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La COP26 di Glasgow

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Futuri e umani

Futuri e umani

l'inchiesta LA SALITA RIPIDA DELLA TRANSIZIONE AMBIENTALE

LA COP26 DI GLASGOW TRA PROGRESSI E FALLIMENTI

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PAOLA TOSCANI

Sì è chiusa a metà novembre la COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 che da quasi tre decenni mette intorno a un tavolo quasi tutti i Paesi della terra per la cosiddetta “Conferenza delle Parti”. COP, appunto. Il 26eismo vertice annuale – da cui il nome COP26- è stato presieduto dal Regno Unito e ospitato a Glasgow. Quasi 200 i leader mondiali presenti, oltre a decine di migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini che per dodici giorni hanno partecipato ai negoziati. Per molti, l’evento è l’ultima chance per tenere sotto controllo le conseguenze devastanti dei cambiamenti climatici. Ormai non più considerati questione marginale, ma priorità globale. Ma cosa è accaduto nei giorni della conferenza scozzese? I risultati principali della COP26 di Glasgow sono di fatto due. Il primo: aver ridotto dai 2 - previsti in precedenza- a 1,5 gradi l’obiettivo dei Paesi del mondo sul riscaldamento globale. Il secondo è l’accordo di cooperazione fra Usa e Cina sulla lotta alla crisi climatica. Tra gli altri obiettivi fissati nel corso della conferenza,c’è l’accordo sul taglio del 45% rispetto al 2010 delle emissioni di gas serra da conseguire entro il 2030 e quota “zero” emissioni nette intorno alla metà del secolo. Altro successo è aver previsto che gli stati firmatari dell’Accordo di Parigi presentino nuovi impegni di decarbonizzazione entro la fine del 2022.

Target 1,5 gradi

A Parigi, nel corso della COP25 del 2015, i paesi firmatari si erano impegnati a restare sotto 2 gradi di riscaldamento dai livelli pre-industriali. Già era nell’aria un’ipotesi di ridurre quella soglia, ma rispetto a quel negoziato, l’accordo di Glasgow è comunque un passo avanti. Dopo gli allarmi lanciati dalla scienza sulle conseguenze disastrose di un riscaldamento a 2 gradi, infatti, il limite di 1,5 gradi è diventato perentorio. Se ne percepisce la gravità, anche se dal punto di vista formale il documento della COP26 non è tassativo su questo limite.

Accordo Usa-Cina

Ma la sorpresa più grande è stato l’accordo di collaborazione sulla lotta alla crisi climatica tra Usa e Cina, frutto di un lavoro sotto traccia durato mesi, sotto la regia dell’inviato sul clima del presidente Biden, John Kerry. Su questo importante passaggio gli Stati Uniti hanno trovato la sponda della Cina, consapevole della gravità del problema. E non era scontato, visti gli scottanti temi di geopolitica al centro del confronto delle due superpotenze, a partire da Taiwan. Anche in questo caso, nessun vincolo o scadenza, ma la firma di Usa e Cina sull’impegno a collaborare per i temi al centro del cambiamento climatico c’è: dal tema delle rinnovabili all’economia circolare.

Gli aiuti ai paesi poveri

Un fallimento invece sul fronte degli aiuti dei

LA SALITA RIPIDA DELLA TRANSIZIONE AMBIENTALE

paesi ricchi ai paesi poveri per decarbonizzare e per ristorare i danni e le perdite del cambiamento climatico. Tutto è rinviato all’anno prossimo, alla COP27 di Sharm el-Sheikh. Il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno di aiuti ai paesi meno sviluppati per la decarbonizzazione, previsto dall’Accordo di Parigi, rimane ancora una volta sulla carta. La prima scadenza – mancata- era stata fissata al 2020 e l’obiettivo di COP26 era di rinviarlo al 2023. Ma anche questa nuova data è saltata dalla bozza finale.

Fondo per Loss&Damage

I paesi meno sviluppati chiedevano anche un ulteriore fondo per ristorare i danni e le perdite che subiscono dal clima (i cosiddetti loss and damage). Ma anche su questo l’unico risultato strappato è stato l’impegno ad avviare un dialogo fra gli stati per la creazione di questo fondo.

LA STORIA DI UN GRANDE ACCUSATO: IL CARBONE

È il carbone l’accusato numero uno del tribunale dell’ambiente riunitosi a Glasgow a novembre. Il carbone, utilizzato nella produzione di energia e responsabile delle emissioni di gas serra. Mancano firme importanti come la Russia, l’India, l’Australia e gli Stati Uniti, ma sono quaranta gli Stati che alla COP26 di Glasgow si sono impegnati per la prima volta a eliminarlo, entro vent’anni. Uno scenario verosimile? L’annuncio sembra prematuro. E non solo per il peso politico e economico dei tre principali produttori di carbone, Cina, Stati Uniti e India. Ma perché per capire davvero le prospettive non si può ignorare un altro aspetto, quello dei consumi: cinque paesi (Cina, Stati Uniti, Russia, India e Giappone) hanno inciso per oltre il 75% del consumo mondiale di carbone. Del resto il carbone gioca un ruolo importante anche rispetto al petrolio, sebbene, nel comune sentire, sia quest’ultimo a muovere gli ingranaggi dell’economia moderna. Con circa 7,7 miliardi di tonnellate ogni anno, il carbone copre il 38% della produzione mondiale di elettricità. Avanti al petrolio anche come principale fonte di energia primaria. Il segreto del successo è che il carbone resta la più antica, diffusa e meno costosa fonte di energia nel mondo. E che difficilmente del carbone si possa fare a meno lo si capisce dai modelli stessi di produzione. Basti pensare che persino il diffondersi delle energie rinnovabili non ne ha frenato il fabbisogno, che resta alla base della produzione di tutte le fonti energetiche. Prendiamo l’auto: la transizione energetica, più che ridurre l’impatto della produzione, rischia di darle una spinta ulteriore. Perché l’auto elettrica è pulita quando marcia, ma per essere prodotta e ricaricata ha bisogno di energia. Che va generata. Insomma, finché i processi non saranno rivisti profondamente, il carbone è destinato a restare l’architrave della struttura mondiale dell’energia. Il carbone è abbondante, facile da ricavare e capillare. Miniere di carbone si trovano in almeno cento stati. Ai ritmi di produzione attuali, si stima che le riserve siano mille miliardi di tonnellate. E l’orizzonte temporale è di 115 anni più ampio delle riserve convenzionali di petrolio e gas. Del resto, l’impegno al tavolo di Glasgow non è stato lo stesso per tutti. Prendiamo l’Italia, che non ha più miniere e vanta un utilizzo marginale, considerato che l’80% del consumo nazionale di energia elettrica è costituito da gas e rinnovabili. E parliamo della Cina, impegnatasi per modo di dire, visto che rimane in testa alla classifica di produzione e consumo: ha promesso lo stop solo sulle centrali all’estero, ma non su quelle in casa. Tanto meno affidabile, questa promessa, se si pensa che proprio nei giorni di Glasgow, a Pechino è stato toccato un nuovo record: 12,05 i milioni di tonnellate di carbone prodotti in un giorno solo.

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CLA COP26 VISTA DAGLI ITALIANI

Speranza e preoccupazione. Perché la COP26 è stata “un’occasione sprecata”: tale considera, un italiano su tre, la conferenza sul clima di Glasgow. Non per colpa dell’Italia, che anzi viene promossa dalla maggioranza dei connazionali. I più preoccupati sono i giovani, in allarme per la situazione ambientale: sono questi alcuni dei risultati della ricerca di Swg per Green&Blue. Secondo la ricerca, tra il campione di intervistati prevale un sentimento di speranza, pur sempre accompagnato dalla preoccupazione sul futuro. Il 30% vede tra i principali ostacoli agli obiettivi della COP26 la scarsa disponibilità dei paesi sviluppati a ridurre le emissioni. Bene per otto intervistati su dieci aver posto come obiettivo l’arresto del processo di deforestazione entro il 2030. Ma di questo 80%, solo un italiano su due vede realizzabile l’obiettivo. Grandi speranze (74% degli intervistati) ci sono poi anche sull’impegno di Usa e Cina ad adottare regole comuni pragmatiche per combattere il cambiamento climatico, anche se solo il 44% ritiene che questo porterà a risultati concreti.

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