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A la pitoche

IL RACCONTO

A LA PITOCHE (ANDARE A CHIEDERE LA CARITÀ)

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di CLAUDIO BEARZI tra i vincitori del premio letterario “Resistenze” promosso da CNA Pensionati FVG assieme all'ANPI

Il mattino del 27 maggio 1944 le donne e gli uomini di Forni di Sotto vagavano, storditi, dentro un paesaggio spettrale. Le vie di accesso ai borghi del paese erano ingombre di macerie. Le case si erano trasformate in contenitori lugubri e spogli. Sulla facciata delle mura perimetrali degli edifici - sventrate e annerite – risaltavano gli spazi vuoti delle finestre: bocche silenziose spalancate sul niente che moltiplicavano all'infinito l'angoscia dell'urlo di Munch. Gli interni delle case si erano trasformati in discariche, ripieni di travi e di mobili fumanti, di pietre, di oggetti di metallo deformati dal calore. Case, storie, intimità familiari profanate. Ricordi, lettere, fotografie, documenti cancellati per sempre. I luoghi che avevano visto crescere generazioni di uomini si erano trasformati in bracieri. Le cucine, dove alla sera si riparavano le famiglie, erano state brutalmente violate. La dignitosa povertà ospitata dentro a quelle stanze era stata sconvolta e annullata nello spazio di una notte. Non esistevano più i letti dove erano stati concepiti e dati alla luce i figli, né gli armadi che custodivano – sotto naftalina – il corredo e i vestiti della festa. Bruciate le cassapanche. Bruciati i comodini, i comò, le culle, i tavoli, le sedie, le panche. Sepolti sotto le braci e le macerie gli attrezzi, le pentole, le posate, i bicchieri, i piatti, lo spolert. Bruciati gli abiti, la biancheria, le coperte. Bruciati anche i bilins. *Scavalcando i ruderi che intasavano le contrade, gli uomini e le donne procedevano con circospezione. Attoniti e muti, indecisi se avvicinarsi al luogo dove avevano vissuto fino al giorno precedente o far durare ancora per qualche istante un'illusione che già sapevano

destinata a spegnersi. Fantasmi più che esseri umani. Increduli, timorosi, diffidenti. Pronti a fuggire a ogni rumore sospetto: “i crucchi potrebbero tornare“. Era trascorso poco più di un mese dall'incendio nazifascista di Forni di Sotto quando le formazioni partigiane della Carnia diedero vita all'esperienza della “Repubblica Libera”. Per la durata di un trimestre, a cavallo fra l'estate e l'autunno del '44, un'area di 2500 km² comprendente 37 comuni e 90.000 abitanti venne sottratta al controllo degli occupanti. Fu con le armi che la Resistenza riuscì a cacciare l'esercito tedesco e a difendere, finché possibile, quella straordinaria primavera di libertà e democrazia. Per ritorsione, il Terzo Reich dispose l'assedio della Carnia: furono bloccate le vie d'accesso alle valli e sospesi gli scambi tra l'area controllata dalla Resistenza e il mondo esterno. Per una popolazione provata dalla miseria (e da quattro anni di guerra), il divieto all'importazione dei prodotti alimentari si tradusse in una condanna alla fame. Per la comunità di Forni di Sotto le privazioni risultarono più pesanti che altrove a causa dell'incendio e del saccheggio del 26 maggio: bruciate o razziate le poche cose custodite nelle case, decimati gli animali da stalla e da cortile, distrutto il foraggio stipato nei fienili. Quel po' che era rimasto dentro casa (si fa per dire, di case in piedi ce n'erano poche) andava centellinato con attenzione perché la macellazione di una mucca – oggi – comportava – domani - una minor produzione di latte. Tirare il collo a una gallina significava rinunciare alle uova il giorno dopo. Un incauto consumo delle riserve dei prodotti della terra si sarebbe tradotto nella primavera del '45 in penuria di sementi con rovinose conseguenze sul ciclo stagionale delle produzioni agricole. Per fronteggiare la carenza di cibo, le genti della Carnia si spinsero oltre i confini dell'accerchiamento tedesco. Andarono "a la pitoche“. Furono le donne a farsi carico di una fatica rischiosa e mortificante. Da generazioni il loro mestiere era stato quello di caricarsi sulle spalle pesi di ogni genere. Concreti (il ƒas dal ƒen, il zei, il sac da la foe, la reƒe da las legne..)** e metaforici (tirâ su la canae, governâ la ciase e il stâli..)**. Si spinsero verso i paesi del Cadore – ad ovest, varcando il passo Mauria, Casera Razzo o Sappada - e quelli dello spilimberghese - a sud, superando il passo Rest - perché risultava rischioso per le persone e per le merci attraversare la roccaforte tedesca di Tolmezzo. "Eravamo nove ragazze poco più che ventenni", racconta Fauste di Coleto. "Le donne che si erano già recate in Friuli a la pitoche ci avevano consigliato di raggiungere Spilimbergo attraverso il passo Rest. Partimmo che faceva ancora buio spingendo un carro di legno carico di patate, granturco e fagioli destinati al baratto con il frumento dei contadini della bassa“. Da Forni a Priuso. Poi il passo Rest e, superati i tornanti che si tuffano nella val Tramontina, Spilimbergo e il Tagliamento. Infine Cisterna di Coseano dove ad attenderle c'era don Pietro Della Stua, un sacerdote imparentato con la famiglia Da la Mute. Per la sola andata, trainarono il carro su una strada sconnessa lunga 90 Km e superarono un migliaio di metri di dislivello in salita. Attraversato il Tagliamento, raggiunsero la canonica di Cisterna. "Dobbiamo ringraziare Prè Piêri se siamo riuscite a scambiare le patate

e i fagioli con qualche sacco di farina bianca" - racconta Fauste - "Quel sant'uomo aveva anticipato le nostre disgrazie ai suoi parrocchiani dal pulpito della messa grande. Passavamo le giornate bussando alla porta dei contadini del luogo e alla sera sistemavamo il carro nel cortile della canonica per proteggerlo dai ladri. Assieme alla sorella-perpetua, Prè Piêri ci ospitò a Cisterna per un'intera settimana senza chiedere nulla in cambio”. Constatarono che la notizia dell'incendio di Forni aveva raggiunto anche i casali più sperduti del Friuli. Trovarono pietà e comprensione. Le persone con le quali entrarono in contatto si adoperarono per dar loro una mano: “che vuoi, fra la povera gente ci si intende, e poi ... in Friuli compresero subito che il nostro stato era peggiore del loro”, ricorda Fauste. Scoprirono che la vicenda dell'incendio suscitava grande curiosità. Quante volte avevano ripetuto il racconto di ciò che era accaduto al loro paese la notte del 26 maggio 1944. Quanti particolari volevano conoscere i contadini della pianura, quanti commenti increduli, quante espressioni di orrore. Avevano imparato a memoria la sceneggiatura: cominciava Mie di Coleto con l'analisi dei fatti e degli antefatti per poi lasciare la parola a Fauste cui era stato affidato il compito di descrivere le proprie imprese sul tetto di casa mentre le pallottole incendiarie le ronzavano attorno. Poi, sollecitate dagli astanti, ognuna di loro portava una testimonianza. Capitava anche alla sera, al loro rientro in canonica. Prima o poi, qualsiasi discorso cadeva sulla vicenda del paese incendiato dai tedeschi. Don Pietro Della Stua voleva sapere cosa fosse accaduto a prè Felice e alla chiesa di Baselia. Furono Fauste e Vigiute a descrivergli ciò che avevano visto quella notte. Parlarono delle fiamme che avvolgevano il tetto della chiesa prima che le travi cedessero scoperchiandola. Descrissero il volto smarrito di prè Felice e le stentate parole che aveva scambiato con loro mentre osservava lo scempio. Don Pietro e la sorella le ascoltavano senza parlare. Scuotevano il capo, sospiravano come fanno le persone sul molo quando abbracciano i marinai scampati al mare in tempesta. "Per rientrare a Forni, decidemmo di passare da San Daniele e dal lago di Cavazzo: un percorso più breve e meno faticoso” continua Fauste. “Spingevamo il carro carico di farina di frumento quando, gesticolando, abbiamo chiesto un passaggio a un camion che procedeva nella nostra direzione. Ci è mancato il respiro nel momento in cui si è fermato: era un automezzo della Wehrmacht e i soldati che trasportava portavano la stessa divisa che avevano addosso quelle bestie feroci che avevano incendiato il nostro paese. Senza rivolgerci una sola parola, caricarono sul cassone tanto noi che il carro. Poi, nelle vicinanze del ponte di Braulins, si fermarono su nostra richiesta e ci aiutarono a scendere. Ci hanno allungato qualcosa da mangiare prima di salutarci”. A volte, nel bene e nel male, sono le persone a fare la differenza. Anche quando una decisione entra in conflitto con gli ordini ricevuti dall’alto, sono gli individui ad assumere (o a non assumere) la responsabilità etica di scegliere da che parte stare. Persino nelle fila del Terzo Reich ci fu qualcuno capace di comprendere che sopra un carro spinto da nove giovani donne non giaceva del materiale da requisire ma qualche sacco di farina destinato a sfamare la povera gente.

Traduzione dalla lingua friulana: * spolert: stufa a legna; bilins: giocattoli ** il ƒas dal ƒen, il zei, il sac da la foe, la reƒe da las legne: il fascio del fieno, la gerla, il sacco ripieno di foglie, lo strumento per trasportare la legna sulle spalle. *** tirâ su la canae, governâ la ciase e il stâli: crescere i figli, accudire la casa e la stalla.

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