse, la lingua è ignota e che scompaiono già nei primi decenni del ‘600. Questo era il Messico selvaggio, la terra che si trovarono davanti i “conquistadores” spagnoli, ancora inebriati dalle ricchezze e dai successi di Cortez, pronti a cercare altri imperi e altri tesori, privi di scrupoli e determinati. Degli abitanti di queste terre già Cortez aveva deciso il destino alla fine degli anni ’20 del ‘500, quando descrivendoli come barbari e incivili, un solo futuro assegnava loro: la schiavitù e il lavoro forzato nelle miniere. E questa fu la vicenda della conquista del Messico settentrionale, non l’appropriazione di oro e ricchezze, come era avvenuto fra gli Aztechi e gli Inca, ne la colonizzazione di una terra, scacciandone gli abitanti originari, come sarebbe accaduto a più a nord, negli Stati Uniti, ma la sottomissione di intere popolazioni e la loro trasformazioni in servi e schiavi, da far lavorare in miniere e fattorie, i “peones” protagonisti delle mille rivoluzioni messicane nei secoli successivi. Ma non fu Cortez ad aprire la strada verso i deserti del nord, e a ini- La Danza del Cervo degli Yaqui ziare la guerra contro le genti che li abitava, ma un uomo inviato per contrastare il suo potere, un amico dei suoi nemici, Nuno Beltran de Guzman, un nome che nel Messico del tempo, in cui sopraffazione, violenza, arbitrio erano la norma, riuscì a destare scandalo per la sua crudeltà.
Il detestabile Nuno de Guzman apre la via del nord
“Crudeltà del più alto livello, ambizione senza limiti, raffinata ipocrisia, grande immoralità, ingratitudine senza eguali, odio feroce nei confronti di Cortez”: queste sono le parole con cui un suo biografo definisce la personalità di Nuno Beltran de Guzman, il nobile appartenente ad una antica casata, già membro della guardia scelta di Carlo V, che nel 1525 il re decise di inviare come governatore della provincia di Panuco, lungo la costa del Messico, per bilanciare il troppo potere nelle mani di Cortez, il conquistatore del Messico. Guzman assunse l’incarico solo nel 1527, quando riuscì a raggiungere il Messico, e il suo arrivo nella colonia diede avvio all’ennesima lotta di potere tra gli Spagnoli; si trattava di fatto del conflitto già iniziato quasi dieci anni prima, quando Cortez s’era sottratto al controllo del governatore di Cuba Velasquez de Cuellar, che nel frattempo era morto: da un lato gli amici e i collaboratori di Cortez, dall’altra quanti non avevano partecipato alla sua impresa, o che ritenevano di non aver avuto un premio adeguato per il loro contributo. Era un conflitto sotterraneo, fatto di piccole manovre, delazioni, inchieste e tentativi di screditare l’avversario, ma a quel livello rimaneva, dato che davanti ad una figura come Cortez, solo il re poteva intervenire: in questa scontro spesso giocato in punta di fioretto, Nuno de Guzman intervenì con la brutalità e l’ottusità di un ariete, mosso da una sorta di rancore incontrollato. In questa sordida battaglia per la spartizione tra le diverse consorterie, di terre, giacimenti e forza lavoro indiana, il tema del maltrattamento dei nativi, che trovava qualche attenzione negli ambienti religiosi, veniva spesso usato da una parte o dall’altra, come accusa per screditare l’avversario, e offrire lo spunto per interventi censori della corona; anche in ragione di ciò, fin quando era possibile, si tentava di dare una parvenza di legalità allo sfruttamento degli indiani, evitando l’esplicita schiavizzazione almeno dei popoli e delle tribù che non si mostravano ostili. Anche in questo ambito il nuovo governatore di Panuco dimostrò toNuno de Guzman, conquistador del nord del Messico tale spregio delle forme e delle apparenza, agendo con
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l’unico faro della propria cupidigia, e trasformando quelli che in ultima analisi e per quanto di livello inferiore, erano sudditi del suo re, in merce su cui lucrare senza ritegno. La provincia di Panuco che gli era stata affidata, e che era formalmente autonoma dal governo militare di Cortez, non era tra le più tranquille del Messico e gli Huaztechi che l’abitavano, solo da poco erano stati sottomessi. Si trattava di un popolo affine ai Maya dello Yucatan, che viveva pacificamente dei suoi campi, nelle città sovrastate da piramidi, ed era apprezzato per la qualità dei suoi musici; alla metà del ‘400, erano stati sottomessi dagli Aztechi a cui pagavano tributo, ma a differenza di popoli a loro vicini, quando Cortez giunse in Messico, non si unirono a lui contro i loro dominatori, ma si mantennero indipendenti, distruggendo un primo insediamento Spagnolo costituito sul loro territorio nel 1520, opponendosi agli uomini inviati da Cortez nel 1521, e poi ribellandosi due volte agli Spagnoli nel 1523 e tra il 1525 e il 1526. Ma al momento dell’arrivo del nuovo governatore essi avevano ormai abbandonato ogni ostilità, e accettato la presenza dei nuovi padroni. A sedare le rivolte degli Huaxtechi erano stati, con la consueta crudeltà, gli uomini di Cortez, che di fatto governavano la regione in assenza di altre autorità; quando nel 1527 Guzman finalmente assunse la carica di governatore, entrò subito in conflitto con loro, denunciandoli pretestuosamente di tradimento, espropriandone alcuni delle loro proprietà e addirittura processando e giustiziando altri; poi non pago di ciò, si appropriò di terre delle province vicine, giungendo quasi a provocare una guerra civile; infine nel 1529 accusò lo stesso Cortez di tradimento e ribellione. Questi erano i rapporti che Guzman instaurò con i suoi compatrioti in Messico; quanto agli indiani, semplicemente egli organizzò il traffico degli schiavi dal Messico ai Caraibi, concedendo in meno di otto mesi, un migliaio di licenze private, ognuna valida per un numero dai 15 ai 50 schiavi. Furono così migliaia gli Huaxtechi che subirono l’ignobile traffico, reso ancor più odioso dalla pratica di marchiare in fronte gli schiavi prima della loro spedizione. Le autorità spagnole avevano sempre avuto un comportamento ambiguo nei confronti della tratta degli schiavi, ampiamente tollerata, ma che un governatore con un incarico ufficiale, organizzasse direttamente e su larga scala un simile commercio, non s’era mai visto. Ovviamente anche la chiesa locale si aggiunse alla fazione di Cortez, nel tentativo di liberarsi del personaggio. Malgrado il gran numero di nemici che era riuscito a farsi in così breve tempo, Guzman, sostenuto dal Consiglio delle Indie, l’organismo che in Spagna era responsabile della politica coloniale, fu nominato nel 1529 presidente della Real Audiencia del Messico, l’organismo civile che sostituiva il potere militare di Cortez, che fino ad allora aveva governato i nuovi possedimenti. Il prestigioso incarico comunque durò poco, fino al rientro dalla Spagna di Cortez, dove era andato a difendersi dalle accuse mossegli dai suoi nemici. Guzman in ogni caso aveva usato della nomina per breve tempo, approfittandone per organizzare l’impresa a cui certo pensava fin dal suo arrivo in Messico: la conquista di un potente e ricco regno, che gli desse lustro e ricchezza, almeno pari al suo odiato rivale Cortez. Giravano da tempo racconti leggendari sulle favolose “7 città d’oro di Cibola”, e pare che Guzman avesse avuto informazioni su di esse da un suo servitore indiano. Senza curarsi dei doveri che la sua nomina imponeva, e contando solo sul potere che essa gli dava, il 21 dicembre 1529, lasciato l’incarico di vicario ad un altro membro della Audiencia, Nuno de Guzman partì alla conquista delle terre del Messico ancora ignote: aveva con se alcune centinaia tra fanti e cavalieri spagnoli, e diverse migliaia di guerrieri aztechi e di altri popoli sotto- Nuno de Guzman in un codice Azteco del ‘500
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messi. Primo obbiettivo di Guzman furono le terre dei Tarascan, a nord-ovest dell’impero Azteco, nell’attuale provincia di Michoachan; i Tarascan erano un popolo di grande civiltà, particolarmente esperto nella lavorazione dei metalli, e anche per questo gli Aztexchi avevano tentato, senza successo, di sottometterli. Alla notizia della fine del potere Azteco, il capo dei Tarascan Tanguaxan II, s’era affrettato a inviare emissari a Cortez in cerca di un accordo, e quando questi aveva inviato soldati sulle sue terre, Tanguaxan II aveva schierato una potente armata, ma poi aveva fatto atto di sottomissione senza combattere. In conseguenza di ciò dal 1525 egli continuava a governare sulle sue terre con ampia autonomia, considerato come un alleato dagli Spagnoli. Guzman giunse nelle terre dei Tarascan, e ottenuto l’aiuto di un rivale di Tanguaxan II, riuscì ad imprigionare il capo, accusandolo di complotto, ribellione, sottrazione di tributi, eresia e sodomia, quindi lo torturò, facendolo trascinare da un cavallo, mentre chiedeva a più riprese dove egli nascondesse il suo tesoro, infine lo bruciò vivo il 14 febbraio del 1530; poi mise a ferro e fuoco il paese, prendendo quanti più schiavi poteva. Dopo fu la volta dei Caxcane, una tribù che viveva in piccoli villaggi agricoli a nord dei Tarascan; Guzman si spostò nella regione di Tlaltenago dove attaccò i Caxcanes lasciando dietro di se morte e distruzione Queste furono le prime tra le azioni di Guzman, mentre conosciamo meno i particolari delle sue imprese successive nelle regioni del nord, dove si spinse alla ricerca delle leggendarie “7 Città d’oro di Cibola”. Incurante del fatto che il suo incarico di Presidente dell’Audiencia fosse stato revocato e dei suoi molti nemici, che puntavano a liberarsi di lui definitivamente, Guzman decise di scommettere tutto sul successo della sua impresa di conquista e continuò a vagare nelle terre ignote in cerca delle misteriose città. Nelle terre del nord cui Guzman si spinse, non c’erano grandi città in pietra, piramidi e monumenti, ma solo piccole rancherias di capanne di sterpi, abitate da nomadi, che vivevano in piccole bande, o al massimo piccoli villaggi agricoli, laddove un torrente o una sorgente permettevano di coltivare un po’ di mais; si trattava di comunità indiane assolutamente impossibilitate a misurarsi con una colonna militare di migliaia di uomini. Per quelli che non riuscivano a fuggire all’arrivo degli invasori, l’esito era sempre lo stesso, villaggi bruciati, scorte alimentari rubate, gli indiani catturati, torturati per ottenere informazioni su terre più ricche nelle vicinanze, e quanti non venivano uccisi, tradotti in schiavitù. Per oltre un anno la spedizione di Guzman attraversò la Gran Chichimeca in lungo e in largo, con gli uomini spesso ridotti alla fame o ammalati di febbri tropicali, facendo strage di indiani, in quella che uno storico ha definito un’impresa di genocidio. Come già altri, prima e dopo di lui, Nuno de Guzman continuava nel suo feroce vagabondaggio, convinto di poter emulare le gesta di Cortez, che pur ribellatosi all’autorità, era stato premiato per le ricchezze portate alla corona. Così lui che sapeva quanto la sua posizione si stesse facendo difficile davanti al re a causa dei molti e potenti nemici che s’era fatto, sperava che le “7 Città d’oro di Cibola”, o qualche altro ricco impero, potessero riscattarlo e farlo prevalere su Cortez e la sua fazione. Il prezzo di questa follia, lo pagavano ignari indiani, bruciati e torturati, perché incapaci di dare quelle risposte, che lo Spagnolo voleva ascoltare. Nell’estate del 1531 Guzman raggiunse la costa del Pacifico, continuando poi verso nord in quello che oggi è lo stato di Sinaloa, fino alle terre degli indiani Guasave e Mayo, popolo di agricoltori sedentari, che tentarono di fermarlo con un esercito di molte migliaia di guerrieri. La battaglia fu aspra e difficile e alla fine gli indiani dovettero ritirarsi, ma anche Guzman dovette rinunciare a procedere oltre: un presidio fu stabilito nel punto più settentrionale mai raggiunto dagli Spagnoli nel settembre del 1531, con il nome di San Miguel de Culiacan, che divenne poi la base per le successive esplorazioni spagnole del Le terre attraverste dalla spedizione di Nuno de Guzman Nord del Messico. Nel 1533
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Diego de Guzman, nipote di Nuno, fu inviato dallo zio con un esercito a tentare ancora la via del nord, e attraversata la terra dei Mayo, raggiunse il fiume Yaqui nella terra degli indiani omonimi; qui un capo indiano si presentò agli Spagnoli, minacciandoli di non oltrepassare una linea che egli aveva tracciato nella sabbia. Gli Spagnoli reagirono con sprezzante noncuranza e continuarono nella loro avanzata, trovandosi davanti ad un esercito di migliaia di guerrieri Yaqui, che con feroce determinazione e approfittando della conoscenza del terreno, inflissero agli Spagnoli una dura sconfitta. Diego de Guzman nel suo rapporto parlerà di una vittoria, ma è un fatto che gli Spagnoli e i loro alleati indiani furono costretti a tornare a Culiacan, e nei settant’anni successivi, nessuno avrebbe più osato penetrare nelle terre degli Yaqui. Questa prima vittoria degli Yaqui fu il primo evento di una resistenza che durerà quasi 400 anni. Nuno de Guzman era intanto tornato a sud, a Tepic, dove aveva stabilito il suo quartier generale, ed era divenuto il governatore della Nueva Galicia, così le terre da lui esplorate erano state denominate dalla regina di Spagna Giovanna di Castiglia, a cui non era piaciuto il nome scelto dallo stesso Guzman. Nel corso della sua spedizione era stata fondata la città di Guadalajara e altri centri minori, ponendo quindi la premessa per la successiva colonizzazione del territorio; ovviamente il passaggio degli Spagnoli aveva lasciato il suo consueto retaggio di malattie contagiose, il cui impatto è difficilmente valutabile, ma forse meno grave che in altri contesti, vivendo i Chichimechi in piccole comunità disperse, meno esposte al contagio, rispetto ai grandi insediamenti e le città, dove migliaia di persone erano in continuo contatto. Certo è che le crudeltà spesso gratuite di Nuno de Guzman, avevano lasciato dietro di se un desiderio di vendetta, oltre a mettere sull’avviso gli indiani della Gran Chichimeca, la cui ostilità era ormai aperta e dichiarata; non sarebbero passati che pochi anni prima dell’esplodere di un primo duro conflitto che avrebbe messo a rischio le colonie più settentrionali del Messico, ma quando ciò accadrà, Nuno de Guzman sarà ormai fuori dai giochi. Nel 1536 l’inchiesta promossa dal vescovo del Messico Juan de Zumarraga per maltrattamenti nei confronti degli indiani darà i suoi frutti, e Nuno de Guzman verrà imprigionato per un anno, quindi spedito in catene, in Spagna dove fu processato e condannato; la sua pena sarà breve, e alla fine otterrà un piccolo incarico retribuito nella guardia reale. Morirà anni dopo lamentando i torti subiti, rivendicando le sue ragioni e compiangendosi della propria povertà. Che ad un simile personaggio, nella cui vicenda non sembra emergere alcuna qualità, si debba il procedere della Storia, da l’idea di come quest’ultima non si curi dei suoi strumenti. Eppure senza la crudele e insensata impresa di Nuno de Guzman, il piccolo e isolato presidio di Culiacan non sarebbe stato fondato, e un pugno di uomini bianchi che da anni vagavano attraverso il continente, mai avrebbero avuto una meta in cui porre termine alla loro odissea: e senza di loro la storia sarebbe stata diversa.
Cabeca de Vaca, da naufrago a shamano
Nel 1536, Culiacan, la città fondata da Nuno de Guzman all’estremo limite settentrionale dei possedimenti spagnoli in Messico, era un piccolo presidio, abitato da un pugno di Spagnoli, e dai loro alleati indiani; di quelli che erano giunti con Nuno de Guzman, molti erano morti a causa di una serie di epidemie, la prima delle quali s’era diffusa nel 1531 appena Guizman era giunto nella regione, seguita poi da altre nel 1534 e 1535; le epidemia si erano poi estese ai villaggi indiani falcidiando in particolare la vicina tribù dei Guasave, di cui c’è rimasto solo il nome e poche notizie, e che di fatto scompare dalla storia immediatamente dopo il contatto con i bianchi. Le malattie comunque non erano l’unica disgrazia portata dagli Spagnoli, dato che questi, come era loro prassi abituale, lanciavano periodici raids ai danni dei villaggi più vicini, per rifornirsi di schiavi da far lavorare al loro servizio. A sud di Culiacan, prima di raggiungere altri insediamenti europei, c’erano centinaia di chilometri di una terra quasi del tutto ignota, abitata da indiani ostili, che ancora portavano i segni della crudele spedizione di Nuno de Guzman, e attraverso queste terre era necessario passare per mantenere i contatti con le autorità coloniali, ottenere rifornimenti e ricevere sostegno in caso di problemi con gli indiani. A nord, oltre i bellicosi Yaqui e le altre tribù selvagge Alvar Nunez Cabeza de Vaca
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che occupavano le valli della Sierra Madre, nessuno sapeva cosa ci fosse, se le favolose 7 città d’oro di Cibola, oppure deserti impraticabili, o invece una costa e quindi il mare, il leggendario Stretto di Anian, il canale che doveva collegare l’Atlantico al Pacifico, e quindi la via per la Cina. L’unica cosa di cui tutti erano certi, era che a nord di Culiacan non c’erano uomini bianchi: nessuno s’era mai spinto oltre Culiacan. Grande fu quindi lo stupore, ed anche il sospetto, dei quattro soldati spagnoli agli ordini del capitano Diego de Alcaraz, quando nelle terre inesplorate a nord della città, incontrarono un bianco e un africano, accompagnati da un gruppo di indiani; pur dubitando di aver davanti degli Spagnoli, i soldati accompagnarono i due dal loro capitano, impegnato in una spedizione di cattura di schiavi in quelle terre. Gli uomini che si presentarono a Diego de Alcaraz, erano Alvar Nunez Cabeza de Vaca, tesoriere e vicecomandante della spedizione di Panfilo di Narvaez e lo schiavo africano Estevanico; a poca distanza altri due Spagnoli, Andres Dorantes de Carranza e Alonso Maldonado del Castillo, erano accampati insieme a centinaia di indiani che li accompagnavano: erano gli unici quattro sopravvissuti della spedizione di Panfilo di Narvaez del 1528. Diego de Alcaraz comunque non si fidava di quegli uomini vestiti come gli indiani, dal volto bruciato dal sole, che tra gli indiani si muovevano con tanta serenità, ne parlavano la lingua e di cui riscuotevano la totale fiducia. Da giorni vagava tra campi e villaggi abbandonati, senza trovare alcun indiano, disperso in una terra abbandonata dagli abitanti, rifugiatisi tra i monti, ed ora quegli strani personaggi, gli portavano gli indiani su un piatto d’argento; ancor prima di chiedersi con chi avesse a che fare, il suo primo pensiero fu quello di far schiavi gli indiani del seguito di Cabeza de Vaca. Questi dal canto suo, invece di collaborare, a fatica riuscì a convincere gli indiani a tornarsene ai loro villaggi, promettendo il suo impegno per impedire agli Spagnoli di tornare a vessarli e a rapirli; Diego de Alcaraz, evidentemente infuriato, fu alla fine costretto a inviare i quattro spagnoli a Culiacan, quindi riprese la sua spedizione. Quando i quattro finalmente giunsero a Culiacan, l’alcade Melchior Diaz mostrò più buon senso del suo capitano, e ascoltato il racconto di Cabeza de Vaca, capì che gli uomini che aveva di fronte avevano compiuto un’impresa eccezionale: era il giugno del 1536, otto anni erano passati da quando gli uomini di Panfilo de Narvaez erano approdati in Florida, e in quegli otto anni nessuna notizia si era più avuta di loro, e ora, all’altro capo del continente, a migliaia di chilometri di distanza, quattro superstiti facevano la loro comparsa. Era il novembre del 1528 quando ciò che rimaneva della spedizione inviata alla conquista della Florida, meno di un centinaio di uomini, faceva naufragio con le sue barche di fortuna, lungo la rotta che avrebbe dovuto riportarli a Panuco, in Messico; l’isola su cui naufragarono era antistante alla Baia di Galveston, in Texas e lì circa 80 Spagnoli affamati, malati, seminudi e infreddoliti, furono raccolti da una banda di indiani della regione, che Cabeza de Vaca chiama Han, quasi certamente una tribù Atakapa, che visitava le lagune costiere per raccogliere i molluschi di cui si cibava, quando nell’entroterra scarseggiavano frutti, radici selvatiche e selvaggina. Oltre che dagli Han, l’isola era frequentata dai Capoque, sicuramente una tribù Karankawa che viveva più a sud, lungo la costa del Texas, e sulla costa vicina vi erano altre piccole bande, fra cui gli Spagnoli furono accolti. Nei giorni successivi gli indiani, curiosi e un po’ intimoriti, cercarono di sostentare i malcapitati, ma il prezzo che pagarono fu una malattia intestinale, che comparsa fra gli Spagnoli debilitati, presto si diffuse tra le comunità indiane, lasciando la consueta scia di morte. Fu a quel punto che fra gli indiani si fece largo il sospetto che la colpa della malattia fosse dei nuovi arrivati, i quali scamparono alla morte, solo perché un anziano fece notare a tutti, che se gli Spagnoli fossero stati i colpevoli della sciagura, essi non ne sarebbero stati vittime; ciò fece venir meno il rischio di una fatale accusa di stregoneria. Nelle settimane e nei mesi successivi in effetti, gli Spagnoli morirono a decine, di malattie e di fame, altri nell’avventuroso tentativo di raggiungere via terra Panuco, la più settentrionale colonia del Messico sull’Atlantico: in breve tempo non più di quindici sopravvissero, e all’inizio della buona stagione, partirono anch’essi verso sud, lasciando dietro di loro pochi compagni, troppo debilitati per mettersi in cammino. Fra questi vi era Cabeza de Vaca, che era appena fuggito dalle vessazioni di una tribù, e malato aveva trovato ospitalità presso un altra. RipreCabeza de Vaca prigioniero fra gli indiani, in una illustrazione del suo resoconto pubblicato alla metà del ‘500 sosi dalla malattia, col tempo Cabeza de Vaca ottenne la
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fiducia della gente fra cui viveva, e quindi la libertà di potersi spostare a proprio piacimento, per fare dei piccoli commerci tra le tribù della zona. Iniziò così un periodo di solitari vagabondaggi da una tribù all’altra, tra la costa del Texas e le regioni dell’interno, in una vasta area che dalla Baia di Matagordo sulla costa meridionale del Texas, probabilmente raggiungeva il corso del fiume Trinity, nel Texas orientale. Cabeza de Vaca portava piccoli oggetti come pettini fabbricati con le proprie mani o conchiglie, e li scambiava con pelli delle regioni interne, oppure sassi di foggia e colore curioso provenienti dalla costa, con archi e frecce fabbricati da tribù dell’interno, riuscendo a farsi apprezzare da tutti gli indiani che incontrava, che spesso lo attendevano come una piacevole novità nella loro povera vita. Si trattava di bande di indiani nomadi, cacciatori, raccoglitori e pescatori, che si spostavano a piedi fra gli acquitrini e le lagune della costa, o nella macchia che copriva le vaste praterie dell’interno, vivendo una vita precaria in attesa della maturazione di determinati frutti in un determinato luogo, approfittando di un cervo o dell’incontro con una mandria di bisonti, oppure cibandosi per mesi di molluschi e un po’ di pesce; la fame era un compagno perenne di questi indiani, come il freddo nella cattiva stagione, quando solo un riparo di stuoie e frasche dava riparo ai corpi seminudi. Per più di cinque anni Cabeza de Vaca visse questa vita e guardò alle diverse usanze delle tribù che visitava, ne imparò le lingue, condivise con loro la fame e il freddo o la soddisfazione di un pasto ricco e abbondante. Nelle sue testimonianze c’è sempre uno sguardo curioso, in cui lo stupore è più forte del pregiudizio, e la sincera ammirazione per alcune doti, come il buon carattere degli indiani, la loro serenità, il loro coraggio e loro capacità di sopravvivere in condizioni estreme, si accompagna ad una genuina riprovazione, per quanto gli appariva più incomprensibile dei loro comportamenti. Mai nelle sue parole si sente un atteggiamento sprezzante, ma sempre a prevalere è un sentimento di cristiana condivisione, accompagnato alla commiserazione per le difficili condizioni della gente tra cui viveva. Gli accadde anche di trovarsi a svolgere il ruolo di guaritore e medico, che accettò suo malgrado dopo Cabeza de Vaca e i suoi compagni tra gli indiani aver ascoltato le parole di un anziano, che gli spiegò come ogni cosa in natura ha un suo potere, e lui che era un uomo, non era da meno, e avrebbe dovuto far uso del potere che aveva; con preghiere e forse con le conoscenze di vegetali acquisite vagando da un luogo all’altro, ottenne successo in quest’attività, successo che lui considerò come un miracolo divino, non trovando altra spiegazione, e riuscendo così a divenire un personaggio amato e rispettato. Nel suo racconto ci da il nome di un gran numero di bande e tribù indiane, che però gli studiosi non sono in grado mettere in relazione con le tribù incontrate un secolo e mezzo dopo, al tempo della prima conizzazione del Texas, ma che certo possono essere ricondotte principalmente ai Karankawa delle coste del Texas, e alle varie genti genericamente definite Coahuiltec, che vagavano dal Texas meridionale al nord-est del Messico. Cabeza de Vaca non aveva però mai rinunciato alla speranza di tornare nel mondo civile, e ogni anno tornava a visitare un altro degli Spagnoli rimasti indietro come lui perché malato, e con lui provò un primo tentativo di ritorno in Messico; di fronte ai pericoli, il suo compagno preferì rinunciare, e Cabeza de Vaca continuò a sud da solo, fin quando riuscì a incontrare gli ultimi tre superstiti del gruppo di quindici che aveva tentato di tornare in Messico anni prima; dopo aver subito la fame, rischiato la vita nell’attraversamento dei fiumi, dopo l’ostilità dei nativi, gli ultimi tre superstiti vivevano tra gli indiani nella zona della Baia di Matagordo, e con loro de Vaca progettò di ritentare l’impresa del ritorno alle colonie a sud. Dovettero attendere del tempo prima che si producessero le condizioni per fuggire dagli indiani, ma alla fine riuscirono a mettersi in cammino, spostandosi da una tribù all’altra. L’itinerario del viaggio compiuto da Cabeza de Vaca e dai suoi tre compagni, Alonso del Castillo Maldonado, Andres Dorantes de Carranza e dallo schiavo Estevanico, il primo viaggio dall’Atlantico a Pacifico in Nord America, è stato per anni oggetto di studi e ha dato luogo a diverse ipotesi e poche certezze: le certezze riguardano la zona di partenza, la Baia di Matagordo in Texas, il passaggio certo nella zona di La Junta, alla confluenza tra il Rio Concho e Rio Grande, e ovviamente l’arrivo a Culiacan. Nel resoconto di Cabeza de Vaca i riferimenti geografici sono vaghi, spesso le distanze sovrastimate, senza contare che non si trattava di
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un viaggio lineare su piste note, ma del vagare sulla base delle indicazioni avute dagli indiani, variando l’itinerario per necessità contingenti. Alcuni elementi riguardanti la botanica e il clima delle terre attraversate, i riferimenti al guado di grandi fiumi, offrono appigli che però non danno certezza. Nemmeno dagli usi dei popoli incontrati durante il viaggio è possibile ricavare dati precisi, dato che gran parte di queste tribù si estinsero all’inizio del ‘700, e oggi ci sono quasi del tutto ignote. Il racconto di Cabeza de Vaca ci parla di una prima parte del viaggio, condotto fra popoli nomadi simili a quelli fra cui era vissuto negli anni precedenti, bande di indiani Coahuiltec che vagavano in gran numero a nord e sud del basso corso del Rio Grande, indiani che spesso parlavano lingue diverse, ma che comunicavano fra loro con un qualche linguaggio dei segni, si incontravano la dove c’era possibilità di trovare vegetali selvatici e selvaggina, abitualmente cooperavano, facendo anche scambi matrimoniali, ma spesso si combattevano ferocemente. L’itinerario di questa prima parte del viaggio è quello più controverso, con due principali ipotesi, la più diffusa delle quali, non trova tutti d’accordo. Secondo tale ipotesi, all’inizio i quattro Spagnoli avrebbero viaggiato verso sud, parallelamente alla costa del Texas, in direzione di Panuco, fino ad attraversare il largo corso del Rio Grande non molto lontano dalla foce; giunto nelle pianure del Messico, il gruppo invece di proseguire verso sud, avrebbe risalito le pendici della Sierra Madre Orientale verso nord-ovest, fino a raggiungere la zona di confluenza tra Concho e Rio Grande. Tale ipotesi si basa sul presupposto che Cabeza de Vaca e i suoi compagni cercassero naturalmente di raggiungere gli insediamenti messicani sulla costa Atlantica, viaggiando verso sud; d’altra parte tale ipotesi non spiega le ragioni per cui l’itinerario abbia poi bruscamente piegato a nord-ovest, allontanandosi dalla costa. Una ipotesi meno diffusa invece, assume come direttrice degli spostamenti dei quattro superstiti, le piste usate dagli indiani nel loro nomadizzare tra i diversi ambienti, dalla costa alle regioni interne, fino alle praterie dei bisonti, su un asse est-ovest, al cui estremo occidentale era la regione di confluenza tra Concho e Rio Grande, zona di contatto tra popoli nomadi e tribù agricole dell’ovest. Quale che sia stato l’itinerario, prima la curiosità, poi l’apprezzamento, quindi la devozione nei confronti dei quattro, annunciati come guaritori, giunse al punto da trasformare il viaggio in una sorta di processione a tappe, con le comunità indiane che accoglievano i viaggiatori e li accompagnavano osannanti e reverenti, fino alla comunità successiva; i più abbandonavano gli Spagnoli dopo la loro tappa, ma altri, spesso malati, li seguivano come in un pellegrinaggio, fino a formare un seguito di centinaia di persone. Il cibo per questa gente era donato dalle comunità d’arrivo ai guaritori, che lo dividevano fra il loro seguito, e chi aveva ceduto tutto, seguiva il pellegrinaggio fino al villaggio successivo, dove si appropriava dei beni di chi l’abitava, che li cedeva spontaneamente; questa modalità che stupisce Cabeza de Vaca, potrebbe spiegarsi con un aspetto caratteristico della cultura dei nativi del Nord America, per cui il dono è fonte di prestigio e autorevolezza per chi lo fa, fin al punto di ridursi in miseria, come avviene nel rito del “potlach”, tra gli indiani della costa del Pacifico. I viaggiatori giunsero quindi nella regione di La Junta, sicuramente a nord della confluenza tra Concho e Rio Grande, dove incontrarono un popolo che chiamarono “gente delle vacche”, per la loro dipendenza dai bisonti. Questi indiani dissero loro che da qualche anno avevano rinunciato a seminare i campi per via della siccità, e da loro trovarono del mais ed ebbero informazioni sugli agricoltori Pueblo a nord, lungo il corso del Rio Grande, e su altri popoli agricoli a ovest. La “gente delle vacche”, erano certamente i Jumanos, una tribù di cacciatori di bisonti, che si spostava a piedi dalla zona di La Junta, fino alle praterie del Texas centrale, e che quasi certamente erano divenuti nomadi dopo la crisi delle comunità agricole causati dai cambiamenti climatici dalla metà del ‘400. Ancora un secolo dopo i Jumanos Cabeza de Vaca e i suoi compagni lungo la via del ritorno
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usavano svernare nella regione del Rio Grande e nelle vicinanze degli indiani Pueblo, con cui anche dalle testimonianze di Cabeza de Vaca, condividevano la lingua. A ovest del Rio Grande, gli Spagnoli e il loro seguito attraversarono terre di popoli agricoli e sedentari, dalla cultura più ricca, quasi certamente gli indiani Opata di Sonora e di lì, le terre dei Nebome, fino agli Yaqui e a Culiacan. Quando giunsero a Culiacan, guidando la processione di fedeli, erano divenuti agli occhi degli indiani, dei potenti e benefici shamani, dai quali non volevano più separarsi, e prima di partire per Messico, la città capitale, Cabeza de Vaca tentò di contribuire ad una pacificazione del territorio, convincendo gli indiani a convertirsi, e gli Spagnoli e dar mostra di spirito cristiano. Ovviamente la sua azione ebbe successo per il breve periodo della sua permanenza a Culiacan. Dopo l’arrivo in Messico i quattro si separarono e presero vie diverse: Dorantes rifiutò l’offerta di Nuno de Guzman di guidare una spedizione nelle terre da lui visitate, e cercò di tornare in Spagna, non riuscendo a partire a causa di un problema alle navi, rinunciandovi poi, e rimanendo in Messico fino alla sua morte nel 1550; Maldonado ottenne una “encomienda” e visse in Messico fino alla morte, prima del 1550. Cabeza de Vaca tornò in Spagna nel 1537, e nel 1540 ottenne l’incarico di governatore del Paraguay, dove condusse esplorazioni in cerca di una via per il Perù; durante i suoi quattro anni da governatore, si fece nemici gli encomienderos locali, per la sua benevolenza nei confronti degli indiani, finendo quindi agli arresti nel 1544, e sotto processo in Spagna l’anno successivo. Così si chiuse la sua eccezionale esperienza di esploratore e uomo di confine fra due culture irriducibilmente diverse. La sua esperienza è però rimasta come patrimonio per gli storici e gli etnografi, attraverso il suo resoconto, pubblicato con il titolo di “Naufragi”, nella quale è narrata tutta la sua vicenda, dalla partenza da Cuba con Panfilo de Narvaez, fino al ritorno in Messico otto anni dopo. Dei quattro, solo lo schiavo africano Estevanico avrà ancora un ruolo nella storia delle colonie spagnole in Nord America, dopo che il suo padrone Andres Dorantes lo vendette al nuovo governatore del Messico Antonio de Mendoza. Fu lui l’unico ad aderire alle richieste di collaborazione dei governanti spagnoli per una nuova spedizione al nord, e nella sua condizione servile difficilmente poteva rifiutarsi; certo lo schiavo africano fu l’unico per cui la nuova condizione di superstite, esploratore e guida di una prossima spedizione, rappresentò una evidente opportunità di promozione sociale. E così i racconti degli indiani sui ricchi “pueblos” agricoli del Rio Grande, da lui riportati, furono la conferma della leggenda delle “7 città d’oro di Cibola”, che in tanti aspettavano.
I possibili itinerari di Cabeza de Vaca e dei suoi compagni
Francisco Vasquez de Coronado: l’ultimo “conquistador” Nel resoconto del viaggio dalla coste dell’Atlantico a quella del Pacifico, riportato da Cabeza de Vaca, non c’è nulla che possa far pensare all’esistenza delle “7 Città d’oro di Cibola”, o altri simili fantastici regni; solo in un passaggio gli Jumanos, la “gente delle vacche”, fanno un semplice accenno a villaggi con le case di
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pietra, posti più a nord, lungo il corso di un fiume che senza dubbio era il Rio Grande. Si trattava evidentemente dei “pueblos” i villaggi con case fatte di pietra e “adobe”, mattoni di fango e paglia impastati, che venivano spesso edificati al vertice delle “mesas”, i rilievi dal vertice piatto caratteristici del Sud-Ovest, dove l’erosione del terreno produce un paesaggio caratteristico. I Pueblos erano certamente popoli dalla cultura ricca e complessa, agricoltori, conoscitori delle tecniche per l’irrigazione, abili artigiani, e certamente i più grandi costruttori del Nord America, che ci hanno lasciato Immagine celebrativa di Estevanico, il primo nero africano imponenti e monumentali il cui nome compaia nella storia dell’America del Nord vestigia, in un ampio territorio, dal sud degli attuali stati dell’Utah e del Colorado, attraverso Arizona, New Mexico e Texas occidentale, fino al Messico nord-occidentale; comunque di oro, non ne avevano, e infatti Cabeza de Vaca non ne fa mai menzione. Ciò nonostante una qualche voce che potesse giustificare l’ennesima ricerca di un nuovo El Dorado, giunse da qualcuno degli altri membri della spedizione, e sicuramente lo schiavo Estevanico, confermò tali voci. Così la speranza di trovare Cibola, a nord delle terre attraversate da Cabeza de Vaca, si manifestò subito ad Antonio de Mendoza, il primo vicerè della Nuova Spagna, inviato da Carlo V per limitare il potere di Cortez, evitando comunque di averlo come nemico, come invece aveva fatto Nuno de Guzman. Proprio quest’ultimo nel 1537 era stato imprigionato e aveva così lasciato l’incarico di governatore della Nuova Galicia, la provincia nord-occidentale della Nuova Spagna, che Antonio de Mendoza decise di affidare ad un giovane nobile, amico di famiglia, che faceva parte del suo entourage, Francisco Vasquez de Coronado. Giunto nel 1535 in Nuova Spagna, Coronado si era sposato con una ricca erede di dodici anni, entrando così in possesso di un gran numero di encomiendas, e con l’incarico di governatore, si assumeva anche l’onore e e l’onore, di guidare la nuova spedizione di conquista e contribuire al suo finanziamento. Il vicerè e il giovane governatore (aveva 27 anni) probabilmente avevano ragioni diverse per tentare la ricerca di Cibola, il primo sicuramente perché da essa avrebbe potuto ottenere quel lustro, in grado di fare finalmente ombra al conquistatore del Messico Hernan Cortez, il cui potere andava al di là delle cariche ufficiali; per il giovane Coronado ovviamente si trattava di un’avventura che poteva dargli gloria e ricchezza, oltre che di un servigio a chi l’aveva aiutato nella carriera; non va poi dimenticato che il successo di Pizarro in Perù era recente, mentre la fallimentare spedizione di Hernando de Soto non era stata ancora concepita. Certo le dichiarazioni di uno schiavo africano, erano un po’ poco per investire uomini, denaro e risorse in una spedizione al nord; le terre del nord non avevano portato fortuna a nessuno, e la catastrofe della spedizione di Narvaez era un ricordo appena ravvivato, dal ritorno dei soli quattro superstiti. Fu così che piuttosto che inviare alla cieca centinaia di uomini in una terra ignota, prudentemente fu deciso di mandare qualcuno a raccogliere informazioni certe sull’ubicazione di Cibola; l’uomo giusto era evidentemente Estevanico, che aveva già viaggiato in quelle terre, era in grado di farsi comprendere dagli indiani locali, che lo guardavano con uno stupore ancor maggiore che agli altri Spagnoli, a causa della sua pelle nera. D’altra parte Estevanico da solo, non poteva essere considerato una fonte affidabile, e per avere conferma delle sue informazioni, un religioso, fra Marcos da Nizza, si sarebbe messo sulle sue tracce con pochi uomini di scorta, seguendo il cammino che Estevanico avrebbe dovuto segnare, piantando croci sul terreno: dalla
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grandezza delle croci, egli avrebbe anche dovuto segnalare, la ricchezza delle terre attraversate. All’inizio di marzo del 1539, Estevanico partì da Culiacan con un gruppo di indiani della regione, che lo accompagnavano riconoscenti, per il ritorno di uno dei quattro shamani che anni prima avevano attraversato le loro terre; pochi giorni dopo fra Marcos da Nizza e tre uomini di scorta si mettevano sulle sue tracce. Estevanico nel suo viaggiare verso nord, era perfettamente entrato nei panni del grande shamano, e aveva decorato il suo corpo dipinto, con ricche piume e campanelli, presentandosi alle comunità indiane fra cui era già passato anni prima, sempre ben accolto e rispettato; questo almeno fin quando si trovava fra gli indiani del Messico, già incontrati insiema a Cabeza de Vaca. Il viaggio continuò poi ancora in direzione nord, in terre mai attraversate da Europei (e tanto meno da Africani), nella regione di confine tra l’Arizona e il New Mexico, e l’arrivo del singolare personaggio, trovava sempre gli indiani ben disposti e curiosi. Fra Marcos da Nizza aveva seguito Estevanico lungo il percorso da lui stesso segnato con le croci lungo il cammino, fin quando si trovò di fronte una croce grande quanto un uomo, un segno evidente che Estevanico era giunto alla metà; decise così di affrettare il passo e di raggiungerlo, arrivando infine a contemplare dalla sommità di una cresta, Fra Marcos da Nizza in una il grande villaggio di Hawiikuh, il principale centro degli indiani Zuni, romantica rappresentazione un popolo che era parte della cultura Pueblo. L’impressione fu grande, se nelle informazioni che riportò a Coronado, il frate parlò di Cibola (Hawiikuh) come di una città grande quanto Tenochtitlan, la capitale dell’impero Azteco. Fra Marcos attendeva di poter incontrare Estevanico, che era entrato ad Hawiikuh, ma dal villaggio uscirono solo gli indiani che lo accompagnavano, che raccontarono di come egli fosse stato ucciso dagli Zuni. La fine di Estevanico è rimasta un mistero, se essa sia stata causata da una qualche accusa di stregoneria, se fosse stato proprio il fatto di aver dichiarato di precedere l’arrivo di altri uomini bianchi, se invece più prosaicamente, egli sia stato ucciso da un uomo a cui aveva insidiato la moglie; c’è anche l’ipotesi che Estevanico non sia stato ucciso, ma sia rimasto fra gli Zuni fino alla morte, per sottrarsi al suo destino di schiavo e alle conseguenze della mancata scoperta della città dorata. Pare anche che una “katchina”, le caratteristiche bambole rituali dei Pueblos, che rappresentano spiriti e personaggi mitici, sia ispirata a questo “uomo nero” comparso improvvisamente tra gli Zuni. Quale che sia stata la fine di Estevanico, ciò che è certo è che fra Marcos da Nizza, evitò di indagare più di tanto, ne tentò di avvicinarsi al villaggio e prendere contatti con gli abitanti, ma accontentatosi della sua veduta panoramica, illuminata dai dorati raggi del sole che risplendevano sui muri giallastri dei mattoni d’adobe, ripartì convinto di aver trovato Cibola, una delle 7 Città d’Oro. A settembre del 1539 fra Marcos era di nuovo a Culiacan, a confermare le più rosee aspettative; non si trattava più di uno schiavo africano, vissuto per anni in mezzo ai selvaggi, che riportava dicerie, ma di un uomo di chiesa, che aveva visto con i propri occhi risplendere al sole, l’oro che ricopriva le pareti e i tetti di Cibola. Ora si poteva dare inizio alla spedizione. Gli Zuni presso cui era giunto Estevanico, erano una delle diverse tribù Pueblo, considerati eredi della cultura Mogollon, la più antica tra le culture agricole del Sud-Ovest; altre erano quelle degli Hohocam, in Arizona nella valle del fiume Gila, l’Anasazi a nord, nella zona dei “Four Corner” (Colorado, Utah, Arizona, New Mexico), ma che estendeva la sua influenza fino alle terre degli Zuni e oltre; oltre a queste importanti culture, ve ne erano altre minori e a carattere locale, in tutto il Sud.Ovest. Tutti queste genti erano in crisi da almeno un secolo, e gli Anasazi, che nell’ultimo periodo erano stati il popolo con la cultura più ricca e complessa, avevano addirittura abbandonate le loro terre per spostarsi a est e sud-est, lungo l’alto corso del Rio Grande. Non era la prima volta che i popoli di questa regione dovevano affrontare gravi difficoltà, dato che l’ambiente semiarido e la scarsità di precipitazioni caratteristiche di questa regione, rendevano l’agricoltura precaria, e il rischio della siccità, incombeva periodicamente a distruggere anni di lavoro umano. A questo elemento climatico e ambientale, s’era aggiunto l’arrivo di popoli nomadi dal nord, provenienti addirittura dal lontana Canada, gli Apache e i Navaho di lingua Atapaskan, giunti fra il XIV e il XV, che avevano rappresentato un elemento di pericolo e di instabilità per i popoli agricoli, già in difficoltà; altri nomadi, dai deserti del Nevada premevano in direzione est, verso le zone montuose dell’Utah e del Colorado, più ricche di acqua e di selvaggina.
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Il Sud-Ovest, l’area che comprende il Messico nord-occidentale, l’Arizona, il New Mexico, il Texas occidentale e le parti meridionali di Utah e Colorado, era alla metà del ‘500 una regione attraversata da profondi cambiamenti, con il tendenziale ritrarsi delle culture agricole in zone limitate, ed il riproporsi di uno stile di vita nomade, basato sulla caccia e la raccolta, quando non la predazione vera e proprio, caratteristico dei nomadi Apache e Navaho. Al tempo dell’arrivo di Coronado infatti, gran parte dell’Arizona e del New Mexico erano già occupate da Apache e Navaho, mentre gli Cliff Palace a Mesa Verde, nel Colorado, uno degli insediamenti abbandonati eredi degli Anasazi, erano dagli Anasazi nel XV secolo confinata in una limitata regione lungo l’alto corso del Rio Grande e sul Little Colorado. E’ possibile che nell’arco di un tempo non lungo, le culture agricole, più coese e strutturate, avrebbero ripreso forza, esercitando la loro influenza anche sui nomadi, come già in qualche misura è testimoniata dai Navaho, che nel ‘600 erano divenuti agricoltori, ma tale possibile processo, fu interrotto dall’arrivo dei bianchi, che intervennero in modo traumatico, su popoli che stavano già vivendo una fase difficile della loro storia. Questi popoli erano allora divisi in diverse tribù: gli Zuni presso le sorgenti del Little Colorado, gli Hopi, a nord dello stesso fiume, i Keres tra gli Zuni e il Rio Grande, le diverse tribù Tanoan (Tewa, Nord e Sud Tiwa, Jemez, Pecos, Piro, Tompiro) lungo il corso del Rio Grande; con un impianto culturale sostanzialmente omogeneo, queste tribù avevano origini e lingue diverse: gli Zuni e i Keres parlavano lingue isolate, e probabilmente vivevano nella regione da molti millenni, gli Hopi, erano di lingua Uto-Azteca, imparentati con i nomadi dei deserti del Nevada, e quasi certamente erano arrivati in tempi recenti, forse nei primi secoli dell’era cristiana; le tribù di lingua Tanoan erano vissute nella regione dei “Four Corner”, almeno dal I millennio a.C., prima di trasferirsi sul Rio Grande. Benchè come già accennato questi popoli stessero vivendo una fase di decadenza, la loro popolazione era ancora numerosa, e la regione da loro abitata era punteggiata da decine di insediamenti densamente popolati. Sicuramente prima di Estevanico, nessuno Spagnolo era mai giunto nelle loro terre, e molto probabilmente neanche manufatti e oggetti di metallo europei avevano fatto la loro comparsa. Forse anche ad essi era giunta notizia del passaggio di Cabeza de Vaca e dei suoi compagni, ma anche se ciò fosse vero, difficile pensare che dalla notizia del viaggio di alcuni shamani bianchi (e uno nero), essi potessero immaginare la terribile realtà che si preparava. Nessuno aveva mai detto loro, che i semplici villaggi di adobe, guardati da lontano, con la mente sovraeccitata e l’accecante sole del deserto di fronte, avevano il colore dell’oro, come la città leggendaria di Cibola.
Cibola Il racconto di fra Marcos da Nizza sulla Cibola da lui vista in lontananza, certo fu sufficiente a sgombrare il campo da ogni residuo dubbio sull’organizzazione di una spedizione al nord, ma Coronado, dando prova di una prudenza insolita per questo tipo di imprese, mentre raccoglieva uomini e provviste, volle inviare Melchior Diaz, l’alcade di Culiacan, a fare un ulteriore verifica lungo la via seguita da fra Marcos, per capire quali risorse la terra offriva, e quali problemi la spedizione avrebbe potuto incontrare. Melchior Diaz si mise in viaggio nel novembre del 1539, con una quindicina di cavalieri, viaggiando nell’inverno ormai inoltrato attraverso i monti del Messico settentrionale, raggiungendo il sud-est dell’Arizona, fino alle rovine di Chichilticalli, uno dei tanti pueblos abbandonati nel secolo precedente, situato probabilmente poco a sud del
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fiume Gila. A Chichilticalli, Diaz rinunciò ad andare oltre, a causa della neve e del freddo, e tornò indietro per fare rapporto su quanto da lui visto. Prima ancora del ritorno di Diaz, Coronado aveva comunque deciso di mettersi in marcia; nel febbraio del 1540, circa 400 Spagnoli, comprese anche alcune donne spose di soldati, e tra i mille e i duemila indiani messicani alleati, insieme a migliaia di capi di bestiame, partirono da Compostela, la capitale della Nuova Galicia governata da Coronado, in direzione nord, seguendo la linea di costa. Oltre alla spedizione via terra, altri Spagnoli, guidati da Hernando de Alarcon, dovevano partire l’anno successiv via mare, verso nord con tre vascelli; loro compito era quello di spingersi quanto più possibile a nord, anche risalendo il corso di qualche fiume, per portare a Coronado i rifornimenti necessari, quand’egli fosse giunto nella regione di Cibola. I costi della spedizione erano stati sostenuti Francisco Vasquez de Coronado dal vicerè Antonio Mendoza e da Francisco Coronado, ed erano stati estremamente onerosi. Prima di raggiungere Culiacan, Coronado perse uno dei suoi principali luogotenenti, Lope de Samaniego, ucciso mentre si riforniva di cibo da una tribù indiana già sottomessa, ma evidentemente non domata; oltre all’uccisione di Samaniego, gli Spagnoli ebbero diversi feriti, e la punizione giunse immediata, con l’impiccagione di un gran numero di indiani considerati responsabili. Nel mese di marzo, Coronado incontrò Melchior Diaz sulla via del ritorno dalla sua esplorazione, e da lui ebbe notizie tutt’altro che rassicuranti: la terra che avevano davanti era montuosa, povera d’acqua e scarsamente popolata, ed una grande colonna come quella di Coronado avrebbe potuto trovarsi in gravi difficoltà ad approvvigionarsi. La terra piena di ogni bendidio di cui aveva parlato fra Marcos, se c’era, era sicuramente più a nord. Oltrepassato nel mese di aprile l’ultimo presidio di Culiacan, Coronado continuò a proseguire parallelamente alla costa, fino al Rio Yaqui, che risalì puntando verso le regioni dell’interno; dall’alto corso del Rio Yaqui, gli Spagnoli passarono quindi alla valle del Rio Sonora, raggiungendone le sorgenti. Nel corso del cammino, la spedizione avanzava suddivisa in più reparti, che procedevano a breve distanza l’uno dall’altro, rendendo così il cammino meno difficoltoso tra i monti, e più agevole l’approvvigionamento; periodicamente dei piccoli contingenti venivano lasciati indietro per costruire presidi lungo la via, evitando di perdere del tutto i contatti con le retrovie. L’avanzata proseguì con pochi contatti con gli indiani, in una regione montuosa e scarsamente popolata, superando le sorgenti del Rio Sonora e attraversando un passo montana, fino ad un corso d’acqua che scendeva in direzione nord, in quella che è l’attuale Arizona sud-orientale; il fiume che gli Spagnoli discesero era quasi certamente il San Pedro, che scorre attraverso i monti Dragoon, fino a confluire nel Gila. In prossimità del fiume Gila, le montagne boscose che fino ad allora avevano attraversato, lasciarono il campo ad una pianura semiarida, che non lasciava presagire nulla di buono; qui Coronado fece tappa al villaggio abbandonato di Chichilticalli, e in questa regione ebbero i primi contatti con gli Apaches, che un membro della spedizione definì il popolo più barbaro e selvaggio mai incontrato. A Chichilticalli è probabile che Coronado abbia avuto il primo sentore della scarsa affidabilità delle informazioni ricevute da fra Marcos, e piuttosto che muovere tutta la sua armata, decise di ripartire verso nord, con solo una parte degli uomini, la cavalleria e parte dei fanti. Varcato il fiume Gila, Coronado proseguì lungo un percorso non ben definito, nella zona di confine tra Ari- Coronado in vista di Hawiikuh
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zona e New Mexico, fino al 17 di luglio quando giunse finalmente in vista del pueblo di Hawiiku, la Cibola raccontata da fra Marcos. Gli Zuni di Hawiiku erano comunque già a conoscenza dell’arrivo degli Spagnoli, e infatti avevano già schierato duecento guerrieri, che alla vista degli invasori, li bersagliarono di frecce; il primo scontro davanti alle mura di Hawiiku si risolse in fretta, dato che davanti alla cavalleria, gli indiani non potevano che fuggire, lasciando sul terreno diversi morti. La battaglia continuò comunque con il lancio di frecce e pietre direttamente dalle mura del pueblo, Le rovine di Hawiiku, abbandonato nel 1673, dopo un attacco degli Apache poi con il tiro degli archibugi degli Spagnoli, che pur lenti nella ricarica, potevano colpire a lunga distanza, infine con un assalto alle mura e una battaglia durata almeno un’ora, nel corso della quale lo stesso Coronado fu ferito. Alla fine gli Zuni non poterono che arrendersi, e Coronado evitò azioni di rappresaglia, limitandosi ad appropriarsi dei magazzini e delle scorte alimentari degli indiani, di cui la spedizione aveva un grande bisogno. Cibola era stata conquistata, ma come probabilmente Coronado già sospettava dopo aver visto il villaggio, non c’era oro, ne sui tetti, ne nelle case, ne in qualsiasi altro luogo; la delusione si trasformò in rabbia contro fra Marcos da Nizza, e Coronado dovette rispedire immediatamente indietro il religioso, per evitare che subisse atti violenti da parte dei soldati. Raggiunto dal grosso della spedizione Coronado, si installò ad Hawiiku preparandosi ad esplorare la regione, alla ricerca delle fatidiche città dorate, o comunque di una opportunità di ricchezza, che desse un senso all’investimento economico nell’impresa. La notizia di sette popolosi villaggi a circa 25 leghe di distanza, riaprì una speranza, e Coronado inviò un contigente guidato da Pedro de Tovar ad esplorare la regione a nord del Little Colorado; Tovar raggiunse il villaggio Hopi di Awatowi, dove dopo un accenno di resistenza ottenne la sottomissione di tutte le comunità della regione; di oro comunque non ce ne era, e solo qualche turchese fu quanto gli indiani poterono raccogliere per dare soddisfazione alle richieste spagnole. Poco dopo il suo arrivo ad Hawiiku, venne in visita da Coronado il capo dei Pecos, una tribù di lingua Tanoan che occupava il magine orientale del territorio dei Pueblos, alle sorgenti del fiume Pecos e al limite delle praterie dei bisonti; Hawiiku era a quel tempo lo snodo della via commerciale che dalle Grandi Pianure, passava da Pecos, per varcare il Rio Grande al villaggio Tiwa di Coofor, quindi ad Hawiiku si divideva verso i territori della costa a ovest, e il Messico a sud, ed è probabile che la visita del capo di Pecos, facessero parte delle normali relazioni di scambio tra le varie comunità. Il capo dei Pecos, che aveva la particolarità dei baffi e per questo fu chiamato dagli Spagnoli Bigotes (mustacchi), fu accolto amichevolmente e si comportò anch’egli con diplomazia, invitando gli Spagnoli a visitare il proprio paese dove i bisonti abbondavano; proprio per vedere le grandi mandrie, Hernando de Alvarado, fu inviato da Coronado ad accompagnare il capo dei Pecos nel suo viaggio di ritorno. Alvarado ebbe così occasione di passare per Acoma, “la “città del cielo” al vertice di un’elevata mesa, il pueblo degli indiani Keres che è il più antico insediamento consecutivamente abitato del Nord America (dal X secolo ai giorni nostri), quindi di visitare la valle del Rio Grande, dove vivevano i Tiwa e diversi altri gruppi di lingua Tanoan, fino al villaggio di Pecos, oltre il quale potè affacciarsi sull’immensità delle grandi pianure e vedere il gran numero di bisonti che vi vagavano in grandi mandrie. Ritornato ad Hawiiku, Alvarado fece il suo rapporto a Coronado, consigliandolo di trasferire tutti gli uomini nella valle del Rio Grande, dove c’erano un gran numero di insediamenti, le provviste abbondavano, e sarebbe stato possibile svernare senza correre il rischio della fame. Un’ altro gruppo di Spagnoli, guidato da Lopez de Cardenas, era stato inviato nel frattempo a nord, per verificare le notizie circa un grande fiume, riportata da Tovar che l’aveva saputo dagli Hopi; Coronado sperava potesse essere una via d’acqua attraverso la quale potersi collegare alla flotta con i rifornimenti di Hernando
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de Alarcon, e il fiume in effetti era il Colorado, che sfocia nel mare di Cortez, dove Alarcon stava navigando, ma Cardenas lo raggiunse laddove esso attraversa il Gran Canion, e dove le alte sponde a picco, rendevano impossibile discendere il corso del fiume. Cardenas, che fu il primo Europpeo a vedere il Gran Canion, dovette quindi ritornare ad Hawiiku, dove intanto ci si preparava per l’inverno imminente. All’inizio dell’autunno del 1540, Coronado inviava quindi Lopez de Cardenas, presso il pueblo di Coofor, il principale di una dozzina di villaggi degli indiani Tiwa, nella zona dove oggi sorge Albuquerque, e questi si accordava con il capo locale Xuaian (Juan Aleman per gli Spagnoli), che permetteva loro di costruire ripari e capanne nelle vicinanze del Pueblo, per permettere agli Spagnoli di sopportare l’inverno. Ovviamente quando tutta l’armata si fu riunita a Coofor, gli Spagnoli non si diedero gran pena a costruire capanne, ma al primo freddo imposero ai Tiwa di abbandonare il villaggio, portando con se solo gli abiti che indossavano; secondo le testimonianze spagnole, i Tiwa accettarono di abbandonare le loro case senza fare resistenza, ma ritrovamenti archeologici, dimostrano che a Coofor si combattè, anche se i guerrieri del villaggio, poco poterono contro la soverchiante forza militare di Coronado. Nel villaggio ormai vuoto Coronado portò i suoi uomini a passare un inverno diviso tra la delusione per ciò che avevano scoperto e una residua speranza, in ciò che ancora ignoravano; per Xuaian, il principale tra i capi Tiwa, quello stesso inverno imponeva decisione difficili.
Xuaian e la Guerra dei Tiwa La società degli indiani Pueblo, non aveva il carattere teocratico delle società dei popoli di cultura Mississipi, ma anche in essa la leadership si accompagnava sempre ad un ruolo cerimoniale e spirituale; ma di Xuaian, che è il primo indiano Pueblo di cui ci è noto il nome, sappiamo solo che dovette agire come un capo militare, di fronte all’improvvisa e apparentemente incontrastabile invasione del suo villaggio e alla cacciata della sua gente da esso. Gli Spagnoli hanno evitato di menzionare la resistenza di Xuaian all’occupazione del suo villaggio, ma oltre ad esser certo che tale resistenza vi è stata, è anche probabile che essa sia stata significativa, se dopo di essa gli altri dodici pueblos Tiwa della regione, si riunirono intorno allo stesso Xuaian. Il capo però continuò a cercare comunque una qualche forma di accordo con gli Spagnoli, incontrandosi anche con lo stesso Coronado. Dopo l’occupazione del villaggio, il problema degli Spagnoli era il rifornimento dei viveri, per cui dipendevano dalle scorte di mais dei pueblos della regione; all’inizio gli Spagnoli si appropriavano del cibo, delle pelli e di quanto necessitavano, attraverso il baratto con perline di vetro e altra chincaglieria, ma alla lunga nei villaggi le scorte si riducevano e gli indiani si rifiutavano di “commerciare” con gli Spagnoli che, armati e a cavallo giravano per i villaggi. Gli Spagnoli dipendevano di fatto dagli indiani per i rifornimenti, dato che della flotta guidata da Alarcon non c’erano state notizie. Dopo il tentativo fallito di Lopez de Cardenas di discendere il Colorado, per andare incontro alle navi, nel settembre del 1540, Coronado inviò un messaggio a Melchior Diaz, che era tornato a sud per riaccompagnare fra Marcos da Nizza, e gli ordinò di raggiungere la costa, risalirla verso nord e cercare le navi. Melchior Diaz, era partito da Le terre esplorate durante la prima parte della spedizione di Coronado
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San Hieronimo de los Corazones uno dei presidi lasciati in Sonora, mei pressi dell’attuale città di Ures, e viaggiando verso nord-ovest, aveva raggiunto il basso corso del Colorado, quasi alla foce, vicino alla confluenza con il Gila. Qui gli indiani Yuma gli comunicarono che le navi erano giunte, ma anche ripartite, avendo lasciato un messaggio. La flotta di Alarcon era partita in maggio, e dopo aver navigato nel mare di Cortez, a settembre, proprio mentre Diaz si metteva in viaggio, era entrata nel fiume Colorado, risalendolo fin quando le condizioni delle imbarcazioni e le difficolta dei fondali, non l’obbligarono a tornare indietro. Prima di partire Alarcon aveva comunque sotterrato un po’ di provviste ed un biglietto, in un luogo che gli indiani Yuma indicarono a Diaz. Questi esplorò per qualche giorno la regione, riportando informazioni sugli indiani, denominò il Colorado “fiume dei tizzoni”, per i fuochi accesi dai nativi lungo le sponde, poi sulla via del ritorno nel gennaio del 1541, morì per un banale incidente. Mentre tornavano in Messico, gli Spagnoli, guidati dal vice di Diaz, Diego de Alcaraz, avevano dovuto anche subire l’attacco dei Seri, gli indiani nomadi della costa. I rifornimenti su cui gli Spagnoli contavano erano ormai persi, e per passare l’inverno c’era solo da ot- Il massacro di Arenal illustrato dall’artista contemporaneo Graham Colton tenere cibo dagli indiani, con le buone o con le cattive. Coronado si incontrò con Xuaian cercando di indurlo a convincere la sua gente a cedere le proprie scorte, ma alla fine, dopo molte tensioni, il punto di rottura si ebbe a dicembre del 1540, quando Coronado chiese a Xuaian, 300 abiti di pelle per i suoi uomini, e il capo si rifiutò di consegnarle. Coronado ovviamente non si fermò davanti al suo rifiuto, e i suoi uomini si diedero a razziare i villaggi, e nel corso di una razzia al pueblo di Arenal, il rapimento di una giovane donna da parte dei soldati, fu la scintilla per l’inizio della guerra: inutilmente gli indiani chiesero giustizia al comandante degli Spagnoli Lopez de Cardenas, questi non ascoltò le loro preghiere. La reazione degli indiani colpì direttamente al cuore del prestigio e della forza degli Spagnoli: 40 tra cavalli e muli furono rubati e uccisi, e insieme ad essi vennero ammazzati gli indiani messicani che erano stati lasciati a guardia. La reazione di Coronado per l’uccisione dei pregiati cavalli fu l’annuncio della guerra “sangre y fuego”, la guerra totale. Ad Arenal nel frattempo le donne e i bambini era stati evacuati e nascosti tra le montagne, mentre circa duecento guerrieri aspettavano la reazione degli Spagnoli, pronti a impegnarli in battaglia, piuttosto che permetter loro di rastrellare il territorio alla ricerca dei fuggitivi. Quando Lopez de Cardenas giunse al villaggio per la rappresaglia, le possibilità dei difensori erano quasi nulle, ma i Tiwa si opposero con determinazione; poi una volta che gli Spagnoli furono penetrati nel villaggio, il combattimento proseguì contro i guerrieri barricati nelle case. Alla fine con il fuoco e il fumo, e la promessa di essere risparmiati, gli Spagnoli ottennero la resa di un centinaio di Tiwa: Cardenas prima ne bruciò vivi trenta, poi fece ammazzare tutti gli altri; solo pochissimi indiani rimasti nascosti poterono fuggire durante la notte. Ad Arenal gli indiani avevano compreso che con gli Spagnoli, nemmeno la resa salvava la vita; i pueblos furono abbandonati e sotto la guida di Xuaian, gli indiani si ritirano sui monti riunendosi in due località fortificate; non è chiaro dove fossero queste cittadelle, sicuramente sulla sponda orientale del Rio Grande, e di una non conosciamo nemmeno il nome. L’altra che gli Spagnoli chiamarono Moho, era quella dove si era ritirato anche Xuaian, e fu individuata dagli Spagnoli all’inizio di gennaio del 1541; Coronado vi giunse con tutte le sue forze, centinaia di soldati spagnoli bene armati, e oltre un migliaio di guerrieri del Messico, ma al primo attacco dovette ritirarsi con gravi perdite, senza aver nemmeno intaccato le palizzate e le mura di pietra della cittadella. L’offensiva Spagnola si trasformò così in un prolungato assedio, con occasionali piccole scaramucce e tentativi di colpi di mano per entrare di sorpresa, fino alla costruzione di rudimentali cannoni, con la canna fatta di tavole legate, per tentare di aprire una breccia. Per 80 giorni, nel cuore dell’inverno, gli Spa-
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gnoli dovettero sopravvivere in montagna, con ripari inadeguati, cercando la legna per riscaldarsi, e predando il cibo nei villaggi abbandonati. Ma neanche le condizioni degli assediati erano ovviamente migliori, il mais non mancava, ma all’inizio della primavera, cessate le nevicate, l’acqua iniziò a scarseggiare, e un tentativo di scavare un pozzo, si risolse in una frana. Alla metà di marzo la sete costrinse gli indiani a tentare la fuga, di notte, silenziosamente; gli Spagnoli comunque sentirono dei rumori e compreso ciò che stava accadendo, malgrado il buio, si lanciarono alla carica, a piedi e a cavallo, massacrando i fuggitivi che stavano tentando di uscire dalla città. Xuaian fu ucciso come tanti altri, e solo alcune donne e bambini sopravvissero ridotti in schiavitù. Anche l’altra fortezza fu individuata dagli Spagnoli, ma i Tiwa fecero in tempo ad abbandonarla e a disperdersi sulle montagne; malgrado il massacro di Moho, la tribù dei Tiwa sopravvisse, e già l’anno successivo sui monti, i guerrieri Tiwa continuavano a resistere con azioni di guerriglia. La “guerra di Tiguex”, così viene definito tale conflitto, vide come protagonista i Tiwa, ma non riguardò solo loro: c’erano altri popoli che guardavano con preoccupazione a quanto stava accadendo ai Tiwa, i Keres, i Jemez (o Towa), i Tewa, i Tiwa del nord a Taos, e una cosa era ormai chiara a tutti: gli Spagnoli erano un nemico da cui ci si doveva difendere, e da cui ci si poteva difendere; le loro armature scintillanti, le loro lame di ferro, i “bastoni tonanti”, i temuti cavalli, non erano la manifestazione di esseri superiori e invincibili, ma solo gli strumenti nelle mani di uomini, che potevano essere sconfitti, e a cui si poteva resistere. Per gli Spagnoli, gli 80 giorni di Moho furono un duro colpo, perchè la speranza di sottomettere la valle del Rio Grande durante i mesi invernali, ponendo così le basi per un futuro insediamento era fallita; dopo otto mesi di occupazione, gli Spagnoli erano circondati da indiani ostili, pronti anche a resistere: Xuaian l’aveva fatto.
Quivira e le Grandi Pianure La disperata resistenza dei Tiwa era stata soffocata, ma nel complesso la spedizione era stata quasi un fallimento: le “città d’oro” s’erano rivelati dei poveri villaggi, la terra che avevano conquistato era arida e poteva essere coltivata solo con molta fatica, mentre gli indiani che avevano dimostrato di essere pronti a difendersi, non sarebbero stati facilmente ridotti al sistema dell’encomiendas. Le risorse investite nell’impresa da Coronado e dal suo protettore Mendoza, rischiavano di andar perse in una impresa che difficilmente avrebbe avuto seguito, dato che senza oro o argento, senza una terra agricola o miniere da sfruttare, senza manodopera a basso costo da dominare, la “conquista” era priva di valore. Durante i duri mesi invernali passati a combattere i Tiwa, l’ultima speranza di Coronado era rimasta nelle parole di un indiano che gli Spagnoli chiamavano il Turco, un prigioniero dei Pecos, che raccontava con dovizia di particolari, della terra di Quivira, dove oro e argento abbondavano, e dove viveva un re ricco e potente. Il Turco non era un indiano Pueblo, ma un abitante delle Grandi Pianure, appartenente ad una delle diverse popolazioni Caddoan che vivevano nelle praterie centrali e meridionali, dal Nebraska al Texas, antenati delle tribù storiche dei Wichita, dei Pawnee, degli Arikaree; non è chiaro da dove provenisse il Turco, se fosse un Wichita o di una delle altre tribù affini che all’epoca occupavano il Texas centro-occidentale, il Kansas e l’Oklahoma. Egli comunque era stato incontrato da Alvarado, l’ufficiale di Coronado che aveva fatto la prima esplorazione della valle del Rio Grande, e che era giunto fino a Pecos, insieme al capo Bigotes; proprio a Pecos il Turco aveva fatto le sue sensazionali rivelazioni, peraltro smentite da un altro prigioniero Caddoan, di nome Sopete, oltre che da Bigotes e da un altro capo di Pecos chiamato Cacique. Addirittura il Turco aveva raccontato ad Alvarado che lui stesso aveva posseduto un grande bracciale d’oro, Gli Spagnoli nel Llano Estaxado in nun dipinto di Frederick Remington
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sottrattogli dal capo Bigotes; Alvarado ovviamente chiese conto a Bigotes di tale bracciale, e quando questi dichiarò di non aver mai visto tale oggetto, decise di prenderlo prigioniero, insieme al Turco, a Sopete e a Cacique, e portarli tutti da Coronado. I quattro passarono l’inverno con gli Spagnoli, il Turco ripetendo e arricchendo i suoi racconti su Quivira, gli altri tre continuando ad accusarlo di mentire. Coronado comunque non era nelle condizioni di rinunciare all’ultima illusione, e alla fine di marzo, vinti i Tiwa, con tutta la spedizione al completo si mise in viaggio attraverso i monti del New Mexico, per raggiungere in aprile Pecos, il pueblo che all’epoca era il centro dei traffici tra gli agricoltori Pueblo e i popoli delle Grandi Pianure: oltre Pecos si estendevano le praterie dei bisonti, che solo Alvarado aveva fino ad allora visto. Una volta a Pecos, ai due capi, Bigotes e Cacique, fu finalmente ridata la libertà, mentre il Turco e Sopete rimasero con la spedizione come guide. Passato Pecos gli Spagnoli iniziarono a viaggiare verso sud-est lungo il corso del fiume omonimo, poi attraverso il vasto e semidesertico altipiano del Llano Estacado, al confine tra il Texas e il New Mexico, incontrarono l’unica ricchezza della regione, le immense mandrie di bisonti che si estendevano a perdita d’occhio. Era la prima volta che degli Europei si inoltravano nel territorio delle Grandi Pianure, e per gli Spagnoli l’effetto fu inquietante; una vasta landa piatta, in cui era possibile “guardare il cielo attraverso le gambe” di chi si aveva davanti, senza alcun punto di riferimento, in cui allontanarsi anche di poco, poteva significare perdersi definitivamente, una sorta di mare in cui ogni giorno di viaggio è uguale a quello precedente. Il Llano Estacado è poi una delle zone più aride delle Grandi Pianure, con un vegetazione bassa e appena sufficiente per il pascolo del bisonte, che abbandonava la regione per lunghi periodi, quando le precipitazioni erano più scarse. In questa terra Coronado ebbe un incontro con una tribù di nomadi cacciatori di bisonti che egli chiamò Querencos, e che certamente erano Apache delle Pianure, Jicarilla o più probabilmente Lipan, che a quel tempo occupavano una vasta area ai piedi delle Rocky Mountains, tra i fiumi Platte a nord e il Pecos a sud. Questi Apache erano affini a quelli che Coronado aveva incontrato nella valle del Gila, e tutti e due i gruppi erano abitanti recenti della regione, di lingua Atapaskan e provenienti dal freddo Canada, ma un gruppo aveva svolto la sua migrazione a ovest delle Rocky Mountains, giungendo a sud forse già nel XIV secolo, l’altro, gli Apache delle Pianure, si erano spostati a est della stessa catena, divenendo cacciatori di bisonti, e raggiungendo le pianure meridionali solo pochi decenni prima degli Spagnoli. L’incontro con i Querencos, gli Apache delle Pianure, è la prima testimonianza dello stile di vita nomade delle Grandi Pianure, con i caratteristici tepee conici di pelle di bisonte, i “travois” tirati dai cani, il pemnican, la caratteristica carne secca, il linguaggio dei segni e un modello di sussistenza che dipendeva integralmente dall’utilizzo di ogni parte del bisonte, come testimoniato dagli osservatori spagnoli. Gli Apache delle Pianure, pur non conoscendo il cavallo, dovevano cacciare con abbondanza, se in primavera potevano riunirsi in un grande accampamento di 100 o 200 tepee, e quindi con una popolazione di forse un migliaio di individui; è interessante notare, che secondo le testimonianze, gli Apache non mostrarono alcun reverenziale timore nei confronti degli Spagnoli, ne dei cavalli, ne delle loro armi, limitandosi ad andar loro incontro e informarsi su chi essi fossero. E’ probabile che questi indiani che da secoli migravano in direzione meridionale, venendo a conoscenza di altri popoli e culture più complesse e ricche, fossero usi a misurarsi con le novità; e in effetti per dei popoli di cacciatori che venivano dal freddo nord e vivevano in capanne di pelle, anche l’incontro con i grandi edifici costruiti dai Pueblo, deve essere stata una sorpresa notevole. Superati i Querencos senza incidenti, gli Spagnoli discesero l’altopiano del Llano Estacado, e raggiunsero la località di Canion Blanco nel Texas occidentale (contee di Crosby e Floyd), una delle grandi fenditure nel terreno prodotte dall’erosione dei torrenti che scendono dall’altopiano. A Canion Blanco gli Spagnoli fecero il loro incontro con quelli che chiamarono Teyas, una tribù certamente di lingua Caddoan, che pur dipendendo fortemente dalla caccia al bisonte, praticava un po’ d’agricoltura nel canion irrigato naturalmente dai torrenti; secondo gli Spagnoli, gli indiani coltivavano fagioli, ma non mais, e ciò è insolito e può essere spiegato solo con qualche contingente difficoltà. I Caddoan che abitavano queste regioni, erano la punta avanzata di una cultura agricola, che aveva il suo centro a est, in Louisiana, Arkansas e nel Texas orientale, la terra delle grandi confederazioni Caddoan di cultura Mississipi, che l’anno successivo, sarà visitata da altri Spagnoli al seguito di Hernando de Soto. Dalle regioni orientali, andando verso ovest, nel cuore delle Grandi Pianure, in una terra progressivamente più povera, la cultura agricola dei Caddoan si faceva sempre meno complessa, e più integrata dalla caccia al bisonte, fino a questi Teyas, che vivevano al limite delle terre coltivabili e potevano riuscire a sopravvivere, solo grazie ai bisonti; con l’arrivo degli Apache, le loro condizioni si erano fatte precarie, perché questi nomadi si erano imposti sui territori di caccia ed erano ostili e bellicosi. I Teyas, i pionieri più avanzati dell’agricoltura delle pianure, scomparirono dopo l’incontro con Coronado, e prima del successivo arrivo di altri Spagnoli nella regione alla fine del ‘500, e le terre da loro abitate saranno occupate prima dai Lipan Apache, poi dalla metà del ‘700 dai Comanche.
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I Teyas non avevano mai incontrato gli Europei, ma uno di essi parlò a Coronado di quattro individui simili a loro, che lui aveva visto molto tempo prima: quasi certamente si trattava di Cabeza de Vaca e dei suoi compagni, che avevano attraversato le terre più a sud, ma il cui passaggio aveva attirato l’attenzione di tanti indiani, anche provenienti da grandi distanze. Tra i Teyas comunque Coronado venne a conoscenza di altre informazioni, che rendevano molto meno affidabili le dichiarazione del Turco: secondo un anziano del villaggio, se essi volevano trovare un luogo ricco e una grande città, dovevano viaggiare in altra direzione, non a sud-est, ma verso nord-est, dove avrebbero trovato Quivira. E’ difficile immaginare quali possano essere state le ragioni per cui il Turco guidò gli Spagnoli su una via sbagliata: forse egli non era di Quivira e ne aveva solo sentito parlare, o forse volevo solo far perdere gli Spagnoli nelle praterie, e poi cercare in qualche modo di fuggire. Certo è che da quel momento Coronado, che già aveva subito una prima cocente delusione, iniziò ad avere meno fiducia nei racconti del Turco, e decise che se voleva proseguire alla ricerca di Quivira, era inutile portarsi dietro l’intera armata, più di un migliaio di uomini tra Spagnoli, indiani alleati e schiavi, oltre a migliaia di capi di bestiame; la spedizione di conquista si trasformò di fatto in una missione esplorativa, con solo una trentina di cavalieri, alcuni preti e un numero imprecisato di indiani messicani, mentre tutti gli altri facevano ritorno nella terra dei Tiwa. Molto ridotta numericamente e più veloce, la spedizione si diresse verso nord, viaggiando ai piedi del Llano Estacado, e passando quasi certamente a Palo Duro Canion, una grande fenditura della terra, seconda solo al Gran Canion per estensione, nei pressi della città di Amarillo, uno dei luoghi frequentati per millenni dagli indiani nomadi, in cui anche gli Spagnoli si fermarono due settimane per cacciare bisonti e rifornirsi di carne. Da li il viaggio continuò con la guida dell’altro indiano Sopete, in direzione nord-est, fino a raggiungere all’inizio di agosto il fiume Arkansas, nel Kansas centrale, abbandonando quindi le Highplains, più povere di acqua e di vegetazione, e scendendo verso le Lowplains a est, dove l’erba cresce alta e abbondante e dove anche l’agricoltura è più produttiva. Lungo il fiume Arkansas, nei pressi dell’attuale Dodge City, gli Spagnoli incontrarono gli abitanti di Quivira, impegnati nella caccia al bisonte, e questi ascoltando una guida che parlava la loro lingua, superata l’iniziale paura, accettarono di accompagnare i nuovi arrivati fino al loro villaggio. Come probabilmente Coronado già si aspettava, a Quivira non c’era nemmeno l’ombra delle ricchezze e dell’oro di cui aveva parlato il Turco; la terra era certamente la più bella e prospera di quelle fino ad allora visitate, ma Quivira era solo un esteso villaggio di grandi capanne cupoliformi fatte con rami e erba della prateria, circondate dai campi di mais, senza alcuna fortificazione, secondo un modello diffuso tra i popoli Caddoan di tutta la regione. Gli abitanti di Quivira erano quasi certamente della stessa tribù più tardi conosciuta con il nome di Wichita, che si sarebbe
Quivira era probabilmente molto simile al villaggio rappresentato dall’illustratore contemporaneo Rory Colson
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poi spostata a sud, quando il Kansas fu invaso dai popoli Siouan alla fine del ‘600. I Wichita erano un popolo pacifico che viveva in modo più semplice dei loro parenti orientali di cultura Mississipi, ma tra i prodotti dei campi e la caccia a bisonte, non dovevano temere la fame. Coronado si fermò 25 giorni a Quivira, cercando di avere informazioni su qualche altra terra più ricca, ma l’unico luogo che agli indiani sembrava adat- L’itinerario di Coronado attraverso le Grandi Pianure tarsi alle speranze degli Spagnoli, era la terra di Hararey, un centinaio di chilometri più a nord. Accompagnato dai Wichita, Coronado raggiunse il fiume oltre il quale era la terra di Hararey, e lì si incontrò con il “signore di Hararey”, un capo che era venuto ad incontrarlo con circa duecento persone al seguito. La gente di Hararey girava seminuda, dipinta e tatuata come quella di Quivira, non aveva gioielli pregiati e non conosceva i metalli, cacciava il bisonte, coltivava il mais e parlava una lingua simile a quella di Quivira: si trattava molto probabilmente dei Pawnee, la tribù che dominava le pianure centrali, e il fiume dove avvenne l’incontro era probabilmente lo Smoky Hill, nel nord del Kansas. Alla fine di agosto Coronado decise che era giunto il momento di tornare indietro: nulla faceva sperare di trovare gli agognati tesori, l’inverno e la neve sarebbero presto arrivati, e i rapporti con gli indiani si stavano deteriorando, a causa del comportamento degli Spagnoli. Prima di partire Sopete, la guida che li aveva portati a Quivira fu liberato, mentre il Turco finì garrotato, ma in segreto, per evitare reazioni degli indiani. Prendendo questa volta la via più breve, prima della fine di settembre la missione esplorativa era tornata di nuovo sul Rio Grande: centinaia di chilometri e una quantità di risorse investite, per trovare campi di mais e mandrie di bisonti. Centinaia di chilometri più a est, nelle terre bagnate dal Mississipi, Hernando de Soto e la sua gente, si preparavano a svernare, con lo stesso sentimento di delusione: dalla Florida al nord del Messico, non era terra per facili fortune.
Ritorno amaro L’inverno che gli Spagnoli si preparavano ad affrontare nella terra dei Tiwa sul Rio Grande, fu probabilmente molto amaro: la spedizione s’era rivelata un pessimo investimento, il cui unico risultato era quello di poter vantare diritti e pretese su delle terre che offrivano ben poco. A differenza di Hernando de Soto, che pur non avendo trovato tesori e ricchi imperi, aveva comunque scoperto regioni ricche di risorse, in cui sarebbe stato possibile fondare prosperose colonie, Francisco Coronado poteva portare al re di Spagna, solo il dominio su terre aride e semidesertiche, praterie desolate e popoli ostili e pronti a resistere ad ogni tentativo di sottomissione. E proprio con l’ostilità degli indiani gli Spagnoli furono costretti a fare i conti durante l’inverno. Dopo la sconfitta e il massacro, i Tiwa non avevano fatto più ritorno ai loro campi e ai loro pueblos, sottraendosi così di fatto all’obbligo di sostenere gli invasori Spagnoli, la cui principale risorsa era il taglieggiamento e la predazione dei villaggi indiani. Per ottenere il cibo di cui necessitavano, gli invasori dovevano impegnarsi in lunghe spedizioni fino ai pueblos più lontani, rischiando di subire gli agguati e le piccole azioni di guerriglia degli indiani che si nascondevano fra i monti; la resistenza dei Tiwa era stata di insegnamento ad entrambe le parti, e se da un lato le altre tribù aveva superato il timore spesso superstizioso che gli Spagnoli imponevano, gli Spagnoli avevano compreso, dopo l’assedio di Moho, che la sottomissione degli indiani non era cosa che si potesse ottenere con un deciso colpo di mano, ma necessitava di una lunga campagna, che durante i mesi invernali era anche più difficile a realizzarsi. Dalla Nuova Spagna giungevano poi notizie su una grande rivolta delle popolazioni locali, la guerra di Mixton, proprio nelle terre di cui Coronado era governatore; lo stesso Coronado, poco più che trentenne, pare avesse abbandonato ogni desiderio di conquista, e non desiderasse altro che tornare alla sua famiglia e alla sua vita, piuttosto che continuare a vagare tra deserti e poveri
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villaggi indiani: la folle passione nell’inseguimento di un sogno di conquista, che fu fatale per Hernando de Soto, non si era impossessata di Coronado, che era pronto anche a tornare sconfitto e deluso, piuttosto che rimanere in quelle terre inospitali. A rendere poi ancor più deprimente la situazione, fu una infestazione di pidocchi, che colpì gli Spagnoli. Alla fine dell’inverno, Un altro celebre quadro di Frederick Remington, ispirato alla spedizione di Coronado in marzo, quando finalmente si avvicinava la partenza e il ritorno, una grave caduta da cavallo costrinse Coronado ad una lunga convalescenza e si dovette giungere ad aprile inoltrato, perché gli Spagnoli potessero rimettersi in viaggio. Pare che una profezia avesse anticipato a Coronado il suo destino di conquistatore di una vasta terra, e una caduta da cui non si sarebbe mai più ripreso: e se il fatto è vero, certo Coronado desiderava solo andare a morire tra i suoi famigliari. Quando finalmente riuscirono a partire, lasciando indietro solo due frati, il cui zelo missionario li aveva indotti a rimanere, gli Spagnoli ripresero la stessa via che avevano seguito all’andata, senza più alcuna velleità di esplorazione e conquista. Lungo la via del ritorno, in Sonora, scoprirono che il principale avamposto fondato l’anno prima, San Hieronimus de los Corazones era stato abbandonato per l’ostilità degli indiani Opata. A differenza di altri che lo avevano preceduto in Nord America, Coronado riuscì almeno a portare a casa la pelle, ma era di fatto un uomo distrutto e ridotto al fallimento economico. Ancora per due anni potè mantenere l’incarico di governatore della Nueva Galicia, ma nel 1544 fu sottoposto a processo con l’accusa di comportamenti crudeli nei confronti degli indiani, anche se nel processo, tenuto a Città del Messico, potè godere del favore di molti amici; diversamente andò al suo luogotenente Cardenas, che fu processato in Spagna e subì una condanna più dura. Coronado morì nel 1554, dopo essersi ritirato a Città del Messico, ed è certo un paradosso della storia, che l’impresa per cui il suo nome è sopravvissuto nei secoli, è la stessa che gli distrusse la vita, e che ciò che agli occhi dello storico, fu una delle grandi imprese di esplorazione, per i contemporanei fu solo un clamoroso cattivo investimento. Per i Tiwa l’incontro con gli Spagnoli fu un dramma, ma anche le altre tribù dovettero sopportare conseguenze gravi, dato che tra il 1545 e il 1548 la peste bubbonica fece la sua comparda tra i pueblos della valle del Rio Grande. A parte le malattie, che ridussero in modo significativo la popolazione, lo stile di vita e la cultura degli indiani della regione non subì modifiche e forse il principale segno del passaggio degli Europei, fu nel colore dei capelli di qualche bambino indiano nato dopo la loro partenza. Nel complesso la spedizione di Coronado, ebbe scarse conseguenze e fu un episodio circoscritto, il cui principale risultato, fu quello di mettere momentaneamente fine ai sogni di conquista spagnoli e garantire quindi agli indiani, quasi sessanta anni di pace prima dell’arrivo di altri Europei, dato che dopo Coronado l’interesse per i deserti del Sud-Ovest venne meno. L’impresa fu invece importantissima dal punto di vista storico e antropologico, perché ci ha lasciato notizie sugli usi degli indiani delle Grandi Pianure, prima che il cavallo producesse una vera e propria rivoluzione culturale, e che in quelle stesse terre comparissero altri e ben più conosciuti popoli: i Comanche, i Kiowa, i Cheyenne, gli Arapaho, i protagonisti della stagione più breve e più affascinante della storia delle Grandi Pianure.
Lo Stretto di Anian e la leggendaria California
La scoperta di un nuovo continente, e soprattutto dei grandi tesori che esso offriva a quanti avevano il co-
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raggio e la determinazione di misurarsi con imprese come quelle condotte da Cortez e Pizarro, avevano messo in secondo piano, quella che era stata la motivazione principale che aveva spinto Cristoforo Colombo a mettersi in mare verso l’ignoto: la ricerca di una via che da occidente, potesse portare fino alle terre d’oriente, il Catai, Cipango e l’India. Tale obbiettivo non fu comunque abbandonato e già nel 1525 Ferdinando Magellano aveva raggiunto l’Oriente, navigando lungo le coste del Sud America, fino alla Terra del Fuoco, per poi attraversare il Pacifico fino alle Filippine. Ma l’impresa condotta da Magellano pur realizzando per la prima volta quel “buscar l’Oriente por l’Occidente” che era stata l’intuizione di Cristoforo Colombo, era stata un mezzo disastro, con la perdita di tutte le navi tranne una, la navigazione in condizioni estreme, nelle fredde e tempestose acque della Terra del Fuoco (l’attuale Patagonia), poi il viaggio al limite della sopravvivenza per la mancanza di acqua e cibo nell’immensità dell’oceano Pacifico, e infine l’arrivo nelle terre d’Oriente, non nel ricco e civile Catai, ma nei vasti arcipelaghi a sud della Cina, abitati da popolazioni “barbare” e bellicose, contro cui lo stesso Magellano aveva perso la vita. Dopo il viaggio di Magellano la convinzione prevalente fu che una via marittima per la Cina, dovesse necessariamente passare a nord del nuovo continente: iniziò così la ricerca infruttuosa di quel “passaggio a nordovest”, che diverrà una delle grandi chimere dell’epoca delle esplorazioni, e che porterà più di un navigatore a spingersi nelle fredde acque a nord del Canada, o ad esplorare i grandi fiumi che sfociavano nell’Atlantico, alla ricerca del mitico passaggio. E’ nel quadro di queste convinzioni che si colloca la ricerca dello “stretto di Anian”, il canale di mare che secondo le credenze dell’epoca avrebbe dovuto rappresentare l’estremità occidentale del “passaggio a nord-ovest”, il braccio di mare che rappresentava la via d’accesso settentrionale all’oceano Pacifico, evitando i pericoli della navigazione a sud della Terra del Fuoco, accorciando notevolmente la rotta, seguendo la stessa latitudine della Cina. A questa ricerca, che aveva un fondamento logico e concrete ragioni economiche, si aggiungeva la sempre presente aspettativa di conferma delle leggende e dei miti, che spesso a quel tempo occupavano gli spazi lasciati ancora vuoti dalla geografia; tra questi miti c’era quello della leggendaria isola di California, abitata da amazzoni nere, come si narrava in un romanzo cavalleresco diffuso in Spagna all’inizio del XVI secolo, che divenne il corrispettivo marino delle “7 città d’oro di Cibola”, e come queste suscitò l’ambizione e i sogni di ricchezza degli Spagnoli. Fu così che Hernan Cortez, dopo aver conquistato e sottomesso gli Aztechi, si pose per primo l’obbiettivo di esplorare le coste messicane del Pacifico, alla ricerca dello stretto di Anian, o della mitica isola di California. Il primo tentativo fu fatto nel 1532, quando due navi partirono da Acapulco in direzione nord, e dopo aver inutilmente cercato di rifornirsi nelle terre governate da Nuno de Guzman, nemico di Cortez, continuarono a navigare con poca scorta d’acqua, per poi scomparire nel nulla. Alla fine di novembre dell’anno successivo altre navi furono inviate da Cortez alla ricerca di quelle perdute, ma questa volta furono i marinai ad ammutinarsi, e a prendere terra nella località di La Paz, all’estremità sud-orientale della Baja California. Convinti di essere giunti nella mitica isola di California, gli ammutinati guidati dal loro capo Fortun Ximenex, decisero di costruire lì un insediamento, probabilmente motivati dalla presenza di perle nelle acque costiere; l’iniziativa fu però di breve durata, a causa dell’ostilità degli indiani della regione, i Pericu, un popolo che viveva precariamente, pescando, cacciando mammiferi marini e raccogliendo Ancora nel XVIII secolo, la Baja California era considerata un isola, che lo Stretto di Anian divideva molluschi lungo da continente, e da cui era possibile raggiungere il Passaggio a Nord-Ovest
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la costa, utilizzando i pochi vegetali che offriva l’interno semidesertico, agave e cactus, e praticando un po’ di caccia sulla terraferma, quando cervi, antilocapre e o piccoli roditori erano disponibili. Nel corso di uno scontro con i Pericu, Ximenes rimase ucciso insieme con altri Spagnoli, e a quel punto, gli ammutinati preferirono far ritorno in Messico, riportando la notizia di ricche opportunità di pesca delle perle. Nel 1535, lo stesso Cortez decise di raggiungere le coste della Baja California, per stabilirvi una base per la pesca delle perle, portando con se alcune centinaia di coloni, compreso un gruppo di donne; il progetto però si scontrò subito con le difficoltà di una terra arida e povera d’acqua che non poteva essere coltivata, i problemi di rifornimento, l’ostilità degli indiani e infine gli stessi risultati della pesca delle perle, non così abbondanti come si sperava; all’inizio del 1536 l’insediamento fu abbandonato, dopo che gran parte dei coloni erano morti di fame e di stenti. La necessità di esplorare le terre a nord comunque rimaneva, anche per la rivalità tra Cortez e il governatore civile Mendoza inviato dalla Spagna, che dopo il ritorno di Cabeza de Vaca, preparava la spedizione di Francisco Coronado. Nel 1539 un nuova flotta di tre vascelli, guidata da Francisco de Ulloa, fu inviata da Cortez alla ricerca dello stretto di Anian; Ulloa partì da Acapulco in luglio, navigando parallelamente alla costa, fin quando in seguito ad una tempesta fu costretto a separarsi da una delle sue navi, dando ad essa appuntamento alla baia di La Paz, sulla costa della Baja California. In settembre dopo aver riparato le navi danneggiate dalla tempesta, raggiunse la baia di La Paz, dove però non trovò la terza nave ad attenderlo; ritornato sulle coste del Messico si inoltrò quindi nel Golfo di California, cui diede il nome di Mare di Cortez, continuando a navigare in direzione nord, senza avere contatti con i nativi, i cui segnali di fumo erano visibili sulla costa, ma che avendo già subito le vessazioni di Nuno de Guzman negli anni passati, evitarono di incontrare gli Spagnoli. Raggiunta quasi l’estremità settentrionale del Golfo di California, la forte corrente proveniente dalla foce del Colorado, obbligò le navi di Ulloa a piegare in direzione sud-ovest, lungo le coste della Baja California, che a quel punto risultò essere una penisola, e non un isola separata dal continente dallo stretto di Anian, come si era sperato. Proseguendo verso sud gli Spagnoli ebbero un pacifico incontro con un gruppo di Cochimi, una tribù di lingua Hoka che occupava gran parte della Baja California, vivendo con uno stile di vita simile a quello dei Pericu, poi raggiunsero l’estremità meridionale della Baja California, risalendone quindi la costa fino alla Isla de Cedros, dove le forti correnti e le condizioni del mare lo indussero a far ritorno in Messico. Ulloa ebbe scarsi contatti con gli indiani e confermò che la Baja California era una terra arida e povera, nulla a che vedere con la fantastica isola delle amazzoni. Nel maggio del 1540 Hernando de Alarcon, incaricato di portare rifornimenti alla spedizione di Francisco Coronado, ripercorse la rotta di Ulloa, fino a raggiungere in settembre foce del fiume Colorado, risalendo lo stesso fiume fino alla confluenza con il Gila; qui le condizioni delle navi e quelle dei fondali, gli imposero di tornare indietro, mancando di poco l’appuntamento con Melchior Diaz, inviato da Coronado ad incontrarlo. Alarcon stabilì rapporti cordiale e pacifici con gli indiani Yuma, annotando informazioni sulla loro vita e la loro cultura; pare che al momento della sua partenza gli Yuma fossero addirittura dispiaciuti, e ciò potrebbe essere confermato dal fatto, che quando un mese dopo anche Diaz raggiunse gli Yuma, questi gli indicassero il luogo dove Alarcon aveva sotterrato un po’ di viveri e un messaggio scritto, che loro avevano custodito: se Alarcon non si fosse guadagnato la fiducia degli Yuma, certamente I viaggi di esplorazione della costa della California
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gli indiani non si sarebbero fatti scrupolo di derubarlo dei viveri nascosti. L’ennesima ricerca dello stretto di Anian, fu tentata ancora una volta nel 1542 da Juan Rodriguez Cabrillo, un ricco “encomiendero”, che doppo essere giunto con Cortez in Messico, si era arricchito in Honduras con il traffico degli schiavi. Nel 1540 il vicerè della Nuova Spagna Antonio de Mendoza, commissionò a Cabrillo l’organizzazione di una spedizione navale che risalisse la costa occidentale della Baja California, alla ricerca dello stretto di Anian, ovviamente facendosi carico delle spese, in cambio della partecipazione ai proventi dell’impresa. L’esplodere della “rivolta di Mixton”, che mise a rischio l’esistenza delle colonie settentrionali del Messico, obbligò a rimandare la partenza, ma finalmente alla fine di giugno del 1542, tre navi partirono dalla località di Navidad, raggiungendo all’inizio di agosto l’Isla de Cedros, oltre la quale nessun Europeo si era mai spinto. Nei mesi successivi le navi Spagnole esplorarono le coste e le isole della California meridionale, superando la baia di San Francisco, nella quale però non entrarono, e giungendo in novembre fino alla latitudine del fiume Russian. Nel corso dell’esplorazioni, Cabrillo e i suoi uomini ebbero contatto con le sparse comunità dei Cochimi della Baja California, e soprattutto con le popolose comunità dei Chumash e dei Tongwa (anche noti come Gabrieleno), popoli di esperti pescatori della costa meridionale della California. Non risultano atti di grave ostilità tra Spagnoli e indiani, ma certo i rapporti dovevano essere tesi, se durante il viaggio di ritorno, mentre gli Spagnoli si preparavano a svernare presso l’isola di Santa Catalina, essi dovettero subire un attacco degli indiani Tongwa; nel corso dello scontro, Cabrillo che stava cercando di soccorrere i suoi uomini, si procurò una grave frattura per una caduta, che a causa della cancrena, lo portò alla morte il 3 gennaio del 1543. Passato l’inverno gli Spagnoli ripresero il mare raggiungendo le coste del Messico, nell’aprile del 1543. Dopo il viaggio di Cabrillo gli Spagnoli persero interesse ad ulteriori esplorazione della costa settentrionale del Pacifico per oltre 50 anni, ma un altro grande navigatore approdò in California, sempre alla ricerca dello stretto di Anian. Nel giugno del 1579 il corsaro inglese Francis Drake, impegnato nella circumnavigazione della terra, dopo essere passato per la Terra del Fuoco e aver risalito le coste del Sud America, si spinse a nord fino alla latitudine dell’attuale Oregon; di lì si diressa quindi a sud-est fino a raggiungere la costa americana, in una località a nord della Baia di San Francisco, probabilmente a Drake’s Bay, nella terra dei Miwok della Costa, dove stabilì un accampamento recintato. L’arrivo di Francis Drake tra i Miwok (sopra) e la sua incoronazione come I Miwok della Costa furono molto im- capo (sotto) in due stampe dell’epoca pressionati dagli Inglesi, che probabilmente considerarono come divinità, e che accolsero con devozione e timore, addirittura incoronando Drake come loro capo; gli Inglesi apposero una targa metallica su un albero nella quale testimoniavano il loro passaggio e rivendicavano alla corono d’Inghilterra il possesso di quelle terre, poi ripresero il mare per iniziare la traversata del Pacifico. Nel resoconto di Drake abbiamo le prime notizie sugli usi di queste genti che vivevano in villaggi stanziali di case seminterrate, raccogliendo vegetali, cacciando cervi e pescando lungo la costa.
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Per quasi 150 anni dopo queste prime esplorazioni marittime, le terre della California non furono più visitate dagli Europei, e gli indiani poterono continuare a vivere in pace, evitando le drammatiche conseguenze che in quello stesso periodo dovettero subire gli indiani che vivevano più a est e a sud. La favolosa isola di California non era stata trovata, e per lungo tempo le ricchezze vere e non immaginarie della California, dall’oro della Sierra Nevada, alle ricche terre della valle interna, rimasero celate agli Europei; quando esse verranno scoperte, per gli indiani valiforniani iniziò una dei drammi più terribili della storia del Nord America.
La Guerra di Mixton
I tesori di Montezuma e Atahualpa, che avevano fatto la fortuna degli uomini guidati da Cortez e Pizarro, erano la parte più eclatante delle conquiste spagnole in Centro e Sud America, che avevano stimolato altre simili imprese, per lo più destinate al fallimento, e attirato dalla Spagna altri avventurieri in cerca di fortuna; ma al di la di queste imprese, tanto rilevanti, quanto sostanzialmente circoscritte alle poche centinaia di persone che vi avevano preso parte, l’altra ricchezza che offriva il nuovo continente era la possibilità di sfruttare interi popoli con il lavoro semischiavistico e con il commercio degli schiavi abbondantemente tollerato. Miniere, fazendas e allevamenti, imposizione di tributi, rappresentavano risorse i cui frutti richiedevano più tempo che non la predazione dei tesori degli Aztechi e dell’Inca, ma che sul lungo periodo garantivano l’arricchimento, a quanti riuscivano ad ottenere “encomiendas”, dalle autorità che governavano in America per conto della corona di Spagna. Ma per garantirsi tali ricchezze, agli Spagnoli non potevano più bastare audaci colpi di mano, ma l’assoggettamento e il definitivo dominio di interi popoli e di una terra in larga misura selvaggia e sconosciuta. All’inizio tale dominio fu facilmente ottenuto, con la conquista di imperi fortemente centralizzati, e la sostituzione “de facto”, dei poteri centrali autoctoni, con quello imposto dalla Spagna. I popoli che erano stati parte dell’impero Azteco, dopo una breve quanto sanguinosa iniziale resistenza, si erano adattati ai nuovi dominatori, vuoi per l’impossibilità di opporsi ad essi, una volta venute meno le leadership locali, vuoi per odio contro quelle stesse leadership, il cui dominio era stato crudele forse quasi quanto quello degli Spagnoli. Fin quando gli Spagnoli operarono nell’area di influenza dell’impero Azteco, essi riuscirono ad ottenere con relativa facilità il dominio dei popoli già sottomessi a tale impero, e addirittura l’alleanza di popoli, come i Tlaxcala e i Taraschi, che contro tale impero si erano battuti; quando però il loro interesse iniziò ad allargarsi, oltre l’area di influenza Azteca, le cose si fecero più complicate. A sud dell’impero Azteco, nello Yucatan, in Guatemala e in Honduras, l’antica e ricca civiltà dei Maya, non aveva prodotto entità politiche centralizzate, ma una quantità di città-stato ognuna autonoma dall’altra, contro cui gli Spagnoli dovettero impegnarsi per decenni per ottenerne la sottomissione, e ancora alla fine del ‘600, nelle regioni più interne, i Maya continuarono a sottrarsi al controllo e allo sfruttamento degli invasori. Ancora più difficile la situazione a nord, dove vivevano popoli nomadi e seminomadi, con una tradizione di fiera e bellicosa indipendenza, ed uno stile di vita, che non essendo incentrato su grandi centri urbani, li rendeva ancor meno facilmente controllabili, nella vastità di un territorio inesplorato. Si trattava di genti linguisticamente affini agli stessi Aztechi, con cui condividevano l’origine settentrionale, di cui gli Aztechi avevano rappresentato l’avanguardia, quando giunti come mercenari presso popoli più civili e pacifici, si erano imposti ad essi costituendo una sorta di aristocrazia guerriera, che aveva acquisito la cultura e l’impianto teocratico dei popoli dominati, riservando per se il controllo politico e militare. Qualcosa di simile fecero i popoli germanici in Europa alla fine dell’impero romano, quando costituirono regni che mantenevano la continuità con la tradizione culturale latina, operando però una netta rottura sul piano del potere politico e militare. E’ probabile che se non fosse intervenuto il trauma dell’invasione spagnola, gli stessi Aztechi potrebbero forse aver subito la stessa sorte dei popoli da loro dominati, quando altri “barbari del nord” fossero giunti a premere sulle più ricche terre meridionali, e il loro spirito bellicoso, assopito da secoli di potere incontrastato, non fosse più bastato a difendere le loro conquiste. Tra questi “barbari del nord”, che Aztechi e Spagnoli chiamavano genericamente Chichimechi, alcuni di essi, i Caxcane e Tequexe che erano più prossimi alle terre meridionali, già stavano attraversando una modificazione, avendo assunto l’agricoltura nel loro modello di sussistenza e vivendo in piccoli villaggi stanziali, senza peraltro aver del tutto abbandonato l’antico stile di vita, che permetteva loro di sopravvivere, attraverso la caccia e la raccolta di vegetali selvatici, anche a prescindere dal lavoro dei campi. Gli spagnoli erano entrati in contatto con queste tribù nel 1529, quando Nuno de Guzman aveva conquistato le regioni a nord-ovest dell’impero Azteco, la Nueva Galicia, comprendente gli attuali stati di Jalisco, Nayarit e il sud di Zacatecas; i Caxcanes e i Tecuexe a differenza degli altri Chichimechi che erano totalmente nomadi e potevano sfuggire
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agli Spagnoli, si trovarono a dover maggiormente sopportare le loro vessazioni, la richiesta di tributi, le punizioni arbitrarie e la riduzione in schiavitù. Nella regione, Cristobal de Onate, ufficiale di Nuno de Guzman, aveva fondato nel 1531 la città di Guadalajara, nella località che i Caxcane chiamavano Nochiztlan, ma poi avevano spostato l’insediamento più a sud ben due volte a causa dell’ostilità degli indiani, nel 1533 e poi ancora nel 1537; da questo presidio gli Spagnoli tentavano di esercitare il controllo sui territori interni, con i metodi che avevano reso famoso Il teatro della Guerra di Mixton Nuno de Guzman per la sua crudeltà. Nel 1540 il nuovo governatore Francisco Vasquez de Coronado, aveva lasciato la Nueva Galicia per la sua sfortunata missione alla ricerca di Cibola, portando con se gran parte dei soldati spagnoli e oltre un migliaio di alleati indiani, riducendo così la presenza militare nella regione. In questa situazione l’arresto di 18 capi Caxcane e la successiva impiccagione di 9 di loro, fu la miccia che fece esplodere la rivolta alla metà del 1540. Gli indiani aprirono l’ostilità con una atto di notevole ferocia dimostrativa: l’encomienderos Juan de Arze, fu ucciso, arrostito e mangiato dagli indiani del villaggio di Huayzamote, nei pressi dfell’attuale città di Tequila; nelle località di Zuchipile e Tepechitlan, furono attaccati altri coloni, poi fu la volta di due preti, anch’essi uccisi nel tentativo di indurre gli indiani a desistere dalla violenza. Quindi le notizie della ribellione si sparsero per la regione e gli indiani obbligati a lavorare per gli encomienderos, fuggirono sui monti, radunandosi a decine di migliaia, su una collina fortificata conosciuta come Mixton. Dai monti essi minacciavano le fattorie e i piccoli insediamenti spagnoli, impedendo i collegamenti e mettendo a rischio l’esistenza stessa della colonia. Cristobal de Onate, che in assenza di Coronado governava la regione, si spinse a Mixton con una forza mista di Spagnoli e indiani alleati, ma quando inviò una delegazione a chiedere la resa, gli indiani ne ammazzarono tutti i membri, undici spagnoli, tra cui un prete; Onate a quel punto lanciò l’attacco contro la posizione degli indiani, ma fu costretto a ritirarsi con gravi perdite, e a richiedere l’intervento di rinforzi. Gli indiani erano tornati alle loro usanze religiose e secondo i missionari, si “abbandonavano a Una carta della Neuva Galicia disegnata intorno al 1540, che illustra la Guerra di Mixton danze demoniache”;
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ovviamente con questo primo successo la rivolta si allargava, raggiungeva i Tecuexe, vicini dei Caxcane, quindi i Cora a ovest presso la costa, fino ai Guamares della Sierra di Guanajuato, a nord della capitale Mexico, mentre dalle regioni interne i nomadi Zacatechi si univano ai rivoltosi. Dopo anni in cui i cavalli, le armi di metallo, gli archibugi e le balestre degli Spagnoli non avevano trovato resistenza, decine di migliaia di indiani si univano, e forti del loro numero cercavano di cacciare gli odiati invasori. Poco si sa del capo che guidava i Caxcane, il cui nome era Tenamaxtle, se non che era stato battezzato qualche anno primo con il nome di Francisco; egli era il capo della comunità di Nochiztlan, e dopo l’inizio della guerra Antonio de Mendoza e gli alleati indiani il suo nome è affiancato a quello di un capo all’attacco della fortezza di Mixton degli Zacatechi, che gli Spagnoli chiamavano Don Diego. Di fronte al pericolo che la colonia stava correndo, il vicerè della Nuova Spagna Antonio de Mendoza pensò di chiamare Pedro de Alvarado, che era stato uno dei più fidi collaboratori di Cortez, e si era fatto un nome per le sue capacità militari e la sua crudeltà, combattendo i nativi a Cuba, in Messico, in Guatemala e in Salvador, e che a quell’epoca stava organizzando una flotta e un’armata con cui tentare di attraversare il Pacifico e raggiungere la Cina. Raccolto l’appello di Mendoza, Alvarado rimandò la sua spedizione marittima, e con oltre 400 Spagnoli e diverse migliaia di alleati indiani, nel giugno del 1541 sbarcò al porto di Navidad, per raggiungere Guadalajara e incontrarsi con Cristobal de Onate il 12 dello stesso mese. Onate consigliò Alvarado di attendere maggiori rinforzi prima di attaccare, ma questi rispose sprezzantemente, che era vergognoso che per pochi indiani, ci fossero tante difficoltà, e che lui aveva risolto facilmente problemi ben più gravi. Da Guadalajara quindi raggiunse la fortezza indiana di Mixton e l’attaccò, ma davanti ad una forza di oltre 10.000 guerrieri, gli Spagnoli subirono una dura sconfitta, con una decina di morti e molti feriti, oltre ad un numero imprecisato di vittime tra i loro alleati indiani. Il 24 giugno un nuovo inutile attacco fu lanciato, e questo volta lo stesso Alvarado rimase gravemente ferito in seguito ad una caduta da cavallo, morendo di li a poco il 4 di luglio. Dopo questo successo il 28 di settembre gli indiani tentarono di colpire il cuore del potere Spagnolo nella regione, dando l’assalto al principale insediamento spagnolo, Guadalajara, ma Crisbal de Onate, riuscì a rompere l’assedio con una sortita degli archibugeri, e facendo uscire dalle due porte della città la cavalleria, per colpire gli indiani in più punti; la battaglia durò tre ore e alla fine gli indiani vennero respinti. A quel punto lo stesso Antonio de Mendoza prese il comando delle operazioni, e raccolta un’armati di decine di migliaia di indiani alleati, invase il territorio dei rivoltosi con una forza enormemente superiore: dopo aver attaccato e distrutto alcune località minori, nel mese di novembre poneva l’assedio a Nochiztlan, la capitale di Tenamaztle e la espugnava prendendo prigioniero lo stesso Tenamaztle . Fu poi la volta del villaggio di Xuchipile, espugnato dopo quattro giorni d’assedio con l’artiglieria. All’inizio del 1542 gli Spagnoli giunsero davanti alla fortezza di Mixton, e qui nel tentativo di ottenere la resa, portarono con se Tenamaxtle perche convincesse i suoi ad abbandonare le armi, ma il capo riuscì a liberarsi con l’aiuto della sua gente durante le trattative; anche la fortezza di Mixton fu attaccata con l’artiglieria, e cadeva sotto l’attacco delle migliaia di mercenari indiani. Con la fine di Mixton la gran parte dei Caxcane si arrendeva, mentre i più irriducibili fuggivano a nord, cercando rifugio tra i nomadi della Gran Chichimeca; anche Tenamatzle era riuscito a far perdere le tracce, rifugiandosi nella terra dei Cora, una regione che rimase semindipendente fino all’inizio del ‘700, e di lì Monumento in ricordo di Tenamaxtli
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continuò ad impegnare gli Spagnoli con piccole azioni di guerriglia, fino al 1550. La punizione per i Caxcane fu durissima, con migliaia di esecuzioni, la riduzione in catene di donne e bambini, la definitiva imposizione dell’encomienda; dalla Spagna voci si levarono contro gli eccessi compiuti nel punire i ribelli, ma ovviamente nulla produssero nella lontana America. I Caxcane superstiti non si sarebbero più ribellati, e anzi negli anni successivi saranno parte dei mercenari indiani, che gli Spagnoli impiegheranno contro i nomadi Chichimechi. Tra i Tecuexe che avevano affiancato i Caxcane, molti piuttosto che arrendersi, giunsero a gettarsi da una rupe, pur di non subire il dominio Spagnolo, e la tribù scomparì dopo questa vicenda. Tenamaztle continuò a sfuggire alla cattura, nascondendosi fra i monti dei Cora, fino al 1551, quando spontaneamente decise di consegnarsi. Fu così portato in Spagna per essere processato e qui ottenne il sostegno di Bartolomè de las Casas, che cercò di dimostrare che la rivolta non era nata come un atto contro il re di Spagna, ma come una reazione contro le ingiustizie e le sopraffazioni, che i governanti locali imponevano ai sudditi del re. Il processo andò avanti tra lungagini varie almeno fino al 1555, dopo di che non risulta più alcuna documentazione. Probabilmente anche Tenamaztle morì in carcere a Valladolid in quegli stessi anni. La rivolta di Mixton fu il primo significativo evento a mettere in discussione il potere militare degli Spagnoli, che dopo la fulminea conquista dell’impero Azteco, reputavano quasi irrilevanti la capacità di resistenza degli indiani; di fatto la vittoria degli Spagnoli, più che alla superiorità dell’armamento e dei cavalli, che erano stati fino ad allora determinanti, fu dovuta al sostegno di decine di migliaia di guerrieri Aztechi, Tlaxcala e Tarascan, il cui numero soverchiante si impose sui ribelli, ancor più che la decisione di alcune centinaia di soldati a cavallo e ben armati. Il conflitto fu di fatto una scontro tra gli abitanti delle terre ormai sottomesse dell’ex impero Azteco, e i loro vicini settentrionali, ancora gelosi della loro indipendenza; quando spostandosi a nord gli Spagnoli si allontaneranno dalle loro basi in Messico, e il sostegno degli indios sottomessi che vi risiedevano si ridurrà, anche la prevalenza militare diverrà tutt’altro che scontata. Pochi anni dopo la vittoria nella guerra di Mixton, gli Spagnoli l’avrebbero verificato a loro spese.
La Guerra dei Chichimechi
La Guerra di Mixton si era conclusa lasciando dietro di se una scia di tensioni e di ostilità tra gli indiani che vivevano ai confini delle terre controllate dagli Spagnoli, che pur producendo piccole azioni di guerriglia, non potevano però mettere a rischio la sicurezza delle colonie. La rivolta simultanea e l’unificazione di migliaia di guerrieri era stata possibile per popoli almeno parzialmente sedentari come i Caxcane e i loro vicini, ma le disperse bande di nomadi che vivevano più a nord, nel cuore della Gran Chichimeca, non erano certo in grado di mettere in campo una forza militare che andasse oltre le poche decine o al massimo centinaia di guerrieri; pur rappresentando un grave ostacolo all’avanzare della colonizzazione, come di lì a poco gli Spagnoli avrebbero compreso, essi non rappresentavano una minaccia per le terre che da un ventennio costituivano la ricca colonia della Nuova Spagna. Oltre tutto le loro terre, già visitate dalle sanguinose scorrerie di Nuno de Guzman, erano povere, poco adatte all’agricoltura, e dalle genti che le abitavano, poco si poteva ricavare anche in tributi; al massimo esse potevano rappresentare una risorsa per i trafficanti di schiavi, e non a caso venivano tacciate di cannibalismo, un’accusa che automaticamente rendeva lecita la loro schiavizzazione. Negli anni immediatamente successivi alla Guerra di Mixton, nessuna iniziativa militare venne assunta dagli Spagnoli per porre sotto controllo la Gran Chichimeca dove gli indiani rimanevano indipendenti e ostili, ne da quella regione poteva venire un effettivo pericolo per le terre sotto il controllo spagnolo. A riportare l’attenzione spagnola sulle terre del nord, fu una spedizione guidata nel 1546 da Cristobal de Onate, Juan de Tolosa e Diego de Ibarra che nella regione dell’attuale città di Zacatecas, ottennero da alcuni nomadi locali dei minerali d’argento e vennero a conoscenza di immensi giacimenti del prezioso metallo. L’8 settembre dello stesso anno, i tre fondarono la città di Zacatecas, poi in poco tempo la notizia si diffuse, determinando il trasferimento di un gran numero di Spagnoli nelle inesplorate terre del nord, per sfruttare le concessioni minerarie. Si trattava della prima delle “corse all’oro” (all’argento in questo caso) che nei secoli successivi si sarebbero ripetute in diverse località del Nord America, la più famosa delle quali fu quella in California del 1849. Con la scoperta dell’argento e l’arrivo di centinaia di coloni, tutta l’area rientrò nell’interesse dei governanti della Nuova Spagna, il cui primo atto fu quello di costruire una strada, un “camino real”, per collegare Zacatecas, alla capitale Mexico, lungo la quale far viaggiare sia i carichi dell’argento estratto, sia la gran quantità di provviste, strumenti e merci varie, di cui i coloni necessitavano nelle aride e selvagge terre di frontiera. Nel giro di poco tempo le ricerche minerarie si estesero ben oltre la zona di Zacatecas, alla metà degli anni ’50, prima Francisco de Ibarra poi Juan de Tolosa scoprivano nuovi ricchi giacimenti ancora
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più a nord, fin quasi al confine tra gli attuali stati di Zacatecas e Durango; piccoli insediamenti minerari si diffusero in tutta la regione, collegati tra loro da varie strade, che portavano a Zacatecas, da cui partiva il “camino real” per Mexico; nel 1577 era stata fondata la città di Saltillo, un grosso centro agricolo nel sud dell’attuale stato di Coahuila, da cui giungevano i rifornimenti di grano per i centri minerari, mentre con la presenza delle miniere, nascevano piccole cittadine e allevamenti di bestiame. Insieme ai coloni spagnoli, migliaia di indiani alleati si trasferivano nella regione per garantire la forza lavoro necessaria alle miniere, e alle attività economiche che nascevano intorno a esse. Con la scoperta delle miniere di Zacatecas, inizia di fatto la colonizzazione del nord del Messico, che fino a quell’epoca non era andata oltre l’isolato presidio di Culiacan. Ovviamente la presenza Spagnola fece esplodere le tensioni con i nativi, che aggiungevano alle storiche ragioni di ostilità, la preoccupazione nel vedere gli Spagnoli insediarsi sulla loro terra e appropriarsi delle poche risorse. Per i nomadi delle terre semiaride, la sopravvivenza dipendeva dallo spostarsi da un luogo all’altro sapendo di trovarvi le necessarie risorse idriche o alimentari, ma da una stagione all’altra ora i luoghi in cui facevano tappa, ed in particolare le sorgenti, venivano occupate dagli Spagnoli e dagli indiani del sud che erano al loro servizio. Ma oltre a reagire all’invasione, quasi certamente tra le ragioni della guerra c’era anche la possibilità per gli indiani, di razziare i convogli spagnoli, che trasportavano cibo e una gran quantità di manufatti europei, fino a quel momento quasi ignoti agli indiani, ma di cui essi non tardarono a cogliere il valore. Le tribù che si trovarono a dover subire questa invasione, erano i Guamare, nella regione tra la Sierra de Guanajato e la zona di Aguascalientes, un popolo che aveva una struttura sociale più coesa e praticava un po’ d’agricoltura, ma che con l’inizio della guerra riprese lo stile di vita nomade, per sfuggire alle rappresaglie spagnole; erano i più temuti perchè il loro territorio si estendeva a sud di Zacatecas, e attraverso di esso passava il “camino real”, prima di giungere nelle terre dei pacifici Otomi, e di li a Mexico. A nord di Zacatecas, erano gli Zacatechi, che già avevano partecipato alla Guerra di Mixton e avevano imparato a combattere gli Spagnoli, e a nord-est, nella zona di San Luis Potosì, i Guachichile, i più numerosi, che si dipingevano il corpo e i capelli di rosso; erano questi gli abitanti delle regioni più aride, bellicosi, irriducibili e usi a sopravvivere in condizioni anche estreme. A questi gruppi, tutti di lingua Uto-Azteca, ad un certo punto si unirono i Pame, una tribù affine agli Otomi, che come questi ultimi erano stati sconfitti dai loro vicini e spinti ai margini della Gran Chichimeca; Otomi e Pame erano tribù agricole, che vivevano pacificamente in piccoli villaggi, ma ad un certo punto i Pame si unirono ai loro vicini in guerra. I Caxcane, sconfitti nella Guerra di Mixton, si schierarono insieme agli Otomi a fianco degli spagnoli, ma anche fra di loro non mancarono quelli che si unirono agli ostili; a est degli Zacatechi erano i Tepehuan, un popolo numeroso che viveva di agricoltura sui contrafforti della Sierra Madre Occidentale, che per un certo tempo si allearono agli Zacatechi, ma che infine decisero di rimanere neutrali. Tutte queste tribù erano genericamente definite Chichimechi, per differenziarli dagli indiani del sud, che avevano costituito civiltà più complesse e centralizzate, grandi centri urbani ed entità statali; i Chichimechi invece, sia quelli che praticavano un po’ d’agricoltura, sia quelli totalmente nomadi, vivevano in piccole comunità, erano esperti cacciatori e guerrieri, e avevano una religione di impianto animistico e shamanico. Durante il conflitto che li oppose agli Spagnoli, essi mostrarono oltre al valore, anche la loro ferocia, con l’uso di scotennare, smembrare e torturare i nemici, secondo una pratica che sarà tipica di tutte le successive guerre indiane. La Guerra dei Chichimechi, fu il più lungo e il meno conosciuto dei conflitti tra indiani ed Europei in Nord America, di cui ne la letteratura ne il cinema d’avventura si è Raffigurazione di guerrieri Guamare (a sinistra) e Guachichile (a destra), mai curato; esso si protrasse senza sulla base delle descrizioni dei contemporanei
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pause tra il 1550 e il 1590, con migliaia di morti da ambo le parti e perdite economiche immense per la Nuova Spagna. Ovviamente non si trattò di uno scontro tra eserciti, dato che gli indiani operavano in bande poco numerose, non mettendo in campo mai più di 200 guerrieri, ne vi furono significative battaglie o assedi come quello di Mixton, dato che gli Spagnoli spesso non erano nemmeno in grado di trovare gli accampamenti di questi nomadi, cui bastava un semplice ricovero di frasche, che si adattavano a vivere di frutti e radici selvatiche e un po’ di cacciagione, ma erano esperti arcieri e, ovviamente, avevano una perfetta conoscenza del territorio. Quando gli Spagnoli riuscivano a sorprendere un loro villaggio una “rancheria”, gli indiani si davano alla fuga, disperdendosi nelle terre sconosciute, per poi riunirsi e tornare a colpire. Le diverse tribù coinvolte non costituirono un’organica alleanza, ma operavano separatamente l’una dall’altra, e senza nemmeno una vera e propria unità tribale, ma organizzate in bande poco numerose, seguendo il comune impulso ad attaccare ogni qualvolta potevano gli odiati invasori, e ad appropriarsi dei loro beni. Nella guerra vengono ricordati alcuni capi tribali, ma nessun vero capo riconosciuto da tutti, e in ogni gruppo o singola banda c’erano guerrieri autorevoli e rispettati, in grado di guidare le piccole squadre di guerriglieri. L’agguato, la veloce scorreria, il furto di bestiame e quindi la fuga, erano la forma di combattimento preferita dagli indiani, che colpivano gli Spagnoli mentre si spostavano da un insediamento all’altro. Gli Spagnoli, costruirono presidi militari lungo le principali vie, e gli stessi coloni fortificano le loro abitazioni, trasformandole in “casasfuertes”, con mura in pietra e bastioni agli angoli, ma fuori da questi luoghi protetti la loro vita era a dir poco precaria. Le cose peggiorarono ulteriormente quando gli indiani impararono a cavalcare; per la prima volta la supremazia dei cavalieri spagnoli veniva meno, e anzi, grazie al cavallo gli indiani aumentavano ulteriormente la loro già notevole mobilità. Anche le armi da fuoco, gli archibugi, che avevano portato il terrore fra gli indiani, per la prima volta finirono nelle mani degli indiani e furono da essi usati.Tra questi popoli ormai scomparsi, durante questo conflitto quasi dimenticato, per la prima volta compaiono tutti i diversi elementi che caratterizzeranno le guerre le indiane a ovest. Gli Spagnoli, che fino ad allora si erano confrontati con popoli sedentari, che vivevano in grandi complessi urbani, e che erano guidati da capi ed elites che potevano essere eliminate o comprate, furono presi di sorpresa dalla guerriglia praticata dai nomadi; la rappresaglia usuale che era stata praticata fino ad allora contro i ribelli, con la distruzione di villaggi e di campi agricoli, era un’arma spuntata contro i nomadi, che dopo ogni azione potevano disperdersi e far perdere le loro tracce in un territorio sconosciuto. E alla fine la supremazia militare che gli Europei avevano fino a quel momento dato per scontata, si dimostrò un’illusione.
Quarant’anni di guerra Dalla scoperta dei giacimenti d’argento e la conseguente fondazione di Zacatecas nel 1546, passarono quattro anni prima che le tensioni tra spagnoli e indiani si trasformassero in aperta ostilità, un periodo di tempo durante il quale miniere, haciendas e piccoli villaggi vennero fondati nel sud della Gran Chichimeca, senza trovare opposizione; poi alla fine del 1550 la guerra iniziò improvvisa con l’assalto da parte degli Zacatechi ad un convoglio che portava l’argento estratto nella regione di Zacatecas, verso la capitale: tutti gli indiani Tarascan che scortavano i carri furono uccisi. Pochi giorni dopo a sud di Zacatecas, altri attacchi venivano lanciati contro i coloni spagnoli, e le greggi proprietà di Cristobal de Onate e Diego de Ibarra, venivano razziate. Non sappiamo se questi atti furono per gli indiani l’inizio di una guerra decisa e pianificata, o solo un’azione frutto della rabbia e della frustrazione; ciò che è certo e che i guerrieri che avevano condotto le azioni tornarono vincitori e portando con se un ricco bottino, e gli Spagnoli non furono in grado di reagire e punire i colpevoli. Il successo ottenuto sicuramente convinse tutti gli Zacatechi a scendere sul sentiero di guerra, e nei mesi successivi le azioni ostili continuarono nella regione di Zacatecas; per i coloni e i convogli iniziava un periodo di costante minaccia. Neanche un anno dopo, nel mese di luglio del 1551 i Guachichile si unirono agli ostili e attaccarono un convoglio di proprietà di Onate, facendo otto vittime tra Spagnoli e servi africani e indiani; in settembre ancora i Guachichile uccisero un mercante, e 40 degli indiani che accompagnavano il convoglio diretto a Zacatecas. Dalla regione di Zacatecas la rivolta si estese quindi a sud, nella terra dei Guamare, i più prossimi agli insediamenti spagnoli. In autunno i Guamare attaccarono una proprietà di Diego de Ibarra, uccidendo due uomini e razziando il bestiame, poi fu la volta del villaggio di San Miguel de Allende, dove c’era una piccola missione francescana, una scuola, un ospedale, e dove vivevano indiani sottomessi, che fu attaccato e distrutto, con quindici vittime; pochi giorni dopo il capo dei Guamare Carangano, distrusse una hacienda spagnola, massacrando tutti gli abitanti. Intanto nella regione di Tlaltenago, nello stesso periodo diversi raids colpirono i coloni spagnoli e gli indiani Caxcane loro alleati, provocando 120 morti; gli Spagnoli diedero la responsabilità di questi attacchi a Tenam-
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xtle, il capo fuggito dopo la sconfitta di Mixton, che aveva trovato rifugio nei monti di quella regione, e aveva continuato la guerriglia. In aggiunta ai già gravi problemi, la rivolta degli indiani, aveva portato a fughe e ribellioni da parte degli schiavi africani, alcuni dei quali si unirono ai ribelli, mentre altri costituirono bande di fuorilegge anch’esse dedite a razziare i convogli. Durante questo periodo la reazione degli Spagnoli era stata puramente difensiva e sostanzialmente inefficace, mentre tra gli indiani cresceva la sicurezza e l’orgoglio per le azioni che conducevano contro gli odiati spagnoli e i loro alleati meridionali. Il primo inutile tentativo di punire gli indiani ostili fu fatto dall’alcade di Zacateca Sancho de Canega, che nel 1551 si mise sulle tracce degli indiani che avevano attaccato un convoglio, derubandolo e uccidendo il mercante Medina. Poi fu la volta di Luis de Velasco il vicerè della Nuova Spagna, che nell’autunno del 1551, incaricò Hernan Perez de Bocanegra e un alto fuzionario di nome Herrera, di mettersi alla ricerca degli ostili, verificare la possibilità di una loro resa, e in caso contrario attaccarli: Herrera riuscì a catturare pochi guerrieri e a impiccarli, Bocanegra probabilmente nemmeno riuscì a trovare gli indiani. All’inizio di gennaio del 1553 un'altra spedizione guidata dal capitano Gonzalo Hernandez de Rojas, non ebbe migliori risultati. Queste spedizioni erano abitualmente composte da alcune decine di soldati spagnoli, non sempre tutti a cavallo, armati di balestre e archibugi, difesi da armature e maglie di ferro, a cui si univano centinaia di alleati indiani; simili spedizioni, sui vasti terreni semiaridi della Gran Chichineca, erano facilmente visibili da lontano e si muovevano spesso con lentezze, rispetto ai loro avversari, che riuscivano a far perdere le loro tracce. I Chichimechi dal canto loro infiltravano spie e informatori negli insediamenti, riuscendo sempre ad essere informati sulle mosse degli Spagnoli, sui convogli in partenza o in arrivo, sulla consistenza dei difensori. Le scorrerie degli indiani non si limitavano ai soli convogli e alle regioni settentrionali, ma mettevano a rischio anche le terre in cui il dominio spagnolo appariva consolidato: nel 1553 oltre 300 indiani della regione di Jilopetec, poco a nord della capitale Mexico, erano stati uccisi dagli attacchi degli ostili, e quello stesso anno, il villaggio di Jalpa, nella provincia di Queretaro, fu bruciato e raso al suolo con 65 vittime. I convogli di merci, dove era possibile fare un ricco bottino rimanevano gli obbiettivi principali, e nel 1554 gli Spagnoli subirono una disastrosa sconfitta nella località di Paso de Ojuelos, dove un convoglio di 60 carri fu razziato dai Guamare del capo Maxorro, e la sua scorta massacrata; quello stesso anno un altro grosso convoglio, proprietà di Gonzalo de Avila fu distrutto. Le due scorrerie costarono una perdita rispettivamente di 32.000 e 40.000 pesos, una somma equivalente alla retribuzione di 250 soldati per un anno. Quelle fin qui citate furono le azioni più eclatanti e distruttive, ma ad esse vanno aggiunti gli attacchi a piccoli convogli, ranch e insediamenti minori, non tutti riportati dalle cronache. In ogni caso, malgrado la feroce ostilità degli indiani, la colonizzazione degli Spagnoli non si fermava e nel 1554, il giovane Francisco de Ibarra fu incaricato da Luis Velasco, di esplorare le regioni a nord di Zacatecas, in cerca di nuovi giacimenti. Ibarra tentò di mettere sotto controllo quelle terre ostili, fondandovi piccoli villaggi lungo le principali vie di comunicazione, abitati da indiani sottomessi e protetti da piccoli contingenti armati, con il compito di garantire la sicurezza nelle zone circostanti; Ibarra portò con se anche missionari francescani, sperando che la loro attività potesse rendere più malleabili i nomadi che abitavano quelle terre, ma i risultati furono vani. L’anno successivo, il 1555, la città di S.Miguel, distrutta qualche anno prima, fu ristabilita con un presidio di una cinquantina di soldati, oltre agli indiani alleati, per tentare di contrastare i guerrieri di Maxorro, che guidava le continue aggressioni ai coloni. Maxorro fu alla fine catturato nel 1557, da Nicolas de San Luis Montanez, un indiano di stirpe Tolteca, cacicco della città di Tula, inviato da Luis Velasco, a prendere il comando degli alleati Otomi che vivevano nella regione. Dopo la sconfitta di Maxorro per qualche anno l’ostilità dei Guamare si ridusse, e gli indiani abbandonati definitivamente i loro piccoli insediamenti agricoli, si rifugiarono sulla Sierra de Guajuato, ma le ostilità continuarono più a nord. Nei primi mesi del 1560 gli attacchi degli Zacatechi e dei Guachichiles furono particolarmente virulenti nella regione di Zacatecas, dove vennero distrutte le haciendas di Alonso Hernandez e Ana del Coral, e la proprietà di Diego de Ibarra a Tepezela, oltre a due convogli di rifornimenti; un altro convoglio fu distrutto nello stesso periodo a Palmilla, mentre analoghi attacchi venivano condotti a nord di Zacatecas, a Avino e S. Martin, colpita mentre tutta la popolazione era riunita in piazza per una celebrazione religiosa. Erano ormai passati più di dieci anni dall’inizio delle ostilità, con la morte di oltre 200 Spagnoli e più di 2.000 indiani alleati, ma oltre al costo in vite umane, la guerra stava divenendo insostenibile sul piano economico. Non solo c’era da sostenere il costo dei militari inviati a presidiare la regione, sempre piuttosto scarsi di numero, ma i prezzi delle merci che servivano a rifornire gli insediamenti minerari, erano cresciuti esponenzialmente, dati i rischi che correvano i convogli; al tempo stesso le attività minerarie erano spesso sospese per lunghi periodi, mentre gli allevatori perdevano migliaia di pesos per le greggi e il bestiame ucciso e razziato. I convogli osavano mettersi in viaggio solo se molto grandi, con carri costruiti appositamente, fortificati
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come piccole fortezze sulle ruote. I coloni costruivano le loro abitazioni come fortificazioni, le “casasfuertes”, circondati da alte mura e con bastioni agli angoli, per difendersi dai frequenti attacchi. Le spese che venivano affrontate per la difesa erano in buona misura a carico dei privati, dato che le concessioni offerte dallo stato, offri- La regione vulcanicaal confine tra gli stati di Zacatecas e Durango, che gli Spagnoli chiamavano vano la possibilità !Malpais”, il cuore del territorio dei Chichimechi di un facile arricchimento, ma prevedevano l’impegno alla difesa del territorio. Tutte queste misure puramente difensive, davano un minimo di sicurezza agli Spagnoli, ma non potevano impedire che gli indiani fossero i padroni del territorio; gli indiani poi avevano imparato a rubare i cavalli, e a cavalcarli, e dopo ogni attacco, gli Spagnoli che erano stati derubati delle loro cavalcature, non erano nemmeno in grado di tentare di inseguire i razziatori. La regione dove si concentrava il maggior numero di ostili era il “Malpais”, la vasta zona vulcanica e semidesertica a nord di Zacatecas, dove si erano radunati un gran numero di bande nomadi, con una forza valutata tra i 1.000 e i 2.000 guerrieri; si trattava principalmente di Zacatechi e Guachichile, ma ad essi si erano uniti gruppi di Tepehuan, provenienti dalla zona di Durango e alcuni Caxcane ribelli. In questa terra difficile gli indiani sopravvivevano cacciando conigli e piccola selvaggina, raccogliendo i vegetali selvatici, e integrando le loro risorse con la predazione delle greggi e delle haciendas spagnole. Il primo tentativo di portare l’attacco nel cuore del territorio ostile, fu compiuto alla fine di luglio 1561 da Pedro de Ahumada un grande proprietario minerario ed encomiendero; prima di dare inizio alle ostilità Ahumada, penetrò nel Malpais con soli cinque soldati ed un interprete, allo scopo dichiarato di proporre agli indiani la pace, in cambio del perdono per i crimini commessi. In questo modo egli riuscì a stabilire un contatto con gli indiani, incontrandosi con loro in un grande insediamento, dove gli accordi di pace furono stabiliti. Ritornato alla sua base, Ahumada organizzò un piccolo esercito di una dozzina di cavalleggeri, quaranta fanti e circa 400 indiani alleati, e si mosse a colpo sicuro verso il grande villaggio indiano, per assestare agli indiani una dura sconfitta. Gli indiani dal canto loro non si fidavano degli Spagnoli più di quanto essi si fidassero di loro, così Ahumada trovò il villaggio abbandonato e solo pochi indiani nelle vicinanze che furono tutti ammazzati, non prima di aver estorto loro informazioni, su come rintracciare gli ostili. Postosi quindi all’inseguimento, riuscì finalmente a trovare gli indiani nella valle di Guadiana, nella Sierra Madre Occidentale; gli indiani subirono una dura sconfitta, contando forse duecento vittime, oltre un centinaio di prigionieri. Portati al presidio di Penon Blanco, questi prigionieri, riuscirono a liberarsi delle catene, attaccare le guardie armati solo di pietre, distruggere il presidio e prendere in ostaggio una dozzina di soldati; poi per un intera notte riuscirono a resistere ai rinforzi spagnoli giunti da un vicino accampamento, prima che i superstiti del combattimento, condotto quasi senza armi, accettassero la resa. Nel mese di ottobre Ahumada e suoi uomini, si misero sulle tracce dei Guachichile, che avevano ucciso un missionario, riuscendo a rintracciare un loro grande accampamento, che attaccarono uccidendo un centinaio di indiani. Le vittorie di Pedro de Ahumada allentarono la pressione degli indiani nella zona a nord di Zacateca, e soprattutto indussero i Tepehuan, che simpatizzavano con i vicini Zacatechi, a rinunciare ad ogni ostilità e ad accordarsi con gli Spagnoli, evitando di farsi coinvolgere nel conflitto. La guerra, momentaneamente sospesa al nord, riprendeva però a sud nel 1563, con l’attacco dei Guamare ai due villaggi di Comanje e Penjamo. Negli anni precedenti gli Spagnoli avevano pensato di poter pacificare definitivamente i Guamare grazie all’intervento dei missionari, e più d’uno di loro si era avvicinato alla fede cattolica, ma proprio questi neofiti, si rivelarono i peggiori nemici nel momento in cui il conflitto riprese, avendo imparato ad usare gli archibugi,
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che riuscivano a rubare. Ancora una volta la via fra Zacatecas e Mexico fu interrotta, molti centri di frontiera furono abbandonati e l’attività mineraria sottoposta a lunghe sospensioni. Gli Spagnoli avevano nel frattempo istituito alcuni importanti presidi lungo il Camino Real, a San Miguel e San Felipe, nel 1561 e 1562, e a Nobre de Dios, nei territori a nord, nella Nueva Vizcaya (l’attuale stato di Durango) le terre da poco aperte alla colonizzazione da Francisco de Ibarra; comunque tali presidi a Insediamenti minerari e vie di comunicazione durante la Guerra dei Chichimechi malapena potevano controllare le loro immediate vicinanze; nel 1568 un tentativo di ricostruire il villaggio di Comanje, fu immediatamente frustrato da un distruttivo attacco dei Guamare. Le ostilità dei Guamare era particolarmente distruttive, perché essi agivano proprio lungo il Camino Real, in prossimità delle terre che la Spagna controllava da decenni, portando attacchi anche in profondità, come nel 1570, quando i Guamare attaccarono ripetutamente il presidio di Tazacala, lungo la via che portava da Guadalajara a Mexico, uccidendo diversi soldati. Per venire a capo di questa situazione che continuava a danneggiare economicamente la Nuova Spagna, nel 1568 ancora una volta fu tentata, nei confronti dei Guamare, la via della trattativa, inviando nelle loro terre un gruppo di missionari, accompagnati da un piccolo contingente di soldati, e da alcune centinaia di indiani alleati. La missione si incontrò con diversi capi Guamare, offrendo loro il perdono e il diritto a risiedere sulle loro terre, in cambio della rinuncia agli attacchi. In questo modo la rivolta dei Guamare fu in buona misura sedata, e diversi capi addirittura collaborarono nel denunciare e nel rintracciare i guerrieri più ostinati, per farli arrestare, o anche i loro vicini Guachichile, con cui erano stati in rapporti ostili, prima dell’inizio della guerra contro gli Spagnoli; nel 1574 80 capi di bande ostili erano stati uccisi o presi prigionieri. A questo primo tentativo di pacificazione, si aggiunse una forte militarizzazione della frontiera e del Camino Real, con la costruzione di un gran numero di presidi grandi e piccoli, il rafforzamento delle guarnigioni, la colonizzazione delle terre ostili con gli indiani alleati e la fondazione di nuovi villaggi di frontiera. Il rafforzamento dell’impegno militare spagnolo era in buona misura dovuto all’intervento diretto della corona di Spagna, che si era finalmente decisa a sostenere con proprie risorse, il governo della Nuova Spagna, che fino a quel momento aveva dovuto pagare in proprio le spese della guerra. Alla metà degli anni ’70 sembrava che la Guerra dei Chichimechi potesse essere vinta, e benchè i Guachichile e gli Zacatechi fossero in larga misura liberi e in armi, le loro azioni ostili si facevano più periferiche e meno incisive lungo le vie di comunicazioni principali, e nelle principali aree colonizzate. Tra i capi Zacatechi in questo periodo si fecero un nome Bartolomillo, e dopo la sua cattura Anton Rayado, mentre tra i Guachichile, Martinillo della regione di San Luis Potosi, era il più temuto tra i capi guerrieri. I momentanei successi degli Spagnoli, furono però in buona misura vanificati, da una distruttiva epidemia che nel 1576 si diffuse fra gli alleati indiani e tra quella parte dei Chichimechi che da poco avevano accettato di arrendersi; vissuta come una punizione degli spiriti, per l’abbandono delle vecchie credenze e l’accettazione della religione cattolica, l’epidemia, oltre ad indebolire il processo di colonizzazione da parte di indiani alleati, indusse molti dei neofiti a fuggire tra gli ostili, riconfermando questi ultimi nella loro scelta di non arrendersi agli invasori. Non è chiaro quale fu l’impatto della malattia tra i ribelli, ma tra i nomadi, che vivevano dispersi in piccole bande, forse il contagio fu meno esteso. Nei dieci anni successivi la Guerra dei Chichimechi continuò come guerra di frontiera, con l’avanzare degli insediamenti spagnoli verso nord, nelle regione di Durango e fino oltre i confini di Coahuilla; qui Alberto
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del Canto, insieme a venticinque compagni, nel 1577 fondò la città di Saltillo, insieme a diversi piccoli centri minerari, tra cui le “mines de las Trinidad”, nella località in cui sorgerà Monclova. Con l’arrivo degli Spagnoli a nord dei confini della Gran Chichimeca, la guerra raggiunse anche i Lagunero e i popoli del Bolsom de Mapimi, tribù ormai scomparse, ma probabilmente affini sia culturalmente che linguisticamente, ai Guachichile; del Canto si impegnò subito a reperire la manodopera necessaria alle miniere, con una serie di raids contro gli indiani locali per catturare schiavi, e la sua attività fu tale da suscitare l’intervento dell’Inquisizione, che nel 1578 lo accusarono di commercio di schiavi. C’è da notare che Alberto del Canto, di origine portoghese e proveniente da una famiglia ebraica, da poco convertita al cattolicesimo, era già nelle mire del sospettoso clero spagnolo. Il cacciatore di schiavi comunque riuscì a farla franca trovando rifugio, paradossalmente, proprio fra quegli indiani che aveva combattuto, nascondendosi fino al 1581 quando l’accusa decadde. L’avanzata degli Spagnoli, condotta attrverso l’iniziativa di privati che spesso, come nel caso di Paolo del Canto, si muovevano al di fuori di ogni legalità, continuava ad alimentare la sanguinosa guerriglia, che gli Spagnoli non erano in grado di debellare; ormai pienamente in grado di muoversi a cavallo, gli scorridori indiani controllavano le regioni settentrionali, e per lunghi periodi bloccavano del tutto le strade che collegavano Zacatecas alle regioni minerarie del nord. A rendere ancora più grave la situazione, c’era poi il fenomeno della tratta degli schiavi, che sempre tollerato, aveva assunto maggiori dimensioni con l’aumento della presenza militare, dato che i soldati avevano preso l’uso di integrare il loro magro soldo, mettendosi in caccia degli ostili, per venderli a proprietari di miniere e di haciendas, sempre a corto di manodopera. La guerra costante e prolungata, si era trasformata in uno strumento di sovvenzionamento dell’economia legale e illegale che essa stessa produceva, il cui costo era pagato con i fondi messi a disposizione dello stato per la sicurezza della frontiera. Piuttosto che metter fine alla guerra, il comportamento dei soldati, di fatto la fomentava, e probabilmente anche per questo nell’estate del 1585, i Pame, un popolo affine agli Otomi che si era sempre mantenuto in pace, attaccarono il villaggio di Zimapan Hidalgo e si unirono agli ostili. Dopo 35 anni, la guerra non solo non sembrava vedere fine, ma essa stava diventando un elemento endemico e strutturale della dinamica economica locale, in un equilibrio in cui tutti in qualche modo, avevano da guadagnare: gli indiani che potevano integrare la loro magra economia con le razzie di bestiame e merci, i soldati che potevano arrotondare con il commercio degli schiavi, i proprietari locali, i cui affari erano difesi dai militari, e che crescevano sia con le forniture ai militari stessi, sia ottenendo schiavi e quindi risparmiando sulla manodopera: la corona di Spagna, pagava.
La pace: una questione di bilancio A risolvere una situazione che era ormai cronicizzata e incancrenita, giunse un personaggio la cui iniziativa in totale controtendenza, suscitò le opposizioni di gran parte dei suoi compatrioti, ma che alla fine diede frutti certi e sicuri nel tempo. Il personaggio in questione era Alvar Manrique de Zuniga, membro della nobiltà spagnola, che aveva a lungo e lealmente lavorato al servizio di Filippo II, conquistandosi la sua completa fiducia, al punto che fu lo stesso sovrano a decidere la sua nomina a vicerè della Nuova Spagna, senza ascoltare il parere del Consiglio delle Indie, che era l’organo più influente nelle scelte che riguardavano la politica coloniale spagnola. Zuniga giunse in Nuova Spagna nel 1585, trovando la colonia in preda a diversi conflitti: il clero era diviso, con i vescovi e la gerarchia ecclesiale, sostenuti da nobili e possidenti, in contrasto con gli ordini religiosi e i conventi, sostenuti dalla popolazione più povera; lungo le coste i corsari inglesi portavano attacchi alle navi spagnole e addirittura stabilivano le proprie basi; nelle terre del nord la guerra contro i Chichimechi si protraeva da decenni, senza apprezzabili risultati e con un costo insostenibile per l’erario. Su tutti questi Alvar Manrique de Zuniga, governatore della Nouva problemi Zuniga assunse provvedimenti, schierandosi Spagna tra il 1585 e il 1590
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a favore degli ordini religiosi, agendo contro i corsari inglesi ed organizzando una specifica milizia, e soprattutto cambiando radicalmente l’approccio alla questione indiana, non tentando di vincere la guerra, ma riuscendo a rimuoverne le cause. Sostenuto da molti religiosi, i cui sforzi nel tentativo di conversione degli indiani erano frustrati dalla usuale pratica della caccia agli schiavi, e verificato che molti attacchi alle miniere erano dovuti al fatto che proprio nelle miniere erano obbligati a lavorare gli schiavi indiani, Zuniga impose e fece rispettare il divieto della caccia agli schiavi e punizioni dure per chi ne era colpevole; stabilì poi che gli indiani presi prigionieri, di cui non fosse stata verificata la colpevolezza per reati specifici, dovevano essere liberati, mentre nel caso di capi e guerrieri che potevano rappresentare una minaccia, la liberazione sarebbe stata parziale, in villaggi e città dove potevano essere convertiti e cristianizzati; in aggiunta vennero allontanati dai presidi quei militari i cui comportamenti, ingiusti e inutilmente crudeli, avevano contribuito a creare tensioni con gli indiani. Oltre a questi provvedimenti di giustizia con cui si tentava di ottenere la fiducia degli indiani, Zuniga propose addirittura di chiudere i costosi presidi militari di frontiera, aprendo contestualmente trattative con i capi delle bande ribelli; per le trattative si avvalse della collaborazione di alcuni esperti soldati e uomini della frontiera, tra i quali in particolare Miguel Caldera, un capitano mezzosangue, figlio di un soldato e di una donna Guachichile: molte trattative ottennero buoni risultati, ma l’idea di chiudere i presidi di frontiera dovette essere abbandonata, per la forte opposizione dei proprietari di miniere. Infine per dare stabilità alle regioni del nord, Zuniga, insieme ai missionari cattolici, favorì la fondazione di villaggi sulla frontiera, abitati da indiani cristiani e alleati, dove fosse possibile anche per gli indiani ancora liberi, accedere a merci europee, incontrare i missionari, trasferirsi e risiedere, imparare a coltivare la terra e allevare bestiame, mescolandosi agli indiani cristiani, anche attraverso matrimoni misti; contro le bande più irriducibili, intervenne assumendo la responsabilità del trasporto dei carichi d’argento e rafforzandone le difese, infliggendo due gravi sconfitte a bande di razziatori che avevano tentato l’attacco ai convogli. Si trattava di misure autenticamente “rivoluzionarie”, che nel giro di cinque anni ridussero notevolmente la conflittualità, portarono ad una maggiore sicurezza delle strade e degli insediamenti, e ridussero notevolmente le spese per l’erario; e probabilmente proprio il tema riduzione dei costi della guerra, di cui ormai da alcuni anni si faceva carico lo stato spagnolo, era stata la ragione prima delle iniziative di Zuniga. E’ comunque un fatto che nella storia dei conflitti tra bianchi e indiani, è difficile trovare un altro esempio di tale efficacia. Nel 1590, al momento in cui Zuniga dovette lasciare l’incarico, la guerra contro i Chichimechi era di fatto finita, e fu considerata formalmente e definitivamente conclusa nel 1600. Ovviamente non tutti i guerrieri Chichimechi rinunciarono all’ostilità verso gli odiati nemici di un pluridecennale conflitto, e i gruppi più irriducibili si spostarono più a nord, unendosi alle bande nomadi del Bolsom de Mapimi, e ai gruppi di Apache più meridionali, ma così facendo cessarono di essere un problema grave per gli insediamenti. Malgrado i risultati raggiunti, Zuniga non ottenne alcun riconoscimento, ma al contrario le posizioni da lui assunte, in particolare nella disputa all’interno del clero, gli alienarono le simpatie di molti potenti locali, che lo accusarono di tirannia, malversazioni, abusi e quant’altro; dovette subire la confisca delle proprietà, un lungo processo, che per diversi anni gli impedì di tornare in Spagna, prima di essere riconosciuto innocente dalle accuse. La Guerra dei Chichimechi è il primo conflitto che oppone i colonizzatori europei agli indiani nomadi del nuovo continente, e presenta tutte le caratteristiche che si presenteranno nei successivi conflitti, in particolare nelle terre del Sud-Ovest: da un lato nomadi razziatori, che conoscono il territorio aspro e difficile, sanno sopravvivere in condizioni anche estreme, si muovono velocemente a cavallo, e hanno poco da perdere, se non la loro vita e la loro libertà; dall’altra gli Europei che vivono assediati nei loro avamposti, non possono spostarsi con sicurezza in una regione ignota e ostile, e le cui merci e il bestiame rappresentano una risorsa per i nomadi. E infatti risolta la guerra con i Chichimechi, gli Spagnoli si troveranno a dover affrontare analoghi conflitti man mano che si sposteranno a nord, attraverso il deserto del Bolsom de Mapimi, fino alla vasta Apacheria, nelle sud-ovest degli attuali Stati Uniti e nelle terre limitrofe del Messico: e alla fine saranno obbligati a tentare soluzioni analoghe, ma meno rigorose e coerenti, di quelle messe in campo da Zuniga. La fine della Guerra dei Chichimechi rende esplicita anche un carattere della dominazione Spagnola in America, in particolare rispetto a quella Inglese: per gli Spagnoli, il cuore del dominio, era la sottomissione ed il controllo delle popolazioni, ancor prima che l’effettiva occupazione delle terre; gli Spagnoli traevano la loro ricchezza principalmente dal controllo della forza lavoro degli indiani, dalla loro schiavizzazione, nella forma più estrema, dal loro lavoro servile abitualmente, dall’imposizione di tributi alle comunità “autonome”, sempre. Gli Inglesi al contrario, erano interessati ad occupare le terre, e non avevano alcuna necessità della forza lavoro indigena: così mentre gli Spagnoli dovevano in qualche modo integrare nel loro modello economico e politico gli indiani, gli Inglesi dovevano semplicemente disfarsene. Gli indiani convertiti, nel modello co-
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loniale spagnolo erano comunque sudditi del re, privi della loro libertà, ma almeno formalmente garantiti da alcune tutele; e non va dimenticato che la conversione degli indiani, e quindi la salvezza della loro anima, e il loro inserimento nella “grande famiglia” della chiesa, era un compito istituzionale dello stato spagnolo, oltre alla prima ragione di legittimazione ideologica della conquista. Per gli Inglesi, gli indiani erano un soggetto esterno e non integrabile nella comunità, per i Chichimeca Jonaz in costume tradizionale durante una festività locale quali non c’era nemmeno da preoccuparsi della salvezza dell’anima. Pur nella sua brutale crudeltà, il colonialismo spagnolo, puntava all’integrazione degli indiani, non alla loro eliminazione, come fu invece nelle aree di colonizzazione inglese. L’integrazione, che passava sostanzialmente per l’inserimento nel modello Spagnolo dell’encomienda, era una possibilità abbastanza realistica, una volta ottenuto il controllo militare e soprattutto la conversione, per quei popoli agricoli e stanziali, il cui sistema di vita poteva essere in qualche modo ricondotto alla condizione del servo della gleba europeo; per i nomadi tale possibilità era quasi inesistente, dato che il loro modello economico e sociale, che non prevedeva l’attività agricola e la sedentarietà, non era integrabile. Di fronte a tale difficoltà, per quasi quarant’anni gli Spagnoli cercarono inutilmente di eliminare i nomadi Chichimechi, confrontandosi non solo con le difficoltà militari, ma soprattutto con un territorio ostile in cui gli Europei avevano difficoltà ad adattarsi, e che senza la forza-lavoro degli indiani, non erano in grado di utilizzare; gli indiani ostili avevano invece il modello economico e di sussistenza dei nomadi, aderente al contesto ambientale, e il lavoro servile che gli Spagnoli offrivano in cambio della pace, non poteva rappresentare una appetibile alternativa. L’intuizione di Zuniga fu quella di operare per porre le condizioni per il superamento dello stile di vita nomade, offrendo una alternativa accettabile con la costruzione di comunità agricole stanziali autonome, e attirando gli indiani in tali comunità, con la possibilità di accedere ai manufatti europei e al bestiame, non attraverso la predazione, ma attraverso regali e piccoli scambi commerciali. Nel giro di pochi anni un gran numero di nomadi Chichimechi si avvicinarono ai villaggi e alle missioni, si mescolarono agli indiani già convertiti, contribuendo anch’essi alla costruzione di quella popolazione “india” locale, in cui si perdevano le vecchie identità tribali, e nasceva quella collettività di “peones”, che sarà il soggetto protagonista della vita sociale, economica e politica della storia messicana. Degli antichi Chichimechi, rimane oggi solo un gruppo che mantiene l’antico nome, i Chichimeca Jonas, negli stati di Guanajuato e S.Luis Potosi, ma la loro lingua è quella dei Pame, di cui essi sono gli eredi, mentre completamente perduta è l’identità etnica dei guerrieri più ostili e bellicosi, i Guachichile, gli Zacatechi, i Guamare. Negli anni successivi le politiche di Zuniga furono seguite in modo molto meno convinto e più contraddittorio, dato il forte pregiudizio razziale e gli interessi economici dei ricchi proprietari di miniere e di haciendas spagnoli, che continuavano a cercare di imporre il loro dominio sugli indios e sulle loro comunità; le risorse destinate agli indiani e al loro percorso di integrazione diminuirono, o presero altre vie attraverso la corruzione e il malaffare, mentre il potere degli encomienderos manteneva gli indiani in una condiziozione di miseria e subalternità. Conflitti e rivolte, anche sanguinose continuarono a prodursi, ma non più come guerre combattute lungo il crinale dell’identità etnica e culturale, ma come lotte sociali, in cui gli interessi dei contadini più poveri, di origine indiana, si contrapponevano all’aristocrazia dei grandi proprietari, discendenti dai primi conquistatori spagnoli: sarà questa una storia lunga, che accompagnerà il Messico per secoli, fino ai tempi di Emiliano Zapata e Pancho Villa, e che ancora oggi non è conclusa.
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Francisco de Ibarra e Luis de Carvajal: il giovane esploratore e il cacciatore di schiavi Durante la lunga e sanguinosa Guerra dei Chichimechi, l’avanzata spagnola verso il nord del Messico, che aveva trovato una fiera opposizione nelle regioni centrali, continuò invece ad est e a ovest della Gran Chichimeca; si trattava sempre di intraprendenti avventurieri, che con la sola autorizzazione ufficiale, organizzavano a proprie spese spedizioni di esplorazione e di conquista, confidando di recuperare le spese con la scoperta di miniere o altri tesori, e la pratica sempre diffusa della tratta degli schiavi. Tra questi avventurieri emergono due figure in particolare, quella di Francisco de Ibarra, che aprì la colonizzazione spagnola ai territori di Durango, Sinaloa e fino al limite meridionale di Chihuahua, e quella di Luis de Carvajal y de la Cueva, che portò la presenza spagnola fin quasi alle rive del Rio Grande, nel nord-est del Messico. Le vicende dei due personaggi scorrono parallele e diverse, così come erano diversi i personaggi e diversi i contesti ambientali e i popoli indiani con cui ebbero a misurarsi. Francisco de Ibarra era il giovane rampollo di una famiglia di origine basca, che aveva svolto un ruolo importante nella conquista del nord del Messico: era stato Miguel de Ibarra a scoprire le miniere d’argento di Zacatecas nel 1546, e negli anni successivi suo nipote Diego de Ibarra, era diventato uno dei più importanti ecomienderos e proprietari minerari nella Gran Chichimeca. Nel 1554 Diego de Ibarra finanziò una spedizione per la ricerca di nuovi giacimenti minerari, affidandone la responsabilità a suo nipote, Francisco de Ibarra, allora poco più che ventenne; il giovane Ibarra, dopo aver scoperto i ricchi giacimenti di Fresnillo, a nordovest di Zacatecas, continuò la sua esplorazione addentrandosi nel territorio dell’attuale stato di Durango, dove fondò i villaggi minerari di Avino e S.Martin. In quegli anni Ibarra si fece un nome e una posizione, sia grazie ai suoi successi nella scoperta di miniere, sia come combattente contro i guerrieri Chichimechi che erano una minaccia costante per gli avamposti da lui fondati. Nel 1562 Francisco de Ibarra, organizzò un’altra spedizione nel cuore dello stato di Durango e fino alle pendici della Sierra Madre Occidentale, sia per trovare altre miniere, sia per inseguire l’illusione della ricca città di Copala, probabilmente una nuova versione della leggenda di Cibola; nel corso di questa spedizione Ibarra fondò diversi villaggi e missioni, e acquisì la regione ai domini della Nuova Spagna. Le terre in cui Ibarra si inoltrava non erano abitate dai nomadi e ostili Chichimechi, ma da una tribù semisedentaria di agricoltori, i Tepehuan, che dopo aver sostenuto in una prima fase i loro bellicosi vicini, a partire dal 1561 avevano preferito attestarsi su una prudente neutralità. Dalle testimonianze non sembra che Ibarra assumesse comportamenti particolarmente arroganti e violenti nei confronti di questo popolo, mentre è certo che al suo seguito vi erano sempre missionari, e che oltre ai villaggi minerari, egli promuovesse la fondazione di missioni per gli indiani. La sottomissione dei Tepehuan, almeno in questa prima fase, fu quindi un percorso abbastanza incruento, in cui l’opera dei missionari e le conversioni degli indiani ebbero un ruolo centrale; va poi aggiunto che nel complesso la presenza spagnola, che era numericamente limitata e interessata alle ricerche minerarie, aveva un impatto poco significativo sulle comunità agricole degli indiani. Grazie alle sue esplorazioni, in quello stesso 1562 Ibarra fu insignito del titolo di governatore della provincia di Nuova Vizcaya, una regione dai confini indeterminati, corrispondente grosso modo allo stato di Durango e alle terre a nord e a ovest, fino in Chihuahua e Sinaloa; l’anno successivo Ibarra fondava la città di Durango, come capitale della nuova provincia. Ancora nel 1564 l’intraprendente Ibarra varcava la Sierra Madre Occidentale e si spingeva nell’attuale stato di Sinaloa, nelle terre a nord di Culiacan, dove fondava la città di El Fuerte, nel territorio degli indiani Mayo, al limite delle terre degli irriducibili Yaqui, all’estremo nord di Sinaloa. Negli anni successivi Ibarra divise il suo lavoro tra la costruzione di una amministrazione pubblica per la nuova provincia, e le spedizioni di esplorazione delle vaste terre ignote a nord; nel 1565 raggiunse il territorio degli Opata, nel cuore dell’attuale stato di Chihuahua, dovendo rinunciare a proseguire per la fiera opposizione degli indiani, mentre nel 1567 il suo sottoposto Rodrigo del Rio de Losa, fondò il villaggio minerario di Santa Barbara, sul confine meridionale di Chihuahua, al margine del terFrancisco de Ibarra ritorio degli indiani Tarahumara, che rimasero indipendenti e ostili
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ad ogni penetrazione spagnola. Francisco de Ibarra morì poco più che quarantenne il 3 giugno del 1575 nella città di Panuco, da lui fondata in Sinaloa, dopo aver passato gran parte della sua vita nell’esplorazione di terre sconosciute; rispetto a tante figure di conquistador spagnoli, l’immagine che rimane di lui è di uno spirito intraprendente ed irrequieto, abile combattente, ma pronto ad evitare i conflitti se possibile, equilibrato nell’affrontare i problemi amministrativi, non uso alle inutili crudeltà e sempre attento al sostegno del clero. Dopo la sua morte la penetrazione spagnola nella regione procederà lentamente, avendo la sua punta avanzata principalmente nell’attività missionaria, e per un periodo di quasi mezzo secolo, il contatto tra bianchi e indiani non produsse significativi conflitti. Intorno al 1580 la scoperta di giacimenti minerari sulle pendici occidentali della Sierra Madre, portò gli Spagnoli nelle terre degli Acaxee, una tribù linguisticamente e culturalmente affine ai Tepehuan, che come i loro vicini non si mostrarono ostili. A creare le condizioni per l’esplodere dei conflitti, ancor più che la presenza Spagnola, ancora marginale nell’area, poterono le epidemie portate dagli Europei, che a partire dal 1576 iniziarono a colpire i popoli della regione, facendo crescere soprattutto la diffidenza verso i missionari: le missioni erano infatti il primo luogo di diffusione del contagio, e i missionari erano consderati i responsabili dell’abbandono delle credenze tradizionali, e della conseguente punizione rappresentata dalle malattie. Con il nuovo secolo il malessere degli Acaxee e dei Tepehuano, sarebbe esploso con violenza. Mentre nel nord-ovest l’avanzata spagnola avveniva in modo relativamente incruento, nel nord-est le cose andavano in modo radicalmente diverso, come era diverso il personaggio che svolse un ruolo da protagonista in questa regione. Luis Carvajal y de la Cueva apparteneva ad una famiglia di origine portoghese e di religione ebraica, che si era da poco convertita al cattolicesimo, per sfuggire alle persecuzioni imposte dai cattolici reali di Spagna e dall’inquisizione. Questi “nuovi cristiani”, così venivano definiti, erano comunque sempre sospettati di mantenere legami con la vecchia religione, e continuavano a subire il tradizionale pregiudizio antisemita dei cattolici. Prima di arrivare in Messico nel 1567, Carvajal aveva commerciato insieme a suo suocero a Santo Domingo, poi giunto con una flotta commerciale a Tampico, aveva acquistato un allevamento e una tenuta agricola, e in poco tempo era divenuto uno dei più importanti personaggi della regione. A quell’epoca Tampico, fondata nel 1554, era il più settentrionale tra gli insediamenti spagnoli sulla costa Atlantica, in una terra che era stata abitata dai civili Huaxtechi, sottomessi già negli anni ’20 del ‘500, ma che più a nord era territorio di bande di nomadi poco conosciute e tendenzialmente ostili; dal tempo in cui gli Spagnoli erano giunti nell’area nessuno si era spinto a nord, e le notizie sulle terre settentrionali erano giunte solo dai pochi superstiti di un naufragio che nel 1554 aveva quasi distrutto un ricco convoglio navale spagnolo. Più di un centinaio di naufraghi avevano raggiunto la Isola del Padre, sulla costa del Texas a nord della foce del Rio Grande, ma erano stati attaccati e massacrati dagli indiani Karankawa della regione; i pochi superstiti, tra cui un frate ferito sette volte e lasciato per morto, riuscirono finalmente a raggiungere Panuco, allora il principale centro della regione, e da allora gli Spagnoli non si erano più spinti in quelle terre. La regione non offriva le risorse minerarie delle zone interne, non era abitata da popoli civili e ricchi, e le sue coste erano costantemente minacciate dall’attività di pirati e corsari dei Caraibi; per tutte queste ragioni essa rimase piuttosto periferica nelle politiche di espansione della Nuova Spagna, e le principali attività economiche erano legate all’allevamento e all’agricoltura, a cui si aggiungeva la tratta illegale degli schiavi, di cui la regione era diventata il centro fin dai tempi di Nuno de Guzman. Gli indiani Coahuiltec che abitavano le vaste pianure tra la Sierra Madre Orientale e la costa, erano le vittime designate dell’infame commercio: nomadi che si spostavano in piccole bande, senza costituire coese entità tribali, erano praticamente alla mercè dei cacciatori di schiavi, che a cavallo, con armi di metallo e archibugi, non avevano difficoltà a fare il loro bottino. In queste condizioni ovviamente anche i tentativi dei missionari, già resi difficili dal nomadismo degli indiani, divenivano impossibili, e gli stessi missio- Monterey, la città da lui fondata, ha voluto ricordare Luis de nari potevano essere vittime della reazione degli in- Carvajal con questo monumento equestre in bronzo
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diani. Questi ultimi reagivano episodicamente attaccando gli allevamenti e le fattorie, razziando il bestiame, rendendo di fatto difficile la colonizzazione del territorio, ma senza mai riuscire a rappresentare un vero pericolo, con una azione di guerra concordata e generalizzata. In questa terra giunse Luis de Carvajal, ricco commerciante, determinato e ambizioso, che riuscì subito a farsi un nome tra i potenti del Messico catturando nel 1568 un’ottantina di corsari inglesi naufragati sulle coste del Texas, dopo uno scontro con gli Spagnoli al largo di Veracruz; ovviamente con un simile successo nessuno si curò della sua attività di cacciatore di schiavi, ma anzi si fece un nome come combattente contro gli indiani. Nel 1572 ottenne così l’incarico dal vicerè della Nuova Spagna, di aprire una strada che collegasse Panuco al centro di Mazapil, nel nord della Gran Chichimeca, trovando un passo attraverso la Sierra Madre Orientale; successivamente riuscì a farsi affidare il compito di punire, quasi vent’anni dopo, i responsabili del massacro dei naufraghi del 1554; la spedizione militare, che raggiunse e superò la foce del Rio Grande, fu di fatto un raid schiavistico in grande stile, compiuto con la copertura legale del vicerè, che colpi quasi certamente indiani ignari e innocenti. Nel 1575 Carvajal operò nella zona di Jalpa, nella provincia di Queretaro, costruendo un forte e ristabilendo il controllo del territorio, dopo anni di guerra contro la Immagine di un indiano Coahuiltec. tribù dei Guamare. ricostruita in base alle testimonianze Forte del sostegno delle più influenti autorità del Messico, Carbajal era pronto a raggiungere mete più ambiziose e nel 1578 tornò in Spagna, dove l’anno successivo, riuscì ad ottenere dal re Filippo II l’autorizzazione ad una spedizione per la conquista delle zone del nord-est del Messico, definite regno di Nuevo Leon; si trattavadi una vasta regione che dalla costa si estendeva per 200 leghe (circa 800 km), nell’interno, fino alle parte nord-occidentale della Gran Chichimeca a ovest, e oltre il Rio Grande al nord. Gli obblighi assunti davanti al re, impegnavano Carvajal ad organizzare a sue spese una spedizione di colonizzazione, portando con se 100 uomini, di cui almeno 60 sposati, con il compito di esplorare, pacificare e colonizzare le nuove terre, civilizzare e convertire gli indiani, e con l’esplicito divieto di schiavizzarli. Nell’estate del 1580 Carvajal tornò in Messico con la sua famiglia, e con gli uomini reclutati, un gran numero dei quali erano come lui “nuovi cristiani”, sospettati di praticare segretamente la religione ebraica. A partire dal 1581 iniziò l’opera di colonizzazione del territorio compreso tra la Sierra Madre Orientale e il Rio Grande, con la fondazione di alcuni villaggi, tra cui Monterey, futura capitale dello stato di Nuevo Leon, Cerralvo, Almaden e più tardi Monclova, presso “las minas de la Trinidad”. Le terre esplorate non avevano grandi ricchzze minerarie, e le principali risorse erano un po’ di agricoltura e di allevamento, e soprattutto la tratta degli schiavi, che arricchiva Carvajal e la sua famiglia e garantiva la forza lavoro ai coloni, oltre a rifornire le miLa frontiera del Messico alla fine della Guerra dei Chichimechi
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niere del sud, nella Gran Chichimeca. Per anni gli indiani Coahuiltec del basso corso del Rio Grande, a nord e a sud del fiume, furono soggetti alle scorrerie di una truppa di una sessantina di professionisti della caccia all’uomo, che agivano con continuità, metodo e spietatamente, in quella che consideravano una ordinaria attività economica; gli indiani reagivano portando attacchi ai coloni, e nel complesso lo sviluppo della colonia languiva, essendo legata ad una attività che non favoriva certo l’arrivo di nuovi coloni. Di fatto più che un dominio coloniale, la regione era sotto il dominio di una banda di “rinnegati senza Dio e senza Re”, come si espresse un testimone dell’epoca, che gestiva il territorio sulla base di una attività criminale. Dopo anni di raids schiavisti e reazioni degli indiani, nel 1587 i Coahuiltec riuscirono ad agire tutti insieme, con una offensiva che indusse i coloni ad abbandonare la regione. L’anno successivo, lo stesso Carvajal, fu inquisito dal vicerè Zuniga per la sua attività di mercante di schiavi, il cui contrasto era considerato da Zuniga la chiave per ottenere la pace con i nomadi del nord; all’iniziativa di Zuniga si aggiunse quella dell’Inquisizione che accusò Carvajal di aver coperto alcuni famigliari e altri membri della comunità che continuavano segretamente a professare la religione ebraica. Per Carvajal era la fine e tradotto in carcere a Mexico, vi morirà nel 1591. Con le nuove politiche nei confronti degli indiani, volute da Zuniga e dal suo successore, per una decina d’anni gli indiani Coahuiltec non ebbero più a subire altre sopraffazioni, poi nel 1597 alcuni coloni che erano stati costretti ad abbandonare le loro proprietà, tornarono nella regione di Monterey, dando inizio ad un nuovo processo di colonizzazione, questa volta più in linea con gli indirizzi del governo spagnolo. E questa volta per i Coahuiltec, non sarebbe stato facile liberarsi degli invasori. Le imprese di Francisco de Ibarra e Luis de Carvajal, pur così diverse portarono al medesimo risultato, di estendere il dominio Spagnolo al Messico settentrionale, e quando alla fine del ‘600 anche i Chichimechi furono definitivamente pacificati, la Nuova Spagna si estendeva fin quasi agli attuali confini del Messico. Il completamento della conquista non significò la fine dei conflitti, che continuarono per tutto il secolo successivo, ma dalla fine del ‘500 il controllo spagnolo e la penetrazione del cattolicesimo fra gli indiani del Messico, divennero un elemento acquisito, che caratterizzerà e condizionerà anche la cultura dei popoli nativi.
Ritorno tra i Pueblo
Erano passati quasi quarant’anni dal tempo in cui Francisco Coronado aveva portato centinaia di Spagnoli e migliaia di indiani alleati, nelle lontane terre a nord del Messico, prima tra i monti del New Mexico, poi di lì addirittura nel cuore del Nord America, le immense pianure centrali; la sua deludente avventura, fu l’ultima di quelle imprese che dai monti del Perù, alla paludi della Florida, ai deserti del New Mexico, vide i conquistadores spagnoli inseguire il sogno, e spesso l’illusione, della facile conquista di regni colmi di tesori e ricchezze. Dopo Coronado, la ricerca di facile ricchezza si concentrò su attività più prosaiche, le imprese minerarie, lo sfruttamento della manodopera nativa, il commercio di schiavi; anche l’illusione di facili conquiste con audaci colpi di mano fu messa da parte, davanti alla realtà di una guerriglia indiana ostinata, e di periodiche rivolte anche tra i popoli sottomessi. Fu così che per quasi quarant’anni gli Spagnoli non si interessarono alle lontane terre degli indiani Pueblo, e dopo il loro primo incontro con l’uomo bianco, i pacifici agricoltori Pueblo poterono continuare a vivere secondo le loro tradizioni e cultura, liberi di praticare le loro credenze. Durante questo tempo sembra che il precedente contatto con i bianchi non avesse prodotto molte conseguenze: la nascita di bambini dalla pelle e dai capelli più chiari, frutti dimenticati del piacere di qualche soldato, l’interesse crescente degli indiani per gli oggetti di metallo di cui erano per la prima volta venuti a conoscenza, l’attenzione per le notizie che venivano da sud, ottenute durante i contatti con le tribù del medio corso del Rio Grande: che non erano buone notizie. Con l’avanzare verso nord degli insediamenti minerari, avanzavano anche le guerre e il commercio degli schiavi, che a partire dalla fine degli anni ’70 del ‘500 raggiunsero le terre a sud del Rio Grande, una regione con cui i popoli Pueblo avevano sempre avuto strette relazioni. Quelle terre erano state la culla della cultura Mogollon, da cui secoli prima gli antenati dei Pueblo avevano acquisito l’agricoltura, l’uso dei kivas, le stanze circolari a pozzo usate per i riti, e almeno fino alla metà del ‘400 in quelle stesse terre, era fiorita Casas Grandes, uno dei più importanti centri culturali del Sud-Ovest, fortemente influenzato dagli Anasazi dei pueblos settentrionali. Dalla metà del ‘400 la regione del medio corso del Rio Grande, che divideva le terre dei Pueblo a nord, dagli indiani del Messico a sud, aveva subito profondi sconvolgimenti, e la fine e l’abbandono di Casas Grandes, era stato solo il più evidente segno di decadenza. Forse a causa di anni di siccità e cattivi raccolti, come con-
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fermerebbe una testimonianza fatta a Cabeza de Vaca quando passò nella regione, diverse tribù avevano lasciato i villaggi stabili di adobe, di cui oggi ci sono ancora poche rovine, per tornare a vivere di caccia, pesca e raccolta; alcuni gruppi vivevano lungo il Rio Grande, per pescare e magari coltivare anche qualche pic- Così probabilmente apparivano i Jumano, cacciatori di bisonti delle praterie meridionali colo orto stagionale, mentre altri addirittura si spinsero nel cuore delle Grandi Pianure del Texas, per dedicarsi alla caccia al bisonte, come fecero gli Jumano. Tutti questi popoli sono oggi estinto, ma è possibile che essi fossero affini linguisticamente ai Pueblo di lingua Tanoan che vivevano poco più a nord, e che sempre secondo il testimone di Cabeza di Vaca, parlavano un lingua simile. Sicuramente queste genti almeno fino all’inizio del XVI secolo, erano parte della grande area agricola del Sud-Ovest, di cui costituivano la variante, “Jornada Mogollon”, ma al tempo della colonizzazione Spagnola nel ‘600 del loro passato di abitanti di villaggi stabili, sembra fosse rimasto ben poco, anche se un po’ d’agricoltura era ancora praticata, dove le condizioni erano più favorevoli. Neanche i loro nomi tribali sono ben chiari, dato che le testimonianze sono estremamente confuse, e se per una tribù in una determinata località viene usato un nome, già l’anno successivo un altro viaggiatore ne usa un altro, mentre altri nomi, come Jumanos, che significa “tatuati”, o Salineros, che indicava la presenza di saline nel territorio, o Pescado, che indica l’attività di pesca come prioritaria, vengono usati per gruppi diversi, più come termini descrittivi, che identificativi. Dalle vicende storiche successive, emergono alcuni gruppi tribali più definiti, i Concho, lungo il basso corso del fiume omonimo, i Julime, alla confluenza tra il Conchos e il Rio Grande, i Suma, i Manso risalendo il grande fiume, i Jumano nelle pianure a nord; molto probabilmente i Concho e i Julime, popoli che praticavano un po’ d’agricoltura, erano più affini ai Tarahumara e altri popoli del Messico, mentre per gli altri vale quanto già accennato sull’affinità con i Tanoan a nord. Fu probabilmente attraverso queste tribù che i Pueblo vennero a conoscenza dell’avanzare degli Spagnoli, dato che già nel corso degli anni ’70 del ‘500, cacciatori di schiavi operavano nella regione, che poi nel decennio successivo, fu ampiamente battuto dalla banda di Luis de Carvajal. Dalle loro terre gli abitanti dei Pueblo certo si aspettavano il ritorno degli Spagnoli, sicuramente con preoccupazione, ma anche con la curiosità e l’interesse per quegli oggetti di metallo che avevano conosciuto con l’arrivo di Coronado. Per gli Spagnoli che al seguito di Francisco de Ibarra e Juan de Caravajal, erano giunti fino all’estrema frontiera settentrionale, le notizie di villaggi di case di pietra alte diversi piani, abitati da popoli che usavano vesti di cotone, suscitavano interesse e nuove speranze; non si trattava delle città d’oro di Cibola, ma certo c’erano pur sempre indiani più civili dei selvaggi Chichimechi, e quindi capaci comprendere il messaggio cristiano. Scomparsa quasi del tutto la speranza di trovare regni dorati, fu quindi lo zelo di un missionario a portare di nuovo gli Spagnoli fra i Pueblo nel 1581. Nel 1579 frate Augustin Rodriguez, un missionario che operava nella regione mineraria di Santa Barbara, avuta notizia degli indiani Pueblo, avanzò il progetto di costruire una missione nelle loro terre, e il capitano Francisco Sanchez, detto Chamuscado (bruciato) per la sua barba rossa, fu autorizzato ad organizzare una piccola spedizione, composta una decina di soldati, tre missionari, una ventina di servitori indiani, con al seguito una mandria di 90 cavalli, un gregge di pecore, capre, maiali e bovini. La spedizione partì all’inizio di giugno del 1581, e seguendo il corso del fiume Conchos si spinse verso nord; secondo le testimonianze di Chamuscado, gli indiani Concho della regione, vivevano come nomadi e non praticavano l’agricoltura, fatto che contrasta con altre testimonianze su questa tribù; è piuttosto probabile che viaggiando verso nord, la spedizione abbia incontrato gruppi di indiano Concho che si erano dati alla vita nomade, per sfuggire al sistema dell’encomienda e ai trafficanti di schiavi, e unirsi alle bande che vagavano nelle regioni desertiche a est del fiume (che Chamuscado chiama Rayado, un nome mai più citato, ma che forse designava i Chizo o una delle
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tante bande di lingua Uto-Azteca, che gravitava nell’area del Bosom de Mapimi). Discendendo il fiume gli Spagnoli giunsero alla confluenza con il Rio Grande, nella regione di La Junta (la “confluenza”) dove trovarono un gran numero di piccoli villaggi agricoli. La Junta, per l’abbondanza di acqua, vegetazione e La regione di La Junta, alla confluenza tra Rio Conchos e Rio grande selvaggina, era stato per secoli abitato dagli indiani, ed era stato il punto più meridionale degli agricoltori Jornada Mogollon, prima della decadenza del XV secolo; abbandonati i villaggi di adobe, i nuovi insediamenti erano fatti dai classici “jacal” degli indiani del Messico, capanne quadrangolari, di rami e pali di legno, con tetto piatto, intonacate con fango e parzialmente interrate. Probabilmente dopo la crisi del XV secolo, agricoltori di lingua Uto-Azteca, provenienti da sud, colonizzarono la regione, che però continuò ad essere attrattiva anche per i popoli limitrofi di diversa lingua e cultura; i cacciatori di bisonti Jumano, che forse erano stati precedentemente abitanti della regione, continuavano a visitarla stagionalmente, per scambiare carne e pelli, con gli abitanti dei villaggi agricoli. Le tribù di quest’area, sono conosciute con una quantità di nomi (Pasaguantes, Amotomancos, Otomoacos, Abriaches, Julimes, and Patarabueyes) e per semplicità vengono semplicemente designati come “Indiani di La Junta”. Anche in quest’area, dove furono accolti pacificamente, gli indiani già conoscevano gli Spagnoli, avendo subito le incursioni dei cacciatori di schiavi. Dopo La Junta, Chamuscado e la sua gente continuarono risalendo il Rio Grande, nella zona dove oggi si trova El Paso, dove incontrarono i Caguate un popolo di agricoltori, che ancora abitavano in case di adobe, e che stagionalmente partivano per cacciare il bisonte nelle pianure; questi Caguate corrispondevano quasi certamente ai Suma e ai Manso, popoli che più tardi sarebbero divenuti, nomadi, abbandonando quasi del tutto l’agricoltura, ma che a quel tempo vivevano secondoil modello della cultura Jornada Mogollon. Continuando verso nord il territorio era spopolato e desertico, fin quando nel cuore del New Mexico, raggiunsero i Piro, la più meridionale delle tribù Pueblo del Rio Grande, alla fine dell’estate; in settembre uno dei tre frati decise di tornare indietro da solo, senza che di lui si avessero più notizie: tempo dopo si seppe che gli indiani l’avevano ucciso pochi giorni dopo aver abbandonato la spedizione. Chamuscado e fra Augustin, continuarono a visitare i pueblo della regione fino all’arrivo dell’inverno, raggiunsero Pecos, e di lì le pianure per cacciare i bisonti, ed ebbero un incontro con una grossa banda di Querecho, Apache delle pianure, Lipan probabilmente, con cui rischiarono di giungere allo scontro. Tornati a est del Rio Grande, passarono per il pueblo Keres di Acoma, arrivando fino agli indiani Zuni, lungo la via per raggiungere i lontani Hopi, ma dovettero rinunciare, a causa della neve. Prima di fermarsi a svernare presso i Tiwa, ebbero anche modo di visitare i Tompiro, nella zona di Salinas, a est del Rio Grande, che a differenza degli altri Pueblo non avevano mai avuto contatti con i bianchi e che li accolsero con molta preoccupazione. Dopo essersi fatti un quadro completo del paese, popolato da genti laboriose, che viveva in villaggi ben costruiti, tra i campi irrigati, i due missionari rimasti decisero di stabilirsi nel pueblo Tiwa di Puaray, per iniziare il loro lavoro, mentre Chamuscado e i suoi soldati ripartirono a primavera, lasciando le provviste e un buon numero di servi indiani ai missionari. Chamuscado già, anziano, morì durante il viaggio di ritorno, i suoi soldati tornarono a Santa Barbara nel giugno del 1582. A parte un incidente causato dall’uccisione di tre cavalli da parte degli indiani, la spedizione non trovò ostilità, anche se certo molti indiani non vedevano di buon occhio gli invasori, e poco tempo dopo la partenza di Chamuscado i due missionari furono uccisi, come narrarono successivamente gli unici due servitori indiani tornati indietro. Non sono chiare le cause del loro assassinio, ma i Tiwa presso cui si erano stabiliti, quarant’anni prima erano quelli che più avevano pagato per l’arrivo degli Spagnoli; d’altra parte neanche si può escludere che l’assassinio sia stato causato dal desiderio di appropriarsi dei beni dei missionari, in particolare
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quegli oggetti di metallo che già più volte gli indiani avevano tentato di rubare. All’epoca del ritorno della spedizione di Chamuscado, era da poco giunto a Santa Barbara un ricco proprietario di nome Antonio de Espejo, in fuga da un’accusa di omicidio, per cui suo fratello era già in carcere. Con la motivazione di voler andare alla ricerca dei due preti partiti con Chamuscado, ma probabilmente per sfuggire alla legge e tentare la fortuna, Espejo organizzò a sue spese una piccola spedizione, con una quindicina di armigeri, trenta servi indiani, un prete, e una mandria di oltre cento cavalli. Partito nel novembre del 1582, Espejo seguì la stessa strada di Chamuscado, incontrò gli stessi indiani, avendo un incidente senza conseguenze con gli indiani di La Junta, a causa dell’uccisione di alcuni cavalli. Risalito il Rio Grande oltre la zona spopolata, che verrà poi conosciuta come Jornada del Muerto (Viaggio del Morto), Espejo raggiunse il pueblo Tiwa di Puaray, dove gli indiani, temendo una punizione per la morte dei missionari, al suo arrivo si nascosero tra i monti. Dopo Puaray la spedizione passò i mesi successivi esplorando il territorio, da Acoma, fino a Zuni e ai lontani villaggi degli Hopi. Nella zona di Acoma ebbero notizie di indiani, che Espejo chiama Querecho, che vivevano nomadi fra i monti a nord; evidentemente non poteva trattarsi dei Querecho incontrati da Chamuskado nelle pianure dei bisonti, ma di un popolo affine, i Navaho, di lingua Atapaskan come gli Apache, anch’essi nomadi, e giunti in tempi recenti dalle regioni del nord. Dagli Hopi Espejo ebbe notizia di miniere d’argento più a ovest, nella zona del fiume Green e visitata la regione rimase deluso dalle effettive possibilità minerarie; si incontrò quindi con gli Yavapay, che gli parlarono di un grande fiume a ovest, il Colorado. A quel punto, dei dissidi sorsero con il missionario, forse per il comportamento di Espejo con gli indiani, e il prete, parte degli armigeri e i servi indiani, fecero ritorno in Messico. Con un pugno di soldati che erano rimasti con lui, Espejo continuò a cercare giacimenti minerari, poi ebbe uno scontro con gli indiani di Acoma a causa di due donne che aveva preso come schiave e che erano fuggite; lasciata Acoma giunse ad un villaggio Tewa dove gli indiani si rifiutarono di fornirgli il cibo, e per questo sedici di loro furono bruciati all’interno di un kiva. A quel punto la valle del Rio Grande, cominciava a scottare per il gruppo di disperati, che non osarono discenderla per far ritorno in Messico. Spostatisi a ovest del Rio Grande, raggiunsero il villaggio di Pecos, e di li si spinsero a sud, lungo il corso del fiume Pecos, attraversando le praterie e passando in mezzo alle immense mandrie di bisonti. Lungo la via incontrarono una banda di nomadi Jumano, che si stavano dirigendo a La Junta per commerciare pelli di bisonti, e insieme a loro tornarono a sud, e quindi alle colonie del Messico nel settembre del 1583. La spedizione di Chamuscado e l’iniziativa illegale di Espejo, non ebbero seguito, dato che il governo della Nuova Spagna, già impegnato a sud nella Guerra dei Chichimechi, non era in condizioni di estendere i propri impegni alle regioni settentrionali, che peraltro non risultavano ricche di giacimenti, ne attraenti per la colonizzazione. Fino alla fine del secolo, nessuna iniziativa di esplorazione e colonizzazione venne più permessa dalle autorità spagnole nelle terre a nord del Messico, ma altri due tentativi, illegali, furono comunque avviati negli anni successivi. Del primo fu responsabile Gaspar Castano de Sosa, ex luogotenente di Luis de Carvajal, che era divenuto governatore di Nuevo Leon, dopo l’arresto del suo capo nel 1581. Anche lui di origine portoghese ed ebraica e “nuovo cristiano” come Carvajal, e anche lui con gravi responsabilità nel traffico di schiavi, nel timore di finire nelle mire dell’Inquisizione, che già aveva colpito altri suoi sodali, decise di lasciare Almaden (Monclova) in Nuevo Leon, con tutta la sua comunità, e fondare una colonia nelle inesplorate terre del nord. Un convoglio di 170 persone, l’intera comunità di Almaden, tra cui molti cacciatori di schiavi, con carri, proprietà, servi indiani e bestiame al seguito, partì verso nord alla fine di luglio del Le rovine di Pecos, lungo la via che dai pueblos del Rio Grande, portava alle Grandi Pianure 1590; unico caso
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nella storia della colonizzazione spagnola nel mondo, nessun prete faceva parte della spedizione. Varcato il Rio Grande presso l’attuale località di Del Rio nel Texas, il lento convoglio risalì il fiume Pecos; lungo la via trovarono i resti di accampamenti abbandonati dagli indiani, ed ebbero parecchie scaramucce con piccole bande di nomadi, Jumano e forse anche Apache Lipan, che rubarono loro dei capi di bestiame: questa immediata ostilità, può forse essere spiegata con il fatto che la fama di cacciatori di schiavi degli uomini di Sosa, doveva essere nota agli indiani. In autunno la colonna di emigranti, giunse in vista del villaggio di Pecos, e inviò una avanguardia per trattare con gli idiani; secondo i membri del gruppo, essi furono accolti amichevolmente dagli indiani e invitati ad entrare nel villaggio, ma una volta dentro furono attaccati a tradimento, e tre di loro rimasero feriti, prima di riuscire a fuggire. A quel punto Sosa portò tutti i suoi uomini a Pecos, e con l’ausilio di due cannoni, pose sotto assedio il villaggio, lo espugnò, uccidendo molti indiani e costringendo gli altri alla fuga, poi si appropriò delle scorte. Lasciata Pecos gli Spagnoli raggiunsero la valle del Rio Grande, nella zona dove poi fu fondata Santa Fè, passando l’inverno in deludenti ricerche minerarie, visitando i pueblos della regione, dove gli indiani li accoglievano pacificamente, per timore di conflitti. Comunque tra gli Spagnoli le difficoltà, la durezza dell’inverno, la delusione per gli scarsi risultati delle ricerche minerarie, portarono a gravi divisioni, parte dei coloni decise di tornare in Messico e lo stesso Castano de Sosa, rischiò di essere assassinato. Nel frattempo la notizia della sua fuga era giunta fino alla capitale Mexico, dove la potente Inquisizione e il vicerè, con estrema decisione ordinarono il suo arresto e per effettuarlo l’invio di 40 soldati ed un prete, al comando del capitano Juan Morlete, fin nelle lontane terre dei Pueblo; oltre ad arrestare Castano de Sosa, Morlete doveva liberare ogni indiano che fosse stato fatto schiavo. Seguendo la via già seguita da Chamuscado ed Espejo, Morlete discese il fiume Conchos, risalì il Rio Grande, e nel marzo del 1591 raggiungeva il pueblo Keres, che sarà poi nominato Santo Domingo, dove arrestò Castano de Sosa, senza che questi facesse resistenza. Riportato a sud con tutto il suo seguito, Castano de Sosa fu condannato a sei anni di esilio nelle Filippine, dove morì, durante la rivolta di un carico di schiavi cinesi che stava trasportando. E’ probabile che la vicenda di Castano de Sosa abbia indotto i governanti della Nuova Spagna a considerare la necessità di porre sotto controllo le terre del Nuovo Messico, o forse la fine della Guerra dei Chichimechi, abbia reso possibile investire risorse per una ulteriore espansione a nord; sta di fatto che nei primi anni ’90 del ‘500, nella capitale si cominciò a progettare una grande spedizione per la colonizzazione delle terre dei Pueblo. Ma prima che la macchina organizzativa e militare spagnola si mettesse in movimento, toccò ancora a due avventurieri di cercare la fortuna a nord, in una delle imprese meno note e per molti versi più insensate, della storia della colonizzazione del Nord America. Dei suoi protagonisti sappiamo i nomi e poco altro, Francisco Leyva (o Leyda) de Bonilla e Antonio Gutierrez de Humana, insieme all’indiano Jusepe, che fu l’unico sopravvissuto. Di Bonilla Esplorazioni spagnole a nord del Messico alla fine del ‘500
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sappiamo che come capitano dell’esercito, era stato inviato a punire i nomadi Toboso e Gavilan del Bosom de Mapimi, che erano responsabili di scorrerie. Di Humana sappiamo che veniva da Culiacan, dove secondo la testimonianza di Jusepe, nel 1593 lo aveva preso come servo, per portarlo a nord in una spedizione alla ricerca di favolose e ricche città. Jusepe non ci dice chi avesse ispirato ad Humana tale fantasioso progetto, ma non possiamo escludere che anche lui, con qualche suo racconto, abbia svolto un ruolo. Da Culiacan, Humana e Jusepe, probabilmente da soli e senza alcun seguito di mezzi, servi o rifornimenti, si spostarono a Santa Barbara, il posto più avanzato nella regione di Chihuahua, una città di frontiera in cui si incontravano minatori, soldati, cacciatori di schiavi e missionari; è qui che forse avvenne l’incontro con Bonilla, dove probabilmente il capitano era di stanza nel presidio locale. E’ possibile che i due abbiano iniziato a discutere del loro progetto, ma c’era un divieto esplicito delle autorità spagnole a spingersi a nord, e i due non potevano muoversi; è anche probabile che essi non avessero i mezzi, per organizzare una vera e propria spedizione. L’occasione si presentò quando a Bonilla venne ordinato di mettersi alla ricerca di una banda di razziatori indiani che operava presso il confine; invece di eseguire l’ordine Bonilla decise di muovere verso nord, convincendo i suoi uomini a seguirlo; quando le autorità vennero a conoscenza del fatto inviarono un ufficiale a destituirlo, ma Bonilla e la maggioranza dei suoi, erano decisi, e solo pochi soldati tornarono indietro. Forse Humana e Jusepe erano con lui fin dalla partenza, o forse si erano accordati per incontrarsi una volta lasciata Santa Barbara; è possibile che proprio Humana, vantando informazioni sicure, abbia indotto i soldati a seguirli e, di fatto, a disertare. Il gruppo si spinse quindi a nord: non portava con se ne preti, ne grandi rifornimenti, ne bestiame; solo, forse, un po’ di servi indiani. Non è chiara la via presa, probabilmente quella del fiume Concho, ma qualche tempo dopo il gruppo era nella valle del Rio Grande, dove passò l’inverno 1593-94 nel pueblo Tewa di Powhoge, più tardi conosciuto come San Idelfonso. Ogni qualche anno i Pueblo si erano abituati a subire la presenza di qualche arrogante banda di uomini armati che venivano da sud, e così i disertori furono sopportati e mantenuti dagli indiani. A primavera comunque le solite leggende sulla grande città a est, oltre la terra dei bisonti, indussero gli avventurieri a rimettersi in viaggio: passato Pecos, si inoltrarono nelle terre dei bisonti viaggiando a est, poi piegando a nord, attraversarono due fiumi, che forse erano il Canadian e il Cimarroon, incontrando bande di indiani Vaquero, Apache Lipan e Jicarilla delle pianure, fino a un Grande Villaggio, che molto probabilmente era la stessa Quivira visitata da Coronado mezzo secolo prima, o comunque un villaggio abitato dagli stessi indiani Wichita, cacciatori di bisonti e agricoltori delle pianure. Dopo essere stati bene accolti dai Wichita ed essersi fermati qualche giorno, il viaggio verso l’ignoto in cerca del nulla, riprese. Tre giorni dopo, durante una sosta, Humana si chiuse da solo nella tenda, apparentemente per scrivere, rimanendovi tutto il pomeriggio e la sera; c’erano state discussioni tra lui e Bonilla, e quando il primo inviò un soldato a chiamare l’altro nella sua tenda, questi entrò disarmato, in brache e camicia, ricevendo subito due coltellate e finendo ammazzato; Humana giustificò il suo gesto dicendo che Bonilla voleva bastonarlo. Il gruppo di disperati continuò a vagare verso nord, raggiungendo un grande fiume in piena e difficile da guadare, probabilmente il Kansas; qui cinque indiani tra cui lo stesso Jusepe decisero di abbandonare e tornare indietro; di tre di loro il destino è ignoto, probabilmente dispersi nelle pianure, uno fu ucciso dagli indiani, l’altro, Jusepe, fu preso prigioniero dagli Apache, con cui visse per un anno, prima di fuggire, o essere rilasciato, non è chiaro, per tornare tra i Pueblo. Qui lo trovò Juan de Onate, il fondatore del Nuevo Mexico, e a lui Jusepe narrò la storia. Tempo dopo dai Wichita si seppe, che poco dopo aver guadato il fiume tutti gli Spagnoli erano stati uccisi, probabilmente dai Pawnee, che abitavano quelle terre. Con Bonilla e Humana, si chiude l’epoca degli avventurieri in cerca di fortuna; il prossimo tentativo di occupare le terre del nord, vedrà l’impiego di ben altri mezzi e avrà ben altra fortuna. Il tempo in cui anche gli abitanti dei Pueblo avrebbero conosciuto la croce e la spada degli Spagnoli, si avvicinava.
La croce oltre la spada
Nella storia della conquista del Messico e delle prime esplorazioni, i personaggi di prima fila sono i “conquistadores” emuli di Cortez, i Coronado o i Guzman, e gli altri minori, che con l’audacia, la violenza e spesso inseguendo illusioni, estesero il dominio spagnolo ad un territorio immenso e sconosciuto; ma è un fatto che non furono loro gli autentici artefici della conquista, ne fu il loro agire quello che veramente costruì le condizioni per la totale definitiva sottomissione dei nativi. Perché, va ribadito, a differenza di quanto accadde nelle terre a nord, dove agì il colonialismo inglese e francese, gli indiani furono sottomessi, e non semplicemente scacciati sempre più a ovest, e infine rinchiusi in riserve, che li escludevano e li separavano dal resto della società; in Messico gli “idios”, trasformati, in buona misura privati della loro identità etnica e culturale, diven-
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nero comunque parte integrante della società messicana moderna, costituendone la sua parte maggioritaria e soprattutto la più povera: i “peones”. Questo “successo”, la costruzione di un potere coloniale, la cui capacità pervasiva giunge al punto di produrre una intera popolazione, con una nuova identità culturale, che è frutto stesso della colonizzazione, è una caratteristica particolare del dominio spagnolo in Messico, e in alcune regioni del Sud America; qui la popolazione meticcia, frutto delle contaminazioni tra diverse etnie locali e con gli stessi invasori bianchi, costituì una nuova entità, portando con se i retaggi Missionari attraverso i deserti del Messico delle tradizioni autoctone, insieme alla cultura dei dominatori. Artefici di questo processo furono sicuramente i missionari, che accompagnarono ogni momento della scoperta e della conquista del Messico, spesso ne furono lo stimolo, divenendo in alcuni casi la soluzione ai conflitti che nel processo si producevano. Nelle regioni del nord, colonizzate dagli Inglesi e dai Francesi, il ruolo dei missionari fu assente o marginale. Per gli Inglesi, che volevano le terre dei nativi, il fatto che essi fossero, e rimanessero pagani, era un’ulteriore legittimazione della necessitò della loro cacciata. Per i Francesi, il cui principale interesse era il commercio con gli indiani, i missionari erano uno strumento per aprire relazioni pacifiche, ma la loro azione non poteva intralciare gli interessi politici e commerciali, e fu sempre sottoposta al controllo del potere laico; in particolare i missionari francesi, non tentarono mai di modificare quegli elementi della cultura dei nativi, che erano più funzionali agli interessi commerciali e politico-militari francesi: il nomadismo, la caccia e la predisposizione alla guerra. Tale subalternità agli interessi del potere temporale, è connesso alle peculiari relazione sempre esistite tra i re e i governanti di Francia e il Papato, e all’influenza che i primi cercavano di esercitare sulla comunità ecclesiale nazionale. Al contrario, nella Spagna costituitasi come stato durante la Reconquista contro i Mori, il cattolicesimo fu il collante dell’identità nazionale, e la potente chiesa spagnola, strettamente legata a Roma fin da quando solo il Papato sosteneva il nascente nazionalismo spagnolo, fu il soggetto che garantiva la stessa legittimazione al potere reale. Questo elemento si rafforzò ulteriormente dopo il trattato di Tordesillas, quando il Papato assegnò ai monarchi di Portogallo e Spagna, ma soprattutto a quest’ultimo, il compito di sostenere l’opera evangelizzatrice della Chiesa nel nuovo continente. La Chiesa Cattolica, offriva la propria legittimazione ideologica al colonialismo spagnolo, ma in cambio pretendeva, attraverso il suo clero secolare, i suoi ordini religiosi, e senza dimenticare il potentissimo Tribunale della Santa Inquisizione, di partecipare direttamente ai proventi dell’impresa, guadagnando sia in anime, che in decime. Di fatto l’avanzata coloniale spagnola nel mondo, ma in modo particolare in Messico, fu condotta da due poteri, quello del cel clero e quello dellearistocrazie, spesso in conflitto tra loro, garantiti entrambi, dal patto di alleanza strategica tra Roma e Madrid. Questo il quadro generale nel quale si colloca il fenomeno missionario nelle colonie spagnole. C’è poi da comprendere cosa fosse nella sua concreta esperienza tale fenomeno, che portava uomini spesso tanto inermi e sprovveduti, quanto zelanti e sinceri, a rischiare la vita e perderla, in terre lontane e tra genti ignote, oppure a cercare di diffondere ideali religiosi con ottusa e fanatica crudeltà o candida e ingenua sincerità, o infine ad avviare opere di costruzione economica e sociale di grande importanza e complessità, come erano le missioni più importanti, basate su principi osteggiati dai loro stessi compatrioti. Il fenomeno missionario fu un fenomeno certamente complesso, il cui bilancio varia in base alle diverse realtà locali a cui si applicò e ai diversi personaggi che ne furono protagonisti, e se in ultima analisi esso svolse una funzione distruttiva nei confronti della cultura, e spesso della stessa vita degli indiani, non può essere nascosto il dato che all’interno di esso, operavano anche motivazioni e idealità, genuinamente interessate all’incontro e alla relazione con popoli diversi. Il dato da cui partire è quello di un’Europa in cui il pensiero laico, inizia i suoi primi passi solo nel ‘400, con l’emergere del fenomeno dell’Umanesimo, e in cui la Chiesa per tutto il Medio Evo, era stato l’unico luogo in cui avevano in qualche modo potuto esprimersi l’attività intellettuale, il pensiero filosofico, elementi di critica sociale; lo stesso conflitto sociale s’era espresso in tutto il Medio Evo come conflitto religioso, attraverso i movimenti eretici, e la trasformazione sociale determinata dal progressivo emergere di una nuova classe, la borghesia, ebbe la sua prima manifestazione politica, nella rottura che la Riforma produsse nell’Europa cristiana.
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In questo contesto in cui il pensiero religioso permea tutta l’attività intellettuale, le aspirazioni ideali, le istanze critiche, è comprensibile, che l’entusiasmo, le aspettative, le speranze di cambiamento che la scoperta di un Nuovo Mondo potevano suscitare nelle menti più sensibili, giovani e aperte d’Europa, potessero essere interpretate dal messaggio universale del Vangelo, e trovare sbocco nell’impegno missionario, verso quella parte di umanità “vergine”, che fino ad Le difficoltà dei missiobari ad ottenere la fiducia degli indiani allora ne era stata esclusa. Solo così spiega la passione che portava persone, spesso giovani, a misurarsi con imprese estreme, al limite della follia, in cui il coraggio e la dedizione ricorda quello di altri idealismi, in altri momenti della storia, dall’epoca dei movimenti patriottici a carattere insurrezionale dell’800, fino al “guevarsmo” più recente, che portarono tanti giovani a cercare nelle ignare masse contadine, i protagonisti di una palingenesi che spesso era solo nelle loro menti. A questa motivazione elevate, se ne aggiungevano comunque altre ben più prosaiche. A differenza di quanto accade più tardi nel colonialismo inglese e francese, di cui la libera iniziativa privata fu comunque la molla principale, incoraggiata e sostenuta da un potere politico già fortemente determinato dai nascenti interesse della borghesia mercantile e manifatturiera, nella Spagna ancora legata al sistema feudale e al potere delle aristocrazie di sangue, la possibilità di applicare la propria intraprendenza, di esprimere la propria voglia di riscatto, approfittando delle opportunità del Nuovo Mondo, erano ancora fortemente limitate agli appartenenti alle caste superiori, o a quanti, attraverso il valore militare, potevano sperare di essere cooptati in esse. Di tutti i personaggi che svolsero un ruolo importante nella conquista del Messico, l’unico la cui provenienza va cercate nel mondo dei mercanti, piuttosto che nell’aristocrazia o tra i soldati, fu quel Luis de Carvajal di origine portoghesi ed ebraico-sefardite, che rimase sempre estraneo all’establishment coloniale spagnolo, venendone infine espulso, come poi il suo luogotenente Castano de Sosa. Per chi era fuori dalla casta aristocratico-militare che costituiva l’oligarchia spagnola, solo la chiesa, e l’impegno missionario, potevano offrire le opportunità del Nuovo Mondo, liberi dai vincoli della gerarchia sociale, operando in una complessa e coesa struttura, che oltre alle avventure estreme delle regioni di frontiera, offriva l’opportunità di essere parte di un grande ed influente potere economico e politico, che organizzava e strutturava la vita nelle colonie. Al contrario di ciò che accadrà nelle colonie inglesi e, seppur in minor misura, in quelle francesi, dove il Nuovo Mondo offriva opportunità di ascesa sociale anche a chi era esterno alle classi più elevate, il modello coloniale spagnolo riproponeva nelle colonie, le stesse rigidità sociali della madrepatria, e come nella madrepatria, la Chiesa era uno dei pochi ambiti attraverso cui poter superare tali rigidità: anche questa fu quindi una ragione di impegno nell’attività missionaria. L’attività missionaria in Messico iniziò dopo il 1533, quando Hernan Cortez, chiese l’invio di Francescani nella regione, per convertire al cristianesimo le popolazioni da poco sottomesse e legarle più stabilmente al dominio spagnolo. Per gli Aztechi e gli altri popoli vicini, l’accettazione del cristianesimo fu un passaggio relativamente lineare: l’impianto teocratico su cui si basava lo stato azteco era crollato rovinosamente, e con esso il sistema di credenze su cui si basava; l’accettazione del cristianesimo, della religione dei nuovi dominatori, almeno a livello esteriore e superficiale, fu abbastanza naturale. Molto più complesso è difficile fu il lavoro missionario nelle regioni del nord ed in particolare tra i nomadi. I missionari dovevano spostarsi nelle comunità indiane, a volte con piccole scorte militari, improvvisare altari e dire messa dove capitava, facendo i conti con popoli che ancora liberi ed indipendenti, non erano disposti ad accettare la potenza del nuovo dio, almeno fin quando non avessero sperimentato la potenza dei suoi “figli”. A tali difficoltà oggettive, si aggiungevano i comportamenti degli Spagnoli, che smentivano con i fatti, i messaggi d’amore evangelico che i missionari cercavano di diffondere. Alle volte erano gli stessi missionari a rendersi invisi agli indiani tentando
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di applicare rigidamente i loro principi: cose come la condanna della nudità, il concetto di peccato, l’idea stessa dell’inferno, erano estranee alla spiritualità indiana, e spesso facevano apparire i missionari come stregoni dotati di un potere maligno, da temere e magari da uccidere. D’altra parte tutto ciò che era ignoto agli indiani, anche sul piano delle tecnologie, era visto da essi come espressione di un potere magico, “medicina” era il concetto usato dagli indiani del nord; così in assenza di miracoli, il potere divino si manifestava nella potenza di un archibugio, piuttosto che in una nuova tecnica agricola, e questi strumenti della volontà divina, potevano essere più con- Indiani costretti con la forza a riunirsi in una missione vincenti della predicazione. Fu dopo la fine della Guerra Chichimeca che l’attività missionaria ebbe un diverso sviluppo e soprattutto non fu solo supportata dall’amministrazione delle colonie, ma divenne una parte fondamentale dell’amministrazione stessa. A partire dalla fine del ‘500, e poi fino a tutto il ‘700, iniziò allora la pratica di costruire centri missionari, in cui cercare di attirare gli indiani, a volte pacificamente, a volte con la coercizione: nelle missioni gli indiani erano comunque al sicuro dai cacciatori di schiavi, erano almeno in parte tutelati dagli encomienderos, si cercava di trasformare i nomadi in agricoltori, veniva promosso l’allevamento, le missioni divenivano centri economici autonomi, e agli indiani era permesso di esprimere propri leader e darsi strumenti di autogoverno, che ovviamente dovevano operare sotto il controllo paternalistico dei religiosi. Nelle regione abitate da popoli nomadi come in Coahuila, in Baja California o nel Texas meridionale, le missioni erano costruite ex novo, e si cercava di attirarvi e riunirvi gli indiani della regione, spesso appartenenti a tribù diverse, con una conseguente perdita delle identità tribali, delle lingue, con le tensioni che derivavano dalla permanenza di gruppi anche ostili. Tra i popoli agricoli della Sierra Madre Occidentale e tra i Pueblo, i missionari si stabilivano all’interno della comunità, e supportati dal potere politico e militare spagnolo, si sostituivano alle leadership tribali, estromettevano shamani, sacerdoti e capi spirituali, senza però modificare la struttura economica, e modificando solo marginalmente la struttura sociale. Ovviamente in tutte le missioni venivano perseguite la religiosità tradizionale, le “impudicizie” e la nudità, e vi era il rispetto di determinate prescrizioni, ma la rigidità delle regole, la sopportabilità della loro concreta attuazione, dipendeva da vari fattori, dall’orientamento dei diversi ordini religiosi (Francescani, Dominicani, Agostin i a n i , G e s u i t i ) , dall’inclinazione e dal carattere dei singoli missionari, dalle relazioni più o meno pacifiche tra bianchi e indiani nella regione ecc… I problemi che affliggevano le missioni e ne rendevano precaria l’esistenza erano molti, a partire dalle difficoltà obbiettive di dover costruire avamposti della colonizzazione, in terre selvagge e lontane dalle vie di comunicazione e dai luoghi di approvvigionamento; le missioni dovevano quindi prima di tutto essere La missione di Santiago Papasquiaro, fondata nel 1597 fra gli indiani Tepehuan delle entità economiche auto- della regione di Durango. Quello nell’immagine non è l’edificio di originario, che fu sufficienti, e già questo era tut- distrutto dagli stessi Tepehuan durante una rivolta all’inizio del ‘600
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t’altro che scontato. Vi era poi il rischio perenne degli attacchi degli indiani nomadi ostili, i Chichimechi nel corso del ‘500, i Toboso e altri nomadi di Chihuahua e Coahuilla nel secolo successivo, poi gli Apache lungo la frontiera, e infine i Comache in Texas. La minaccia indiana non era solo esterna, perché i casi di cruente ribellioni e assassinii di religiosi da parte dei neofiti all’interno delle missioni erano frequentissimi. C’erano poi i periodici conflitti tra autorità civile e religiosa, che a volte presero anche la forma di scontro violento. Ma il principale tra i pericoli era rappresentato dalle malattie, che portate dai bianchi, trovavano nelle missioni, luogo di quotidiani contatti con gli indiani, i centri di diffusione del contagio; le malattie, a carattere influenzale, il tifo, il vaiolo ecc… non solo falcidiavano le popolazioni indiane, ma erano poi la principale causa di cruente ribellioni, in cui i primi a pagare erano sempre i missionari, reputati colpevoli per un male, la cui natura era individuata nel loro potere spirituale maligno, la ”cattiva medicina”. In ogni caso a partire dalla fine del ‘500 l’espansione delle missioni, segnò l’avanzata della colonizzazione spagnola, e uno tra i grandi esploratori del Nord America fu un frate, padre Eusebio Kino (o Chini in italiano), un Gesuita del trentino, che tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 esplorò la regione di Sonora e la futura Arizona. Le missioni divennero importanti centri agricoli e d’allevamento, in grado di sostenere intere economie regionali, competendo con il potere dei grandi proprietari terrieri, fin quando con l’indipendenza del Messico dalla Spagna, esse non vennero chiuse; le grandi proprietà religiose divennero quindi ragione di conflitto tra i grandi proprietari terrieri, e le comunità di peones, che vi risiedevano. Si entrava così nella moderna fase di conflitti sociali, che avrebbe attraversato la storia messicana. Per gli indiani la vita nelle missioni ebbe effetti diversi. Tra i popoli agricoli, l’attività missionaria, pur tra conflitti e contraddizioni, si affermò snaturando molto del patrimonio culturale e spirituale, ma senza intaccare in modo definitivo la coesione sociale e le strutture tribali; in alcuni casi, come tra i Pueblo l’influenza dei missionari rimase in superficie, senza mai sostituirsi alla cultura e alle credenze locali; in altri casi, come tra i popoli agricoli del Messico nord-occidentale, il contatto tra cattolicesimo e credenze tradizionali, diede vita a forme di sincretismo religioso, che divennero un carattere peculiare della cultura dei nativi. Tra i popoli nomadi e in particolare nelle regioni del nord-est, in quelle centrali e in Baja California, le missioni furono invece un aspetto del processo che portò alla completa dissoluzione delle culture native e all’estinzione di interi gruppi tribali; la labile struttura sociale dei nomadi, l’abbandono del loro stile di vita tradizionale, la diffusione delle malattie, nel corso di un secolo o poco più, determinarono la totale scomparsa di una identità indiana, sostituita da un indistinto mondo di peones, accomunato dalla sola povertà e dalla sottomissione alla casta di proprietari terrieri e minerari, eredi dei primi colonizzatori. In ultima analisi è possibile affermare che il sogno dei più idealisti tra i missionari, quello di comunità egualitarie e autogovernate, improntate ai migliori valori del cristianesimo, sotto la paterna supervisione degli uomini di Dio, fu la più chiara dimostrazione di come “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
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LA ROTTA DEL NORD La nascita delle potenze coloniali Gli Spagnoli furono i protagonisti della prima fase della scoperta e soprattutto della conquista, del
Nuovo Mondo, ma non gli unici ad organizzare spedizioni esplorative attraverso l’oceano: Inglesi, Portoghesi e Francesi, i cui porti si affacciavano sulle coste dell’Atlantico, negli anni a cavallo tra il ‘400 e il ‘500 inviarono navi a occidente nella speranza di trovare una via verso la Cina e l’Oriente, in un epoca in cui ancora non era certa la natura delle nuove terre a cui era approdato Colombo. In quasi tutta Europa a quel tempo le grandi entità nazionali moderne si costituivano, superando il frazionamento feudale che aveva caratterizzato i secoli precedenti, e le potenti monarchie nazionali, erano sostenute dalle emergenti forze del capitalismo mercantile e bancario, che necessitavano del sostegno di un forte potere politico, per estendere i loro traffici in una sorta di globalizzazione economica ante litteram. Da un lato c’erano le monarchie nazionali, non più impegnate nella costante difesa dalle spinte centrifughe dei grandi poteri feudali, che avevano determinato secoli di conflitti interni e minato il potere centrale, e potevano finalmente concepire progetti espansionistici ed egemonici di vasta portata; dall’altra il potere dei banchieri e dei mercanti, che tessevano una rete di interessi ed influenze internazionali, e la cui estensione richiedeva referenti politici potenti e strutturati. Le vecchie entità statali e semi statali, nate nel medioevo intorno agli interessi commerciali, quali la Repubblica di Venezia, quella di Genova o la Lega Anseatica del Mare del Nord, vuoi per una collocazione periferica rispetto alle nuove rotte del commercio marittimo, come nel caso di Venezia, vuoi per la loro mancanza di visione politica espansiva che andasse al di la degli interessi immediati, e spesso contraddittori che esprimevano, come nel caso della Lega Anseatica, non erano in grado di sostenere le potenzialità commerciali apertesi con i viaggi di Vasco de Gama e soprattutto di Cristoforo Colombo. Concepite come entità politiche al servizio di interessi economici, che da secoli vivevano di commerci su rotte e vie, note e sperimentate, questi soggetti politico-economici, guardavano all’apertura di nuove vie, più come un rischio per i loro monopoli, che come un’opportunità di sviluppo. Fu così che le nascenti monarchie nazionali di Spagna, Inghilterra, Portogallo, Francia e più tardi Olanda, divennero i referenti naturali di aspettative e speranze, di quanti guardavano con maggiore audacia, alla nuova fase che si stava aprendo. D’altra parte va registrato che, ad esclusione dei successi della Spagna, che però erano dovuti più alla predazione dei ricchi imperi americani, che non allo sviluppo dei commerci, e a quelli del Portogallo, che comunque operava verso le mete tradizionali dell’Oriente, con la sola differenza di usare la via marina della circumnavigazione dell’Africa, piuttosto che quella di terra usata per tutto il medio evo, per lungo tempo la speranza aprire vie commerciali navigando verso occidente, fu senza esito e non diede risultati economici. Per le monarchie nazionali, il fallimento di una impresa economica e commerciale,
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poteva ampiamente essere ripagata dal prestigio e dalle conseguenze politiche, del poter vantare pretese su terre sconosciute e lontane. Al contrario, per la concretezza degli esperti mercanti veneziani o anseatici, distogliere risorse dai sicuri traffici sulle vie tradizionali, per spostarle su imprese rischiose, il cui unico esito poteva essere quello di porre una bandiera su una striscia di terra deserta e lontana, era cosa poco attraente. La scoperta di terre ignote, non era quindi l’obbiettivo delle spedizioni di esplorazioni, che invece miravano a cercare rotte nuove, per terre già conosciute, e questo risul- In questa mappa dell’America disegnata da Sebastian Muster alla metà del 500. tato, di fatto non verrà mai le coste del Catai (Cina) e l’isola di Cipango (Giappone), sono molto più prossime raggiunto. Oltre un secolo alle coste americane, che non nella realtà dopo, quando le ricchezze del nuovo continente saranno a tutti note, la necessità di ricerca di vie nuove per i traffici con le Indie Orientali, sarà superato dall’importanza dei commerci con quelle terre che non casualmente saranno note come Indie Occidentali, a esprimere anche con il nome, il loro affiancarsi, quando non il sostituirsi, a quelle Indie Orientali, che erano state la ragione dei primi viaggi di esplorazione. Estensione dei traffici, ricerca di nuove rotte e viaggi di scoperta, determinarono la fine definitiva dell’angusto mondo medievale, con il suo frazionamento politico tra interessi feudali, la sua borghesia mercantile che si strutturava in poteri oligarchici di dimensione urbana, o al più regionale, mentre si affermavano i grandi stati nazionali, in grado di supportare la concorrenza economica globale, ricevendo al contempo il sostegno delle grandi famiglie di banchieri e mercanti, i cui interessi viaggiavano sulle navi da un capo all’altro del mondo. Nascevano così le grandi potenze coloniali, che nei secoli successivi avrebbero portato l’Europa a dominare l’intero globo. Queste erano le immense forze che si stavano scatenando contro gli ignari popoli del Nord America e del mondo intero. Nella ricerca di nuove rotte per le Indie Orientali, che impegnerà risorse e speranze per oltre due secoli, centrale fu la questione del Passaggio a Nord-Ovest, una via occidentale verso le Indie più breve, che seguendo una rotta più settentrionale, potesse approfittare del ridursi della circonferenza terrestre ad una latitudine più elevata. Nei primi anni dopo il viaggio di Colombo, quando ancora era possibile credere che egli avesse raggiunto l’Asia, il tema non era tanto quello di cercare un “passaggio”, quanto quello di sperimentare una rotta settentrionale più breve, per arrivare sulle stesse terre da lui raggiunte; quando poi fu chiaro non era l’Asia la terra a cui era approdato il genovese, si aprì la questione del Passaggio a Nord-Ovest, di un canale di mare, superato il quale si potesse raggiungere la Cina; la questione poi divenne ineludibile, dopo il viaggio di Magellano nei primi anni ’20 del ‘500, quando fu chiara l’immensa estensione del continente americano verso sud, e i grandi pericoli della navigazione nei mari prossimi all’Antartide, che rendevano la circumnavigazione dell’America un rischio reale. La speranza di poter trovare una via settentrionale, il Passaggio a Nord-Ovest, fu quindi inutilmente perseguita per secoli, senza alcun risultato, e fino all’apertura del Canale di Panama nel 1914, l’unica rotta occidentale per la Cina, imponeva il passaggio per le fredde e pericolose acque di Capo Horn. La conclusione dell’affascinante ricerca del Passaggio a Nord-Ovest, potrebbe forse aversi in un futuro prossimo, qualora non fossero invertite le scelte di politica energetica e ambientale, che stanno portando ad un veloce surriscaldamento del pianeta. Il ritiro dei ghiacci dell’Artico, già in atto e le cui conseguenze per il pianeta sarebbero gravissime, potrebbe aprire a breve quella via settentrionale cercata inutilmente per secoli, e sempre fallita proprio per la presenza dei ghiacci a nord del Canada. Così una speranza dei secoli passati si tramuterebbe in un incubo per l’avvenire.
Il Passaggio a Nord-Ovest
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Dopo i viaggi di Colombo, con cui la Spagna si era garantita prioritariamente ogni diritto sul Nuovo Mondo, forti erano comunque i dubbi sul fatto che le terre raggiunte fossero quelle dell’Asia, e tra quanti mettevano in dubbio tale possibilità, c’era un cartografo e uomo di mare veneto, Giovanni Caboto, convinto che per raggiungere l’Asia fosse necessario seguire una via più settentrionale. Dopo aver cercato inutilmente in Spagna sostegno al suo progetto per raggiungere il Catai, alla metà degli anni ’90 del ‘500 Caboto raggiunse Londra, dove attraverso esponenti italiani del clero, ottenne un sostegno economico, dai rappresentanti londinesi della famiglia di banchieri fiorentini dei Bardi; attraverso i Bardi, riuscì quindi ad aprire relazioni con un gruppo di mercanti di Bristol, che si mostrarono interessati a suo progetto. Già da antiche leggende celtiche diffuse nell’isola britannica si favoleggiava dell’isola di Brasil, posta a ovest oltre l’oceano, e benchè mai visitata, essa era segnata in più di una carta, e intorno al 1480, mercanti di Bristol avevano addirittura inviato navi alla sua ricerca (va precisato che non c’è alcuna relazione tra la celtica isola di Brasil, e il successivo uso dello stesso termine da parte dei Portoghesi, per la loro colonia in Sud America). Ci sono anche ipotesi sulla possibilità, che già intorno al 1470 qualche peschereccio impegnato nell’Atlantico, potesse essere giunto in vista o addirittura approdato, sulle coste del Nord-America, senza comprendere di aver “scoperto” una terra ignota. Non va poi dimenticato, che ancora all’inizio del ‘400, erano presenti colonie vichinghe sulle coste della Groellandia, ed è lecito supporre che in Inghilterra il fatto potesse essere noto. Tutti questi elementi resero la proposta di Caboto di organizzare un viaggio ad occidente per raggiungere la Cina, come una proposta interessante, su cui investire risorse. Con il sostegno di mercanti e banchieri, Caboto riuscì a sottoporre il suo progetto a re Enrico VII, che non ebbe difficoltà a permettere l’impresa, economicamente a carico di Caboto e dei suoi finanziatori, con il vincolo del monopolio inglese su tutti i futuri commerci con l’Oriente. Dei viaggi fatti da Caboto le testimonianze sono scarse ed imprecise, ne è chiaro quale fu la sua stessa fine. Del suo primo viaggio condotto nell’estate del 1496, abbiamo un breve resoconto nella lettera di un mercante, in cui si riassume che Caboto partì con una sola nave da Bristol, e dopo aver avuto problemi con la ciurma, con scorte ridotte e di fronte al mal tempo, decise di tornare indietro. L’anno successivo l’impresa fu ritentata, sempre con una sola nave e questa volta con miglior esito. Partito in maggio ancora una volta da Bristol, Caboto navigò verso ovest fino a prendere terra alla fine di giugno in una località imprecisata, ma che potrebbe essere Capo St.John o Capo Bonavista, nel nord di Terranova; di lì poi continuò ad esplorare la costa settentrionale dell’isola. Altre ipotesi prendono in considerazione la possibilità che la terra a cui era approdato Caboto, fosse il Labrador, l’isola di Cape Breton, o addirittura il Maine. In ogni caso il navigatore prese terra in una sola occasione e per breve tempo, per rifornirsi d’acqua e piantare la bandiera inglese (e forse anche quella dello Stato Pontificio e di Venezia), senza avere incontri con i nativi. L’esploratore fece quindi ritorno in Inghilterra nel mese di agosto, e subito si iniziò a lavorare ad una nuova e più grande spedizione per l’anno successivo. Per il terzo viaggio, nel 1498, fu allestita una piccola flotta di cinque navi, di cui una a spese del re, cariche di merci per iniziare i primi scambi commerciali, e con loro si imbarcò anche il frate Agostiniano Giovanni Antonio de Carbonaris, un milanese, che da subito aveva sostenuto Caboto e lo aveva messo in contatto con banchieri e mercanti. Di questo terzo viaggio si sa ben poco, oltre al fatto che una delle navi fece quasi subito ritorno a causa di una tempesta; per lungo tempo si pensò che le navi fossero naufragate, anche se è certo che un membro dell’equipaggio fece ritorno in patria. Più probabilmente Giovanni Caboto fece ritorno in Inghilterra ed è possiGiovanni Caboto bile che egli successivamente navigò insieme
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al figlio Sebastiano che esplorò le coste del Sud America. E’ invece ormai quasi certo che frate de Carbonaris, si stabilì a Terranova, dove fondò una missione ed edificò una chiesa, la prima del Nord America; la località di Carbonear, sulla costa nord-orientale dell’isola, già nota sulle mappe portoghesi dell’inizio del ‘500 come Cabo Carvoeiro, potrebbe testimoniare nel nome, la presenza di questo primo insediamento, che fu certo di breve vita e di cui non conosciamo ne la storia, ne la fine. Non è chiaro quale sia stata la reale valutazione dei viaggi di Caboto in Inghilterra, viaggi che non avevano aperto alcun commercio, non avevano trovato la via per l’Asia, ne a una terra particolarmente ricca. Ancora un viaggio, sempre alla ricerca della via per l’Asia fu compiuto da William Weston, un mercante di Bristol che sicuramente era stato tra i finanziatori di Caboto e forse l’aveva anche accompagnato in uno dei suoi viaggi; nel 1499 Weston guidò un’altra spedizione, che dopo aver navigato a nord di Terranova, proseguì a ovest lungo le coste del Labrador, inaugurando quella rotta lungo la quale in tanti avrebbero successivamente cercato il Passaggio a Nord-Ovest. Dopo il viaggio di Weston, pare che gli Inglesi abbiano perso interesse per le fredde e inospitali terre su cui vantavano diritti, ma dove non c’erano ricchi partners commerciali, ne altre allettanti risorse. Fu a quel punto la volta dei Portoghesi, che fin dall’inizio del ‘400, erano stati i pionieri della navigazione dell’Atlantico, spinti dalla necessità di acquisire le risorse e le materie prime della vicina Africa, evitando il monopolio dei mercanti arabi, che controllavano le vie carovaniere del Sahara. Spingendosi sempre più a sud lungo la costa africana, nel 1488 Bartolomeo Diaz era giunto a doppiare il capo di Buona Speranza, l’estremità meridionale dell’Africa, fino a raggiungere l’oceano Indiano; nel 1495, Vasco de Gama aveva infine raggiunte le coste dell’India, aprendo al Portogallo il commercio con l’Estremo Oriente. Prima potenza europea del mare, il Portogallo non poteva rimanere fuori dalla partita aperta da Cristoforo Colombo, e nel 1500 Pedro Alvares Cabral prendeva possesso del Brasile, una terra sulla quale, in base al trattato di Tordesillas, il Papato riconosceva il dominio portoghese. Prima che l’iniziativa dei Portoghesi si concentrasse esclusivamente sulle ricche terre del Brasile, anche le terre del nord attirarono la loro attenzione. Fu nel 1500, che il re del Portogallo incaricò Gaspar de Corte-Real, di verificare l’esistenza del Passaggio a Nord-Ovest, per evitare la circumnavigazione dell’Africa, e la spedizione giunse fino in vista delle coste della Groellandia, rinunciando però a prendere terra. L’anno successivo Corte-Real, insieme a suo fratello Miguel, ritentò l’impresa, ma questa volta giunto in vista della Groellandia, fu obbligato dal maltempo a volgere la prua a sud, fino a raggiungere Terranova. A Terranova Corte-Real pensò di trarre i primi profitti dalla sua impresa, e catturati 53 indiani Beothuk, li affidò insieme a due navi al fratello, perché li vendesse come schiavi in patria. Dopo questo che fu il primo contatto con gli indiani del Nord America dal tempo dei Vichinghi, di Corte-Real non si hanno più notizie. Nel 1502 Miguel Corte-Real fu autorizzato a tentare di trovare il fratello Gaspar, ma anche di lui non si ebbero più notizie; affascinante, ma non adeguatamente provata, è l’ipotesi di uno studioso dei primi del ‘900, che su un masso nello stato di Massacchusset (Dighton Rock), volle leggere un’iscrizione dello stesso Miguel Corte-Real, che affermava di essere divenuto un capo degli indiani locali. Un terzo fratello tentò di mettersi in viaggio per cercare i parenti scomparsi, ma questa volta il re impose il suo divieto ad altri viaggi di esplorazione. Miguel e Gaspar Corte-Real, non erano comunque gli unici membri della famiglia coinvolti nelle prime esplorazioni del Nord America, dato che sembra che loro padre, Joao Vaz CorteReal, già nel 1473 aveva navigato nell’Atlantico, scoprendo una Tierra de los Bacalao (Terra dei Merluzzi), che forse era proprio Terranova. La testimonianza di questo viaggio è comunque di un secolo successiva, e non ha trovato conferme. Dopo la tragica fine dei fratelli Corte-Real, anche il Portogallo rinunziò ad ulteriori esplorazioni, in quelle terre che non sembravano offrire ne opportunità di commercio, ne grandi ricchezze di cui approfittare. Ma se la terra sembrava aver poco da offrire, il mare invece rappresentava una risorsa immensa, che forse poco interessava mercanti e conquistatori, ma che in breve attirò un gran numero di pescatori. Il tratto di mare a est di Terranova e delle isole Bretoni, è una zona di bassi fondali in cui si incontrano la corrente calda proveniente dal Gaspar Corte Real
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Golfo del Messico e quella fredda proveniente dal Labrador, e tale incontro produce un rimescolamento delle acque, in grado di sollevare una grande quantità di sostanze dal fondo marino, che offrono cibo e permettono la presenza di immensi quantitativi di pesce, merluzzi in particolare, oltre a balene e altri mammiferi marini. Fu così che pescatori portoghesi, spagnoli, baschi, bretoni e della Normandia, iniziarono dai primi anni del ‘500 a frequentare le coste di Terranova e delle regioni vicine, che per tutto il ‘500 furono note come la Tierra de los Bacalao, dando vita alle prime forme di interazione con i nativi. Si tratta di una parte della storia dei rapporti tra bianchi e indiani, che non coinvolse conquistadores, generali o esploratori, ma solo Lungo le coste di Terranova, era praticata anche la caccia alla balena, qui umili pescatori, e che per questo è rappresentatata in una una stampa del 1574 scarsamente documentata, ma che oltre ad avere importanti conseguenze per gli indiani della regione, fu forse uno dei pochi casi in cui l’incontro tra bianchi e indiani non produsse immediatamente distruttivi conflitti tra le due parti. Già dopo i viaggi di Corte Real, i primi pescherecci iniziarono a raggiungere i Grandi Banchi a est di Terranova, poi a partire dagli anni venti del ‘500 le navi che pescavano al largo di Terranova e delle isole di Cape Breton, potevano contarsi a decine. I pescherecci arrivavano all’inizio della buona stagione, e vi si fermavano fino ai primi freddi, pescando e costruendo piccoli insediamenti di baracche di legno, dove risiedevano i pescatori impegnati a terra per essiccare il pesce, che doveva essere conservato e trasportato in Europa. Non è chiaro quali furono i rapporti che questi pescatori ebbero con gli indiani, e tra le poche notizie, vi è l’episodio di alcuni pescatori Beothuk che navigavano con le loro canoe e furono sequestrati dall’equipaggio di un peschereccio. In linea generale, pare comunque che i Beothuk di Terranova evitassero di avere contatti con i bianchi, anche se questi spesso si insediavano in zone da loro frequentate per la pesca. Pur interessati agli oggetti di metallo degli Europei, come testimoniato dai piccoli furti di cui gli indiani si rendevano responsabili, essi si sottraevano ai commerci e agli scambi che invece interessavano ai bianchi. Fu infatti in occasione dei primi contatti tra questi pescatori e i nativi, che la grande risorsa che per tre secoli avrebbe alimentato i commerci e fomentato i conflitti, venne per la prima volta a conoscenza degli Europei: le pelli di castoro, di martora e altri mammiferi, richiestissime in Europa, abbondavano nell’entroterra della Tierra de los Bacalao, e i pescatori durante i loro contatti, ne entrarono per primi in possesso, scambiandoli con manufatti europei di basso costo. Come già detto però non furono i Beothuk a partecipare a questi primi scambi, dato che questi indiani preferirono sempre sottrarsi a qualsiasi contatto; è difficile spiegare questo comportamento, unico fra tutti gli indiani, i quali all’inizio furono sempre comprensibilmente curiosi di incontrare e conoscere i nuovi venuti. Una spiegazione è che forse, per i Beothuk, gli Europei, non erano effettivamente una novità, dato che loro li avevano già incontrati cinque secoli prima, al tempo dei Vichinghi. E’ possibile immaginare che l’incontro con i Vichinghi possa aver avuto conseguenze traumatiche per i Beothuk, in particolare gravi epidemie, e che il ricordo di tali eventi possa essersi trasformato in una qualche narrazione o credenza, e quindi nel terrore nei confronti degli stranieri venuti dal mare, da evitare in ogni modo. I Beothuk comunque non furono gli unici indiani con cui i pescatori entrarono in contatto, dato che certamente essi frequentarono anche le coste delle isole di Cape Breton, abitate dai Micmac e quelle del Labrador, abitate dai Montagnais, popolazioni nomadi di lingua Algonchina, che vivevano di pesca e di caccia nella regione. I Micmac in particolare ebbero contatti prolungati con gli Europei, facendo con loro pacifici scambi commerciali, e ottenendo per primi lame e altri oggetti di metallo. I contatti furono continui in particolare dopo il 1520, quando alcune famiglie di Portoghesi, in maggioranza provenienti
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dalle isole Azorre, si stabilirono sull’isola di Cape Breton, rimanendovi per alcuni decenni. La colonia di Cape Breton fu fondata da Juao Alvarez Fagundes, nel marzo del 1521, quando dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal re del Portogallo Manuele I, egli si diresse a Terranova con un gruppo di coloni; trovata l’isola troppo fredda, proseguì la navigazione verso sud, esplorando le isole a nord della penisola di Nova Scotia, fino a stabilire una colonia sull’isola di Cape Breton. Della storia di questa colonia, si ha un solo documento, risalente al 1570, dove si riporta della richiesta dei coloni di ottenere sostegno dal Portogallo e preti, per convertire i pacifici Micmac; dopo il 1570 della colonia Villaggio Micmac lungo la costa non si sa più nulla e probabilmente essa fu abbandonata. Durante la sua esistenza, la colonia di Cape Breton fu certamente visitata dai pescherecci, che potevano rifornirla di merci e manufatti europei, in cambio di pregiate pellicce che i coloni ottenevano dai Micmac. La colonia comunque viveva anche grazie alla coltivazione dei campi, della pesca e della caccia che offrivano notevoli risorse. E’ probabile che alla fine i coloni abbiano deciso di tornare nella madrepatria, non avendo ottenuto alcun sostegno, e nemmeno la presenza di un prete; non poter nemmeno battezzare i nuovi nati, essere dimenticati da tutti, in luogo lontano e difficile, deve avere alla fine indotto i coloni ad abbandonare l’insediamento, malgrado i rapporti pacifici instaurati con i nativi locali. Mentre i pescherecci ormai affrontavano la traversata dell’Atlantico come ordinaria amministrazione, nelle corti Europee il tema della scoperta di una via che permettesse di raggiungere la Cina da Occidente rimaneva aperto e continuava a suscitare l’attenzione dei mercanti, in concorrenza fra loro per il controllo delle vie commerciali. La Francia, tra le potenze europee che si affacciavano sull’Atlantico era l’unica che non aveva ancora assunto iniziative, ma intorno al 1520 le lobbies dei mercanti riuscirono a convincere Francesco I, impegnato nella rivalità con Carlo V d’Asburgo, a guardare oltre le sole dispute europee. Dopo l’impresa della flotta di Magellano, che per conto della Spagna tra il 1521 e il 1522 aveva circumnavigato la terra, perdendo il suo comandante ucciso dagli indigeni delle Filippine, era chiaro a tutti che la via occidentale per la Cina da lui trovata, passando a sud dell’America, per le fredde e pericolose acque della Terra dei Fuochi, non era la soluzione soddisfacente. Si riproponeva ancora una volta il tema del Passaggio a Nord-Ovest, e la Francia tentò di giocare le sue carte nel 1523, affidandosi ad un navigatore e cartografo toscano, Giovanni da Verrazzano. Giovanni da Verrazzano, era da anni al servizio della Francia e avendo già navigato nelle acque di Terranova, probabilmente con una spedizione di pesca, decise di tentare la ricerca del passaggio verso la Cina, puntando verso sud, in quel tratto del nuovo continente ancora ignoto, compreso tra le colonie Spagnole dei Caraibi, e le zone di pesca di Terranova. Deciso ad attraversare l’Atlantico sulla nota rotta settentrionale fino a Terranova, per poi piegare a sud, nel 1523 da Verrazzano partì con quattro navi, ma incappato in una bufera ne perse due e fu costretto a tornare indietro. Alla fine del 1523 da Verrazzano ripartì con le due navi rimaste, ma una di esse giunta a Madera dovette tornare indietro; con l’ultima nave rimastagli, da Verrazzano decise questa volta di scegliere una rotta più meridionale, attraverso mari più calmi, ma con il rischio di imbattersi in navi spagnole o portoghesi, che pretendevano il diritto esclusivo su quei mari. Nel marzo del 1524 finalmente da Verazzano raggiunse la costa americana, nella zona di Cape Fear (North Carolina), spingendosi poi poco più a sud e quindi tornando a nord per timore di imbattersi in navi spagnole; in quello stesso anno in effetti il capi- Giovanni da Verrazzano
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tano Gordillo, su incarico di Vasquez de Ayllon, si sarebbe spinto lungo le stesse coste. Navigando a nord, da Verrazzano raggiunse Pamlico Sound, convincendosi che la grande laguna fosse la via d’accesso al Pacifico, poi toccò la baia di Chesapeake, che però non esplorò, quindi la foce del Delaware, e quella dell’Hudson, dove più tardi sarebbe sorta New York. Entrato nel fiume Hudson ebbe contatti con gli indiani Lenape (Delaware), che circondarono la nave con le loro canoe: dopo qualche iniziale tensione, il navigatore italiano si incontrò amichevolmente con gli indiani. Lasciato l’Hudson, l’esplorazione continuò verso nord fino all’attuale Rhode Island, dove da Verrazzano incontro una delegazione di indiani Narraganset e Wampanoag, con i quali cercò di stabilire le basi per futuri rapporti commerciali. Fu quindi la volta di Cape Cod, della costa del Maine e di quella della Nova Scotia, dove ebbe contatti con i Micmac, che reputò meno civili degli indiani che vivevano più a sud, e che già pratici del commerco con i bianchi, pretesero lame e oggetti di metallo; arrivato a Terranova, da lì fece ritorno in Francia, seguendo la usuale rotta settentrionale. Il viaggio di Giovanni da Verrazzano, non ebbe conseguenze immediate, e pur essendo ben documentato, anche grazie ai resoconti dello stesso da Verrazzano, esso fu in buona misura obliata negli anni successivi, al punto che solo molto recentemente la città di New York, ha offerto un omaggio al primo Europeo, che mise piede in quelle terre, con il famoso ponte a lui intitolato. Fa quindi un certo effetto vedere sulle mappe di Giovanni da Verrazzano, i nomi di tante località della sua Toscana, usati per indicare le località delle terre da lui esplorate, un omaggio alla sua patria a cui certo era molto legato; di quei nomi ovviamente non è rimasto nulla. Altro elemento peculiare del personaggio, è la sua attenzione verso i nativi, apprezzati per la loro immagine nobile e incorrotta, secondo un approccio che in parte anticipa, quell’idea di “buon selvaggio”, resa nota nell’epoca dei lumi, ma la cui origine è proprio nella cultura dell’umanesimo italiano. Dopo il suo ritorno la Francia non assunse altre iniziative negli anni immediatamente successivi, ma Giovanni da Verrazzano, si impegnò comunque in un altro viaggio in America, allo scopo di commerciare il pregiato legno del Brasile; fu questo il suo ultimo viaggio, dato che egli morì in circostanze misteriose, ancor prima di raggiungere il Sud America; l’ipotesi più nota sulla sua morte, è che egli sia stato catturato dai Canibi, i bellicosi indiani antropofagi delle Piccole Antille, e sia stato ucciso e divorato da loro, anche se non si esclude che siano stati gli Spagnoli a catturarlo nelle stesse acque, e a impiccarlo come corsaro. Poco dopo Giovanni da Verrazzano un altro navigatore, un Portoghese al servizio della Spagna, Estevao Gomez, navigò in quelle stesse acque; attraversato l’Atlantico e raggiunta Cuba nel maggio 1524, da lì navigò verso nord fino alle isole di Cape Breton, alla ricerca del “Passaggio a Nord-Ovest, ritornando poi a sud lungo le coste del Maine, ed entrando nel fiume Penobscot, nella speranza che quello fosse il passaggio; quindi anche lui esplorò la foce dell’Hudson e la baia di New York, prima di tornare in Spagna con un carico di cinquanta indiani rapiti per essere venduti come schiavi; il re Carlo V, contrario a questa pratica, liberò gli indiani, che però non fecero mai più ritorno nella loro terra. C’è da chiedersi chi fossero gli indiani rapiti, e se non fossero proprio quegli stessi Lenape, Wampanoag o Narraganset, che si erano incontrati amichevolmente con Giovanni da Verrazzano, e che forse proprio per questo poterono essere catturati. La spedizione di Gomez, fu comunque più determinante per la conoscenza delle coste Atlantiche del Nord America, dato che le sue informazioni furono trasferite in una delle prime carte geografiche del tempo , disegnata nel 1529 dal cartografo Diogo Ribeiro. Ancora un’altra spedizione alla ricerca del Passaggio a Nord-Ovest, fu voluta nel 1527 dal re d’Inghilterra Enrico VIII, che incaricò il navigatore John Rut, di organizzarla. Rut navigò lungo la rotta settentrionale, Le coste americane nella carta di Diogo Ribeiro
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perse una delle due navi con cui era partito, durante una tempesta e con l’altra, la Mary Guilford, continuò fino alle coste del Labrador, piegando poi a sud verso Terranova; fu qui che molto probabilmente essi ebbero un incidente con gli indiani Beothuk, quando venuti a terra, furono attaccati e persero un uomo. Dopo essere passati nella Baia di St.John, a Terranova, frequentata da una quindicina di pescherecci, continuarono verso sud, lungo una rotta non documentata, fino alla Florida, sempre alla ricerca di un canale verso la Cina e il Pacifico, per poi tornare infine in Inghilterra senza alcun risultato. Nei quasi trent’anni di viaggi di esplorazione, iniziati con Giovanni Caboto, l’unico interesse degli Europei era stato, in sostanza, come evitare le terre del Nord America e raggiungere la Cina. A parte i pescatori che frequentavano i Grandi Banchi di Terranova, nessuna tra le potenze europee, che aveva inviato spedizioni esplorative nell’Atlantico settentrionale, s’era minimamente posta il problema, che quella terra ignota che si frapponeva sulla via della Cina, potesse offrire più opportunità della Cina stessa. L’unico tentativo di stabilire una colonia in Nord America, quello di Fagundes a Cape Breton, era stato dimenticato e abbandonato, senza nemmeno un prete; e dell’unico prete, che tentò di portare la fede cristiana fra gli indiani, non c’è alcuna notizia sulla sua sorte, e l’unica cosa che rimane è un nome su una mappa. Per i primi decenni dalla sua scoperta, il continente che per due secoli avrebbe visto le potenze coloniali scontrarsi per il suo dominio, fu considerato solo un intralcio lungo la rotta per la Cina; per gli indiani questo significò rimandare i traumi che L’esplorazione della costa atlantica del Nord America altre tribù stavano subendo nelle terre meridionali, e ciò garantì loro ancora un po’ di tranquillità per quasi mezzo secolo, quando all’inizio del ‘600, Inglesi, Francesi e Olandesi, compresero che le ricchezze del Nord America, potevano essere non meno disprezzabili di quelle della Cina. Prima che ciò accadesse comunque, il primo pianificato tentativo di colonizzazione nelle terre del nord, fu fatto dalla Francia: frutto di un equivoco, proseguito tra gli equivoci, fu per gli indiani del nord, la prima prova delle conseguenze del contatto con il mondo dei bianchi.
Jacques Cartier e i diamanti del Canada
Non furono pochi i personaggi, che mossi da ambizione e cupidigia, si lanciarono in imprese disperate ed efferate nel Nuovo Mondo, in cui spesso trovarono la propria rovina, se non anche la morte; ma di tutte le delusioni, certo la più cocente fu quella di Jacques Cartier, l’uomo che per primo usò il termine
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“Canada”, per definire la parte settentrionale del Nord America, e che pose le premesse per il dominio coloniale francese nel Nuovo Mondo. Ma oltre alla vicenda di un uomo, che vide una dopo l’altra le sue certezze cadere, ci fu anche il dramma di un intero popolo che poco tempo dopo il suo arrivo scomparve dalla storia. Questo è quanto accadde nella valle del fiume San Lorenzo, con il primo Modellino di villaggio Iroquaian tentativo di colonizzazione, nella parte settentrionale del continente. La valle del San Lorenzo, che collega l’immenso bacino dei Grandi Laghi, con l’oceano Atlantico, fu il teatro di questa vicenda, una vicenda che pose le basi dei successivi due secoli di conflitti, che videro indiani di varie tribù, ed europei di diversa provenienza, scannarsi per il controllo di questa zona strategica per i traffici della regione. Prima dell’arrivo di Cartier, questa regione era abitato da un popolo di lingua Iroquaian, affine ma distinto, dalle altre tribù Iroquaian che vivevano intorno ai laghi Erie e Ontario, un popolo numeroso, diviso in più di una ventina di tribù, che come i loro vicini meridionali viveva di agricoltura, in villaggi stabili, cinti da palizzate, composti da lunghe capanne, abitate dai membri dello stesso clan matrilineare. Gli Iroquaian erano probabilmente eredi della cultura Adena della valle dell’Ohio, e di lì, intorno al IX secolo si spostarono ad est e a nord-est, portando con se la coltura del mais, la grande innovazione agricola dell’epoca. Sicuramente a partire dal XIII secolo, ma forse anche da prima, gli Iroquaian raggiunsero la valle del San Lorenzo, approfittando dei fertili terreni e della disponibilità di pesce, incuneandosi fra tribù Algonchine che vivevano per lo più di caccia e di pesca, divise in piccole bande; con i loro vicini, gli Iroquaian del San Lorenzo, ebbero probabilmente rapporti pacifici, scambiando le eccedenze agricole con i prodotti del mare, le pelli e la cacciagione, e forse fungendo da intermediari con i popoli Iroquaian che vivevano più a sud. Tra questi vicini c’erano certamente i Micmac e i Montagnais (Innu), che già nei primi decenni del ‘500 erano entrati in rapporto con i pescatori baschi, portoghesi, bretoni, che navigavano lungo la costa della “Tierra de los bacalao”; forse già dall’inizio del ‘500 gli Iroquaian del San Lorenzo, ottenevano dai loro vicini i primi oggetti di metallo, e le prime informazioni sugli uomini venuti da oltremare. Tra questi uomini c’era sicuramente Jacques Cartier, un marinaio bretone che aveva già compiuto viaggi a Terranova e in Brasile, e che avendo fatto nel 1520 un buon matrimonio, era inserito nella buona società della sua città, Saint Malò; è probabilmente in quest’ambito che Cartier Jacques Cartier
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elaborò il suo progetto di ricerca del Passaggio a Nord-Ovest, ottenendo l’appoggio del locale arcivescovo, che lo introdusse a corte, procurandogli un incontro con re Francesco I, lo stesso che pochi anni prima aveva sostenuto Giovanni da Verrazzano, nel suo viaggio esplorativo del Nord America. Con l’autorizzazione ed il sostegno del re di Francia, nell’aprile del 1534 Jacques Cartier partì per la traversata del l’Atlantico, raggiugendo il mese successivo le coste settentrionali di Terranova, quindi attraversato lo stretto di Belle Isle, che divide il Labrador da Terranova, discese la costa occidentale dell’isola, fino a raggiungere la pe- Cartier prende possesso del Canada nisola di Gaspè; qui ebbe un paio di incontri con gli indiani Micmac, già usi ai commerci con i pescatori europei, poi da qualche parte lungo la costa della penisola di Gaspè, all’inizio di luglio decise di elevare una grande croce con la scritta “lunga vita al re di Francia”, come atto di presa di possesso della regione. L’iniziativa di Cartier, fu però subito compresa dal capo Donnacona, che era nelle vicinanze con altri duecento indiani, impegnato in una spedizione di pesca; si trattava di Iroquaian del San Lorenzo, che avevano i loro villaggi agricoli più a sud, nell’interno, ma che con la buona stagione si spostavano sulla costa per pescare. Donnacona fece le sue rimostranze a Cartier, e questi per evitare tensioni, invitò il capo e il suo seguito sulla nave, facendo loro piccoli regali, soprattutto oggetti di metallo; poi prese in ostaggio due indiani, secondo cronache più tarde i due figli di Donnacona, Domagata e Taitoagny, per mettersi al sicuro dalla possibile ostilità degli indiani. Alla fine la situazione si risolse con l’impegno di Cartier a riportare i due ostaggi l’anno successivo, insieme a merci da scambiare con gli indiani. Evidentemente Donnacona fu obbligato all’accordo per il timore di mettere a repentaglio la vita dei figli, ma comunque si ponevano le basi per una relazione che anche agli indiani poteva risultare conveniente. Cartier ritornò in Francia in settembre, convinto di essere giunto sul continente asiatico, e di essere sulla buona strada per trovare la via della Cina. L’anno successivo, Cartier si mise in viaggio nel mese di maggio con una più grande spedizione, tre navi e 110 uomini, oltre alla guida dei due ostaggi indiani presi l’anno prima. Le navi raggiunsero subito la penisola di Gaspè, poi guidati dai due indiani, entrarono nella immensa foce del San Lorenzo, risalendo il vastissimo fiume, fino al villaggio Iroquaian di Stadacona, dove era capo Donnacona, e dove i due prigionieri poterono ricongiungersi ai famigliari; il villaggio era posto nelle vicinanze dell’attuale città di Quebec, la più antica città europea del Nord America. I rapporti con gli Iroquaian erano pacifici e cordiali e gli indiani interessati alle merci e ai manufatti europei, li scambiavano con pelli pregiate. Ma Cartier non era venuto per commerciare con gli abitanti di una terra selvaggia, ma per raggiunIn una stampa del ‘500, il benvehuto degli indiani di Hochelaga ai Francesi gere la ricca Cina, e certamente il
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grande fiume lungo cui s’era inoltrato sembrava proprio la via d’acqua che avrebbe portato alla metà; con la più piccola delle sue navi, continuò quindi a risalire il corso del fiume, fin quando raggiunse Hochelaga, un grande villaggio degli Iroquaian, dove però dovette arrestare la sua navigazione; Hochelaga, nei pressi dell’attuale Montreal, si trovava vicino alla confluenza tra i fiumi Ottawa e San Lorenzo, in un punto strategico per i rapporti con i popoli dell’interno, ma anche in prossimità di un vasto tratto di fiume attraversato da rapide numerose e potenti. Era il mese di ottobre, quando Cartier visitò la grande Hochelaga, le rapide impedivano di risalire il fiume, e la stagione era ormai tarda per il ritorno; ma Cartier era così convinto che quella era la via per la Cina, e che solo le rapide gli ostruivano il passo, che decise di chiamare la località La Chine, un nome che poi rimase al primo insediamento di coloni, e ancora alla città dei nostri giorni. Ricongiuntosi con i suoi, Cartier decise di svernare in un piccolo avamposto nelle vicinanze di Stadacona, il villaggio di Donnacona. Fu un inverno terribile, perché un epidemia di vaiolo che aveva fatto la sua prima comparsa tra gli indiani, in poco tempo si estese anche ai Francesi. Dopo che tra gli indiani ci furono almeno 50 morti e oltre una ventina tra i Francesi, un rimedio indiano a base della corteccia di un albero, che gli indiani chiamavano “anedda”, evitò che la strage fosse più grave. Fu durante questo terribile inverno, che Cartier sentì per la prima volta parlare della “terra di Saguenay”, una regione del nord, dove l’oro abbondava. A primavera inoltrata, in maggio, quando i ghiacci liberarono le navi e il corso del San Lorenzo, gli oltre 80 Francesi erano in condizioni di debilitazione profonda, con le scorte alimentari al minimo, ammalati, ma erano pronti a tornare in Francia portando notizie importanti: la via per la Cina e un terra ricca d’oro. Ma per dar forza alle loro notizie i Francesi non si fecero scrupolo di convincere Donnacona a seguirli, perché lui stesso confermasse al re le parole del navigatore; il capo morirà tre o quattro anni dopo in Francia, senza mai più rivedere la sua terra. Passarono cinque anni tra il secondo ed il terzo viaggio, ed è difficile credere che tanto tempo sia passato per volontà di Cartier: forse le parole di Donnacona, non convinsero Francesco I, o forse l’idea di un Passaggio a Nord-Ovest, bloccato da imponenti rapide, scoraggiò altre iniziative, forse le rinnovate ostilità in Italia, impedirono al re di fare progetti d’oltremare. Finalmente nell’ottobre del 1540 Francesco I richiamò Cartier per affidargli di nuovo un viaggio in Nord America, ma dopo un primo incarico come capo della spedizione, Cartier fu declassato a pilota della spedizione e uomo di mare, per guidare il primo governatore della nuova colonia che si andava a fondare nelle terre da lui scoperte, il Canada, un nome probabilmente derivato da una parola Iroquaian che significava “abitazione”. E lecito pensare che la delusione di Cartier sia stata profonda; anni ad attendere di poter raccogliere i frutti delle sue scoperte, e poi vedersi sottratto il comando della spedizione ed il titolo di governatore, da un nobile ugonotto, Jean Francois de la Rocque de Roberval, un favorito del re, suo compagno d’arme e di piaceri, che sarebbe divenuto il primo governatore del Canada. Ciò spiegherebbe quindi tutti i suoi comportamenti successivi. Approfittando del ritardo di Roberval nel carico delle artiglierie e dei rifornimenti, Cartier ottenne da lui stesso il permesso di mettersi in viaggio per primo, e nel maggio del 1541, con una parte della flotta partì da St.Malò per ritornare sul San Lorenzo. Giunto di nuovo a Stadacona, Cartier ebbe la spiacevole, ma prevedibile sorpresa, di non essere accolto con molto calore dagli indiani; cinque anni prima era partito portando con se il capo del villaggio, con la promessa di tornare l’anno successivo, e invece tornava dopo cinque anni, e senza Donnacona. Fu deciso quindi di costruire una prima colonia a distanza di sicurezza da Stadacona, nella località di Cape Rouge, oggi Quebec. I coloni sbarcarono i loro averi e il bestiame superstite Charlesbourg Royal
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dal viaggio, costruirono le loro case, le cintarono di una fortificazione e iniziarono a seminare degli orti; un piccolo forte fu costruito su una collina, vicina al borgo, per poter essere usato in caso di attacco, e alla colonia fu dato il nome di Charlesbourg Royal. Ma l’obbiettivo di Cartier non era quello di edificare una colonia su cui poi avrebbe dominato Roberval, che ancora si attardava in Europa, ma di realizzare la grande impresa che aveva interrotto anni prima; se il passaggio per la China era al momento impraticabile, la ricerca dell’oro nella terra di Saguenay divenne l’obbiet- La regione del San Lorenzo all’arrivo di Cartier tivo di Cartier. All’inizio di settembre, lasciata Charlesbourg Royal, Cartier risalì di nuovo il fiume fino a Hochelaga e alle grandi rapide, impegnandosi poi a cercare di raggiungere la mitica terra di Saguenay; le condizioni del fiume Ottawa, che Cartier pensava essere la via per la terra di Saguenay, non rendevano possibile la navigazione, mentre il freddo e la neve ormai imminenti, lo costrinsero a rinunciare alle sue ricerche, per prepararsi ad un altro difficile inverno. Ancora una volta le condizioni dei coloni si fecero difficili, e non solo per il freddo, lo scorbuto, la scarsità di cibo, ma anche per l’ostilità degli Iroquaian, che in uno, o forse più attacchi al borgo, uccisero 35 Francesi. Alla fine dell’inverno Cartier ne aveva abbastanza, e approfittando del ritrovamento di un po’ d’oro e di diamanti nelle vicinanze della colonia, decise che era il momento di tornare in Francia, per far fruttare il piccolo bottino. A primavera inoltrata, dopo lo scioglimento dei ghiacci Cartier riprese il mare, e giunto al largo della Baia di St.John, a Terranova, incontrò le navi di Roberval, dirette in Canada; disobbedendo agli ordini di Roberval e approfittando della notte, Cartier proseguì il suo viaggio per l’Europa, deciso a difendere il piccolo tesoro accumulato. Roberval in quegli stessi giorni stava risolvendo una “questione d’onore”, che infangava la sua famiglia, e aveva da poco abbandonato una sua giovane parente, rea di una relazione prematrimoniale, su un isola deserta, in compagnia del suo amante e della sua cameriera. Solo la giovane riuscirà a sopravvivere, riportata in Francia da alcuni pescatori, mentre il suo amante e l’innocente cameriera, morirono di fame e di freddo. Roberval cercò di tenere in piedi la colonia per oltre un anno, ma l’ostilità degli Iroquaian, le difficili condizioni, le malattie, lo indussero nel settembre del 1543, ad abbandonare l’impresa e a fare ritorno in patria. La via per la Cina, seppure c’era, non era praticabile, la “terra di Saguenay” era una leggenda, e l’oro e i diamanti che Cartier aveva scoperto e per cui era tornato precipitosamente in patria, erano in realtà pirite e cristalli di quarzo, privi di valore. Cartier lo seppe solo una volta giunto in Francia, e l’unico risultato dei suoi tre viaggi, si risolse in un pugno di mosche; Jacques Cartier continuò a lavorare come esperto uomo di mare al porto di St.Malò, abbandonando ogni ambizione. Il Passaggio a NordOvest e la Cina, la terra di Saguenay e i diamanti, nulla s’era dimostrato vero, e per oltre cinquant’anni l’espressione “falso come i diamanti del Canada”, ricordò a tutti il fallimento e la delusione di chi ancora
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cercava improbabili tesori in terre lontane. Forse fu anche per questo che la Francia abbandonò ogni progetto sulle fredde e inospitali terre del Canada.
Il primo contatto e le guerre tribali
Alla metà del ‘500, per gli indiani della vasta regione compresa tra la valle del fiume San Lorenzo e Terranova, la presenza nelle loro terre di un popolo misterioso e sconosciuto, giunto dal mare, era un fatto acquisito. Da decenni c’erano contatti e scambi con i pescatori che venivano a terra, e quasi certamente la piccola colonia portoghese di Cape Breton, era stata un luogo di scambi per i Micmac della regione; poi con le spedizioni di Cartier, gli Iroquaian del San Lorenzo avevano conosciuto e combattuto le pretese di dominio di questi nuovi venuti, e due di loro avevano anche visitato il loro mondo, ed erano tornati per raccontarlo. Questi nuovi venuti non erano considerati semidei, al comando di armate dalle scintillanti corazze, da temere e a cui prostrarsi rispettosi, ma uomini, con cui se possibile reRappresentazione di costumi e oggetti tradizionali lazionarsi, e se necessario combattere. A parte i Beothuk, deli Innu del Labrador (Montagnais e Naskapi) che si sottrassero ad ogni contatto, preferendo ritirarsi nelle zone interne e patire spesso la fame, i Montagnais, i Micmac, gli Iroquaian del San Lorenzo interagirono con i bianchi in modo diverso, ma senza alcuna subalternità. Per i Montagnais, indiani nomadi che si spostavano dalla costa alle regioni dell’interno del Labrador, cacciando e pescando, la possibilità di incontrare annualmente i pescatori bianchi, scambiando qualche pelle per oggetti di metallo o altre merci ignote, fu la prassi comune e consolidata, molto prima che gli stessi Montagnais venissero coinvolti nel grande affare del commercio delle pellicce. L’incontro annuale con i bianchi fu inserito quindi nel ciclo delle attività economiche e di sussistenza, senza che ciò modificasse in modo significativo il loro stile di vita; i Montagnais vivevano in una regione periferica, scarsamente popolata, divisi in piccole bande impegnate a sopravvivere, e l’incontro con i bianchi rappresentò solo un’opportunità in più, nel quadro di una vita comunque povera di relazioni e a volte precaria, anche per la sussistenza. Diverso fu quanto accadde ai Micmac, di lingua Algonchina come i Montagnais, e come loro dipendenti prima di tutto dalla caccia e dalla pesca, ma con una popolazione più numerosa e addensata, ed una vita sociale più strutturata e coesa. Divisi in sette raggruppamenti locali, ognuno dei quali con un proprio leader, i Micmac, avevano quasi certamente rapporti di scambio e altre relazioni, con i popoli affini che vivevano a sud, e che almeno in parte dipendevano anche dall’agricoltura, i Penobscot, gli Abnaki, fino agli indiani del New England. E’ possibile immaginare che con l’acquisizione delle merci europee, ed in particolare di quei metalli che potevano dare una prevalenza bellica, i rapporti di equilibrio tra i cacciatori e pescatori Micmac, e i popoli parzialmente agricoli del sud si siano modificati, e i Micmac abbiano iniziato ad imporsi sui loro vicini come potenza egemonica regionale. In un modello economico, basato su risorse tendenzialmente condivise, la prima comparsa di un piccolo monopolio, quello sugli oggetti di Guerriero Micmac con ascia di fabbricazione metallo, generò immediatamente contrapposizioni e guerra. europea in una riproduzione del XVII secolo
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Non abbiamo notizie certe su ciò che accadde tra gli indiani della regione nel corso del ‘500, ma sappiamo che alla fine dello stesso secolo, i guerrieri Micmac erano in grado inviare spedizioni di guerra fin nel New England, razziando le tribù agricole della regione. Contro di loro, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, il capo degli Abnaki Betsabes, costituì una alleanza delle tribù meridionali, gli Abnaki, i Sokoki, i Pennacook, i Nipmuk, i Penobscot, i Passamaquody e i Malecite, ponendo le basi della Confederazione dei Wabanaki, una labile alleanza politica e militare, che avrebbe svolto un ruolo nei secoli successivi. Il conflitto tra i Micmac e le tribù meridionali si protrasse per decenni e nel 1614 lo stesso Betsabes fu ucciso in uno scontro con i Tarrantene, il nome usato per definire i Micmac ostili; nel corso della sua attività di leader regionale, Betsabes era riuscito ad ottenere una certa influenza anche tra i Micmac, ma non sufficiente a fermare quella parte della tribù, che in possesso di lame e punte di metallo, voleva far valere la propria superiorità bellica. E’ quindi probabile che la buona accoglienza che gli indiani del New England fecero qualche anno dopo ai puritani inglesi, fosse dovuta alla necessità di riequilibrare i rapporti con i nemici settentrionali, trovando anch’essi una via d’accesso alle merci europee. Alla fine il conflitto si esaurì nel corso del ‘600, quando quasi tutte le tribù coinvolte erano divenute alleate e partners commerciali dei Francesi, e tutte furono impegnate nei conflitti che opposero Francia e Inghilterra. L’espansionismo dei Micmac non si diresse solo verso sud, ma forse già da quest’epoca i Micmac iniziarono a frequentare Terranova, scacciando i Beothuk dalle migliori stazioni di pesca del sud dell’isola; nei secoli successivi, i Micmac e i coloni bianchi, portarono i Beothuk all’estinzione. I Micmac furono la prima tra le tribù indiane, ad approfittare del rapporto con i bianchi per i imporsi ai loro fratelli di sangue, ma questa dinamica si riproporrà poi infinite volte nel corso della storia dei rapporti tra bianchi e indiani. Diversa, quasi del tutto sconosciuta, ma certamente drammatica, fu la vicenda degli Iroquaian del San Lorenzo, che prima della fine del ‘500 scomparirono dalla storia. A differenza dei Micmac, che avevano rapporti commerciali con i bianchi di passaggio, gli Iroquaian del San Lorenzo, dovettero misurarsi con un vero e proprio tentativo di colonizzazione; Donnacona e la sua gente, avevano subito contestato le pretese dei bianchi, ma alla fine avevano tentato di comprendere come da questo incontro potevano trarre vantaggi, prima di perdere ogni fiducia, e di fare la guerra ai coloni di Charlesbourg Royal. Durante questo tentativo di aprire una proficua relazione, avevano compreso l’arroganza e la malafede dei Francesi, il mancato rispetto della parola data, le malattie che essi portavano, e avevano anche perso un loro capo, portato via con le promesse e mai più tornato. Per questo alla fine si erano convinti alla guerra, operando per cacciare i Francesi, ma finendo anch’essi per pagare un prezzo insostenibile. Alla fine del ‘500 gli Iroquaian del San Lorenzo erano scomparsi e sulla loro fine si possono fare solo ipotesi. Quella più credibile individua le cause di questa scomparsa nella coincidenza di due fattori distruttivi, le malattie lasciate dai bianchi, e l’ostilità con le tribù meridionali della Lega Iroquois. La Lega Iroquois, che sarà la potenza politica più forte nella regione per i due secoli successivi, si era costituita probabilmente nel corso del XV secolo, in un periodo buio In questo quadro una scena del mito di fondazione della Lega Iroquois: Dekanawida (a siper i popoli che vivevano nistra) impone le mani sul malvagio capo Atoroho per indurlo a convertirsi alla Legge di intorno ai laghi Erie e On- Pace, mentre Hiawatha (a destra), lo libera dei serpenti che rappresentano il Male. Ad astario, di scarsi raccolti e sistere i rappresentanti delle 5 tribù della Lega
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carestie, di guerre tribali, in cui anche l’antropofagia era praticata. In questo contesto, un mistico della tribù degli Huron, Dekanawida, lanciò un messaggio di pace e di fratellanza, senza trovare ascolto fra la sua gente, ma ricevendo il sostegno di Hiawatha, un capo dei Mohawk o degli Onondaga, che trasformò le aspirazioni di Dekanawida in progetto politico, la Legge di Pace. Hiawatha, che al contrario di Dekanawida era un oratore carismatico, riuscì ad indurre cinque tribù che vivevano a sud del lago Ontario, i Mohawk, gli Oneida, gli Onondaga, i Cayuga e i Seneca, a riunirsi in una alleanza di pace, a scopo prettamente difensivo. Modellata sulla base della struttura sociale degli Iroquaian, incentrata sui clan matrilineari, la Lega Iroquois era una istituzione politica e religiosa, guidata da un consiglio di capiclan, e in cui anche le donne più anziane e autorevoli avevano un ruolo; la Lega decideva più che altro delle relazioni esterne, lasciando totale autonomia alle singole tribù nelle questioni interne. Le singole tribù potevano anche impegnarsi in guerra senza necessariamente coinvolgere le altre tribù della Lega, ma potendo comunque contare sulla sicurezza derivante dalla pace con le tribù alleate; ciò favoriva le mire offensive ed espansionistiche delle singole tribù, che potevano impegnarsi in spedizioni militari, con la sicurezza di non subire attacchi nelle loro terre dai vicini. E’ possibile che nei primi decenni del ‘500 e sicuramente dopo i viaggi di Cartier, i Mohawk, la più settentrionale tra le tribù della Lega, abbia avuto notizie, di qualcosa di nuovo che stava accadendo a nord, nella valle del San Lorenzo e sulle coste, e quindi abbiano iniziato a penetrare nella regione attirati dalla possibilità di ottenere oggetti di metallo. A differenza di quanto avvenne ai Micmac, che forti di lame e punte di metallo avevano tentato di imporsi come potenza regionale, gli Iroquaian del San Lorenzo potrebbero aver vissuto una contingente difficoltà dovuta a qualche malattia introdotta dagli uomini di Cartier, non riuscendo quindi a sfruttare il proprio vantaggio, ma suscitando la cupidigia dei vicini. I Mohawk a quel punto, forti del sostegno delle altre tribù della Lega, sarebbero riusciti ad imporsi, sugli Iroquaian del San Lorenzo già indeboliti da una qualche epidemia. In questo caso gran parte degli Iroquaian del San Lorenzo potrebbero essere stati adottati nella tribù dei vincitori, secondo l’uso tipico degli Iroquaian. E’ questo una ipotesi credibile e l’adozione di migliaia di sconfitti, potrebbe aver rafforzato i Mohawk, che forse anche per questo nei secoli successivi saranno i protagonisti di una politica espansionistica nella regione. Ma i Mohawk non colonizzarono la terra degli sconfitti, e la valle del San Lorenzo rimase totalmente spopolata almeno dal 1580, fino al ritorno dei Francesi all’inizio del ‘600. Forse fu il timore superstizioso di una terra in cui la malattia si aggirava invisibile, forse furono ragioni d’altra natura, sta di fatto che i Mohawk considerarono la valle del San Lorenzo solo come un loro territorio di caccia. Dopo Cartier le occasioni di contatti con i bianchi nella valle del San Lorenzo si esaurirono, e i Mohawk e le altre tribù della Lega, rimasero esclusi dal piccolo flusso di merci europee, che continuava solo nelle regioni costiere, tra i Montagnais e soprattutto i Micmac. I Mohawk vantavano il diritto su tutta la valle de San Lorenzo, ma a nord oltre la confluenza dell’Ottawa, laddove era stata la città di Hochelaga, il fiume era visitato da Algonchini e Montagnais, che avevano visto i loro vicini e amici soccombere davanti ai Mohawk, e con cui iniziarono le prime frizioni. La valle del San Lorenzo divenne così una regione pericolosa, dove si inoltravano solo spedizioni di cacciatori, o gruppi di guerrieri in cerca di un’occasione per mostrare il loro valore. Lo scontro tra i popoli Algonchini e la Lega Iroquois, che determinerà due secoli di storia, ha origine in questi luoghi e in questi anni, nella stessa vicenda che portò alla fine degli Iroquaian del San Lorenzo. La valle del San Lorenzo, terra disabitata e contesa tra gli Iroquois del sud e gli Algonchini del nord, diverrà all’inizio del ‘600 la base per il futuro espansionismo dei Francesi in Nord America, ma anche una terra insanguinata da due secoli di guerre, prima contro la potente Lega Iroquois, poi nel confronto diretto tra Francia e Inghilterra. Sgombrato il campo dagli ignari abitanti della regione ormai scomparsi, una vasta e ricca terra, si trasformava in un luogo di guerra: dopo le malattie, l’altro lascito del contatto. Le guerre tribali, conseguenza del rapporto con l’economia mercantile dei bianchi, che caratterizzeranno due secoli di storia dei nativi d’America, hanno in questa regione e in questi anni, la loro prima manifestazione.
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L’ORO AMERICANO Rispetto ai processi di espansione coloniale che le principali potenze europee misero in campo a partire dalla fine del ‘400, in Asia, Africa e Sud America, la storia in Nord America ebbe caratteristiche e peculiarità completamente diverse; in Nord America infatti l’espansione coloniale, non fu solo un processo di spoliazione delle risorse, attraverso il controllo politico-militare e l’imposizione di rapporti commerciali squilibrati, ad opera di minoranze europee che si imponevano sulle popolazioni autoctone: in Nord America la popolazione locale, fu semplicemente scacciata dalle proprie terre, e sostituita con una imponente emigrazione europea, fin quando ridotta quasi al limite dell’estinzione, essa fu ghettizzata in territori delimitati e separati, le riserve. Ma prima che questo percorso iniziasse, a partire dall’inizio del ‘600 e poi nei secoli successivi, la presenza europea in Nord America, fu quasi inesistente per circa un secolo dopo la scoperta: gli Spagnoli dopo aver occupato le Antille e il sud del Messico, avevano proceduto lentamente verso nord, spinti dalle opportunità minerarie della regione, fermandosi alle aree meridionali del Nord America, mentre nessun insediamento stabile era stato ancora fondato in Florida o sulle coste dell’Atlantico; il tentativo francese guidato da Jacques Cartier si era anch’esso risolto in un fallimento. A differenza di quanto accadeva in Asia e Africa, dove i mercanti europei stabilivano relazioni commerciali con i potentati locali, trafficando in spezie, materie prime e schiavi, alcun commercio significativo era stato ancora avviato tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, e l’iniziativa economica si era limitata ad una imponente predazione di oro e argento, prima attingendo direttamente ai tesori degli Aztechi e degli Inca, poi con lo sfruttamento minerario e l’uso di manodopera servile. Malgrado ciò le ricchezze che attraverso questo limitato impegno economico erano state trasferite in Europa erano immense, tali da produrre cambiamenti nella storia del Vecchio Continente, e da dare una forte accelerazione al processo di trasformazione capitalistica dell’economia europea: ma a beneficiare di tale ricchezza, non fu la Spagna, che giunta all’apice della sua potenza, nel secolo successivo inizierà un lento declino. La Spagna era allora un grande impero i cui possedimenti si estendevano ben oltre i suoi confini geografici, in Europa e nel resto del mondo, e che era amministrato da una complessa macchina burocratica e tenuto insieme da un costosissimo apparato militare; questa onerosa struttura statale, si sosteneva precariamente su un impianto economico ancora di tipo feudale, incentrato sull’agricoltura e l’allevamento, nel quadro di un modello sociale in cui l’aristocrazia di sangue, con i suoi privilegi, impediva lo sviluppo di una classe borghese dedita ad attività mercantili e manifatturiere. A fronte di una economia debole arretrata, il debito pubblico era elevatissimo, e la Spagna era quindi un paese fortemente esposto con i grandi banchieri europei, oltre ad avere una bilancia commerciale squilibrata, per le importazioni di merci fabbricate all’estero, di miglior qualità e di minor costo, rispetto a quelle prodotte in loco. In questo contesto l’afflusso di una gran quantità di oro e argento, che fece lievitare in Europa la circolazione del 3-400%, determinò un aumento dell’inflazione, che mise in crisi la già debole economia spagnola. In assenza di una classe imprenditoriale, l’oro americano finì in larga misura nelle tasche di quella aristocrazia feudale parassitaria, che piuttosto che reinvestirla in modo produttivo, la utilizzo per so-
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stenere il proprio elevato standard di consumi. L’altra parte delle risorse finì nelle casse dello stato, per il mantenimento del proprio oneroso apparato burocratico-militare e soprattutto per il pagamento del debito pubblico. Le importazioni continuarono a crescere, così come il debito pubblico, in un vortice avvelenato, in cui la crescita della domanda, alimentava l’inflazione, che a sua volta aggravava l’indebitamento; il sistema si manteneva solo attraverso l’imponente flusso di metalli preziosi che giungeva dal Messico e dal Perù, ma neanche questa risorsa potè impedire che in più occasioni, nella seconda metà del ‘500, la Spagna fosse costretta a dichiarare fallimento davanti ai propri creditori. Gli Spagnoli che per gli errati calcoli di un genovese, s’erano trovati in mano una ricchezza inimmaginabile, non possedevano la struttura economica e produttiva per usare tale ricchezza come un moltiplicatore economico; a partire dal ‘600 il ruolo della Spagna in Nord America si farà Il banchiere tedesco Jacob Fugger, grande finanziatore di Carlo V progressivamente più marginale, mentre altre nazioni europee nello stesso periodo si sarebbero spartite le risorse di quell’immenso territorio su cui altri per primi avevano vantato pretese. A far emergere le nuove potenze coloniali, fu paradossalmente proprio l’oro americano che gli Spagnoli avevano dilapidato, e che in varie forme andò ad arricchire le elites finanziarie e mercantili dei paesi con una economia più forte ed una manifattura più sviluppata, che prestavano soldi al governo spagnolo o esportavano in Spagna con lauti proventi. Non va poi dimenticato che per tutto il ‘500 le navi spagnole che portavano le ricchezze americane in patria, e le stesse città coloniali, furono sottoposte ai continui attacchi di corsari e pirati Inglesi, Francesi e Olandesi, alcuni dei quali come Francis Drake o John Hawkins, lavoravano alle dirette dipendenze del loro sovrano; le ricchezze che pirati e corsari sottrassero alla Spagna con le loro attività non sono quantificabili, ma furono sicuramente immense. In modi diversi l’oro americano, divenne così una risorsa proprio per le nazioni rivali della Spagna, come Francia e Inghilterra, o per quei Paesi Bassi, su cui la corono di Spagna esercitava un dominio sempre a rischio per le pulsioni indipendentiste locali. Queste tre nazioni saranno di fatto le protagoniste della vera e propria colonizzazione del Nord America nel secolo successivo, una colonizzazione che sarà conseguenza proprio della crescita dell’economia, e dei conflitti e degli squilibri che tale crescita produceva. Dall’opportunità di aprire nuovi mercati per la propria produzione manifatturiera, a quella di acquisire materie prime per quella stessa produzione, fino alle possibilità di gestire le tensioni sociali, attraverso la valvola dell’emigrazione, la relazione economica tra Vecchio e Nuovo Mondo, si sarebbe fatta più integrata e complessa, che non la semplice dinamica predatoria, che aveva caratterizzato l’iniziativa spagnola nel corso del ‘500. In Europa di fatto la scoperta del Nuovo Mondo garantì le risorse necessarie per quella trasformazione economica e sociale, già in atto da almeno due secoli, che vide finire la vecchia società feudale, in favore di un modello più adatto allo sviluppo dei processi e delle forze produttive; un processo che dopo la scoperta dell’America andrà avanti speditamente, trasformando l’Europa nell’area economica più sviluppata e trainante del mondo. L’oro americano che gli Spagnoli “distribuirono” in Europa, rappresentò un immensa iniezione di liquidità, in una economia già in fase di veloce trasformazione in senso capitalistico. Il “conquistador”, l’avventuriero, il cavaliere, espressioni di una Europa medievale che poneva la spada a fondamento del suo potere, che erano stati i primi protagonisti nel Nuovo Mondo, con il loro successo, ponevano le premesse per la fine della società di cui era espressione. L’Europa che si affaccerà al Nuovo Mondo nel secolo successivo, avrà altri protagonisti, vedrà agire nuovi soggetti sociali e il Nuovo Mondo
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stesso, sarà il contesto in cui queste nuove forze sociali potranno esprimersi liberamente, senza i vincoli e i retaggi di un medioevo, di un’aristocrazia, di un pensiero religioso, che ne potessero limitare il pieno sviluppo. Così il capitalismo che in Europa era il frutto di molecolari e secolari trasformazioni sociali, in America fecondò una terra vergine, in cui L’oro americano per secoli fu l’obbiettivo di pirati e corsari, originari di paesi nemici della Spagna non troverà ostacoli. A parte gli indiani. Nel ‘500 ad esclusione del Messico, il rapporto tra nativi ed Europei era stato episodico ed occasionale, spesso caratterizzato da esplicita e reciproca ostilità. A parte le spedizioni di Hernando de Soto e Francisco Coronado, e i viaggi di Cartier, i cui contatti con gli indiani si erano protratti per qualche anno, gli altri tentavi di insediarsi in Nord America erano stati pochi e di breve durata. Malgrado ciò l’impatto di quei pochi bianchi, era stato tale da modificare radicalmente la storia delle regioni interessate dal contatto. Nel Sud-Est, le terre visitate da De Soto, i potentati teocratici della cultura Mississipi, che erano sfuggiti alla crisi che già da un secolo colpiva i centri cerimoniali più a nord, furono quasi certamente piagati dal trauma delle malattie importate dagli Europei, e in conseguenza di ciò all’inizio del ‘600 di essi non rimaneva quasi nulla. Tra i Pueblo del Sud-Ovest, anch’essi colpiti da una fase di decadenza a partire dal ‘400, l’impatto con gli Spagnoli fu probabilmente meno distruttivo, ma la loro presenza si faceva pressante e preoccupante sui confini meridionali della regione, dove i cacciatori di schiavi spagnoli operavano stabilmente. Sul San Lorenzo un’intera regione era ormai disabitata dopo il contatto con gli Europei, mentre i primi conflitti tribali, legati al controllo delle prime merci europee, davano il via ad un ciclo di guerre indiane distruttive, che sarebbe durato almeno tutto il secolo successivo. Queste erano solo le prime conseguenze dei primi limitati contatti, ma con l’inizio del secolo successivo i bianchi si sarebbero presentati a migliaia, non più avventurieri in cerca di oro, ma coloni, agricoltori, mercanti, artigiani, uomini e donne spesso senza altra alternativa che non il giocarsi il tutto per tutto, in una terra ignota, disperati ed entusiasti, idealisti o privi di scrupoli, tutti però convinti che la terra su cui si insediavano era loro per diritto, il diritto derivante dall’appartenere ad una civiltà superiore, più evoluta e produttiva. Iniziava la colonizzazione… e quattro secoli di guerre.
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INDICE
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Sudditi dell’Impero.......................................................................................................................pag. 5 L’ANTEFATTO.........................................................................................................................pag. 7 I nomadi del mare.........................................................................................................................pag. 7
I Vighinghi nel Nuovo Mondo....................................................................................................pag. 9 La “scoperta” dimenticata.........................................................................................................pag. 11 GLI SPAGNOLI NEI CARAIBI.......................................................................................pag. 15 Il primo viaggio di Cristoforo Colombo..................................................................................pag. 15 I fratelli Colombo a Hispaniola................................................................................................pag. 19 Nicolas de Ovando: la conquista di Hispaniola.....................................................................pag. 23 La guerra a Puerto Rico..............................................................................................................pag. 27 I Caraibi Spagnoli: Enriquillo e Barlomè de las Casas.........................................................pag. 32 FLORIDA: LA TERRA OSTILE.......................................................................................pag. 36 I popoli della Florida..................................................................................................................pag. 36 Ponce de Leon in Florida............................................................................................................pag. 40 Vasquez de Ayllon e il primo insediamento in Nord America..............................................pag. 42 La disastrosa spedizione di Pamfilo de Narvaez...................................................................pag. 45 Hernando de Soto tra i Popoli del Mississipi.........................................................................pag. 50 Attraveso la Florida..........................................................................................................................pag. 51 Il Figlio del Sole ...............................................................................................................................pag. 54 Sangue e fuoco a Mabila....................................................................................................................pag. 59 Il Grande Fiume................................................................................................................................pag. 63 Verso le Grandi Pianure.....................................................................................................................pag. 67 In fuga sul Mississipi........................................................................................................................pag. 70 Ancora fallimenti: Luis de Cancer e Tristan de Luna.............................................................pag. 73 Gli Spagnoli in Florida: ragione del fallimento e conseguenze per gli indiani..................pag. 76 MESSICO SELVAGGIO......................................................................................................pag. 80 La Gran Chichimeca....................................................................................................................pag. 80 Il detestabile Nuno de Guzman apre la via del nord.............................................................pag. 82 Cabeza de Vaca: da naufrago a shamano................................................................................pag. 85 Francisco Vasquez de Coronado: l’ultimo “conquistador”...................................................pag. 89 Cibola..............................................................................................................................................pag. 92 Xuaian e la Guerra dei Tiwa..............................................................................................................pag. 95 Quivira e le Grandi Pianure...............................................................................................................pag. 97 Ritorno amaro.................................................................................................................................pag.100 Lo Stretto di Anian e la leggendaria California....................................................................pag.101 La Guerra di Mixton...................................................................................................................pag.105 La Guerra dei Chichimechi........................................................................................................pag.108 Quarant’anni di guerra.....................................................................................................................pag.110 La pace: una questione di bilancio.....................................................................................................pag.114 Francisco de Ibarra e Luis de Carvajal: il giovane esploratore e il cacciatore di schiavi.pag.117 Ritorno tra i Pueblo...................................................................................................................pag.120 La Croce oltre la Spada.............................................................................................................pag.125 LA ROTTA DEL NORD.....................................................................................................pag.130 La nascita delle potenze coloniali...........................................................................................pag.130 Il Passaggio a Nord-Ovest........................................................................................................pag.132 Jacques Cartier e i diamanti del Canada................................................................................pag.137 Il primo contatto e le guerre tribali.........................................................................................pag.142 L’ORO AMERICANO.........................................................................................................pag.145