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Costruzione sociale e rottura politica nella crisi del capitalismo europeo


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ROTTURA POLITICA E COSTRUZIONE SOCIALE NELLA CRISI DEL CAPITALISMO EUROPEO

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PREMESSA..........................................................................................pag.3 SULL’EUROPA...................................................................................pag.9 L’Europa coma luogo di contraddizione tra il massimo di aspettative sociali e di posibilità di sviluppo umano e i limiti strutturali del capitalismo: la rivoluzione come necessità storica....................................................................................pag.9 La distruzione delle forze produttive come necessitò del capitalismo europeo: l’atto di rottura come premessa a una nuova fase della costruzione in Europa...................................pag.12 Il rigore e la crescita: l’Europa tra egemonia tedesca e dissoluzione..........................................................................................pag.19 SULL’ESPERIENZA GRECA............................................................pag.28 Premessa ad una riflessione sull’esperienza greca.......................pag.28 L’esperienza greca come spartiacque storico: il tema della rottura politica..............................................................pag.35 L’esperienza greca come spartiacque storico: il tema della costruzione sociale.......................................................pag.38 La rottura del nesso tra istituzioni e società: l’anello debole delle strategie di gestione della crisi del capitalismo europeo......................................................................pag44 SUL POPULISMO...............................................................................pag.50 La natura di classe del populismo....................................................pag.50 Sinistra di classe e populismi............................................................pag.54 Populismi e rottura politica...............................................................pag.58 SUL SOGGETTO DI CLASSE..........................................................pag.64 La distruzione della soggettività di classe......................................pag.64 L’esaurimento della strategia di unificazione della sinistra.......pag.69 Costruzione sociale e rottura politica nella ricostruzione di un soggetto di classe....................................pag.74 CONCLUSIONI...................................................................................pag.79


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PREMESSA In questo scritto sono proposte una serie di riflessioni su temi che in buona misura esulano da quelle che sono le questioni oggi più discusse all’interno del Partito: solo marginalmente si affronta il tema divisivo della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra, ne si entra nel merito della questione “euro si, euro no”, ne tanto meno si approfondisce il tema di come rilanciare il Partito. Il presupposto di queste riflessioni è che i temi sui quali si scontano tante divisioni nel Partito, siano solo la cresta schiumosa e visibile, di un problema più profondo, che è quello dell’assenza di chiarezza e condivisione, su alcuni grandi temi sottostanti e determinanti, nella definizione di una strategia politica. Questa mancata condivisione o chiarezza, sta divenendo elemento pregiudizievole per la vita del Partito, per la sua coesione interna, per la sua azione esterna, e per le stesse ragioni di militanza per molti compagni, compreso il sottoscritto, che milita da sempre in questo Partito, e che insieme a tanti altri compagni ha contribuito a fondarlo. Le ragioni di militanza infatti non stanno ovviamente nell’adesione ad una linea, dato che in un Partito si può militare pur non condividendo una linea, e contrastandola con modalità costruttive, ma nell’adesione ad un indirizzo strategico, ad una visione della fase storica, ad un orizzonte ampio. E proprio questo indirizzo strategico, questa visione della fase storica, questo orizzonte ampio, sono stati mesi alla prova a partire dall’inizio della fase acuta della crisi del capitalismo europeo, e in particolare in questi ultimi tre anni, che casualmente hanno coinciso con il mio impegno di direzione nella Federazione di Roma.


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Così propongo questa serie di riflessioni su tre elementi che producono il nuovo scenario del nostro agire: la crisi del capitalismo europeo, il fallimento dell’esperienza greca, l’emergere dei movimenti populisti. A questi tre elementi, aggiungo una quarta serie di riflessioni, sul tema della destrutturazione del soggetto di classe, un tema questo non nuovo, ma che proprio per l’accentuarsi della crisi, oggi si manifesta in modo dirompente, impedendoci quell’opera di rimozione, che di fatto abbiamo praticato in questi decenni. Sottopongo quindi a chi potrà essere interessato queste mie riflessioni, non certo per avanzare una definita proposta politica, ne tanto meno sperando di condizionare il dibattito congressuale, le cui dinamiche temo che siano in larga misura già prevedibili, quanto per comprendere se, all’interno del Partito, ci sono gli interlocutori, con cui condividere un comune spazio di elaborazione e ricerca, la sperimentazione di determinate pratiche, e soprattutto il piacere e la soddisfazione di quell’impegno collettivo, senza il quale la politica perde di senso. P.S. Mi scuso anticipatamente per la pochezza, i limiti, le inesattezze o le eventuali castronerie che possono essere presenti in questo scritto. Se mi espongo, lo faccio nella convinzione che il diritto di parola di un militante politico, sia direttamente proporzionale al suo impegno, piuttosto che alla sua preparazione... e sotto questo punto vista, tale diritto penso di essermelo guadagnato.


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SULL’EUROPA L’EUROPA COME LUOGO DI CONTRADDIZIONE TRA IL MASSIMO DI ASPETTATIVE SOCIALI E DI POSSIBILITA’ DI PROGRESSO UMANO, E I LIMITI STRUTTURALI DEL MODELLO CAPITALISTICO: LA RIVOLUZIONE COME NECESSITA’ STORICA La forza del capitalismo, la sua capacità di imporsi come modalità di relazione tra individui e collettività a livello mondiale, può essere definita a partire dalla sua capacità di mettere in stretta relazione lo sviluppo delle forze produttive e la valorizzazione del capitale, producendo così una relazione di reciproca necessità, tra l’attivazione delle forze sociali collettive, e l’interesse individuale e privato. Questo processo ha dato luogo al prodursi di immensi eserciti di salariati a livello mondiale, unificando la condizioni di centinaia di milioni di individui, di cultura, lingua e religione diversa, ha tratto interi popoli da una condizione di relativa staticità economica e culturale, per inserirli nella corsa frenetica alla produzione e al profitto, ha costruito reti infrastrutturali a livello planetario, ha prodotto la più grande circolazione di merci, capitali e informazioni a livello mondiale mai immaginata, ha determinato un’esplosione demografica ormai fuori controllo, ha trasformato l’intero pianeta in un immenso e frenetico apparato produttivo, ha fatto nascere e fa crescere in miliardi di persone, aspettative di cambiamento e miglioramento delle proprie condizioni di vita, o quantomeno delle proprie possibilità di accesso ai consumi, ha cambiato i costumi sessuali, distrutto certezze religiose e morali, prodotto una nuova divinità, il denaro. Questo processo, ha attivato forze produttive immense, finalizzandole alle necessità di valorizzazione del capitale, e costruendo su tale necessità, un’ideologia egemonica a livello planetario, quale nessuna religione è mai stata in grado di produrre; questo processo che è iniziato in Europa otto secoli fa con le prime corporazioni, i comuni e l’economia mercantile, proprio qui in Europa sembra ormai stagnare. In quest’Europa, laddove il capitalismo, contando sul controllo delle risorse mondiali, e obbligato dalla necessità di misurarsi con un esperimento alternativo, quale quello nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, aveva trovato la sua espressione


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più avanzata, e attraverso il debito pubblico, l’intervento statale in economia e un evoluto sistema di welfare, era riuscito a gestire le crisi cicliche prodotte dai suoi spiriti animali, cooptando contestualmente l’interesse del lavoro a quello del capitale, nel quadro di una mediazione sociale, basata sul binomio di democrazia e crescita economica. In quest’Europa in cui proprio il binomio di democrazia e crescita economica, ha dato vita alla più significativa crescita delle aspettative sociali e della coscienza collettiva, dove la sanità, l’istruzione, il benessere e la qualità della vita sono stati per decenni considerati diritti acquisiti, dove l’aspirazione alla pace e alla convivenza civile, l’eguaglianza tra uomo e donna e il rispetto dei diritti del diverso, hanno raggiunto livelli ignoti in gran parte del mondo, in quest’Europa che ha considerato normale il superamento delle frontiere e ha costruito, dopo due devastanti conflitti mondiali, un sentimento di comune appartenenza quale mai s’era prodotto nella storia passata. In quest’Europa in cui lo sviluppo delle forze produttive, intese in senso ampio, come la complessità delle energie sociali attivabili, e la loro potenzialità di produrre una nuova e più avanzata modalità di relazioni sociali, frutto di un livello di conoscenza e di una cultura condivisa, che è stata il portato delle necessità stesse dei processi di valorizzazione del capitale, che ad un elevato livello di sviluppo, hanno determinato produzione di massa, scolarizzazione di massa, comunicazione di massa, consumi di massa, cultura di massa. In quest’Europa che proprio per questo possiamo considerare uno dei punti alti dello sviluppo capitalistico, tale sviluppo pare essersi interrotto, ristagnare, arretrare, mentre una grande quantità di risorse umane e potenzialità produttive rimangono inespresse o sono addirittura distrutte, e quelle dei migranti che vi giungono, in fuga da un mondo in cui la frenesie dell’accumulazione capitalistica, produce guerre e distruzioni, sono l’occasione per l’emergere di fantasmi di barbarie medievale, di cui forse troppo in fretta avevamo pensato di esserci liberati. Questa è l’Europa che dopo essere stata il centro di propulsione di un modello economico e sociale che si è imposto per secoli, e dopo essere stato, negli ultimi decenni uno dei due principali mercati, per una produzione organizzata su scala planetaria, oggi, con la sua stagnazione economica, la tendenziale instabilità delle sue istituzioni sovranazionali, il suo progressivo ritrarsi rispetto ai livelli di civiltà e integrazione sociale raggiunti, appare essere il grande malato del ca-


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pitalismo mondiale, il punto debole di una crisi del capitalismo che in altre aree del mondo ha ancora significative risorse su cui puntare, mentre qui punta a sopravvivere tra le contraddittorie scelte di improbabili e inadeguate iniezioni di liquidità da parte della BCE, e assurde politiche di rigore imposte dalla Germania. E questo a fronte della possibilità di un pieno dispiegarsi delle forze produttive, con il rilancio della piena occupazione a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro, con l’innovazione tecnologica che a partire dalle tecnologie robotiche, informatiche, fino alle nuove frontiere della stampa in 3D, può rendere il lavoro infinitamente più produttivo, con la ricerca in ambito energetico, che attraverso le rinnovabili può liberare il lavoro umano dal ricatto imposto dai cartelli petroliferi e dai vincoli imposti dalla limitazione delle risorse, che coniugando conoscenza scientifica e nuova sensibilità ambientale, può rilanciare una produzione agroalimentare di qualità, che interrompa il meccanismo infernale e interconnesso dell’agricoltura estensiva e dell’allevamento intensivo, che stanno distruggendo l’ambiente a livello planetario. E questo a fronte di un contesto sociale e culturale, che è il più avanzato, e quindi il più adatto a misurarsi con le sfide di un nuovo modello economico e sociale, un contesto che è il frutto stesso dello sviluppo del capitale, e che dialetticamente, è fisiologicamente predisposto per la messa in discussione di quello stesso modello di relazioni prodotte dal capitale, le cui necessità di valorizzazione si pongono come un limite allo sviluppo. E’ in questa crisi europea, emblema dei limiti strutturali del capitalismo, e dagli esiti ancora ignoti e tendezialmente catastrofici, che i comunisti devono fare una scelta netta e senza ambiguità, tra due diverse prospettive: puntare sulla contraddizione tra le aspettative sociali, che il capitalismo stesso, nel suo sviluppo, ha portato ad un livello mai così avanzata, e il modello di relazioni sociali basate sul profitto, che a tali aspettative sociali non è più in grado di dare risposte, correndo tutti i rischi connessi a questa ipotesi, oppure tentare di gestire e limitare i danni di tale irrisolvibile contraddizione, accompagnando il lento ma progressivo processo di distruzione di tali aspettative sociali, fino al punto che esse non si riducano, giungendo ad un livello di compatibilità e di equilibrio, con le ridotte potenzialità di un capitalismo europeo condannato al declino, nella competizione globale. Per quest’ultima ipotesi, la strada è nota e certa, l’abbiamo già a lungo seguita,


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nella convinzione di evitare incognite, rischi e salti nel buio, senza aver chiaro dove ci portava, nelle speranza che il solo fatto di camminare servisse ad avvicinarci alla metà, contando sulle antiche certezze che ormai la crisi ha travolto, e alla fine dimenticando la stessa meta, sostituita con una serie di tappe, ognuna delle quali serviva solo a certificare la nostra esistenza in vita, lungo un percorso di progressiva dissoluzione. Per l’altra ipotesi, serve qualcosa che non abbiamo, una strategia della trasformazione rivoluzionaria, di cui fino ad oggi abbiamo pensato di poter fare a meno, nella fase espansiva del II dopoguerra, quando lo sviluppo del capitale, lasciava ampi margini al miglioramento delle condizioni di classe, senza la necessità di forzare il quadro di compatibilità del sistema. E abbiamo poi continuato a farne a meno, quando a partire dalla fine degli anni ‘70, ci siamo limitati a difendere quella rendita di conquiste sociali della fase precedente, fino a dover prendere atto che quella che a noi sembrava una battaglia difensiva, era di fatto, una capitolazione contrattata. Oggi che abbiamo ben poco da difendere, e che non possiamo affidarci alla capacità propulsiva di un capitalismo europeo in crisi, per immaginare una prospettiva di miglioramento della classe, o ci misuriamo con il tema della costruzione di una strategia rivoluzionaria, o faremmo meglio a prendere atto dell’inutilità del dirci comunisti. LA DISTRUZIONE DELLE FORZE PRODUTTIVE COME NECESSITA’ DEL CAPITALISMO EUROPEO: L’ATTO DI ROTTURA, COME PREMESSA AD UNA NUOVA FASE DI COSTRUZIONE IN EUROPA Il quadro generale in cui collocare una strategia di trasformazione sociale, è quello di una crisi del capitalismo occidentale, in cui i processi di valorizzazione del capitale, non si accompagnano più allo sviluppo delle forze produttive, così come era stato per decenni dopo il II conflitto mondiale. Il modello keynesiano che nel II dopoguerra attraverso la crescita salariale e il welfare state, aveva garantito coesione sociale e consenso al modello capitalistico occidentale, alla metà degli anni ‘70, dopo la fine degli accordi di Bretton Woods sulla riconvertibilità del dollaro in oro, e la successiva e conseguente crisi petrolifera, si dimostra insostenibile e inadeguato a garantire sufficienti livelli di valorizzazione all’investimento di capitale. Inizia allora la crisi capitalistica, che con diverse fase è oggi ancora in corso e forse, in Europa, in fase


terminale.

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Alla crisi capitalistica iniziata alla metà degli anni ‘70, il capitale ha trovato una sua prima soluzione, in tre fattori: a) la sconfitta politica del movimento operaio e la conseguente riduzione di salario, welfare e garanzie del lavoro; b) l’innovazione tecnologica legata alla rivoluzione informatica, che ha ridotto costi di produzione e aperto nuovi mercati; c) i processi di globalizzazione, resi possibili sul piano tecnico dalla rivoluzione informatica, che hanno permesso l’accesso ad una gran mole di forza lavoro a basso costo, in tutto il mondo; Grazie all’implementazione di tali fattori il capitale rinnova le sue capacità espansive, producendo un’offensiva economica e politica, nei confronti del blocco sovietico, che nel corso di un decennio porta alla dissoluzione tale blocco, risolve il bipolarismo economico e politico che aveva condizionato e limitato le potenzialità espansive del capitale, apre ad altri immensi mercati, dando vita al pieno dispiegarsi della globalizzazione capitalistica. In questa modalità, il capitalismo occidentale, recupera un saggio di profitto adeguato, dopo un processo di tendenziale caduta nel corso degli anni ‘70. Ma le soluzioni avanzate hanno però prodotto nuovi problemi: a) la tendenziale compressione dei mercati in Occidente, dovuto al ridursi complessivo del monte salari; b) il progressivo emergere di nuove potenze economiche e industriali a livello globale, che sono i giganti produttivi del futuro. Ciò ha messo in atto dinamiche di sovrapproduzione a livello mondiale, una sovrapproduzione che pesa in particolar modo sui mercati già tendenzialmente saturi dell’Occidente. Di fatto la globalizzazione, che è necessaria allo sviluppo del capitale, pone le condizioni per la crisi di quel modello capitalistico, che aveva storicamente avuto il suo centro in Europa. L’Europa e l’Occidente cessano di essere il luogo a cui tutte le risorse planetarie tendono, per poter essere usate in base alle potenzialità produttive e di consumo, e si trovano ad essere la parte meno dinamica di un’esplosione produttiva incontrollata, determinata sostanzialmente dalle di-


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namiche di domanda e di offerta su mercati vergini e immensi. Gli stati occidentali, che nel modello capitalistico keynesiano, con il debito pubblico, erano in grado di sostenere il rapporto di domanda e offerta sui mercati occidentali, grazie al controllo politico-militare che esercitavano sul resto del pianeta, diventano inadeguati a sostenere tale rapporto in un mondo multipolare in cui il predominio economico, politico e militare dell’Occidente non è garantito. La crisi di sovrapproduzione sui mercati globali, non può essere gestita con il trasferimento di processi distruttivi al di fuori del contesto europeo. A tale crisi di sovrapproduzione si è quindi risposto, con il sostegno ai mercati interni in Occidente, attraverso la crescita del debito privato, allargando così la potenzialità di consumo, non attraverso la crescita dei redditi, ma della possibilità di indebitamento, aprendo così contestualmente ad una nuova potenzialità di valorizzazione del capitale in ambito finanziario. Negli stessi anni, l’imposizione agli stati di finanziarsi sul mercato privato, perdendo il controllo delle banche centrali, ha trasformato la stessa spesa pubblica e il welfare, che sono una quota di salario sociale, in opportunità di valorizzazione del capitale finanziario, con la conseguenza di una crescita esponenziale del debito pubblico, a partire dalla fine degli anni ‘70, su cui i governi nazionali hanno cessato di avere ogni controllo. Di fatto si sono ridotti i redditi, sostituiti dalla possibilità di indebitamento privato, e si è sottoposta la spesa pubblica, (e la quota di salario sociale che in essa vi è), ai ricatti della finanza privata, che aumentando gli interessi, ha prodotto l‘esplosione fuori controllo del debito pubblico. La sovrapproduzione di merci, si è così trasformata in sovrapproduzione di capitale finanziario. Questa la condizione che ha prodotto il processo di finanziarizzazione ormai fuori controllo, e a cui a partire dagli anni ‘90, si è tentato di rispondere con le politiche di rigore. Questa la risposta alla crisi di sovrapproduzione in Occidente, ed in particolare in Europa. A livello globale, la risposta è stata più naturale e più equilibrata, laddove a fronte dell’emergere di nuove immense potenzialità produttive, e di nuove po-


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tenze economiche, contestualmente si producevano nuovi mercati, con l’accesso ai consumi di grandi masse di popolazione in Cina, in India, in Estremo Oriente, in Sud America, in Sud Africa, in Europa Orientale, masse un tempo marginali nel ciclo di produzione del capitale prima della globalizzazione, ed oggi sempre più integrate in esso. Ma proprio l’aprirsi di questi immensi nuovi mercati, che a livello globale rappresentano una grande opportunità di rigenerazione del sistema capitalistico, producono un ulteriore elemento di crisi per il capitalismo occidentale ed Europeo in particolare. Se infatti è il mercato a definire il prezzo e il valore delle merci, ciò che è accaduto nel corso di questi decenni, è che sono stati i mercati globali a definire prezzi e valori e, a partire dal minor costo della forza lavoro, hanno colpito la capacità produttiva dell’Europa e dell’Occidente, obbligato a confrontarsi con una concorrenza al ribasso, che diventa insostenibile senza una riduzione sostanziale dei costi di produzione ed in particolare del costo della forza lavoro, e dello stesso debito pubblico degli stati, che attraverso l’imposizione fiscale, grava sui costi di produzione in Europa. L’investimento produttivo in Europa e in Occidente, o sopravvive in nicchie di mercato nella stessa Europa e Occidente, mercati che vanno in ogni caso sostenuti con politiche espansive, e che comunque subiscono l’aggressione dei concorrenti globali, oppure è in grado di competere sui mercati globali, accettando la sfida con i propri competitori, a partire dalla svalorizzazione del lavoro e dalla distruzione di tutti gli elementi che in Occidente, ne determinano la riproduzione (salario, diritti, welfare). A fronte di questa difficoltà di valorizzazione del capitale nell’investimento produttivo in Europa, e Occidente, l’esito è stato un ulteriore incentivo alla fuga dei capitali verso l’investimento finanziario: così l’apertura di nuovi mercati a livello globale, si è tradotto in un ulteriore elemento di criticità a livello europeo. E’ in questo quadro che va collocato, a partire dagli anni ‘90, il definirsi del progetto di unificazione europea, come tentativo del capitalismo europeo, di rispondere alla crisi indotta dalla globalizzazione, attraverso una maggiore integrazione economica e politica. Gli Stati Uniti, l’altro polo dell’economia occidentale, essendo già un’unica entità statale, affronta il problema della com-


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petizione globale, attraverso una strategia di guerra (iniziano le Guerre del Golfo). D a subito l’impegno della nascente governance europea è dare risposta a due domande: a) come ridurre l’impatto del debito pubblico degli stati sull’economia europea; b) come ridurre il costo del lavoro a livelli sempre più vicini a quelli del costo del lavoro medio a livello globale. Queste sono le condizioni inderogabili, perchè il capitalismo europeo, possa sostenere la competizione a livello globale, richiamando contestualmente all’investimento produttivo, l’immensa quota di capitale investito nella finanza, e che attualmente si valorizza attraverso il debito. Perchè ciò sia possibile, è necessaria una immensa opera di distruzione di reddito, diretto e indiretto (welfare pubblico), determinando una sostanziale regressione del sistema Europa, per adattarsi ai parametri imposti dal capitalismo globalizzato. Contestualmente è necessaria la messa a reddito di quei bisogni sociali, che lo stesso welfare aveva prodotto e a cui aveva dato risposta, attraverso le privatizzazioni di servizi pubblici e beni comuni, trasformando la spesa pubblica in ulteriore terreno di valorizzazione del capitale. Per la realizzazione di questi due obbiettivi, necessaria è una riduzione della partecipazione democratica nelle scelte, e quindi la tendenziale sostituzione dei governi nazionali, vincolati al consenso democratico, con una governance sovranazionale, svincolata da ogni controllo democratico. Di fatto la costruzione europea, è la risposta alla crisi di un modello, la cui crescita produttiva complessiva, si scontra con i limiti di una competizione globale che non garantisce adeguata profittabilità del capitale, e dopo essere stata sostenuta dalla droga del debito e delle finanziarizzazione, non può più mantenersi se non nel quadro di un superamento stesso del sistema del profitto e della rendita. Rendita e profitto, gravano in modo insostenibile sulla riproduzione delle forze produttive in Europa, forze produttive che per qualità e quantità sono ai livelli più avanzati a livello globale. Ma tale ipotesi ovviamente non rientra nell’agenda delle istituzioni europee, per le quali l’unica possibilità di riattivazione dei meccanismi della crescita, può


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darsi solo attraverso un passaggio distruttivo delle stesse forze produttive.

Il mantenimento e il rafforzamento del welfare europeo, il più avanzato a livello globale, e dei salari dei lavoratori, tra i più alti a livello globale, sono esiziali per un capitalismo europeo che si misura con il limite storico tra sviluppo delle forze produttive e valorizzazione del capitale. Ciò pone la necessità inderogabile della distruzione delle forze produttive. Per distruzione di forze produttive, non si intende solo la mera distruzione di apparati produttivi, già in corso attraverso i processi deindustrializzazione e delocalizzazione, ma di tutti quegli elementi sottostanti ai processi produttivi, ma senza i quali i processi produttivi stessi, non potrebbero darsi: a) il monte salari complessivo, che sostiene la domanda del mercato interno, che oggi può essere abbattuto, sostituendo i mercati interni col la competizione globale, puntando principalmente sulle esportazioni, e scontando la concorrenza al ribasso sui mercati globali; b) il sistema complessivo del welfare, che negli anni della crescita, ha permesso al capitale di gestire la mediazione sociale con il lavoro, e che in particolare grazie all’istruzione pubblica, ha permesso la disponibilità di una grande massa di forza lavoro qualificata, che oggi è reperibile, con minor costo, a livello globale, sia all’estero, sia all’interno, grazie ai migranti; c) un sistema di infrastrutture principalmente finalizzata all’espansione del mercato interno, che oggi non è più una priorità; d) una sovrastruttura politico-istituzionale, necessaria alla cooptazione di tutti gli interessi sociali, nel quadro degli interessi del capitale, il cui costo è insostenibile e che non è più necessaria, essendo sostituibile da un lato dallo sviluppo dei meccanismi di condizionamento di massa, che rappresentano essi stessi una possibilità di valorizzazione del capitale (televisioni, social network ecc...), invece che un costo, e dall’altro dal riproporsi delle classiche dinamiche repressive, i cui costi sono complessivamente più gestibili. In sostanza potremmo dire che il ruolo del progetto della costruzione europea, è sostanzialmente quello di distruggere l’Europa stessa così come l’abbiamo conosciuta, come punto avanzato dello sviluppo capitalistico e della sua capacità di gestire, in termini di egemonia politica e ideologica, la contraddizione capitale-lavoro, e tutte quelle a essa connesse. A fronte di questa necessaria (per il capitale), opera di distruzione, la possibilità di non veder regredire l’Europa rispetto ai livelli fin qui raggiunti, passa attra-


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verso un’opera di distruzione eguale ed opposta a quella messa in campo dal capitale, contestualmente ad una capacità di costruzione dell’alternativa ad modello di sviluppo capitalistico, ormai strutturalmente esaurito nei suoi punti più alti. In particolare la distruzione dovrebbe operarsi, attraverso la contestazione ed il rifiuto del debito, cioè di quella gran massa di capitale finanziario, che operando come un usuraio, impedisce la riallocazione delle risorse disponibili, nella necessaria ristrutturazione dei processi produttivi. L’Europa dovrebbe usare le sue risorse economiche, finalizzandole alla piena espressione delle potenzialità date dall’innovazione tecnologica, dalla ricerca in ambito energetico, dalla piena occupazione attraverso la riduzione dell’orario di lavoro, dalla soddisfazione della domanda sociale inevasa, da parte di un capitalismo in fase regressiva. Contestare e rifiutare il debito, significa di fatto, distruggere quell’eccesso di capitale finanziario, che pesa parassitariamente sulle possibilità di un nuovo sviluppo dell’economia. In parallelo, va sostenuta la costruzione, a livello sociale, dell’alternativa, a partire dalla valorizzazione delle aspettative sociali più avanzate e coscienti, in merito a temi quali i diritti sociali e i welfare, i diritti e le garanzie del lavoro, la partecipazione e il controllo dei lavoratori nelle scelte economiche e produttive, il consumo critico e cosciente, la sensibilità ambientale, i valori della cooperazione in alternativa a quelli della competizione, la costruzione di circuiti economici alternativi, la partecipazione democratica. Tutti questi temi, sono già presenti nella società e producono un senso comune diffuso, che però non riesce a tradursi in opzione politica e progettualità condivisa, anche per le limitazioni che si presenta come oggettiva, di un sistema incentrato sulla mistificazione della penuria, dell’assenza di risorse, dell’indebitamento, e quindi della paura e della precarietà. Così mentre la distruzione di risorse produttive continua a realizzarsi in modo concreto e costante, per garantire profitti e rendita finanziaria, ogni possibilità di costruzione viene negata a partire dalla mistificazione dell’assenza di risorse. Distruggere profitti e rendita finanziaria è quindi una necessità per riattivare un percorso di costruzione sociale ed economico. La realizzazione di questi due termini, di distruzione e costruzione, come cardini


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di una strategia di trasformazione rivoluzionaria, è imprescindibile da una riflessione sul tema della “rottura”, intesa come disarticolazione e destrutturazione, dei meccanismi politici e istituzionali, che attraverso il concetto di “compatibilità”, impediscono i percorsi di costruzione sociale, e garantiscono la riproduzione di rendita e profitti. La “rottura” è sostanzialmente il momento in cui si libera un processo di costruzione sociale dai vincoli distruttivi del profitto e della rendita, e si sposta nel campo dell’avversario un processo distruttivo di rendita o profitto. In tal senso la “rottura” non è un momento palingenetico di ribaltamento dei rapporti di forza, ma l’atto di una guerriglia politica e sociale, che si attua in ogni momento dello scontro di classe, dall’occupazione di uno spazio pubblico, a un atto di disubbidienza in un Consiglio Comunale, fino alla rottura praticata da un governo nazionale, nei confronti delle istituzioni europee. Per “rottura”, va intesa la piena acquisizione della necessità del capitale, in Europa e in Occidente, di distruggere forze produttive e quindi la comprensione che si è già rotta ogni dialettica di reciproco alimento tra capitale e lavoro. Il capitale sta già praticando la sua strategia di rottura rivoluzionaria, noi ci limitiamo a subirla, senza capirla. L’assenza di una riflessione sul tema della rottura, impedisce anche la semplice espressione di una strategia rivoluzionaria, negando il prodursi di una autonoma iniziativa politica di classe, e consegnando ogni prospettiva politica alla subalternità rispetto ai diversi interessi del capitale, in competizione tra di loro, nella speranza di poter riaprire, con parti di esso, una nuova relazione dialettica. E’ questo il rischio per una Sinistra Europea, priva di una strategia rivoluzionaria, quando solo la rivoluzione, rappresenta una possibilità di uscita dalla crisi regressiva del capitalismo europeo. IL RIGORE E LA CRESCITA : L’EUROPA TRA EGEMONIA TEDESCA E DISSOLUZIONE Assunto che il tema della costruzione europea è il tema della distruzione dell’Europa che conosciamo, è necessario soffermarci su come tale distruzione viene attuata e sulle differenze d’approccio nel capitale europeo e internazionale, nell’attuazione di tale strategia. Tale strategia è incentrata sulle due parole che fanno da cornice ad ogni discus-


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sione sull’Europa e il suo futuro: il rigore e la crescita. E intorno a questa due parole si produce la narrazione ufficiale che ci presenta due impianti e due ricette per dare soluzione alla crisi europea, (cioè per attuare la distruzione del modello sociale europeo). Il primo quello del rigore, chiaramente rappresentato dalla maggiore potenza economica e manifatturiera europea, la Germania, l’altro, quello della crescita, da un complesso di forze che raccoglie la BCE, il FMI, gli Stati Uniti, e i vari interessi economici rappresentati dalle forze del centrosinistra europeo. La vulgata che ci viene presentata dall’informazione ufficiale è abbastanza semplice e chiara: da un lato c’è la cattiva Germania che vuole imporre politiche di rigore, e quindi è contraria alle iniezioni di liquidità, allo sforamento del rapporto tra PIL e debito pubblico, alla ricontrattazione del debito ecc..., dall’altra tutti gli altri che invece puntano alla crescita, e quindi chiedono il sostegno al credito da parte della BCE attraverso l’azzeramento del costo del denaro, maggiore flessibilità nel rapporto tra PIL e debito pubblico, e magari chissà, una qualche possibile ridiscussione del debito nei casi estremi come quello greco. Alla luce di questa vulgata, l’immediata e possibile reazione, è che evidentemente le politiche di rigore tedesche sono irrazionali e dettate al massimo da un retrivo egoismo, mentre invece quelle che mirano alla crescita sono più razionali, e soprattutto offrono maggiori margini anche alla riapertura di una fase con caratteristiche simili a quella precedente, quando la crescita economica era il volano per la crescita democratica, e tutte e due insieme costituivano le condizioni, per un avanzamento della classe. Quindi, sulla base di un simile schema, nella contraddizione tra una Germania retriva, rigorista e egoista, e il resto del capitalismo occidentale, un po’ più di manica larga, doveroso diverrebbe l’appoggio, o quanto meno l’attenzione verso quelle forze del socialismo europeo, che si oppongono all’impianto tedesco, e che sono i referenti privilegiati di BCE, e FMI e Stati Uniti. Questo è uno schema di ragionamento tradizionale, il cui esito finale è quello della costruzione di ampie alleanze contro le politiche di rigore, puntando anche al coinvolgimento dei settori meno compromessi dei vecchi partiti socialisti europei. Ovviamente tale schema cessa di essere coerente, quando poi si deve fare i conti con il fatto che a chiedere maggiore flessibilità e risorse per la crescita, in Italia è Renzi, in Francia è Hollande, cioè quegli stessi personaggi che hanno fatto dell’attacco al lavoro e al welfare il tratto distintivo della loro politica. E ciò a dimostrazione che anche la bella parola “crescita”, può celere progetti tutt’altro


che condivisibili.

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Sulla base di questa evidente contraddizione è doveroso quindi tentare di capire cosa si cela dietro queste due parole, rigore e crescita, quali diverse visioni e prospettive per l’Europa, quali diverse condizioni (se diverse sono) per la classe, e soprattutto quale tra le due ha maggiori possibilità di realizzarsi. Partiamo dall’ipotesi più semplice, quella rigorista della Germania, dietro alla quale c’è un progetto chiaro e comprensibile di adattamento dell’Europa, al contesto globale. Di fatto dopo la fine del monopolio dell’Occidente sull’economia mondiale, e del suo dominio sul resto del pianeta (esclusi ovviamente i paesi sotto l’influenza sovietica), la relazione tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, che aveva alimentato la crescita economica in Occidente, si è modificata radicalmente. Tale relazione si è pero riprodotta ad un altro livello, all’interno delle nuove macroaree economiche che si sono sostituite al vecchio schema OccidenteTerzo Mondo. Così in ognuna delle aree macroeconomiche, Cina, India, Estremo Oriente, Sud Africa, e in maniera diversa in America Latina, si ripropone il rapporto tra aree poco sviluppate, in cui continuare a rifornirsi di materie prime e forza lavoro a basso costo, e zone in cui si concentrano sviluppo industriale e consumi; di fatto un “terzo mondo interno”, funzionale alla crescita produttiva e alla possibilità di mantenere la competitività della propria produzione sui mercati globali. La Germania si pone di fatto nella stessa dimensione, potendo contare su un “terzo mondo interno” già esistente, che è rappresentato dai paesi dell’Europa orientale, e uno in costruzione, con i paesi mediterranei. E’ evidente che in un progetto di questa natura, il cui obbiettivo è quello di una grande area economica (a guida tedesca), in grado di competere a livello globale, il tema dei mercati interni acquista un valore diverso rispetto ad altri contesti: così se in Cina la costruzione di un mercato interno è necessario, per non dipendere dalle sole esportazioni, e quindi dall’andamento economico di altri paesi, in Europa si può mettere nel conto la parziale depressione del mercato interno, comunque rilevante, a fronte della crescita su nuovi mercati, come quelli dell’Europa orientale, che per la Germania è un nuovo mercato interno, e soprattutto della riconquista della concorrenzialità sui mercati globali.


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In tal senso l’apparente irrazionalità delle politiche tedesche, che sembrano non curarsi della crescita, segue la razionalità di un progetto che ha preso atto dei limiti obbiettivi della crescita basata principalmente sui mercati interni, come era stato nel II dopoguerra, e forte di un grande potenziale industriale, essendo la prima economia manifatturiera d’Europa, tenta di raccogliere e guidare le intere risorse del continente, nello scontro economico tra grandi potenze planetarie. Un progetto lucido, lungimirante, e soprattutto coerente con la cultura e la storia politica di questo paese. Sull’altro versante, si colloca più che un progetto o una visione, una serie di interessi diversi, spesso parziali e limitati, o subalterni a visioni e necessità esterne al contesto europeo, tutte però riunificate dalla comune necessità di tenere in piedi un mercato europeo, necessario a quei settori produttivi inadeguati a competere a livello globale, a tutti gli interessi comunque legati alla spesa pubblica, e a tutti gli interessi finanziari che vivono e si alimentano della crescita dell’indebitamento complessivo. A ciò vanno aggiunti gli interessi degli Stati Uniti, e anche di altre potenze economiche planetarie, che senza il mantenimento di un importante mercato europeo, possono avere ripercussioni sulle loro esportazioni e sulla loro economia, con conseguenze gravi sulla stabilità e la crescita dell’economia mondiale. Questi interessi diversi, si sono mossi a partire dagli anni ‘90, su un piano contraddittorio, ma per un lungo periodo efficace, in cui le politiche di rigore sono state usate per come una clava per la riduzione progressiva del monte salari e del welfare, con l’obbiettivo di ripristinare un adeguato saggio di profitto e la concorrenzialità a livello globale, senza mettere in discussione gli interessi consolidati. Ciò è stato possibile attraverso ridefinizione della crescita del debito, non più finalizzata alla spesa sociale e al welfare, in costante riduzione, ma al finanziamento del mercato interno, della rendita finanziaria e immobiliare, e della spesa pubblica parassitaria, legata al malaffare e alla corruzione: il contrario esatto del rigore applicato ai lavoratori. Tale impianto ha avuto un limite con la crisi finanziaria del 2008, quando si è reso evidente che la crescita fuori controllo dell’indebitamento pubblico e privato, e dell’economia finanziaria senza una corrispondente base produttiva, dava luogo a squilibri ingestibili.


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Una soluzione a tali squilibri non è stata trovata, e se gli Stati Uniti, forti anche del loro potenziale militare, hanno potuto trovare una ipotesi d’uscita parziale dalla crisi, attraverso la liquidità immessa a ritmo costante dalla Federale Reserve, e contestualmente, dall’inizio della guerra globale dopo il 1991, la stessa politica praticata dalla BCE non ha ottenuto gli stessi risultati: il Quantitative Easing non produce una ripresa del credito alle imprese, ne una ripartenza dei consumi, come dimostrato dai dati dell’inflazione, mentre la crescita rimane a dir poco precaria, e comunque in buona misura legata alle esportazioni. Di fatto senza la crescita di salario diretto e indiretto, i consumi interni non possono ripartire, e quindi viene meno la necessità di credito per quella parte di imprese che operano principalmente sul mercato interno. Il finanziamento diretto ai consumi, dopo la crisi del 2008, è quantomeno rischioso per il sistema finanziario, e alla fine la grande mole di liquidità immessa sul mercato, continua ad avere come unica sponda, una rendita finanziaria peraltro sempre meno redditizia, a fronte del ridursi della progressione nell’aumento dell’indebitamento pubblico e privato. Di fatto l’idea che sia possibile una ripresa della crescita, senza un corrispettivo e contestuale processo di distruzione, non è ipotizzabile. Se la crescita deve essere cercata sui mercati internazionali, ciò non può che passare per una maggiore concorrenzialità delle esportazioni, e quindi per una riduzione del monte salari e del welfare e conseguentemente dei consumi e del mercato interno. Cioè per la distruzione di reddito diretto e indiretto. L’altra ipotesi quella della distruzione di quote di capitale finanziario, la cui redditività parassitaria grava sull’economia produttiva, attraverso forme di rifiuto o ristrutturazione del debito; tale ipotesi è stata vagamente avanzata a partire dalla vicenda greca e su imput del FMI, ma al momento non ha prodotto altro se non l’ennesima mistificazione propagandistica. Di fatto questa ipotesi, di cui l’FMI ha ventilato la necessità, non viene esclusa quasi da nessuno, purchè a pagarla siano altri. In ogni caso essa non è finalizzata alla ripresa della crescita economica, ma solo ad evitare che l’insostenibilità del debito di alcuni paesi, possa produrre instabilità complessiva nell’area euro. In ogni caso l’esito di questa ipocrita propaganda, si è esplicitato nell’ultimo accordo tra Grecia ed Europa, laddove nessun taglio è stato deciso, ne del debito nominale, ne degli interessi, e solo si è parlato di rendere “sostenibile” il debito,


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a partire da una qualche tolleranza sul pagamento delle scadenze. Ma su questo più avanti. Ci sono quindi due prospettive in Europa, una che punta esplicitamente alla distruzione di reddito diretto e indiretto, per ridare un ruolo all’economia europea nella competizione globale, scontando un indebolimento del mercato interno, ed una riduzione di tutta l’Europa meridionale e orientale ad un nuovo terzo mondo interno, l’altra che tende a preservare per quanto possibile tali mercati, attraverso il sostegno a quanto resta di quel blocco sociale organico agli interessi delle vecchie borghesie nazionali. Tale sostegno si attua attraverso la difesa della rendita finanziaria e immobiliare, la privatizzazione del welfare, l’attacco ai diritti al lavoro e l’esaltazione della libertà d’impresa, una generalizzata corporativizzazione sociale, in cui gli interessi agiscono in modo egoistico e competitivo, nella difesa dei residui diritti sociali e opportunità economiche. Questo secondo impianto è ciò che viene definito “crescita” e si oppone all’impianto del “rigore”. Intorno a questo secondo impianto si muovono le politiche del centrosinistra europeo e la loro necessità di mantenere una quota significativa di consenso sociale. Le due diverse prospettive per l’Europa sono evidenti di fronte al tema drammatico e di impatto epocale, dell’immigrazione, laddove proprio la politica rigorista della Germania, è sembrata la più adatta ad affrontare con razionalità tale questione. Nel quadro di una prospettiva europea di costruzione di una grande area economica, con un proprio terzo mondo interno, da cui reperire manodopera a basso costo e magari buona qualificazione, per la propria industria manifatturiera, la stagnazione, se non addirittura il calo demografico in Europa, rappresentano un problema, mentre l’immigrazione, se gestita con razionalità, rappresenta una risorsa. E questo la Merkel sembra averlo compreso, predisponendosi ad accogliere una massa di disperati di cui poter disporre in base alle esigenze dell’economia, con la prospettiva, non fantascientifica, di poter avere sul medio periodo una gran massa di cittadini di serie B, esclusi da tutele e discriminati sul piano salariale. Al contrario tutti i fautori della “crescita”, di cui in teoria la presenza di mano-


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dopera a basso costo dovrebbe essere un volano, affrontano questo tema in modo contraddittorio, guardando più all’interesse immediato che non ad una prospettiva futura. Stretti tra la necessità di mantenere un residuo consenso sociale, attraverso la difesa di interessi parziali e corporativi con una “coperta” sempre più corta, e l’ondata migratoria irrefrenabile, questi soggetti producono una contraddittoria politica, in cui si mescola un buonismo parolaio e senza concretezza, con la concreta rinuncia a investire risorse per la gestione del fenomeno migratorio. Così l’immigrazione non gestita è divenuto un ulteriore fattore di depressione, laddove la mole di manodopera a basso costo non è servita a rafforzare un’economia principalmente votata alla competizione internazionale, ma ha agito come fattore di ulteriore depressione del mercato interno, da un lato contribuendo alla riduzione del costo del lavoro in tanti settori (edilizia prima di tutto, servizi alla persona, logistica ecc...), dall’altro deprimendo ulteriormente il mercato, con una quantità di piccole imprese a livello individuale e famigliare, che soprattutto nel settore del commercio, contribuiscono notevolmente alla stagnazione dei prezzi. A ciò va aggiunto la concorrenza che gli immigrati rappresentano nella suddivisione delle quote residue di welfare. In questo quadro il tentativo, avanzato da Renzi con il “migrant compact”, di utilizzare l’immigrazione, per ottenere liquidità e flessibilità, da utilizzare per finanziare la colonizzazione delle zone di provenienza dei migranti, cercando quindi di “aiutarli a casa propria”, come chiede la Lega, rappresenta un velleitario e strumentale tentativo di approfittare dell’emergenza, per recuperare spazio sui mercati internazionali, il tutto ovviamente grazie alla crescita del debito pubblico. Tale approccio si muove sulla stessa lunghezza d’onda di quello francese, che ha portato all’attacco alla Libia e alla fine di Gheddaffi: l’idea che sia possibile, a questa Europa, svolgere un ruolo imperialista sulla sponda meridionale del Mediterraneo, per poter gestire le proprie contraddizioni interne. Un’idea velleitaria che non fa i conti con competitori internazionali, molto più potenti. Gli investimenti cinesi o di paesi mediorientali in Africa, si muovono in questa stessa prospettiva ma dietro quegli investimenti c’è una economia forte e in crescita, e non, come al solito, l’indebitamento pubblico, attraverso politiche “di aiuto” o attraverso la spesa militare, per il profitto privato. L’immigrazione, e cioè l’immissione in un sistema in crisi di una grande quan-


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tità di risorse produttive, sta quindi divenendo il terreno di rottura del sistema, che o trova una nuova modalità di espressione delle potenzialità produttive sociali (e in questo la Germania ha forse una strategia possibile), o altrimenti non può che determinare processi distruttivi delle forze produttive stesse. Il rifiuto dell’immigrato, che sta divenendo il tema ricompositivo di un’Europa regressiva e intimorita dalle sue stesse opportunità, è l’elemento più evidente di un’Europa il cui unico destino è la distruzione di se stessa, in un processo in cui razzismo, nazionalismo e fascismo, sono i prodromi dell’inevitabile guerra. In tal senso la vicenda dell’immigrazione è la cartina tornasole del fallimento di tutte le politiche di “crescita”, laddove è reso esplicito come la “crescita” non può darsi se non nel quadro di una riduzione dei diritti e dei salari, di cui i migranti sono le vittime per l’esclusione che subiscono, mentre gli autoctoni, sono vittime per progressiva riduzione. Accollare la colpa della riduzione di servizi e salari, a chi è escluso, è il gioco della destra, a cui nessun centrosinistra con le sue “politiche di crescita” potrà mai dare risposta. Ciò si sta palesando in tutta Europa, si è esplicitato con i rischi in Austria, con la Brexit, mentre l’ipotizzabile vittoria della Le Pen alle prossime elezioni francesi, potrebbe portare a frizioni in quell’asse franco-tedesco, che è stata la vera novità del ‘900, dopo che per 2 millenni, la linea del Reno è stata il cuore di ogni conflitto europeo. E’ alla luce di ciò, che è possibile affermare che la apparente dialettica tra Germania rigorista e fautori della “crescita”, è la contrapposizione tra un progetto di uscita dalla crisi europea, autoritario e che consegna gran parte dell’Europa al sottosviluppo, ma ne garantisce l’unità intorno ad una leadership economicamente e politicamente forte, mentre dai fautori della “crescita”, null’altro emerge che una quantità di interessi velleitari, contingenti e strumentali, inadeguati a offrire sbocchi alla crisi europea, inadeguati a dare risposte al clima di paura e precarietà che coinvolge ampi settori sociali, a partire da quei soggetti intermedi che erano stati la base di consenso della costruzione europea, fino alla crisi finanziaria. Così il centrosinistra, con le sue velleitarie politiche di crescita sta producendo come unica prospettiva, la dissoluzione europea e la resa davanti ai nazionalismi. L’Europa o sarà a guida tedesca, o più probabilmente non sarà. Assumere la dissoluzione delle istituzioni e del quadro politico europeo, o la trasformazione


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di tutta l’Europa in un feudo tedesco, non è una scelta ideologica, ma la presa d’atto di un dato di fatto. Assumere questo fatto, significa comprendere che il tema della rottura europea, non è una scelta politica soggettiva, ma un fatto oggettivo, che pone la necessità di scelte politiche soggettive. Parafrasando il Lenin della Conferenza di Zimmerwald, o la rivoluzione impedisce la rottura dell’Europa come spazio comune, o la rottura dello spazio comune europeo, pone le condizioni per la rivoluzione (o la reazione). Dovrebbe essere alla luce di questo dato che dovremmo guardare alle dinamiche politiche ed elettorali della sinistra in Europa, a partire da quella che è stata l’esperienza più significativa e traumatica: la vicenda greca.


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SULL’ESPERIENZA GRECA PREMESSA AD UNA RIFLESSIONE SULL’ESPERIENZA GRECA In questa crisi del capitalismo europeo, in cui vediamo l’establishment incapace di produrre non solo soluzioni, ma anche semplici indirizzi culturali, in grado di costruire egemonia e consenso, in cui il dibattito tra rigore e crescita, si risolve nel timore nei confronti del primo termine, e nella sfiducia verso il secondo, in cui i partiti che sono stati i garanti della costruzione e della stabilità europea, si trovano a subire l’offensiva di quelli che chiamano “populismi”, mentre la sfiducia complessiva dappertutto tende ad aumentare, non vi è stata solo la tendenza verso il nazionalismo, il razzismo e il fascismo, a dare espressione a questa crisi, ma anzi al contrario, non sono mancate le opportunità anche per le forze chiaramente orientate a sinistra. Specialmente nei paesi che hanno nella loro storia recente l’esperienza del fascismo (Grecia, Spagna, Portogallo), e quindi la memoria dei rischi di una destra, che in altre aree d’Europa non ha segnato così profondamente la storia, le opportunità per la sinistra si sono poste con nettezza. Analogamente in Italia, dove lo sdoganamento del fascismo è fenomeno recente e fortemente contrastato, il malessere che, in assenza di una prospettiva di sinistra, poteva trovare un’espressione politica nella destra fascista, si è direzionato verso il fenomeno politico del M5S. Ma al di là della manifestazione politica con cui si esprime, il dato unificante a livello europeo, è una radicalizzazione delle opinioni pubbliche, dei movimenti conflittuali e delle conseguenti scelte elettorali, che aprono ad una fase di instabilità in tutto il continente, che sarà lo scenario futuro della nostra iniziativa politica. Su tale scenario la vicenda greca è stata la prima drammatica rappresentazione. E infatti proprio l’esperienza greca, ha aperto la crisi politica europea con una speranza, ponendoci di fronte alla possibilità di una prospettiva alternativa al neoliberismo europeo variamente declinato, ci ha presentato l’opportunità di raccogliere intorno a tale alternativa un grande consenso di massa, e di misurare quindi tale prospettiva alternativa con la concretezza del governo di un paese.


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Per questo l’esperienza greca deve essere oggetto di una riflessione profonda, come primo significativo tentativo della sinistra di misurarsi con il tema della trasformazione sociale, nel quadro della crisi del capitalismo europeo, dell’esaurirsi del binomio sviluppo economico-democrazia che era stata la cornice nella quale si sono collocate le strategie dei comunisti e della sinistra nella seconda metà del ‘900. In tal senso la riflessione sull’esperienza greca, sulle sue intuizioni e sui suo limiti, deve essere posta a fondamento della ricostruzione di una strategia di trasformazione in Europa La storia del movimento operaio in occidente può essere ricostruita intorno ad alcune grandi esperienze, a partire dalle quali si sono prodotte elaborazioni, che sono state alla base delle successive strategie dei partiti del movimento operaio. Così fu per la Comune di Parigi, a partire dalla quale si produsse la prima significativa elaborazione marxista sul tema dello stato, per la Rivoluzione Russa, che per decenni fu il modello di riferimento per tutti i comunisti nel mondo, per i Fronti Popolari, a partire dai quali si individuò il nesso tra democrazia parlamentare e socialismo, che fu la base della strategia dei comunisti nell’Europa occidentale. Ognuna di queste grandi esperienze storiche, siano state esse vittorie o sconfitte, fu analizzata con rigore, furono individuati i limiti, le peculiarità, le opportunità, per ricavare da tale analisi gli elementi con cui aggiornare o ridefinire la propria strategia, per fare l’uso migliore della storia, imparando da essa, e trovando in essa le ragioni per andare oltre le condizione date. Ciò non è stato adeguatamente fatto per quanto riguarda l’esperienza greca, per la quale la discussione si è ridotta ad un dibattito che è stata solo l’occasione per inutili polemiche, su errori e tradimenti, sottili disquisizioni sui “se” e i “ma” e sui “piani B” di varia natura, nei quali ognuno ha cercato la conferma alle proprie sicurezze, ribadendo le ragioni delle usuali divisioni a sinistra. L’inadeguatezza della riflessione sull’esperienza greca è particolarmente grave per un partito come il PRC, che nell’affermazione dell’esperienza di Syriza, aveva trovato la conferma alla sua strategia di ricostruzione della sinistra alternativa in Italia, e che nel suo discutibile esito. trova le ragioni dell’appannamento di quella stessa strategia, e con essa della stessa identità politica del Partito.


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In tal senso l’analisi della vicenda greca, va considerata come la premessa per un aggiornamento e una ridefinizione della nostra strategia, e nel complesso tutta l’esperienza di Syriza, come il paradigma per affrontare in forme diverse, il tema della trasformazione sociale in Italia e in Europa. Ma per una seria riflessione sull’esperienza greca, va prima di tutto sgombrato il campo da due errate modalità di affrontare il problema: la prima è quella di quanti condannano tale esperienza , per non essersi misurata con il tema della rottura con l’Europa, così come sembrava auspicare l’esito del referendum di luglio; la seconda è quella di quanti derubricano totalmente il tema della rottura, considerandolo aprioristicamente impraticabile, e sulla base di tale realismo giungono al punto di dare una valutazione comunque positiva dell’esperienza di Syriza. La prima modalità, va contestata per due semplici ragioni: la prima è che il mandato elettorale su cui Syriza aveva ottenuto il consenso elettorale, non prevedeva l’uscita dall’Europa e la rottura con le istituzioni europee. Questo è un dato ineludibile e vincolante. La vittoria elettorale di Syriza, segnala indiscutibilmente la volontà della classe e delle masse popolari di chiudere con le politiche neoliberiste, rende esplicita la loro rottura con l’ideologia mistificante della crescita e del rigore, di cui il centrosinistra, in Europa e in Grecia erano portatori, ma non ci dice nulla sulla coscienza effettiva a livello di massa, della necessità di una rottura traumatica con l’Europa, per porre fine alle politiche liberiste. Non ci è dato sapere se, l’inserimento nel programma di Syriza di un esplicito riferimento alla rottura con l’Europa, attraverso atti di disubbidienza ai trattati, rifiuto di pagamento delle scadenze del debito, uscita dall’euro o altro, avrebbe permesso il raggiungimento del risultato elettorale con cui Syriza si è imposta. Al contrario il risultato elettorale ottenuto da Syriza dopo l’accettazione dei diktat europei, la sua sostanziale tenuta, l’insuccesso delle correnti di sinistra, ci pone di fronte al fatto che, a livello di massa, la cosciente necessità di una rottura, anche traumatica con l’Europa, non fosse condivisa. Il popolo e le masse greche, hanno compreso sulla loro pelle, quali guasti producano le politiche liberiste, ma non erano nelle condizioni di affrontare le conseguenze di un atto di rottura con tali politiche. Se sul piano dei rapporti di massa le condizioni per il rifiuto delle politiche liberiste c’erano, mancavano le condizioni, sempre a livello di rapporti di massa, per porre in essere gli atti politici che mettevano fine


a tali politiche.

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E qui veniamo quindi alla seconda ragione, per cui le scelte di Syriza sono state obbligate. Era noto a tutti che al di là della comune avversione alle politiche di rigore imposte dall’Europa, all’interno di Syriza, tra i diversi soggetti e le diverse culture politiche che ne facevano parte, le analisi sul ruolo e la natura della costruzione europea e della crisi del capitalismo europeo, erano diverse, quando non alternative fra loro. E’ questo un nodo sul quale sia la sinistra greca che quella Europea, ha preferito sorvolare, ma che è purtroppo venuto al pettine, quando lo scontro tra Syriza e le istituzioni europee è giunto ad un punto di caduta, e la scelta si è posta tra la possibilità (“realistica” o meno) di una rottura con l’Europa, o la necessità per alcuni ineludibile, di rimanere all’interno del quadro europeo. Su questa scelta, ancor prima che i fattori oggettivi, hanno operato le soggettive convinzioni dei diversi settori di Syriza, tra i quali tutt’altro che marginali erano quelli che della scelta europea avevano fatto una pregiudiziale. In sostanza è possibile dire che al di là delle oggettive difficoltà, e dei soggettivi errori nella predisposizione di “piani B” e alternative, una parte di Syriza si sarebbe comunque opposta alla rottura con l’Europa, ed era pronta, forse fin dall’inizio, ad accettare una mediazione al ribasso. C’è quindi da chiedersi se l’assenza di una coscienza, a livello di massa, della necessità di una rottura con le istituzioni europee, non sia stata anche conseguenza di un approccio minimalistico nella costruzione del progetto politico di Syriza, che nell‘individuazione di un minimo comun denominatore sufficiente alla riunificazione della sinistra antiliberista, ha sacrificato da un lato l’elaborazione sull’intima connessione tra crisi del capitalismo europeo e politiche liberiste, e contestualmente ogni elaborazione e ogni iniziativa politica, sulla necessità di una rottura con le politiche europee, come condizione insita alla critica al liberismo. Il risultato è stata la possibilità dell’accumulo di forze necessarie, sul piano elettorale, per aprire lo scontro con l’Europa, ma l’assenza di una strategia per vincere tale scontro, spostandolo dal tavolo negoziale, alla possibilità di una rottura di tale tavolo, avendo le condizioni minime per una resistenza alle conseguenze di tale rottura, nella stessa società greca. La strategia elettorale ha dato i suoi frutti, ma è stata insufficiente a fronte dell’assenza di una strategia rivo-


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luzionaria. Ma tale strategia è assente dal dibattito e dall’elaborazione dei comunisti e della sinistra europea, e i compagni greci, sono stati i primi a pagare il prezzo di tale assenza. La seconda modalità d’approccio da mettere da parte, è quella di quanti sostengono l’esperienza di Syriza, a prescindere. Essa si basa su tre argomentazioni, che rendono inevitabili le scelte di Syriza: la prima sono i “rapporti di forza” sfavorevoli, che imponevano di evitare la rottura; la seconda quella secondo cui rimanendo comunque al governo, ed evitando il ritorno di forze conservatrici e reazionarie, era possibile contenere le politiche di rigore, ripartirle in maniera egualitaria, e sul medio periodo, rilanciare l’economia e salvare il paese; la terza è stata quella per cui il subire i diktat dell’Europa, era necessario allo scopo di prendere tempo, contando sul prodursi di un più favorevole scenario europeo, dopo la vittoria della sinistra in altri paesi. La prima delle tre argomentazioni, quella sui “rapporti di forza”. E’ questo un argomento tanto vero e concreto, quanto inutile: sulla base di tale argomento il CC del Partito Bolscevico, non avrebbe dato l’ordine della presa del Palazzo d’Inverno, dato che il controllo dei soviet di Mosca e Pietroburgo, non definivano certo i rapporti di forza adeguati per un processo rivoluzionario in tutta la Russia: non casualmente dopo l’atto simbolico dell’Ottobre, ci vollero due anni di terribile guerra civile, per ristabilire adeguati “rapporti di forza” in tutto il territorio russo. E certo Mao non aveva adeguati rapporti di forza, quando iniziò la Lunga Marcia, ma li produsse strada facendo. In realtà nessun atto rivoluzionario è “frutto dei rapporti di forza”; al contrario essendo l’atto rivoluzionare espressione puramente soggettiva, nel quadro di condizioni oggettive, è esso stesso che modifica e produce nuovi rapporti di forza. Questo ragionamento ovviamente vale per chi, forse velleitariamente, ancora assume il tema della rivoluzione nell’orizzonte del suo agire. Ad impedire un’azione rivoluzionaria, nel caso greco, più che i rapporti di forza, che oggettivamente potevano esserci, è stata l’assenza di una qualsiasi strategia rivoluzionaria, di una qualsiasi elaborazione sul tema della rottura, e in simili condizioni, tentare forzature, null’altro può essere che un’irresponsabile salto nel buio. Veniamo quindi alla seconda argomentazione, quella per cui, piuttosto che evi-


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tare il salto nel buio, la miglior soluzione era rimanere al governo per contenere le politiche di rigore, gestirle con maggiore attenzione sociale e dopo una fase di sacrifici imposti con rigore a tutti, e sulla base di un governo efficiente e non corrotto, riuscire a trovare le risorse per rilanciare l’economia, far ripartire l’occupazione, ottenendo, con l’alleanza dei settori europei più critici verso le politiche di rigore tedesco, un margine di flessibilità economica e magari la ristrutturazione del debito. Passano le riforme di struttura che il capitale impone, privatizzazioni, svendita del patrimonio pubblico, attacco al welfare e ai diritti del lavoro, il tutto evitando di affondare brutalmente il coltello nelle ferite del paese, ma lasciando tali ferite aperte e l’organismo in un costante dissanguamento. Il governo Tsipras, la cui serietà, rigore e onestà non è in alcun modo paragonabile al malaffare e alla corruzione della classe dirigente che l’ha preceduto, diviene l’affidabile amministratore delle politiche liberiste, a cui avrebbe dovuto opporsi. Dopo un anno anche l’ultima illusione, quella di una possibile riduzione dell’onere del debito viene meno: senza minimamente intaccare il valore nominale del debito, ne rivedere i tassi di interesse, ciò che si concede alla Grecia e di non pagare per il debito, oltre il 15% del proprio PIL a partire dal 2018, evitando di dover ricorrere ad ulteriore indebitamento per pagare le scadenze, qualora tali scadenza superasse tale soglia: ciò per rendere “sostenibile” il debito, e permettere quindi al FMI di non ritrarsi dal “salvataggio” della Grecia, in ottemperanza ai suoi regolamenti che impediscono al Fondo di finanziare paesi con un debito insostenibile. Secondo tale concetto di “sostenibilità”, l’Italia potrebbe giungere a pagare oltre 300 miliardi l’anno, piuttosto che i circa 80 che paga oggi, pari appunto al 15% di un PIL di poco più di 2000 miliardi. Ipotizzare che un paese che deve pagare il 15% del proprio PIL, non delle proprie entrate fiscali, per il pagamento del debito, possa trovare le risorse per la crescita è una pura mistificazione. In realtà il tentativo di contrastare le politiche liberiste praticandole, è un non senso che si basa sulla volontà di non fare i conti con la crisi strutturale del capitalismo europeo, una crisi che non può prevedere crescita se non a partire dalla distruzione, quella distruzione di cui la Grecia è stata la prima vittima. L’idea di una “ripresa” che riparta dalla flessibilità di bilancio, nuovi investimenti, calo delle tasse, riduzione del debito ecc... è totalmente subalterna al confuso e velleitario impianto del centrosinistra europeo, e chi la assume non può che identificarsi con esso, e con gli alleati del centrosinistra, BCE e FMI in pri-


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mis. Combattere la Merkel, contando su Renzi e Hollande, non può essere la prospettiva di una sinistra alternativa. La terza e ultima ragione, quella più “politica”, motiva la giustezza della sottomissione ai diktat europei da parte della Grecia, con la ragione tattica, per cui essendo il governo greco isolato in Europa, si trattava di attendere che la sinistra vincesse in altri paesi, per rompere l’assedio e modificare così i rapporti di forza. Ovviamente tale ragionamento si basa sull’idealistica pretesa che i processi di accumulazione della forza politica ed elettorale, siano lineari e scevri da ogni relazione con la concretezza dello scontro politico. Così, come è stato vero che il successo di Syriza ha prodotto l’avanzata della sinistra in altre parti d’Europa, è altrettanto vero che il suo arretramento ha prodotto conseguenze negative in altri partiti della sinistra europea. Le attese elezioni in Spagna che avrebbero dovuto portare Podemos e IU alla vittoria, hanno invece visto non solo un mancato risultato elettorale, ma addirittura la rottura tra IU e Podemos, e il tentativo di quest’ultimo di governare con il PSOE. Al secondo appuntamento, con IU e Podemos uniti, l’emergere nella crisi politica europea di soluzioni politiche “di destra”, come quelle evidenziate con la Brexit, ha ridefinito lo scenario generale, condizionando i risultati e le aspettative della sinistra. Ma anche laddove, come in Portogallo, le sinistre si sono affermate, le differenze di strategia politica sono rimaste, e non hanno determinato nessun asse privilegiato tra PCP e Siryza, e mentre il primo continua a denunciare l’Europa, Tsipras partecipa in tendenziale sintonia agli incontri dei ministri socialisti europei. Più in generale è curiosa l’idea per cui dopo aver rimandato per decenni il tema della trasformazione, al momento in cui si sarebbe ottenuto il governo nazionale, oggi si tratterebbe di rimandare al momento in cui si avranno, ovviamente in contemporanea, governi di sinistra in tutta Europa... ma forse nemmeno quello sarà il momento, e si dovrà attendere il fatidico governo mondiale di occhettiana memoria. Di fatto se non si ha una strategia rivoluzionaria, ed una conseguente teoria della rottura rivoluzionaria, non sarà mai il momento di operare forzature rispetto al quadro dei rapporti dato. Ma al di là dei pro e dei contro, dei se e dei ma, quali sono gli elementi di effettiva novità dell’esperienza greca?


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L’ESPERIENZA GRECA COME SPARTIACQUE STORICO: IL TEMA DELLA ROTTURA POLITICA Il primo dato da cui partire per analizzare l’esperienza greca, è il modo in cui essa si propone sulla scena europea, con un carattere di rottura radicale delle compatibilità imposte dalla gestione della crisi del capitalismo europeo. Tale elemento di rottura non sta ovviamente nel fatto che una forza politica o uno schieramento di sinistra si affermi elettoralmente e giunga fino al governo del paese, fatto questo già avvenuto in Europa, ma che ciò avvenga con un programma, che pur non essendo rivoluzionario, richiede per la sua attuazione, la rottura dei vincoli e delle compatibilità su cui si regge il precario equilibrio europeo: questo è il fatto nuovo, quello mai accaduto. L’affermazione di un programma elettorale di sinistra, non avviene nel quadro di un modello capitalistico basato su politiche keynesiane di redistribuzione e intervento pubblico in economia, non può usare di tale quadro, magari cercando di estenderne i limiti, espandendo al massimo il binomio di democrazia e sviluppo economico, ma rimanendo sostanzialmente all’interno di tali limiti, come era possibile fino a pochi decenni fa. L’affermazione di Syriza avviene nel quadro di una crisi del capitalismo europeo, che richiede scelte distruttive del welfare e delle garanzie del lavoro, incompatibile con qualsiasi politica redistributiva, refrattario a qualsiasi vincolo di tipo pubblico, e addirittura nel quadro di una sostanziale assenza di ruolo degli stessi stati nazionali, ed in particolare delle costituzioni democratiche. Ed è proprio quest’ultimo il tema centrale: la vittoria elettorale e la conquista del governo da parte di Syriza, avvengono in un contesto in cui le scelte non appartengono più ai governi democratici, legittimati dal voto, ma ad un sistema di governance europeo, svincolato da ogni controllo democratico. Di fatto l’attuazione di un semplice programma “socialdemocratico” e il rispetto del semplice mandato elettorale, essendo incompatibili con gli indirizzi di gestione della crisi capitalistica, definiti dalla governance europea, pongono la necessità di agire contro tali indirizzi e in rottura con la governance europea, producendo quindi le condizioni di una situazione, che un tempo si sarebbe definita “oggettivamente” rivoluzionaria.


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E’ possibile parlare di condizione “oggettivamente” rivoluzionaria, nel senso che le aspirazioni e la mobilitazione delle masse, sono in grado di produrre rapporti di forza (almeno a livello nazionale), tali da rompere gli assetti di potere dati, rimettendo in discussione anche gli equilibri su cui si fonda la governance sovrannazionale. E tutto ciò è accaduto operando nel solco delle regole della democrazia parlamentare, nel rispetto delle istituzioni nazionali, con una legittima vittoria elettorale. Pure tale vittoria, legittima sul piano delle istituzioni nazionali, diviene di fatto eversiva rispetto al quadro europeo, e per realizzarsi pienamente, essa non può che trascendere tale quadro. La vicenda greca ha di fatto mostrato un gigantesco conflitto tra due poteri, quello del governo greco, democraticamente legittimato, e quello delle istituzioni europee, la cui legittimazione deriva dall’essere espressione diretta delle strategie di gestione della crisi del capitale in Europa. In tal senso l’esperienza greca, si trova misurarsi con una condizione nuova, mai verificatasi in Europa nel dopoguerra: la strategia attuata dai comunisti e dalla sinistra nel secondo dopoguerra, nel quadro del modello capitalistico keynesiano, che metteva al centro la conquista delle istituzioni statuali e la centralità delle costituzioni democratiche, come strumenti per l’attuazione della trasformazione sociale, non è più sufficiente; il solo governo nazionale non basta, perchè ci si trova di fronte a istituzioni europee, che si propongono come una nuova forma di autocrazia e che sono state concepite come intrinsecamente ostili alle classi popolari. In tal senso la vicenda greca fa da spartiacque, obbligando i comunisti a rivedere aspetti fondamentali della loro strategia degli ultimi 70 anni. Di fatto le istituzioni europee, riportano in piena attualità l’analisi di Lenin in Stato e Rivoluzione, quella analisi in buona misura superata nel II dopoguerra, quando la vittoria contro il nazifascismo e il capitalismo keynesiano, avevano permesso l’affermarsi delle costituzioni democratiche e di uno stato, che oltre ad assolvere alle sue funzioni tradizionali di controllo sociale e repressione, era divenuto protagonista dell’economia, erogatore di servizi e in piccola parte redistributore della ricchezza sociale. Esattamente il contrario di quanto fanno le istituzioni europee, prive di legittimità democratica, contrarie a qualsiasi intervento nella gestione dell’economia, salvo quelli di tipo monetario, impegnate nella distruzione del sistema di welfare europeo, garanti del mantenimento degli squilibri tra paesi ricchi e paesi più poveri.


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Ad esse si adatta a perfezione la definizione di Marx dei governi, come “comitato d’affari della borghesia” e quella di Lenin degli stati, come “strumenti del dominio di una classe sull’altra”. Così in Grecia ci si è trovati davanti alla necessità di superare l’antinomia storica tra il punto di vista “riformista” della “conquista del governo”, e quello “rivoluzionario” della “distruzione dello stato borghese”. Dialetticamente, l’esperienza greca ci dice, che non c’è possibilità di governo senza la rottura degli assetti e delle compatibilità del capitale, imposti dalle istituzioni europee, ma contestualmente ci mostra come la possibilità di tale rottura si sia effettivamente prodotta, solo a partire dal governo, opponendo cioè ad un potere, quello delle istituzioni europee, un altro potere, quello di un governo democraticamente eletto. In questo nesso dialettico tra il tema del governo e quello della rottura, è il valore storico dell’esperienza greca, che individua la prospettiva di una nuova strategia di trasformazione sociale in Europa, dopo l’esaurirsi di quella prodotta dai Bolscevichi nel ‘17, incentrata sulla rottura degli apparati statali, e successivamente, di quella concepita dai grandi partiti comunisti di massa, nel secondo dopoguerra, incentrata sulla conquista di tali apparati. E’ per questa ragione che l’esperienza greca va considerata come fondamentale per un Partito che ha nella sua ragione sociale, la rifondazione del pensiero e della pratica comunista. Da dove rifondare la propria elaborazione se non dall’esperienza concreta? Eppure questo non è stato fatto, e piuttosto che analizzare le novità di una esperienza che apre al futuro, ci si è limitati a giustificarne i limiti, facendo riferimento ai rapporti di forza del presente. La conseguenza di tale scelta è stata una tartufesca tendenza a spiegare la razionalità del reale, impegnandosi a dimostrare che quanto oggi accade in Grecia, è quanto di meglio ci si poteva aspettare, prescindendo dal fatto, che se l’accettazione dei ricatti imposti dalla troika è quanto di meglio la sinistra alternativa può offrire come speranza, non c’è da stupirsi che in tanti tra i lavoratori e gli sfruttati, cerchino speranza da qualche altra parte. Piuttosto che trovare una razionalità nella sconfitta, meglio sarebbe cogliere quanto anche una sconfitta può insegnare per il futuro, e il messaggio che ci giunge dalla vicenda greca, è che il tema della rottura degli assetti di dominio


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del capitale, non si pone in alternativa al tema del governo, ma ne è il suo ineludibile compendio, esattamente come il tema del governo, non è alternativo a quello della rottura, ma ne è anzi in buona misura la premessa. Un rapporto dialettico tra governo delle istituzioni e rottura degli assetti di potere, che però in realtà non si è prodotto, e anzi, dopo il referendum di luglio, il tema del governo si è riproposto semplicemente in alternativa a qualsiasi rottura e in garanzia della continuità degli assetti di potere europei. Ma qui si torna al tema della assenza di una strategia rivoluzionaria, e di come tale assenza può portare alla dissoluzione della grande forza che pure il progetto di Syriza era riuscito a mettere in campo. L’ESPERIENZA GRECA COME SPARTIACQUE STORICO: IL TEMA DELLA COSTRUZIONE SOCIALE Se il rapporto tra governo e rottura degli assetti, è un elemento di novità nell’esperienza greca, l’altro elemento è nel rapporto tra governo delle istituzioni e costruzione dell’alternativa di società. Ancora una volta, con una semplice schematizzazione, partiamo dai due diversi approcci che hanno caratterizzato l’esperienza dei comunisti nei tentativi di trasformazione sociale, nel corso del ‘900. L’impianto originario, promosso dall’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, è apparentemente semplice: la rottura dell’apparato di dominio della borghesia, e l’imposizione di nuove strutture di potere della classe (i soviet), sono l’atto di inizio della ricostruzione di un modello di rapporti sociali di produzione totalmente alternativo a quello del capitale, anche a costo di passare per una transizione drammatica, che vede il tracollo economico, la dissoluzione di tutte le strutture sociali e l’imposizione di un potere autoritario, la dittatura del proletariato, che può addirittura tradursi in quello che Lenin, senza ipocrisie, definì “terrore rosso”. In realtà le cose furono poi più complesse, e lo stesso Lenin, dopo la conquista del potere e due anni di terribile “comunismo di guerra”, ebbe l’intuizione della necessità della NEP (Nuova Politica Economica), come di una fase in cui il governo delle dinamiche economiche, dovesse prevedere un certo margine di libertà all’iniziativa economica privata, per evitare che il vuoto derivante dall’assenza di un alternativo modello di relazioni economiche e sociali, portasse la società al collasso.


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Tale intuizione fu poi abbandonata da Stalin, che con l’imposizione di un dirigismo economico centralizzato e burocratico, produsse le condizioni per il fallimento dell’esperienza sovietica, nella competizione con il modo di produzione capitalistico, più flessibile e adatto a cogliere le opportunità dell’innovazione tecnologica, e a sussumere nel suo interesse, le opportunità di crescita produttiva di società in costante mutamento. Oggi l’idea della costruzione di una alternativa di società a partire dalle “ukase” del “centro”, è francamente improponibile. A fronte di ciò, nel corso del dopoguerra, i comunisti in occidente hanno prodotto un’altra modalità, che ha colto le opportunità del capitalismo keynesiano, e attraverso l’intervento pubblico in economia e il prodursi del sistema del welfare, hanno sperimentato la costruzione, anche in ambito locale, di elementi di alternativa di società, pur nel quadro dei rapporti di produzione capitalistica. In questo quadro la “conquista del governo”, locale o nazionale, diveniva la chiave per la sperimentazione di elementi di alternativa di società. Tale dinamica fu particolarmente evidente in quello che fu il cosiddetto “modello emiliano” ed in generale le “regioni rosse”. Di fatto la strategia di costruzione di un modello sociale alternativo, si attuava a partire dalla produzioni di un tessuto sociale alternativo (cooperative, case del popolo ecc...) e quindi dalla conquista di posizioni di governo, attraverso le quali si operavano scelte in ambito economico e sociale, che mettendo al centro gli interessi di classe, producevano elementi di concreta trasformazione sociale. Si produceva così un nesso tra società, con le sue dinamiche di conflitto e partecipazione, e le istituzioni, a cui lo stesso capitale assegnava un ruolo nell’indirizzo economico, la promozione del mercato, l’intervento sulle infrastrutture ecc... Non casualmente sia il PCI che la DC, fino agli anni ‘70, operarono in modo diverso e alternativo, all’interno dello stesso solco, quello delle politiche keynesiane di gestione della contraddizione capitale-lavoro.. Tale strategia ha progressivamente mostrato il passo a partire dalla fine degli anni ‘70, quando con le politiche neoliberiste di gestione della crisi, è partito l’attacco allo stato sociale, e al massimo la sinistra di governo, più che sperimentare elementi di alternativa, ha tentato di difendere (senza successo), quanto costruito nella fase precedente. La risposta della sinistra e dei comunisti a questo attacco del capitale, si è risolta


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nella parola d’ordine della “difesa del welfare”, e nel contestuale tentativo di ottenere il consenso elettorale, per impedire, dalle istituzioni, ulteriori tagli ai servizi sociali. In quest’approccio difensivistico, si è assunta la crisi del modello sociale precedente, prima come una spiacevole congiuntura, da affrontare con politiche di risanamento, modernizzazione ecc... poi anche da gran parte della sinistra, come un’opportunità, che avrebbe permesso ulteriore sviluppo e crescita, nel quadro di un modello capitalistico, che dopo la fine dell’URSS sembrava vincente e potenzialmente privo di limiti a livello planetario. Rispetto a questa capitolazione, neanche il PRC e le correnti più radicali hanno saputo individuare un percorso alternativo, rimanendo sostanzialmente appese alla possibilità, da verificare in forme più o meno compromissorie e o conflittuali, di rideterminare un ruolo dello stato e delle istituzioni nella gestione della contraddizione capitale-lavoro. Questo è quanto accaduto in questi decenni, e in questo quadro si è delineata la sconfitta della sinistra e la scomposizione del suo soggetto sociale di riferimento, privo di un orizzonte collettivo. Rispetto a ciò l’esperienza greca produce un primo significativo elemento in controtendenza, laddove a fronte della drammatica crisi economica e alla dissoluzione del welfare, conseguente all’applicazione delle politiche di rigore, individua nell’attivazione di estese pratiche mutualistiche, l’elemento di ricomposizione di un soggetto sociale, altrimenti frammentato se non lacerato da conflitti interni, intervenendo quindi direttamente nella ricostruzione di quel legame sociale, che la dissoluzione del welfare “istituzionale” stava distruggendo. L’aspetto di novità è che il sistema di sanità mutualistica, la distribuzione solidale di generi alimentari, le esperienze limitate ma significative di riappropriazione di siti produttivi (le fabbriche recuperate), non si producono in relazione e in funzione della conquista delle istituzioni, per poi riprodursi a partire da esse, così come era stato nell’esperienza messa in atti da un partito come il PCI nel dopoguerra, ma in autonomia dalle istituzioni, come un sistema parallelo, autogestito e autorganizzato, una dinamica sociale ed economica, che attraversa trasversalmente la sinistra, ma non si lega a una specifica progettualità politica, e soprattutto non ha nelle istituzioni il suo necessario riferimento, e anzi rivendica da esse una propria alterità.


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Così il movimento di Solidarity for all, vive in stretto rapporto con Syriza, ma non si identifica in essa, e quando Syriza sconta le sue divisioni e fratture dopo l’accordo con l’Europa, tali divisioni e fratture non si ripropongono automaticamente in Solidarity for All, la quale non diviene automaticamente un supporto alle politiche di governo di Syriza. Di fatto l’esperienza greca, ci mette di fronte, per la prima volta, alla possibilità di una risposta alla crisi del sistema di welfare e solidarietà pubblica, indotto dalla crisi e dalla ridefinizione del ruolo degli stati, che non si limita a tentare di fermare un processo, quello della distruzione del welfare pubblico, ma pone in essere delle ipotesi che guardano al futuro, ad un altro modello sociale, e ad un’altra modalità di relazione economiche. Assunta come un dato ineludibile la crisi degli stati nazionali, la cui funzione si riduce in sostanza alla semplice attuazione delle politiche di distruzione imposte dalla governance europea, con soli ridotti margini di autonomia e flessibilità nell’attuazione di tali politiche, e senza alcuna possibilità di invertirle, la risposta che viene dalla società, non è solo quella di opporsi a tali processi distruttivi, ma è di misurarsi con il tema della costruzione sociale, tentando di riempire, in forma autogestita, cooperativistica e solidale, il vuoto lasciato dal ritrarsi delle istituzioni statali. Questo processo può essere facilmente derubricata a semplice solidarietà, o addirittura a carità, ma sarebbe opportuno guardare più in profondità per cogliere come tale processo, sia invece una risposta avanzata a quella contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e valorizzazione del capitale che determina la crisi del capitalismo europeo. Migliaia di tonnellate di alimenti prodotti dai contadini greci, in buona misura condannati alla distruzione dalle logiche del mercato monopolistico, che rientrano in circolo grazie a un sistema che rimette in connessione diretta, l’interesse dei piccoli produttori e quello dei consumatori, fabbriche e laboratori abbandonati che vengono tenute in vita anche grazie all’attivazione di circuiti e mercati solidali, professionalità mediche e intellettuali che espulse da un welfare pubblico in crisi, si riattivano all’interno di un impianto mutualistico, piccole quote di capitale privato, che piuttosto che riprodursi sul mercato finanziario, facenno la scelta etica e politica delle donazioni, e divengono fattore di investimento sociale. Non è il paradiso ovviamente, ma un tentativo di uscire dall’inferno.


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Dovrebbe essere evidente come tali dinamiche sono sostanzialmente l’opposto di quanto prevede la gestione della crisi del capitalismo europeo: distruzione delle merci eccedenti, per non determinare il calo dei prezzi, abbandono e chiusura dei siti produttivi per cercare altrove manodopera a basso costo, espulsione dal mercato del lavoro di una gran quantità di forza lavoro intellettuale e qualificata, obbligata all’emigrazione, investimento finanziario dei capitali, piuttosto che investimento produttivo con ricadute sociali. Un paradiso per pochi, l’inferno per tutti gli altri. Quello che è accaduto in Grecia, e che ha avuto un significativo precedente in Argentina, un paese egualmente strozzato dal debito, piuttosto che essere derubricato a semplice fenomeno collaterale, rispetto al tema politico reputato centrale, quello della vittoria elettorale e della conquista del governo, dovrebbe essere analizzato come la prima embrionale risposta a una questione ineludibile nella costruzione di una nuova strategia di liberazione della classe. Il tema è quello di come ricostruire una coscienza di classe, nel momento in cui non è più il capitale a costruire le condizioni di riconoscimento dell’identità di classe: frammentazione e parcellizzazione del processo produttivo, da un lato, distruzione del comune sistema di welfare e diritti, dall’altro, sono il portato delle nuove necessità del capitale, e tali necessità prevedono e producono la distruzione della “classe per se”. A fronte di questo dato, sarebbe doveroso chiedersi se la ricostruzione di una identità di classe e quindi di una coscienza di classe, non possano essere il portato di un surplus di soggettività sociale, che può esprimersi solo ad un elevato livello di sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione, quale quello avutosi nel contesto europeo durante la fase keynesiana dello sviluppo capitalistico. La sedimentazione storica di livelli di conoscenza e istruzione, diritti acquisiti, sensibilità democratica e partecipativa, che il capitalismo europeo, nella sua precedente fase, ha portato ai livelli più elevati, può essere in grado di produrre nei settori di classe più avanzati, e in generale nei settori colpiti dalla crisi più coscienti, un sovrappiù di coscienza sociale, in grado di rispondere alla distruzione dei legami sociali ed economici messi in atto dal capitale, con la costruzione di una modalità di relazione alternativa, basata sul principio di cooperazione, piuttosto che di competizione. Questo è il tema che ci pone l’esperienza greca, e ancor prima quella dell’Argentina, non casualmente il più occidentale dei paesi


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latino americani. Un tema che si può porre solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico, laddove lo sviluppo delle forze produttive, entra in contraddizione con i rapporti sociali di produzione, determinati dalle necessità di valorizzazione del capitale. Se questa ipotesi ha una sua ragion d’essere, quello che ci indica è un terreno sociale ed economico, di costruzione dell’alternativa, prevalente rispetto a quello politico e istituzionale. Così l’esperienza greca, dopo averci indicato l’inadeguatezza di ogni prospettiva di governo senza una capacità di misurarsi con il tema della rottura degli assetti, ci indica una via per sostenere l’impatto traumatico di tale rottura, nella costruzione di un tessuto di relazioni sociali ed economiche, che si produce in autonomia, quando non in esplicita contrapposizione, al quadro politico e istituzionale. E’ una ipotesi di lavoro, non l’unica ovviamente, e ad essa vanno affiancati altri elementi, primo fra tutti la capacità e la possibilità di costruire una rete di relazioni economiche internazionali in grado superare l’isolamento e l’assedio economico, conseguenza di ogni possibile rottura degli assetti e della governance europea, ma è certo la condizione “sine qua non”, perchè la più “politica”, intervenendo essa a dare concretezza e visibilità, ad un modello altro rispetto a quello del profitto, un modello senza il quale è difficile ricondurre ad unità, un fronte sociale frammentato e lacerato dalla miseria e dall’imbarbarimento, prodotte dalla gestione della crisi del capitalismo europeo. Rispetto ai due modelli storici, a cui ha fatto riferimento l’esperienza comunista del ‘900, quello della costruzione dell’alternativa di società, attraverso la rottura degli apparati di dominio economico e politico della borghesia, e quello della costruzione dell’alternativa di società, attraverso la conquista di tali apparati, l’esperienza greca ci indica la via, embrionale, appena sperimentata, ma comunque concretamente praticata, di una costruzione dell’alternativa di società, in cui il tema dello stato e delle istituzioni, non è più la questione prevalente, rispetto ad una società, la cui complessità, ricchezza di aspettative e potenzialità, può renderla immediatamente protagonista. Investire su questa ipotesi, coniugando le pratiche mutualistiche e di autorganizzazione sociale, con una nuova visione del welfare, partecipato nella gestione e decentrato nell’articolazione, può essere la strada per una soluzione alla crisi delle istituzioni statuali, e alla conseguente crisi della politica e della democrazia, indotte dalla gestione della crisi capitalistica europea. Un piano di elaborazione


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e progettualità questo, che potrebbe far uscire la sinistra e i comunisti, da un approccio statalista ormai improponibile, per una nuova idea di socialismo, oltre i limiti burocratici e autoritari, delle esperienze del “socialimo reale”. Nel complesso l’esperienza greca ci indica due elementi: l’individuazione di un punto di rottura, nella crisi di funzione degli stati nazionali, e le possibilità di affrontare tale rottura, nella costruzione di un alternativa sociale, che sappia prodursi anche in autonomia dalle dinamiche istituzionali: è intorno a questi due temi che si pone la possibilità di ricostruzione di una strategia rivoluzionaria. L’assenza di una strategia rivoluzionaria in grado di interpretare la fase, non impedisce agli elementi che caratterizzano tale fase di prodursi comunque, ma semplicemente fa si che il loro prodursi, si realizzi in forme diverse da quelle auspicate: così il tema della rottura tra diversi livelli del sistema di governance europeo, che la vicenda Greca aveva posto, si ripropone in tutta Europa con altri interpreti. LA ROTTURA DEL NESSO TRA ISTITUZIONI E SOCIETA’: L’ANELLO DEBOLE DELLE STRATEGIE DI GESTIONE DELLA CRISI CAPITALISTICA EUROPEA Il tema della costruzione sociale dell’alternativa è certamente il tema di maggior rilievo in una strategia di trasformazione sociale, ma esso non può essere assolutizzato: non si tratta di un processo lineare, in cui una classe, progressivamente matura le condizioni e le capacità per assumere autonomamente un ruolo da protagonista delle dinamiche economiche e sociali. Ne d’altra parte il tema della rottura politica, può essere sopravvalutato oltre i suoi concreti limiti: la rottura politica, quand’anche possibile, non produce di per se le condizioni per la trasformazione sociale. La storia è storia di lotta di classe, cioè del conflitto fra i diversi soggetti della produzione, nell’interpretare, a partire dai propri bisogni e dalla coscienza della propria condizione, lo sviluppo (quantitativo e qualitativo) delle forze produttive. Tale percorso conflittuale, da un lato aderisce ai tempi lenti dell’oggettività dei processi economici e sociali, e quindi è processo di costruzione concreta e certosina di diverse relazioni sociali, dall’altro si misura con le opportunità di accelerazione, che la soggettività politica deve cogliere nei momenti di crisi e di rottura, cioè di trasformazione: a questo serve una strategia rivoluzionaria.


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Oggi il punto nodale di tale crisi, è rappresentato dalla questione del ruolo degli stati nazionali, e a cascata dalla crisi di tutti i livelli intermedi di governo e istituzionali, regioni, comuni, municipi. Come lucidamente esplicitata da JP Morgan, le costituzioni europee e tutto il sistema istituzionale ad esso connesso, prodottesi all’indomani della vittoria sul fascismo, risultano oggi inadeguate a gestire la crisi del capitalismo europeo. Esse furono infatti concepite sulla base della necessità di essere riferimento delle aspirazioni democratiche e partecipative di larghe masse di popolazioni, al fine di cooptare le diverse aspirazioni sociali, in un quadro di mediazione garantito dal binomio di democrazia e crescita economica: oggi tale binomio non è più proponibile, perchè essendo venuta meno la crescita economica, anche l’altro termine, la democrazia, diviene insostenibile. L’Italia nel dopoguerra, grazie alla forza del movimento operaio e dei comunisti, ha rappresentato una delle espressioni più avanzate, nella possibilità di sussumere le contraddizioni sociali all’interno delle dinamiche istituzionali, grazie al combinato disposto di una Costituzione tra le migliori del mondo e di una legge proporzionale che dava massima espressione politica alle diverse soggettività sociali. Tale condizione ha prodotto la specificità politica dell’Italia del dopoguerra, l’unico paese europeo guidato per quasi quarant’anni dallo stesso partito politico, la DC, ma al contempo quello più instabile, perchè lo stesso partito di governo, per mantenersi tale, era costretto a recepire una quantità di spinte e condizionamenti diversi, con la conseguente sequela di crisi e cambi di governo. Tale anomalia è stata risolta agli inizi degli anni ‘90 con l’eliminazione del proporzionale, e l’introduzione di meccanismi maggioritari e la conseguente eliminazione dell’altra anomalia italiana, le percentuali di voto elevatissime, oltre il 90%, che facevano dell’Italia un punto avanzato della partecipazione politica ed elettorale. La conseguenza dell’eliminazione del proporzionale e dell’affermazione del maggioritario, è stata la trasformazione dell’idea stessa di politica, verificata nel corso di questi decenni, laddove il tema della rappresentanza di interessi sociali, finalizzata alla presenza nelle istituzioni, lascia il posto alla ricerca del semplice consenso elettorale, finalizzato alla conquista del governo; la conseguenza di ciò è stata la rinuncia della politica, all’interesse per i soggetti sociali più deboli, frammentati e marginali, la cui rappresentanza non produce la vittoria elettorale,


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e la competizione verso quelle fasce “centrali” di elettorato, la cui conquista garantisce la vittoria, imponendo contestualmente un moderatismo conservatore, la cui traduzione è nel concetto di “stabilità”. Così nel corso degli anni ‘90 e fino alla crisi finanziaria del 2008, il sistema politico ed istituzionale, si è tenuto intorno all’intercambiabilità del sistema bipolare, accompagnando il processo che a livello economico e sociale escludeva da reddito e diritti grandi settori di proletariato, e quindi negando ad essi anche ogni rappresentanza politica. Contestualmente il sistema bipolare convergente al centro, garantiva la rappresentanza politica a quel blocco di interessi, che le politiche del capitale ancora erano in grado di riprodurre: il grande capitale finanziario e imprenditoriale ovviamente, ma anche le piccole imprese, il ceto medio e il mondo delle professioni, quote significative di lavoro dipendente classico, specialmente nel settore pubblico, i pensionati. Con la crisi del 2008 anche questa modalità, che aveva garantito la “stabilità” nel ventennio precedente, risulta inadeguata. Le difficoltà del capitale, le sue politiche distruttive di gestione della crisi, hanno colpito non solo i settori proletari già da tempo espulsi dalla rappresentanza politica, quel 30-35% di astensionismo a cui da decenni ci siamo abituati, ma anche quei settori sociali che avevano fino ad oggi sostenuto la stabilità del sistema bipolare. Quindi non solo l’astensionismo cresce ulteriormente, fenomeno questo che ovviamente non pone problemi nell’immediato, ma in tutta Europa, emergono movimenti politici che esprimono il malessere e il disagio di questi settori sociali che fino a pochi anni fa costituivano la cintura di sicurezza degli interessi del capitale. Sono questi i fenomeni “populisti” a diversa caratterizzazione, contro la casta e la malapolitica sempre, contro la globalizzazione e l’immigrazione, nella versione di destra, contro l’Europa, quasi sempre. Tali fenomeni populisti, a prescindere dal loro carattere, progressivo o regressivo, possono rappresentare l’elemento di rottura, che agisce sull’anello debole della costruzione europea e di tutta la filiera del suo sistema di governance, da Bruxelles a l’ultimo municipio: il sistema istituzionale e le sue residue garanzie democratiche. E contro i “populismi”, contro cioè l’esplicita manifestazione dell’incapacità


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del capitalismo europeo in crisi, di produrre politiche egemoniche in grado di aggregare un blocco sociale a suo sostegno, c’è la necessità di una nuova stretta democratica, di un’ulteriore riduzione di partecipazione politica e di accentramento delle decisioni. Siamo all’oggi, alla modifica costituzionale e alla nuova legge elettorale e alle polemiche contro il voto referendario, prima in Grecia, poi in Gran retagna. Lo stato e le istituzioni, inadeguate a essere espressione di una società non più ricomponibile intorno agli interessi del capitale, rinunciano ad ogni rapporto con la società, e come assediate da una marea montante di malessere a cui non sono in grado di dare risposta, abbandonano interi territori e ambiti della vita sociale, e si richiudono a difesa di interessi minoritari e particolari, tagliando, con la scusa della riduzione dei costi, dell’efficienza, della governabilità ecc... ogni occasione di partecipazione democratica. Contestualmente, si rafforza, rendendosi sempre più visibile e centrale, la funzione primaria dello stato, il suo monopolio della forza e della violenza, la cui necessità si alimenta del clima di guerra, terrore, criminalità e violenza diffusa, che sono il prodotto delle tensioni internazionali prodotte dalla globalizzazione, oltre che da quella quota di capitalismo criminale, la cui rilevanza nell’economia mondiale è sempre maggiore. Questo è oggi lo stato, queste sono oggi le istituzioni. L’anello debole di un sistema in crisi, screditato a livello di massa, depotenziato delle sue funzioni dalle stesse politiche di gestione della crisi capitalistica; stato e istituzioni il cui ruolo centrale è l’applicazione delle politiche di distruzione necessarie al capitale per ripristinare un adeguato saggio di profitto, e la difesa di tale politiche attraverso il monopolio della forza e della violenza. Pensare di poter usare di tali istituzioni come leva per la trasformazione sociale, è illusione piccolo borghese che può fare breccia solo nell’astratto legalitarismo del grillismo. Pure, proprio perchè anello debole della strategia di gestione della crisi del capitale, le istituzioni possono e devono ancora oggi svolgere un ruolo centrale nella strategia dei comunisti. E su questo l’esperienza greca insegna. Proprio l’esperienza greca ci ha infatti mostrato come il governo e le istituzioni democratiche, benchè depotenziate nella loro autonomia e impossibilitate di fatto a invertire le politiche di rigore, possono però essere il luogo di coagulo delle aspettative di cambiamento sociale. Ciò può produrre, come ha effettiva-


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mente prodotto nel caso greco, una diretta contrapposizione di poteri, tra livello più alto, l’Europa, e livello più basso, le istituzioni nazionali. Analoga dinamica potrebbe prodursi nei prossimi mesi, a livello più basso, tra governo nazionale, e istituzioni locali di grandi agglomerati urbani, quali Barcellona o Napoli, o chissà, forse Roma. Di fatto siamo di fronte al tema della rottura politica della filiera di comando capitalistica, che può e deve essere tentata e attuata a tutti i livelli, dall’ultimo dei municipi, alle istituzioni europee. In tal senso i comunisti non possono rinunciare a giocare la partita istituzionale ed elettorale, perchè oggi il livello istituzionale ed elettorale possono, al di la della nostra stessa volontà o capacità, rappresentare la linea di faglia di un terremoto che può radicalmente modificare gli equilibri esistenti. Il problema inquietante è che tale terremoto sarà probabilmente il frutto dell’azione di soggetti politici e sociali contraddittori, quando non ambigui, se non addirittura inquietanti. La linea di faglia del possibile terremoto politico europeo, non sembra muoversi lungo l’asse della contraddizione capitale-lavoro, e della sua novecentesca espressione politica, nelle categorie di destra e sinistra. La classe frammentata dai processi di destrutturazione e ristrutturazione capitalistica, gioca un ruolo marginale e gregario, in quello che al momento sembra principalmente una lacerazione e una contraddizione, in seno al blocco sociale, che negli ultimi decenni s’è raccolto intorno alle politiche del capitale. Dentro la crisi politica e sociale, che si produrrà a partire da tali lacerazioni e contraddizioni, dovremo capire come ricostruire un autonomo punto di vista di classe, che si sostanzi nella concretezza delle pratiche e nella ricostruzione di una nuova identità di classe. Le incognite che i movimenti populisti aprono in tutta Europa, e che potrebbero portare alla crisi l’intera costruzione europea, se non nei prossimi mesi, certamente nei prossimi anni, impongono una azione politica che sappia muoversi con la spregiudicatezza necessaria in una fase di grandi rivolgimenti e rotture politiche, ma con la prudenza, il rigore, e l’umile e certosino lavoro, per la tutela e la difesa di interessi concreti, in una fase di grandi tensioni sociali. Perchè ciò sia possibile serve un partito comunista in grado di manovrare, conoscendole, sul terreno delle contraddizioni che il populismo pone alle politiche


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di gestione capitalistica della crisi, in particolare sul terreno politico e istituzionale, e contestualmente un partito in grado di costruire, nella società, le reti, le strutture, le pratiche di autorganizzazione e i meccanismi di autodifesa, in grado di reggere l’urto che l’esplodere di tali contraddizioni produrrà nella società.


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SUL POPULISMO LA NATURA DI CLASSE DEL POPULISMO Riflettere sul tema del populismo, per coglierne al di la degli aspetti fenomenici, gli elementi strutturali, significa riflettere su due questioni: 1) come tale fenomeno si sviluppi nel quadro dei rapporti tra le classi, e di come esso sia in sostanza espressione specifica di tali rapporti; 2) come tale fenomeno mistifichi e nasconda proprio quei rapporti tra le classi di cui pure è espressione. In merito alla prima questione il dato da cui partire è la debolezza strutturale dei due principali competitori nel conflitto generato dalla contraddizione capitale-lavoro: borghesia e proletariato. Come già detto la borghesia dell’Occidente e dell’Europa in particolare, si trova a misurarsi con una crisi epocale, generata in particolare dalla necessità di sostenere la competizione globale, e di come, per sostenere tale competizione, debba attuare politiche distruttive, che le impediscono di aggregare intorno ai propri interessi, un blocco sociale organico: il mondo della piccola impresa, il mondo delle professioni, del lavoro dipendente classico e dei pensionati, con le loro relative tutele, che pur con alcune criticità, vedeva garantita la sua riproduzione nell’ambito delle politiche del capitale, così come era stato nei decenni a cavallo del ‘900, oggi si trova svincolato, privo di un quadro di riferimento, di una prospettiva certa, ma sempre più sull’orlo del baratro di una precarietà, da cui fino ad oggi si sentiva al riparo. Il capitale di fatto, non controlla più il sistema di alleanze su cui aveva fondato il suo dominio. Contestualmente il proletariato, vive una crisi egualmente profonda, destrutturato nella sua stessa identità collettiva, attraverso i processi di frammentazione e delocalizzazione del ciclo produttivo, privato di una visione autonoma dei propri interessi, dopo decenni di sconfitta politica, diviso al proprio interno da una dura competizione al ribasso sul mercato del lavoro, che con l’arrivo di ulteriore


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forza lavoro migrante si fa anche più feroce. In questa condizione di debolezza ha subito il parallelo processo di perdita delle sue garanzie sociali e sindacali, e contestualmente la sua possibilità di agire sulla scena politica. Escluso, sconfitto, diviso, nel corso di trent’anni ha in larga misura perso la sua fisionomia, trasformandosi in quell’indistinto mondo di precarietà atomizzata, in cui è anche difficile riconoscere il concetto di classe. In tale crisi, che va avanti almeno dagli anni ‘80, esso ha perso ogni capacità attrattiva nei confronti di quei settori sociali intermedi, sui quali nel corso del dopoguerra, e fino agli anni ‘70, aveva esercitato una potente egemonia, arruolandoli di fatto nel suo sistema di alleanze sociali. Borghesia e proletariato vivono, per ragioni diverse ma egualmente profonde, una crisi che impedisce ad entrambi i soggetti, di esprimere una coerente ed organica visione e progettualità politica ed economica. E’ in questo quadro che quel mondo di interessi intermedi, che un tempo era facilmente riconducibile al concetto di ceto medio, oggi tende ad autonomizzarsi dai due principali contendenti dello scontro di classe, entrambi in crisi, producendo un proprio protagonismo e una propria, contraddittoria e spesso regressiva, visione e progettualità politica. Un aggregato di piccola e piccolissima imprenditorialità, prodottasi con i processi di frammentazione del ciclo produttivo, e oggi in crisi perchè inadeguato a misurarsi con la competizione globale, un vasto mondo di professioni, il cui valore sul mercato del lavoro è sempre più basso, piccoli proprietari e risparmiatori colpiti dalla crisi immobiliare e finanziaria, pezzi di intellettualità radicalizzata, ma priva di riferimenti forti, settori di nuovo proletariato precarizzato, prodottosi successivamente alla sconfitta del movimento operaio ed estranei a quella cultura politica. Questa è il nocciolo duro e originario, quello che esprime ed impone i propri valori nell’impianto populista variamente declinato. Ma intorno a questo nocciolo duro, alla sua capacità di coagularsi intorno messaggi e modalità comunicative semplici e immediate, progressivamente si stanno aggregando tutti i diversi frammenti di una classe priva di riferimenti politici, e contestualmente anche quei settori marginali e minoritari del capitale, che tentano di rifuggire dalla competizione globale, con il ritorno a visioni nazionalistiche in politica e protezioniste in economia. Un blocco sociale interclassista che si produce nel vuoto della politica, conseguenza della crisi dei due soggetti principali della contraddizione capitale-la-


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voro. Ma per sostenersi e mantenersi tale blocco sociale, deve produrre una sua propria ideologia, la cui prima funzione è impedire l’esplicitarsi di quella contraddizione capitale-lavoro, la cui negazione è il cemento di tale blocco sociale. E qui veniamo al secondo tema, quello della mistificazione ideologica. Dal punto di vista fenomenico il populismo si esprime a livello europeo con una quantità di manifestazioni diverse e contraddittorie tra loro, quando non all’interno di ognuna di esse. Pure benchè diversi sul piano “ideologico”, e nell’individuazione di una cultura politica di riferimento, tutti i movimenti populisti fondano il loro “successo”, sulla possibilità di trovare ricette e soluzioni la cui unica funzione non è quella di misurarsi con la crisi del capitalismo e quindi di affrontare le conseguenze di tale crisi, ma di prescindere da tale crisi, negarne il carattere profondo, cercare invece un capro espiatorio dal cui sacrificio è possibile la rinascita, o meglio “il ritorno” ad una condizione precedente. Al centro di tale visione il ruolo salvifico dello “stato nazionale”, sia nella visione di destra, come luogo che garantisce la separatezza e la garanzia di alcuni interessi, contro i rischi della globalizzazione, sia nella versione di “sinistra” dello stato nazionale, come luogo della partecipazione, del buongoverno e magari di un po’ di redistribuzione. Variando dall’esplicito neofascismo ungherese, al razzismo ben educato della destra austriaca, all’isolazionismo dei fautori della brexit, al nazionalismo classico della Lepen, al fenomeno provinciale, ma in via di trasformazione della Lega, fino alle espressioni di sinistra come Podemos, e soprattutto al movimento che più di tutti interpreta i caratteri essenziali di tale fenomeno, il M5S, tutte queste realtà si caratterizzano per la individuazione dello stato, e quindi del governo, come l’elemento chiave per la difesa di aspirazioni sociali, incapaci di misurarsi con il drammatico quadro determinato dalla crisi del capitalismo europeo, e in cerca di soluzioni rassicuranti che guardano al passato: la legalità e la buona politica, la sicurezza e il contrasto dell’emigrazioni. E’ in questa ideologia mistificatoria, la forza e la debolezza dei movimenti populisti. La forza perchè intorno al tema dello stato e del governo riescono a raccogliere le aspirazioni sociali di quanti subiscono i processi di integrazione europea e di globalizzazione economica, la debolezza, perchè proprio nel rea-


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lizzare il loro progetto, pongono le condizioni per il suo fallimento. Proprio l’attivazione di aspettative sociali intorno a ipotesi velleitarie, astratte e antistoriche, crea le condizioni per quella crisi politica, che i processi di integrazione europea “dall’alto” tentano di superare. Dalla crisi del capitalismo europeo, non si esce lasciando l’euro o chiudendo le frontiere o aprendo i cordoni della borsa e lasciando un po’ di flessibilità ai bilanci degli stati. La crisi è frutto di una irrisolta contraddizione, tra le condizioni del lavoro, così come si sono prodotte nel ‘900 e in particolare nel II dopoguerra, e le necessità di valorizzazione del capitalismo europeo nella competizione globalizzata. E’ crisi strutturale tra capitale e lavoro, e proprio il lavoro, nelle sue garanzie e nel suo monte salari complessivo, deve essere distrutto per garantire il profitto del capitale. Ma questo è ciò che i movimenti populisti non possono cogliere, per il carattere arretrato dei soggetti sociali di cui sono espressione, soggetti deboli e con un rapporto frammentato con la produzione, e che le direzioni politiche dei movimenti populisti non possono nemmeno esplicitare, pena lo sgretolarsi della coesione dei movimenti stessi. A fronte di questa inadeguatezza nel misurarsi con le ragioni economiche e sociali della crisi, i movimenti populisti pongono la soluzione a partire dal tema politico dello stato e del governo, producendo aspettative che attraverso il meccanismo della delega elettorale, riescono ad impattare proprio sul punto di maggior debolezza, nella strategia di gestione capitalistica della crisi. Come un cieco ariete i movimenti populisti cercano la soluzione tentando di sfondare sul piano del governo e dello stato, assegnando a quel governo e quello stato, un ruolo e una funzione che non possono più avere, nel quadro dei rapporti capitalistici, e riescono a fare ciò ampliando quelle aspettative che a livello di massa, sono il frutto dell’impossibilità di comprendere e accettare il carattere strutturale della crisi. Ma la critica ai limiti del populismo non può esimerci dalla riflessione sul fatto obbiettivo, che tali movimenti hanno di fatto resa esplicita la marginalità della sinistra di classe, pur avendo questa una radicata sedimentazione culturale e una visione sicuramente più complessa e articolata. Il fatto che i populismi abbiano fatto la scelta più semplice e diretta, per quanto mistificatoria e velleitaria, non ci da conto dei limiti, nelle scelte fatte dalla sinistra nel suo complesso e dai co-


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munisti in particolare in questi anni. SINISTRA DI CLASSE E POPULISMI L’aspetto particolarmente frustrante dell’affermazione dei movimenti populisti, è principalmente nel fatto che tale affermazione si produce quando la crisi delle politiche liberiste, a cui da sempre la sinistra radicale si è opposta, diviene palese a livello di massa, e produce una crisi evidente delle istituzioni e del sistema politico europeo. Quella che doveva essere l’occasione per un nuovo protagonismo della sinistra radicale, vede invece emergere nuovi attori, che con spregiudicatezza e una certa arroganza, si appropriano della scena, lasciando la vecchia sinistra nella marginalità, in un angolo del palcoscenico. Per comprendere come ciò sia accaduto, ancora una volta l’esperienza greca ci da un contributo utile, non foss’altro per l’evidente concatenazione temporale, tra questa esperienza e le successive affermazioni di movimenti populisti. Nella primavera-estate del 2015 tutta Europa guarda con apprensione ai rischi (o alle speranze) di una Grexit; a distanza di un anno tutta Europa guarda con apprensione alla conseguenze della Brexit. Tra il 2014 e il 2015, l’esperienza di Syriza polarizza tutte le speranze e le attenzioni di quanti aspirano ad un cambiamento: ciò si traduce a livello elettorale, in timidi ma significativi risultati di tutte le forze della sinistra alternativa nelle elezioni europee, a livello politico nella forte influenza esercitata da Syriza su un movimento neopopulista come Podemos, e a ciò va aggiunto l’insuccesso del M5S in Italia, che nel quadro delle elezioni europee, anche per caratterizzarsi rispetto a Syriza, assume un profilo “di destra”. Un anno dopo l’esperienza di Syriza ha esaurito ogni potenzialità di rottura e si colloca definitivamente in linea con una critica alle politiche europee, subalterna al quadro delle istituzioni europee, mentre i movimenti populisti variamente declinati, polarizzano l’interesse, interpretando le aspettativa di cambiamento e rottura che si agitano in Europa. Alla base dell’affermazione di Syriza in Grecia, e quindi del primo significativo elemento di crisi e di possibile rottura dell’Unione Europea, vi è la stessa necessità, la stessa onda lunga, la cui cresta in Grecia aveva il rosso colore della sinistra, mentre oggi in gran parte d’Europa, ha il colore opaco e sporco, della


xenofobia, del nazionalismo, della paura in ultima analisi.

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E Syriza, al pari dei movimenti populisti, ha incentrato la sua strategia sulla conquista e sul mantenimento (ad ogni costo) del governo, reputato come elemento centrale della possibilità di trasformazione. Ma Syriza, a differenza dei movimenti populisti, aveva individuato la questione del governo, come leva per fermare le politiche di rigore liberiste, e riproporre la centralità della contraddizione capitale-lavoro, fallendo nell’obbiettivo. Daltra parte l’affermazione di Syriza si è realizzata in larga misura con il passaggio di voti dal centro sinistra del Pasok, alla sinistra alternativa, intercettando quindi quei settori sociali che fino a pochi anni prima, erano stati la base sociale ed elettorale del bipolarismo greco, gli stessi soggetti sociali che in linea di massima hanno costituito la base della costruzione politica a livello europeo. Nemmeno l’esperienza di Syriza, con le sue grandi aspettative di cambiamento, era riuscita ad interpretare quel 40% di astensione di soggetti esclusi da ogni partecipazione politica. Che questi soggetti, che avevano accettato negli anni passati tutte le politiche di rigore, in più accompagnate da corruzione e malgoverno, abbiano rinnovato a Syriza il consenso, pur in assenza di concreti risultati rispetto al programma che si era data è comprensibile. Ma era altrettanto prevedibile che a livello di massa, si producesse sfiducia nella possibilità di affrontare, attraverso il governo, il tema della fine delle politiche di rigore, e quindi la conseguente derubricazione della soluzione al malessere sociale derivante da tali politiche, ad un livello più arretrato, aderente alle effettive possibilità dei governi e degli stati nazionali: garanzia della legalità e buon governo, i cardini di ogni populismo “di sinistra”, a questo alla fine si è adattata Syriza. In tal senso però le politiche populiste risultano più credibili e aderenti alla realtà, delle proposte messe in campo dalle sinistre d’alternativa, e ciò si è reso palese al di fuori dei confini greci, laddove l’atteggiamento equivoco e compromissorio di Podemos alle elezioni dell’anno passato e le affermazioni del M5S in Italia, sono sembrate più credibili di proposte della sinistra che puntavano ad una contestazione esplicita e diretta delle politiche di rigore. Per non parlare della vicenda britttannica, dove la contestazione alle politiche di rigore, si è mescolata alle pulsioni antimmigrati.


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Ma il velleitarismo, per quanto credibile, alla prova dei fatti rimane tale. La preoccupazione legalitaria, che variamente declinata, sottende all’affermazione dei movimenti populisti, non può essere la soluzione, alla luce di una crisi distruttiva del capitale, che non può che continuare a produrre caos e insicurezza sociale. Ma almeno nel caso italiano, per operare su questa contraddizione, c’è necessità soprattutto di non cadere nella trappola subalterna della competizione con il M5S, competizione che poi si traduce nel confronto elettorale. Non è, ne può essere questo il tema. Il fenomeno politico dei populismi in genere e del M5S in particolare, sta scuotendo la scena politica europea e nazionale, nella misura in cui interviene a sostituirsi ai partiti di centrodestra e centrosinistra, nella rappresentanza di soggetti sociali che fino al 2008 erano riconducibili, seppur in modo contraddittorio alla riproduzione di un sistema politico, incentrato sugli interessi del capitale. Anche solo guardando il dato dell’astensionismo risulta evidente: rispetto all’espulsione dalle dinamiche elettorali di una quantità di soggetti subalterni, che va avanti da quasi 30 anni, con percentuali d’astensione sempre crescenti, fino al quasi 50% attuale, il M5S non rappresenta una significativa controtendenza. Non c’è un recupero di partecipazione elettorale grazie al M5S, se non in misura minima, e se anche nelle periferie il M5S ottiene grandi successi elettorali, non sembra essere la leva di una nuova grande attivazione politica, seppur nel limitato ambito della delega elettorale. Certo l’offerta di un nuovo prodotto nel supermercato della politica, può forse attirare qualche nuovo cliente, può impedire a molti di lasciare il supermercato, ma per lo più, ha il principale risultato di spostare l’attenzione dei soliti clienti, da uno stand all’altro: molti si spostano dallo stand del centrosinistra e del centrodestro, verso la nuova offerta speciale pentastellata, e quei pochi che lasciano l’ormai vetusto stand del comunismo e della sinistra radicale per la nuova offerta, ci sembrano tanti, perchè essendo da più di vent’anni soggetto fortemente minoritario, senza quei pochi diveniamo assolutamente marginali. Va preso atto che tra la sconfitta della sinistra di classe, che va avanti da oltre 30 anni, e i movimenti populisti, che sono fenomeno relativamente recente, non c’è diretta relazione. La relazione esiste semmai tra la sconfitta di quella che un


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tempo era la sinistra moderata, e poi il centrosinistra, e l’affermarsi dell’M5S, nel senso che quella sinistra moderata non è più in grado di mantenere un certo numero di settori sociali, nell’alveo delle politiche moderate, e vede quei settori sociali (piccola impresa, mondo delle professioni, settori di lavoro dipendente tutelato, pensionati) che un tempo erano la sua base elettorale, prendere il largo verso una proposta politica di rottura con tali politiche moderate. Si tratta in sostanza di una dialettica tutta interna a quei due terzi di società che da decenni si erano collocati sui due versanti del bipolarismo. Questa cosa ci colpisce e ci riguarda, solo nella misura in cui, anche un partito come il nostro, che si considera espressione di un punto di vista di classe, si è collocato per un lungo periodo su uno dei due versanti del bipolarismo. E soprattutto, che anche quando ha fatto una precisa scelta di campo al di fuori dell’impianto bipolare, con il tentativo di costruzione della sinistra alternativa al centrosinistra, ha continuato a costruire le sue prospettive, in funzione della crisi di uno dei due poli. Così quando finalmente la crisi del PD giungeva a compimento, è andata delusa la speranza che fosse la sinistra alternativa a trarne vantaggio, mentre è stato il M5S a capitalizzare il risultato. Per oltre vent’anni, mentre progressivamente ampi settori di classe venivano espulsi da ogni protagonismo politico e partecipazione elettorale, il PRC ha continuato a limitarsi a garantire la rappresentanza di quote più coscienti e radicalizzate, ma minoritarie (anche al massimo della forza, non siamo mai andati oltre l’8%), della stessa soggettività sociale che si esprimeva nel quadro del sistema bipolare. Giovani, lavoratori precari non sindacalizzati, migranti, abitanti delle grandi periferie urbane e in generale tutti coloro che venivano progressivamente espulsi dal sistema di tutele legate al diritto del lavoro e al welfare, che da decenni continuano ad alimentare l’astensionismo elettorale, la passivizzazione politica, la desertificazione sociale, sono rimasti fuori dall’ambito di interesse della sinistra politica radicale. Al contempo abbiamo continuato a competere con le sinistre moderate, prima all’interno della medesima coalizione, poi da posizione alternativa, nella rappresentanza di quel “popolo di sinistra”, in costante e progressiva dissoluzione sotto i colpi delle politiche liberiste. Un “popolo di sinistra” che era l’espressione politica e culturale di un blocco sociale formatosi in un’altra fase storica, quando la classe, i soggetti del lavoro, ne erano il fulcro ed il cuore, e che progressivamente privato di quel fulcro e quel cuore, si è ridotto a pura rappresentazione politica prima, a semplice frammento residuale poi.


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Con l’emergere del M5S, si è solo svelato il grande equivoco, che quel “popolo di sinistra” fosse intrappolato nel PD, e che una volta svelato la vera natura del PD, esso si sarebbe ricollocato su posizioni di sinistra radicale. La vittoria del M5S ha evidentemente mostrato, che la sconfitta del PD, non liberava un “popolo di sinistra” ormai inesistente, ma solo una sommatoria di interessi contraddittori e frammentati, privi di qualsiasi effettivo legame con un punto di vista di classe, che non più difesi nel quadro del vecchio assetto politico bipolare ed in particolare dal centrosinistra, cercano un’espressione autonoma, disponibili a qualsiasi avventura. L’idea di “competere” con il M5S, magari per produrre ancora una volta una rappresentanza elettorale al 6% (la stessa che il PRC ha avuto per anni, con i risultati noti), dimostrando così l’esistenza in vita della sinistra, è subalterna e senza speranza. L’idea di “attendere” che il M5S consumi la propria esperienza, con la speranza che una volta mostratasi la sua vera natura, allora i consensi si sposteranno a sinistra, è subalterna e rischiosa, perchè non fa i conti reali con la natura dei soggetti che il M5S rappresenta, in buona misura tutt’altro che insensibili ai messaggi della destra populista. Di fatto il M5S, rappresenta una nuova modalità di espressione dei soggetti sociali intermedi, la loro cultura politica, i loro timori e le loro aspirazioni (merito, legalità, sicurezza), quei soggetti sociali intermedi che un tempo erano anche parte di un blocco sociale di sinistra, ma che nel corso degli ultimi decenni, si sono costruiti intorno alle cultura di destra esplicite del centrodestra e implicite del centrosinistra. Il M5S non rappresenta certo la classe, che rimane fuori, esterna alle dinamiche politiche, e che anche quando esprime una preferenza elettorale, lo fa sulla base di interessi specifici, motivazioni istintive, senza riconoscersi effettivamente in alcun progetto politico. Il tema con cui ci dovremmo misurare è quello della organizzazione e successivamente della rappresentanza, di quella vastità di soggetti che sono esclusi dalla partecipazione elettorale e dal protagonismo politico, e che guardano con un misto di diffidenza, di scetticismo, ma anche di aspettative, alle rotture nella dimensione politica, prodotte dalla fine del blocco sociale che fino ad oggi aveva garantito la stabilità del sistema, e la loro esclusione. Perchè è questo il tema: l’affermazione del M5S rompe quel patto “ad asclu-


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dendum”, che aveva caratterizzo la vicenda politica degli ultimi decenni, con i soggetti più colpiti dalla crisi messi ai margini, di un patto subalterno tra soggetti sociali intermedi, quote sempre minori di lavoro dipendente tutelato, e capitale. Quel patto si sostanziava in un sistema politico, che oggi sotto i colpi delle politiche distruttive di gestione della crisi, non tiene più. La rottura di questo sistema politico, il cui fine era la progressiva esclusione della classe, è lo scenario in cui la classe può riprendere a giocare la sua partita, anche misurando la propria egemonia su altri soggetti. Ma perchè ciò sia possibile c’è necessità di un punto di vista di sinistra, che si distanzi dalla mistificazione populista della centralità del governo, individui nel tema del governo e delle istituzioni solo un terreno di rottura degli equilibri, e ricostruisca la sua azione privilegiando i terreni extraistituzionali del conflitto e della costruzione sociale. La stessa ineludibile questione della presenza istituzionale, va vista solo in considerazione del rafforzamento del conflitto e della costruzione sociale. Per questo non possiamo esimerci dal tema elettorale, per la necessità di operare dentro la crisi di un sistema politico, che i movimenti populisti stanno producendo. Non certo per legittimare, con inutili speranze, tale sistema politico. Il tema della “rappresentazione politica”, che ha sostituito quello della rappresentanza politica degli interessi sociali, non è priorità della classe, ma solo opportunità per la classe, di svolgere un autonomo ruolo nella crisi di tale rappresentazione. E tali crisi, altri sono i soggetti che la stanno producendo. POPULISMI E ROTTURA POLITICA Affrontando il tema dei movimenti populisti, è necessario partire da una premessa di ordine generale: i soggetti sociali intermedi di cui i movimenti populisti sono espressione, hanno sempre svolto un ruolo centrale nella costruzione della rappresentazione politica. Base sociale del fascismo, nella crisi successiva alla Grande Guerra, elemento determinante, in alleanza con la classe, nell’affermarsi di impianti socialdemocratici, nel II dopoguerra, questi soggetti hanno sempre rappresentato il punto di equilibrio e di stabilizzazione della contraddizione capitale-lavoro e nello scontro tra i due principali contendenti sociali, borghesia e proletariato.


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Oggi questi stessi soggetti sono invece fattore di instabilità, e la loro autonoma espressione politica, pone in tutta Europa il tema della rottura della costruzione politica europea. Ma parlando di questi soggetti e dei movimenti populisti con cui si esprimono, la questione della rottura va ridefinita, rispetto a come fino ad esso è stato utilizzato in questo scritto. Fin qui il tema della rottura è stato posto nel senso della rottura della sovrastruttura politica, finalizzata alla rottura della gabbia imposta sul piano economico, dalle necessità di valorizzazione del capitale. E’ questo un tema complesso che si pone nell’ottica di una ridefinizione dei rapporti tra le classi, in una prospettiva che guarda alla costruzione di un’alternativa sociale che è da farsi, nel futuro. Dal punto di vista dei movimenti populisti, il tema della rottura, pure centrale, ha un significato diametralmente opposto. La rottura è un atto da esercitare sul piano politico (a livello europeo, nazionale o comunale ecc...), per il ristabilimento di rapporti economici liberati dalla politica. Alla base di questo approccio c’è il presupposto idealistico e piccolo borghese, che i fenomeni economici, siano il frutto di libere scelte, e non un atto necessitato nella dialettica dello sviluppo delle forze produttive. La globalizzazione è il frutto di lobbies internazionali, l’immigrazione è determinata da una volontà di accoglienza, la mafia e la corruzione sono frutto della disonestà dei singoli, e tutte queste volontà soggettive, che intervengono a modificare la condizione di vita di soggetti sociali fino ad oggi relativamente garantiti, sono riconducibili ad una “cupola” politica, nei confronti della quale è giusto e necessario un atto di rottura. L’obbiettivo del movimento populista, non è quindi quello di operare, nella società e nelle istituzioni, per cambiare un sistema sociale la cui inadeguatezza ha ragioni oggettive, ma semplicemente di ottenere, attraverso la delega elettorale, la forza necessaria a raggiungere la “cupola”, distruggerla e sostituirla con una nuova forma della politica, non più espressione di interessi specifici contrapposti, ma di interessi generali, codificati nel concetto di “legalità”, la cui principale traduzione è nel concetto di “sicurezza”. Quindi in ultima analisi, tutti i movimenti populisti, non mirano a trasformare la società, ma a restaurarla. I movimenti populisti quindi sono in grado di produrre una rottura politica, solo finalizzata alla restaurazione di rapporti economici precedenti. Questo è il loro


velleitarismo antistorico.

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E’ a partire da questa definizione dei movimenti populisti, come movimenti che operano sulla rottura del presente sistema politico, senza alcuna idea sul futuro dei rapporti sociali che presuppongano una nuova costruzione politica, che si misura la diversa determinazione sul tema della rottura dei diversi soggetti populisti. Di fatto la differenza avviene in rapporto alle diverse aspettative sociali che i movimenti populisti interpretano, a secondo dei diversi contesti nazionali in cui operano. Quanto più le aspettative sociali che un movimento populista interpreta, sono regressive e funzionali ad un quadro di ristabilimento delle “garanzie” di settori sociali “privilegiati”, tanto più la disponibilità a scelte di rottura politica sarà conseguente. I movimenti populisti con una più chiara caratterizzazione di destra, nazionalisti e xenofobi, che non hanno nel loro orizzonte nessuna velleità di trasformazione sociale, ma solo una velleitaria tendenza alla restaurazione di uno “status quo” precedente la globalizzazione, sono quelli che con maggior determinazione pongono il tema della rottura politica a livello nazionale ed europeo. E ciò proprio perchè interpretano tale rottura solo sul piano sovrastrutturale della costruzione politica e istituzionale, che non su quello strutturale dei rapporti tra le classi. Quanto più le aspettative sociali che un movimento populista interpreta, sono progressive e disponibili ad una ipotesi di trasformazione sociale reale, che agisce sui temi economici, nel rapporto tra le classi e quindi sulla contraddizione capitale-lavoro, tanto più il tema della rottura si pone in termini sbiaditi e contraddittori, come nel caso di Podemos, sempre in bilico tra il presentarsi come soggetto rassicurante, in grado di garantire settori sociali timorosi di un’autentica rottura dei rapporti sociali, e la radicalità nella rappresentanza di soggetti stanchi delle politiche di rigore europee. Questo il limite di Podemos, che sul crinale del rapporto con l’Europa è risultato inaffidabile per i settori moderati, per i rischi di rottura che evoca (soprattutto dopo l’accordo con IU), ma non sfonda nei settori popolari e in larga parte della popolazione, visto che la metà degli elettori ancora rimane fuori dalla contesa elettorale.


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I movimenti populisti di sinistra, o che interpretano aspettative riconducibili anche alle culture di sinistra, non hanno una chiara progettualità e visione dei rapporti sociali, a partire dalla quale costruire una nuova visione politica, ne possono contare su ipotesi di restaurazione politica dello “status quo” precedente la globalizzazione. Da ciò l’impossibilità di dare effettiva conseguenzialità alle aspettative di rottura che alimentano e da cui traggono la propria forza. E’ a partire da questa lettura dei populismi “di destra e di sinistra”, che va vista la difficoltà di un leader di sinistra come Corbin, di fronte ad una determinazione alla rottura portata fino in fondo dalla destra britannica, che produce lacerazioni nella sinistra inglese, anche sulla linea di faglia del fenomeno migrazione. E’ in questo quadro che va collocata la specificità italiana del M5S, il miglior interprete del fenomeno populista, nella misura in cui individuiamo come populismo, la rimozione della contraddizione capitale-lavoro e il tentativo di superamento dell’antinomia destra sinistra, legata a quella contraddizione. Avanzare il tema della rottura politica, senza una chiara visione dei rapporti sociali che sottendono a questa rottura politica, è l’avventura con cui il M5S sta raccogliendo consensi di massa. Tale avventura avrà un suo esito nella questione del governo, laddove il M5S ha suscitato il massimo di aspettative sociali e dove necessariamente produrrà il massimo di contraddizioni, in seno a quello che era stato il blocco sociale che aveva garantito la stabilità politica nei decenni precedenti. E’ su questo che devono operare i comunisti e la sinistra, amplificare le aspirazioni di rottura politica, sostanziandole di contenuti che pongono il tema della rottura sociale, con il fine di condizionamento del populismo e la sua lacerazione sul tema della contraddizione capitale-lavoro, per lasciare spazio o ad una più avanzata progettualità, o al contrario al ricompattarsi di un fronte di destra intorno al compromesso con i poteri forti dell’economia. Questo è ciò che vedremo già nell’amministrazione di grandi città come Roma e Torino, Questa sarà la prospettiva nel caso di una vittoria del M5S alle prossime elezioni politiche. La determinazione alla rottura politica, come premessa per la rottura dei rapporti sociali di produzione, è l’elemento che ci caratterizza, rispetto al M5S, ed esso è frutto di un’analisi della crisi del capitalismo europeo, che parte dalla contraddizione capitale-lavoro.


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In questo quadro il tema del debito e dei vincoli di bilancio, temi eminentemente economici, con immediate ricadute sociali, che si pongono ad ogni livello del governo, è un modo per declinare il tema della rottura in forme autonome, rispetto alle diverse culture populiste. Non la rottura formale sul solo livello delle dinamiche politiche istituzionali., ma una rottura sostanziale, su temi economici e sociali, che è l’unica che può inverare la rottura politica che i movimenti populisti piĂš progressivi possono riuscire a produrre sul piano elettorale.


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SUL SOGGETTO DI CLASSE LA DISTRUZIONE DEL SOGGETTO DI CLASSE In questo scenario generale, che vede la crisi strutturale del capitalismo europeo, l’impraticabilità di processi di trasformazione sociale che non prevedano momenti di rottura degli assetti istituzionali europei, la tendenziale disponibilità alla rottura da parte di quei soggetti sociali, che negli ultimi decenni erano stati parte del blocco sociale di sostegno alle politiche del capitale, quello che è il grande assente è un soggetto di classe, in grado di operare in questa crisi, a partire dall’individuazione di un proprio specifico interesse, con una propria autonoma soggettività politica, in grado di aggregare intorno a se un sistema di alleanze sociali. In Italia la classe è stata espulsa dalla dinamica politica negli ultimi decenni, e tale processo di distruzione ha avuto la sua plastica, espressione nella costante crescita dell’astensionismo elettorale, il cui inizio ha coinciso con la sconfitta politica subita alla fine degli anni ‘70, e che oggi è giunto ad un punto tale da rendere assolutamente non rappresentative della realtà del paese, le stesse elezioni. Quando in importanti elezioni amministrative come quelle di Roma, il voto supera di poco il 50% di partecipanti, per scendere ben al di sotto di tale livello nei quartieri popolari, è evidente che viene meno il primo tra i presupposti per cui i comunisti partecipano alle elezioni, quello di testare sulla base delle scelte elettorali, i livelli di coscienza e consapevolezza della classe. Ovviamente, l’esplicitazione elettorale dell’assenza della classe, come soggetto collettivo e dotato di una autonoma identità, è solo l’ultima e la più evidente tappa di un percorso, che ha preso le mosse all’inizio degli anni ‘80, nel cuore stesso del ciclo produttivo, per poi estendersi a tutti gli aspetti della vita sociale, caratterizzata negli ultimi decenni da una offensiva ideologica e materiale, finalizzata alla distruzione della “classe per se”, fino al punto addirittura di vedere l’affermarsi di teorizzazioni, che giungevano a negare la stessa idea di una “classe in se”. Senza entrare nel merito di una complessa analisi di come tale offensiva si sia


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prodotta e soprattutto del perchè essa si è dimostrata vincente per un così lungo periodo, è comunque doveroso citare, almeno per titoli, e in ordine di priorità, gli elementi su cui tale offensiva si è caratterizzata: 1) innovazione tecnologica: i processi di automazione e di informatizzazione, riducono la necessità di forza lavoro, limitando il potere contrattuale del lavoro nei confronti del capitale; 2) innovazione tecnologica: sostituzione dei grandi siti produttivi, in cui si concentrava la forza lavoro e l’intero processo di produzione, con un processo produttivo parcellizzato e delocalizzato a livello globale, processo reso possibile dalla rivoluzione informatica e delle comunicazioni: i lavoratori divisi nel processo produttivo, vengono colpiti nella loro possibilità di organizzazione e identificazione collettiva, e divengono soggetti a processi di corporativizzazione; 3) innovazione tecnologica: nell’ambito di tale processo di parcellizzazione produttiva, settori del mondo operaio espulsi dal vecchio ciclo produttivo, vengono sussunti nel nuovo modello produttivo come lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, con una conseguente adesione ideologica di settori di classe, alla visione politica del capitale; 4) globalizzazione: possibilità del capitale, grazie ai processi di delocalizzazione, di accedere alla manodopera a basso costo di tutto il pianeta; 5) globalizzazione: possibilità del capitale, attraverso i processi migratori, di avere in Occidente, la madopera a basso costo di tutto il pianeta; 6) finanziarizzazione: la crescita progressiva di opportunità di valorizzazione del capitale, svincolate dall’investimento produttivo, che hanno ulteriormente depresso il mercato del lavoro e indebolito la classe; 7) terziarizzazione: esplosione del settore dei servizi, determinato da un lato dalla crescita di nuovi ambiti d’attività (comunicazione, informatizzazione, intermediazione, mondo delle professioni ecc...), dall’altro dall’esternalizzazione di una serie d‘attività, non riconducibile direttamente al ciclo produttivo (pulizie, mense, manutenzioni, logistica, ecc...), e dall’esplosione del settore dei consumi e della grande distribuzione. Nel primo ambito d’attività si è prodotto un mondo del lavoro a professionalità medio-alta, che nella fase espansiva ‘80-’90, ha assunto l’ideologia del capitale, basata su concorrenza, meritocrazia, precarietà,


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individualismo; nel secondo si è prodotto un mondo del lavoro a bassa professionalità, fortemente precarizzato, e costitituto da soggetti ricattabili (donne, immigrati). Questi due settori costituiscono i nuovi soggetti proletari, frutto delle trasformazioni del ciclo del capitale, e tendenzialmente privi di memoria storica; 8) attacco al welfare: a partire dalle legittime aspettative verso un welfare pubblico, che alla fine degli anni ‘70 necessitava di un salto qualitativo, è iniziata una campagna ideologica, che prima ha ottenuto consenso di massa sulla mistificazione della superiorità del privato rispetto al pubblico, quindi ha prodotto l’attacco ai lavoratori pubblici “improduttivi”, poi, quando i fatti hanno svelato tale mistificazione, ha usato la necessità del “rigore” per continuare l’opera di distruzione; 9) invecchiamento: esclusione del mondo giovanile dal mercato del lavoro, anche attraverso l’allungamento dell’età pensionistica, che ha determinato un invecchiamento dei lavoratori produttivi, un calo tendenziale delle loro aspettative, e un crescita di atteggiamenti autoconservativi e subalterni. Questi i principali elementi strutturali attraverso cui si è distrutto quel soggetto di classe, che nella fase storica precedente era stato il protagonista della scena politica e sociale in Occidente. Ma oltre a questo livello strutturale, la distruzione è passata anche per il piano sovrastrutturale, con la complice subalternità delle sinistre, in primo luogo attraverso il sindacato confederale, poi direttamente sul piano politico. Questi i principali fattori della debacle sindacale, nella difesa di una soggettività di classe: 1) l’inadeguatezza della struttura sindacale, basata sui sindacati di categoria, ad intercettare quel vasto mondo del lavoro precarizzato, non più riconducibile ad una specifica categoria produttiva, ma il cui carattere è nella “flessibilità” rispetto alle richieste del mercato del lavoro. Il sindacato ha progressivamente cessato di essere soggetto di riferimento per quel vasto mondo del lavoro, prodottosi a latere del sistema di garanzie sindacali: la sconfitta sulla scala mobile a metà anni ‘80, la sconfitta sull’estensione dell’art.18 nel 2003, l’accettazione del Job Act e la fine dell’art.18 nel 2015, rappresentano le tappe di questo percorso caratterizzate da due elementi: la rinuncia del sindacato a dare battaglia per difendere ed estendere queste tutele; l’indifferenza a questi temi di larga parte del mondo del lavoro privo di tutele;


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2) l’assunzione dell’iniziativa sindacale, come semplice tutela corporativa di interessi di settori del mondo del lavoro, nell’ambito delle scelte politiche della controparte, da attuarsi attraverso la concertazione e la spoliazione del diritto dei lavoratori alla democrazia e alla conflittualità; 3) la trasformazione del sindacato confederale, in una grande impresa di servizi, in cui il tema del conflitto e della contrattazione perdono di centralità, rispetto alle potenzialità economiche di attività di consulenza e assistenza, gestite in diretta relazione con le istituzioni governative. 4) in conseguenza dei punti 2 e 3, la totale subalternità del sindacato confederale al quadro politico, come elemento necessario alla propria autoconservazione. Ultimo elemento del processo di destrutturazione è quello politico, sul quale le responsabilità della sinistra vanno declinate in due modalità: 1) la esplicita volontà della maggioranza del PCI alla fine degli anni ‘80, di liberarsi dal vincolo di rappresentanza di un soggetto di classe già sconfitto e indebolito, e quindi incapace di produrre egemonia e costruire intorno a se un blocco sociale di alleanze, per candidarsi invece a rappresentare i nuovi soggetti intermedi, espressione del nuovo ciclo capitalistico. Da tale volontà, la scelta di distruggere il PCI, negando, anche a livello simbolico, l’esistenza di una soggettività politica autonoma della classe. L’immediato e successivo passaggio, fortemente voluto dal PDS, di eliminazione della legge proporzionale, che determina un’accelerazione nell’esclusione politica di un soggetto di classe, non più considerato centrale nella strategia della nuova “sinistra” postcomunista; 2) l’arretratezza culturale e politica del PRC, nato dalle ceneri del PCI, nel non cogliere le caratteristiche del nuovo soggetto di classe, prodotto dal nuovo ciclo del capitale, attardandosi invece nella competizione con la “sinistra” postcomunista, per la rappresentanza elettorale di quel “popolo della sinistra”, che aveva costituito il riferimento sociale ed elettorale del PCI. In conseguenza di ciò, mentre il PRC amministrava una rendita elettorale in buona misura ereditata dal PCI e destinata ad una progressiva consunzione, continuava il processo di esclusione di pezzi di nuova soggettività proletaria, che non incrociavano alcuna proposta della sinistra politica. La distruzione di una soggettività di classe è stato quindi un percorso pluride-


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cennale, prodottosi a partire dalla trasformazione del ciclo produttivo e dalla globalizzazione capitalistica, ma che poi ha investito tutti gli aspetti della condizione della classe, fin quasi ad azzerarne ogni espressione, al punto che oggi, nel momento di massima crisi del capitalismo europeo, nessuna possibile alternativa sembra possa venire da quei soggetti, che comunque continuano a svolgere un ruolo centrale nella produzione e continuano a pagare i costi più gravi della crisi. Compito dei comunisti dovrebbe essere, ancor prima che rappresentare una classe in simili condizioni di destrutturazione, quello di ricostruirne i legami sociali e il senso di identità collettiva, a partire dalla capacità di operare nella concretezza delle relazioni sociali, ricostruendo legami di solidarietà, autodifesa delle proprie concrete condizioni, individuazione dei comuni obbiettivi e delle comuni controparti. Un lavoro di costruzione sociale di lungo periodo, che però non si colloca in un quadro neutro o pacificato, ma nel vivo di una crisi che produce grandi trasformazioni e che impone scelte politiche, a chi con tale lavoro si misura. E’ anche sulla base di tali scelte politiche, che sarà possibile interloquire con una classe, posta oggi di fronte alla scelta radicale tra l’essere massa di manovra, di quei soggetti che puntano alla soluzione della crisi con la regressione nazionalista e xenofoba, la guerra tra poveri e il razzismo, fino all’esito estremo della dissoluzione dello spazio comune europeo e i rischi di guerra, o piuttosto la totale passivizzazione, la definitiva distruzione di ogni aspettativa sociale, nel quadro di una uscita dalla crisi del capitalismo europeo, che vede il riequilibrio dei rapporti tra capitale e lavoro, al livello degli standard planetari del capitalismo globalizzato. La ricostruzione di una soggettività di classe, passa anche attraverso la possibilità dei soggetti più innovativi, coscienti, organizzati e radicalizzati, di muoversi all’interno della crisi del capitalismo europeo, con dinamismo, spregiudicatezza e capacità di innovazione, per essere punto di riferimento di quegli ampi settori popolari, che al momento si dividono tra passivizzazione e strumentalità della destra populista. Ma per fare ciò è necessario che i comunisti e la sinistra politica, operino un radicale cambio di passo, chiudendo con le culture politiche di un passato non più riproponibile.


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L’ESAURIRSI DELLA STRATEGIA DI UNIFICAZIONE DELLA SINISTRA Il primo cambio di passo riguarda quell’idea di riunificazione della sinistra che è stata in qualche modo il faro e il feticcio dell’iniziativa del Partito fin dalla sua nascita; fino al 2008 sulla base di tale riferimento ideale, si sono praticate alleanze elettorali e di governo il cui esito definitivo è stata la debacle del II governo Prodi, la scissione del PRC, la scomparsa dei comunisti dalle istituzioni nazionali; dopo il 2008 lo stesso impianto di riunificazione della sinistra, è stato praticato a partire da una analisi del centrosinistra che ne certificava l’organica internità agli interessi del capitale, e quindi la necessità di una ricomposizione della sinistra alternativa, sulla base di un chiaro programma alternativo. Ad oggi, dopo le elezioni europee prima, e le amministrative regionali e comunali successivamente, che hanno visto la possibilità di dare vita a liste unitarie della sinistra alternativa, senza l’elemento di disturbo di SEL, con la sua ambigua e subalterna riproposizione di una sinistra all’interno del centrosinistra, dobbiamo prendere atto che il risultato politico ed elettorale di tali liste, non è tale da poter rappresentare un asse prioritario della nostra iniziativa politica. Ciò che ci dicono i risultati elettorali, è che mentre noi ci impegnavamo nel lavoro di costruzione della rappresentanza, di quello che un tempo chiamavamo “popolo della sinistra”, quello stesso popolo si dissolveva nella società. E’ esaurita l’idea che esista un “popolo della sinistra” intrappolato nell’adesione al PD, che può essere “liberato”, da un lato dallo svelarsi della reale natura del PD, grazie alle politiche di Renzi, dall’altro dall’offerta di una alternativa unitaria a sinistra. Questi due presupposti si sono prodotti, ma l’esito non è stato una ricomposizione del “popolo della sinistra”, su una prospettiva di sinistra, ma la sua dissoluzione, certificata dall’indirizzarsi del dissenso del PD, in larga misura verso la più credibile, dal punto di vista dei rapporti di forza e non dei valori, proposta populista del M5S. La dissoluzione del “popolo della sinistra” è stata il frutto di un processo che, anno dopo anno, ad ogni singolo attacco al welfare, ai servizi sociali, alle garanzie del lavoro, ha modificato non solo le condizioni concrete della classe, ma ha progressivamente eroso anche quel sentimento di identità collettiva, che


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proprio nel sistema di tutele sociali e garanzie del lavoro aveva il suo fondamento. La distruzione dello stato sociale e del sistema delle garanzie e dei diritti del lavoro, ha prodotto di fatto la disarticolazione di quel sistema di interessi sociali, che nello stato sociale si riconosceva, lasciando al suo posto la competizione egoistica, il corporativismo di categoria, la guerra tra poveri. Il cosiddetto “popolo della sinistra”, la base elettorale della forza della sinistra, si riconosceva e si identificava a partire dall’esistenza di diritti contrattuali e sindacali, dal diritto all’accesso ai servizi pubblici, dalla garanzia di una pensione, e infine come collante ideologico di tutto ciò, nei valori della Costituzione e dell’antifascismo. Ad ogni attacco subito da questo sistema di diritti e di garanzie, un pezzo di “popolo della sinistra” veniva espulso, mentre le giovani generazioni ne rimanevano direttamente escluse, fino al punto di trasformare quello che era un “popolo”, in un semplice frammento sociale, con caratteristiche politiche, culturali e soprattutto generazionali, tendenzialmente residuali. Oggi che quel “popolo della sinistra” è ridotto all’osso, maturi sono anche i tempi per l’attacco alla Costituzione e lo sdoganamento del fascismo, per distruggere anche il simulacro di un’Italia che non c’è più. Mentre il capitale con estrema concretezza distruggeva la base sociale della sinistra, colpendo quel sentimento di identità collettiva, riconducibile al concetto di “coscienza di classe”, la sinistra reagiva in termini difensivi, sul piano della mera costruzione politica. Fino al 2008 attraverso le alleanze di centrosinistra, nella speranza di contrastare tale processo di distruzione dal governo, utilizzando la coperta sempre più corta delle compatibilità del sistema; dopo il 2008 tentando la più coerente proposta della sinistra alternativa, che però si esauriva in una quantità di fallimenti determinati in buona misura dall’opportunismo dello stesso ceto politico di sinistra, dalla sua distanza dalla realtà, dalla sua incomprensione per le dinamiche che sconvolgevano la classe e il mondo del lavoro, ridisegnandone la fisionomia, i linguaggi, le aspettative. La speranza nell’esperienza greca è stato l’ultimo credibile tentativo di rilanciare, a partire dalla costruzione politica, una prospettiva di riunificazione della sinistra in grado di suscitare aspettative a livello di massa; l’esito della vicenda greca ha posto fine a questa ipotesi, aprendo contestualmente la strada, all’af-


fermazione di massa, della nuova soggettività politica populista.

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Piuttosto che misurarsi con le nuove soggettività sociali prodotte dalle modificazioni del capitale, verificando in questo ambito quali erano i fermenti più innovativi, le esperienze più avanzate, i settori più coscienti e radicali, investendo su di essi, come il cuore di una nova soggettività di classe da ricostruire, abbiamo puntato sull’ipotesi di offrire rappresentanza politica ad una sedimentazione storica della sinistra, progressivamente erosa dalla sconfitta, dai limiti della sua stessa cultura politica, dal semplice e ineluttabile passare del tempo. Oggi la sinistra politica e i comunisti sono un soggetto residuale e marginale della rappresentazione politica. Tale residualità e marginalità è conseguenza della marginalità e della residualità, del frammento sociale che la sinistra e i comunisti sono in grado di rappresentare. Al di fuori di questo limitato frammento sociale, ultimo residuo di una fase del conflitto di classe ormai esaurita, c’è la vastità di un soggetto di classe frammentato, imbarbarito, rassegnato, subalterno, che occupa le immense periferie urbane, che lavora con una miriade di modalità e di forme contrattuali, che parla lingue e ha culture diverse. Oggi l’ipotesi di riunificazione della sinistra è assolutamente insufficiente a misurarsi con la complessità di questo soggetto di classe, che si colloca al di fuori del perimetro culturale della sinistra, e che quando ancora è interno ad essa, in settori minoritari, ma coscienti e radicalizzati, interpreta il concetto di sinistra in esplicita rottura con le culture politiche sedimentate del “popolo della sinistra”. Quindi le pur necessarie scelte elettorali, dettate dall’ineludibilità della battaglia anche sul terreno istituzionale, non possono avere che valore tattico, in relazione all’obbiettivo di favorire, anche attraverso il livello istituzionale, il lavoro di insediamento e costruzione sociale. La possibilità di ricollocare il valore di parole come sinistra e comunismo, e con esse l’idea di una ricomposizione del diversificato mondo del lavoro, nella coscienza diffusa del nuovo soggetto di classe, non passa per le dinamiche della rappresentazione politica, ma attraverso due modalità:il lavoro prolungato di ricostruzione di un tessuto sociale coeso della classe, venuto meno quello della grande fabbrica, che il capitale stesso un tempo offriva; la collocazione netta di


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tali parole, lungo le linee di faglia che la crisi del capitalismo sta producendo a livello sociale, politico e istituzionale. COSTRUZIONE SOCIALE E ROTTURA POLITICA NELLA RICOSTRUZIONE DI UN SOGGETTO DI CLASSE La distruzione del soggetto di classe si è realizzata a partire da una trasformazione del ciclo produttivo, che ha modificato in termini strutturali la stessa relazione tra capitale e lavoro; la possibilità di ricostruire un soggetto di classe passa per la necessità di misurarsi con tali nuove relazioni tra capitale e lavoro. L’attacco portato dal capitale alla classe, si caratterizza per la sua essenzialità, radicalità, necessità. Esso è essenziale perchè colpisce la classe nell’essenza della sua relazione con il capitale, in quella relazione di scambio, senza la quale la merce lavoro è priva di valore. Si interviene direttamente sul valore della merce lavoro, svalorizzando tale merce, sia riducendone la domanda, attraverso i processi di automazione, sia aumentandone l’offerta estendendo la platea del mercato del lavoro a livello planetario. Esso è radicale perchè colpisce la stessa necessità della relazione capitale-lavoro in Occidente, producendo meccanismi di valorizzazione finanziaria che prescindono dallo sfruttamento diretto del lavoro, e realizzano tale sfruttamento sull’appropiazione diretta della ricchezza sociale, grazie all’indebitamento pubblico e privato. Svalorizzando il lavoro e riducendo la necessità di lavoro il capitale realizza la necessità di distruzione di potenzialità e forze produttive, senza la quale non può costruire le condizioni per sostenere la competizione globale. Questo è il quadro generale nel quale si collocano i livelli di disoccupazione, precarizzazione e bassi salari, che sono ormai un dato strutturale in Europa occidentale. Ciò in totale alternativa con quanto era accaduto nel II dopoguerra, quando la fase espansiva del capitale, garantiva alla merce lavoro un maggior valore di mercato. L’eccedenza di forza lavoro, rispetto alle necessità del capitale, è un dato strutturale di un capitalismo europeo in fase regressiva. Alla luce di queste coordinate generali come è possibile ipotizzare la ricostru-


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zione di una identità collettiva e di una coesione sociale della classe, che proprio lo sfavorevole rapporto sul mercato del lavoro ha distrutto? Pensare di contrastare questa dinamica attraverso un piano di investimenti pubblici che rilanci il lavoro è assolutamente sensato, salvo il fatto che un governo in grado di attuare una simile politica, rompendo con i vincoli europei delle politiche di rigore, dovrebbe essere il frutto di una condizione di forza della sinistra, e quindi della classe, che è proprio ciò che non si produce, per le sfavorevoli condizioni sul mercato del lavoro. Stesso concetto per le proposte sul reddito di cittadinanza, che nel contrastare il ricatto della precarietà, contribuirebbero anch’esse a modificare i rapporti sfavorevoli tra domanda e offerta sul mercato del lavoro. E’ la dinamica del cane che si morde la coda. La politica potrebbe mettere in campo le soluzioni per rafforzare il lavoro nella sua relazione con il capitale, ma proprio la debolezza del lavoro fa si che non si realizzi la forza politica per mettere in campo tali soluzioni. In tal senso le divisioni a sinistra tra reddito di cittadinanza e piano per il lavoro, sono pura accademia: le dinamiche del capitale non prevedono ne l’uno ne l’altro, e la politica non è in grado, per l’assenza sia di lavoro che di reddito, di costruire la forza per contrastare le dinamiche del capitale. Il problema ormai è evidente e le soluzioni non possono ridursi ad una proposta programmatica, pur necessaria. Le soluzioni vanno cercate nei processi, che modificando i rapporti di forza tra i soggetti dello scontro, producono le condizioni per la realizzazione delle proposte programmatiche. Modificare i rapporti di forza significa in sostanza, rafforzare la propria parte, quella del lavoro e indebolire quella avversaria, del capitale. Il rafforzamento della propria parte, quella del lavoro, passa attraverso un lavoro certosino di insediamento e costruzione sociale, a partire dalla necessità di difendere non solo le condizioni dei lavoratori, ma la stessa possibilità di lavoro, una possibilità che il capitale non necessariamente tende a riprodurre: 1) rilancio della conflittualità sindacale nei settori produttivi centrali per il sistema Europa, laddove il lavoro richiede livelli elevati di qualificazione oppure


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è legato al circuito dei consumi, e quindi potendo essere più difficilmente delocalizzato, conserva ancora un potere contrattuale. In particolare, centri di ricerca e progettazione, il cervello di molte imprese che per la necessità di relazione con istituzioni accademiche, di un adeguato sistema di infrastrutture, di un personale adeguatamente formato, può essere più difficilmente delocalizzato. Il coordinamento sindacale di queste realtà, al di la dell’ambito categoriale in cui operano, rafforzerebbe i lavoratori, costruendo un punto di forza che potrebbe fare da traino a tutto il mondo del lavoro. Sull’altro versante l’intervento sui settori della logistica e della distribuzione, anch’essi non delocalizzabili, per la necessità di operare sui mercati locali. La logistica, in cui forte è la presenza di lavoratori immigrati, è ormai da qualche anno uno dei settori più conflittuali del mondo del lavoro. Più difficile il tema della grande distribuzione, specialmente nel quadro di una crisi dei consumi e a fronte di una strategia che vede la costruzione di grandi centri commerciali, in cui operano una miriade di piccoli soggetti commerciali, con conseguente molecolarizazione della forza lavoro. 2) difesa della residua industria manifatturiera di media e grande dimensione, dove ancora resiste una condizione operaia strutturata. Necessità di contrasto in quest’ambito di ogni subalternità sindacale, ricostruzione dell’unità sindacale dal basso, a partire dalla necessità di organizzare il lavoro operaio, finalizzandolo alla conoscenza e al controllo delle strategie d’impresa. La condizione più triste è quella di una classe operaia, che abbandonata dall’investimento produttivo del capitale e priva di piani d’impresa, si trova ad attendere l’imprenditore pirata di turno, per vendere la propria forza lavoro, senza alcuna certezza sull’uso produttivo che se ne fa. L’impresa è frutto del lavoro, la sua difesa non può essere demandata al solo capitale. 3) Difesa della piccola e piccolissima impresa, attraverso la costruzione di pratiche di cooperazione, sia sul piano dell’accesso al credito, sia rispetto alla condivisione di servizi e la costruzione di distretti produttivi. Contestuale costruzione di strutture sindacali territoriali, in grado di organizzare e tutelare i lavoratori delle piccole imprese di un territorio, sulla base di comuni standard, e di selezionare la sostenibilità delle piccole imprese, sulla base della loro adeguatezza a tali standard. 4) Valorizzazione ed estensione di pratiche di riappropriazione e autogestione di aziende, come ipotesi di soluzione alle crisi aziendali e occupazionali. Il fenomeno è già presente in Italia e riguarda almeno un centinaio di aziende recu-


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perate, con un margine di successo nei tentativi, complessivamente elevato. 5) Sulla base di tale possibilità di articolazione dell’intervento sul lavoro, in base alle diverse condizioni, e della difesa stessa del lavoro, come valore sociale, rilancio di un sistema di salario minimo e garanzie universali, come elemento di solidarietà e identificazione collettiva del mondo del lavoro al di la del contesto specifico in cui si esplica. In quest’ambito il rigetto del Job Act. 6) Riqualificazione del lavoro pubblico, a partire dal suo valore sociale, attraverso la costruzione di forme di relazioni costanti e strutturate con l’utenza. Il lavoro pubblico, che è quota significativa del lavoro disponibile, è quello che ha minor valore per il capitale, interessato alla sua distruzione sia perchè disinteressato a rispondere alla domanda a cui tale lavoro da risposta, sia perchè interessato a privatizzare, trasformando i diritti che il lavoro pubblico garantisce, in merci su cui produrre profitti. La battaglia dei lavoratori pubblici va tratta dall’angusto e tendenzialmente corporativo orizzonte sindacale, per far si che assuma carattere immediatamente politico: politico è il tema degli investimenti pubblici, legato ai vincoli di bilancio e al debito dello stato e degli enti locali, politico è il tema della gestione dei servizi, che pone il tema della partecipazione, dei diritti e della democrazia. 7) Organizzazione e difesa del lavoro precario, a partire dall’organizzazione di strutture sindacali territoriali. Difesa legale e sindacale, sperimentazione di forme di gestione collettiva e mutualistica della vendita della forza lavoro, superando le imprese di intermediazione privata, attraverso la messa in rete dei lavoratori e l’autogestione delle proprie prestazioni. Verifica della possibilità di costruzione di meccanismi mutualistici e solidali a livello di strutture sindacali territoriali. 8) Organizzazione di liste di disoccupati e costruzione di progettualità territoriale, a partire dall’uso del patrimonio inutilizzato e di bisogni sociali inevasi, con conseguente apertura della vertenzialità con le istituzioni per l’uso di risorse pubbliche ed europee. 9) Promozione dell’imprenditorialità cooperativa e autorganizzata a carattere etico e finalità sociali. 10) Promozione di circuiti di consumo alternativi, che privilegiano e sostengono le imprese in cui il lavoro è un valore rispettato


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11) Riappropriazione di quote di reddito, attualmente espropriate dal capitale immobiliare attraverso il ricatto dei mutui e dei canoni elevati. Una politica della casa che si riappropri del patrimonio immobiliare inutilizzato e lo riqualifichi attraverso la pratica dell’autorecupero. 12) Costruzione di un circuito finanziario a carattere mutualistico etico e dimensione locale, che sia da sostegno a pratiche e processi di autorganizzazione economica, sociale e sindacale. Il risparmio privato è ancora oggi in Italia una risorsa notevole, unico elemento a garantire gli squilibri del debito pubblico. Parte significativa di tale risparmio è oggi presso Cassa Depositi e Prestiti, che invece di svolgere un ruolo di sostegno alle politiche pubbliche, di garanzia al prodursi di una finanza locale mutualistica, sta divenendo la stampella collettiva per il sostegno al sistema bancario privato. Sottrarre risorse al sistema bancario ufficiale, e direzionarle verso un circuito finanziario che ne permetta l’investimento produttivo sul territorio, è un atto di concreta battaglia politica, nella misura in cui proprio i processi di finanziarizzazione, sono un aspetto centrale della svalorizzazione del lavoro. Questi sono tutti elementi che se attuabili, permetterebbero di contrastare la destrutturazione del soggetto di classe, proprio sul terreno su cui essa si produce, quello del mercato del lavoro e della svalorizzazione del lavoro. Un simile approccio ovviamente costruisce concretamente un rafforzamento della classe, ma richiede tempi lunghi, lavoro certosino, competenze professionali, capacità di direzione politica. Ma è un approccio serio e realistico, ai problemi che la ristrutturazione capitalistica e la globalizzazione hanno posto alla classe. Questo è indiscutibilmente un modo di rafforzare la classe, ed è evidente che in un approccio di questa natura ineludibile è il tema del confronto e della presenza nei livelli istituzionali: ma all’interno di quest’approccio, e non di per se. C’è poi il tema di come indebolire l’avversario, e qui si passa dal tema della costruzione sociale a quello della rottura politica. L’attacco del capitale alla classe non si è attuato solo sul piano strutturale del mercato del lavoro e del ciclo produttivo, ma ha avuto il suo compendio nella costruzione di un impianto ideologico e di una corrispondente rappresentazione


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politica, che da un lato oscurava e rendeva invisibile i processi di distruzione della classe, dall’altro ricompattava intorno agli interessi del capitale, tutti quei soggetti che dalle politiche del capitale erano tutelati, o comunque garantiti nella riproduzione della propria condizione. E’ questo il tema già analizzato dei populismi e della possibilità che tali movimenti possano lacerare la cappa che ha impedito alle manifestazioni più coscienti, ancorchè minoritarie e marginali, dell’interesse di classe di esprimere la loro potenzialità. Tutti i movimenti populisti, al di là della loro specifica declinazione, hanno il loro cemento nella rimozione della contraddizione capitale-lavoro, ed è quindi errato assegnare a tali movimenti qualsiasi delega nella rappresentanza dell’interesse del lavoro, come pure certi settori sindacali e conflittuali sembrano fare. D’altra parte per le stesse ragioni, tali movimenti sono inadeguati a rappresentare l’interesse del capitale, e ciò si sta rendendo palese proprio con la Brexit, che vede la lacerante divisione, l’assenza di leadership e di progettualità politica, proprio in quei settori del partito conservatore, che dopo aver ottenuto la vittoria referendaria, non sanno come coniugare tale vittoria, con gli interessi del capitale, da cui non possono svincolarsi. I movimenti e in generale le culture populistiche, possono, nel loro affermarsi, produrre un vuoto di potere, nel quale i soggetti più determinati, coscienti, radicali e organizzati della classe, possono inserirsi, imponendo pratiche, obbiettivi e scelte che rafforzano i processi di costruzione sociale, rompendo contestuamente i vincoli e le compatibilità, che permettono al capitale l’attuazione dei processi di svalorizzazione del lavoro, necessari alla gestione della crisi capitalistica. E’ questo in qualche modo ciò che è avvenuto a Napoli, dove il fenomeno con forti tratti populistici prodottosi intorno al sindaco De Magistris, ha creato le condizioni per l’attivazione e il protagonismo di quelle realtà sociali, fino a quel momento escluse e marginalizzate dalla rappresentazione politica bipolare del centrodestra e del centrosinistra, che si possono oggi porre come riferimento per un più ampio movimento di massa.. Anche a Barcellona, dove il movimento per la casa, che è stato il cuore dell’esperienza di Barcellona En Comù, era in larga misura costituito piccoli proprietari strangolati dai mutui, cioè da soggetti che fino a pochi anni fa sarebbero


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stati partecipi di politiche di stabilità e conservazione, e che nel quadro della crisi, si sono radicalizzati, legandosi ad esperienze di partecipazione e autorganizzazione dal basso, sono riscontrabili elementi riconducibili al tema generale del populismo, e cioè la rottura del blocco sociale in difesa dell’interesse del capitale, e la disponibilità di diversi settori sociali a misurarsi con opzioni radicali e di rottura. La rottura del blocco sociale a difesa dell’interesse del capitale, e della rappresentazione politica bipolare che su quel blocco sociale si costruiva è il tema generale, all’interno del quale si collocano una quantità di potenziali rotture subordinate, dalla rottura del patto con i costruttori in una città come Roma, alla contestazione del debito a livello di enti locali, fino alla disobbedienza ai trattati o al rifiuto dell’euro a livello nazionale. Produrre iniziativa politica su queste potenziali rotture è il compito dei comunisti e della sinistra, insieme ai soggetti più radicalizzati e coscienti della classe, nella consapevolezza che intorno a tali rotture si costruisce una nuova identità collettiva della classe, una sua nuova soggettività e possibilità di rappresentanza, e soprattutto la possibilità di ricostruire un sistema di alleanze sociali, con quei settori attivati dal populismo, ma che nel populismo non possono trovare risposta a concrete necessità di cambiamento. Costruzione sociale e rottura politica sono le due dinamiche intorno a cui si può ricostruire una soggettività di classe: la prima interviene sulla struttura dei rapporti sociali, la seconda sulla rappresentazione mistificatoria di tali rapporti sociali. Per entrambe serve una capacità di direzione politica che unifichi le pratiche più avanzate conflittuali della classe, permetta a tali pratiche di irrompere sulla scena della rappresentazione politica, dando a esse la possibilità di proporsi come modello ricompositivo della classe, e punto di riferimento per una più vasta alleanza sociale. E’ in questo quadro che va visto il tema della ricostruzione di una soggettività politica della sinistra, non come mero aggregato della sinistra che c’è, residuale e marginale, ma come processo concreto che si produce nella realtà e che trova le sue forma di rappresentazione anche a livello istituzionale. In questo processo il compito dei comunisti, non è quello operare per la ripro-


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duzione della propria identità, delle proprie obsolete forme organizzative, delle proprie liturgiche ed autoreferenziali forme di espressioni politiche, ma di investire il patrimonio di quadri, conoscenze, elaborazioni, memoria storica, generosità e passione, nella relazione con una realtà contraddittoria, e spesso ostile, in cui il riconoscimento del loro ruolo non può essere preteso sulla base di una storia passata, ma deve essere guadagnato per l’impegno nel presente e la visione del futuro. E’ un lavoro da rivoluzionari e non da semplici aderenti ad un Partito: quanti saranno in grado di misurarcisi? Dalla risposta a questa domanda il futuro del PRC.

CONCLUSIONI Se quanto fin qui detto ha un senso, se l’analisi avanzata è credibile e se, soprattutto il lavoro da fare è quello indicato, è evidente che il Partito, così come è oggi, dai suoi vertici nazionali, fino all’ultimo dei suoi circoli territoriali, è in larga misura inadeguato rispetto alle necessità. Che fare quindi? La soluzione non può darsi in un congresso, in una votazione, in una nuova maggioranza e in un nuovo gruppo dirigente. La soluzione richiede tempi più lunghi e processi più profondi, che trasformano radicalmente la natura del Partito, non solo nella sua linea, ma nella concretezza delle sue pratiche, nella modalità di selezione dei gruppi dirigenti, fin nella sua stessa composizione sociale. L’alternativa non può essere certo la costruzione di un “nuovo partito”, “più bello e più forte che pria”, ne nella rinuncia all’idea stessa di Partito, senza la quale la classe rinuncia allo strumento della direzione politica. La ricostruzione del Partito, richiede quindi un approccio umile, concreto, spregiudicato e paziente. L’umiltà di non pretendere dal partito ciò che ancora non può essere e di offrire ad esso anche ciò che non può recepire, nella fiducia che la relazione dialettica, quando non si sclerotizza in contrapposizioni sterili, è sempre fattore di crescita. La concretezza delle pratiche, le uniche che azzerano ogni contrapposizione


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sterile, imponendo a tutti il confronto e il rispetto per il lavoro svolto, piuttosto che la polemica pretestuosa e il confronto astratto. La spregiudicatezza dei comportamenti, perchè quando una struttura vecchia e ingessata, impedisce la liberazione di energie produttive, il compito di un rivoluzionario è sempre quello di forzare i limiti e rimettere in discussione le regole. E questo a maggior ragione in un Partito rivoluzionario. La pazienza nella relazione, perchè la tessitura di relazioni, è la base per la condivisione di pratiche e relazioni, perchè l’unità è un valore che se non si riconosce nel presente, sicuramente si svela nel futuro, perchè lo spirito di scissione, crea autoreferenzialità. L’auspicio è che nel Partito ci siano ancora le energie, le sensibilità e le capacità per misurarsi con tali compiti. Se ci saranno la loro convergenza nella pratica, potrà produrre la spinta per quel cambiamento di cui c’è assoluta necessità.


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