Come varcare la soglia della speranza

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15 ottobre 2004 - 1° incontro

Come varcare la soglia della speranza (don Marcello Farina)

“Per evangelizzare l’uomo moderno bisogna assolutamente che l’evangelizzazione sia solidamente radicata nella Scrittura e nella Tradizione. Ma bisogna, innanzitutto, che abbia una affinità profonda con la cultura del nostro tempo” (Card. G. Danneels, Concistoro 2001).

A)

CREDERE IN UN MONDO CHE CAMBIA (una

fiducia di fondo)

Per poter essere testimoni di Gesù di Nazareth nel nostro tempo, non è necessario solo conoscere i contenuti dell‟annuncio, ma anche i destinatari di esso, cioè le persone, le condizioni di vita, le attese, le aspirazioni, le speranze, i problemi di coloro cui viene rivolto l‟annuncio. La riuscita dell‟annuncio è direttamente dipendente, proporzionale, alla sua accoglienza e alla sua comprensione. Un annuncio non accolto, non compreso, non è neppure un annuncio. a) Ma, oggi, questa conoscenza del destinatario dell‟annuncio è molto più difficile che in passato, perché il mondo culturale contemporaneo è molto più complesso e complicato, e non ha una identità facilmente riconoscibili. (Si noti la diversità di impostazione della Gaudium et Spes, del 1965, con la sua chiara impronta umanistica e personalistica!). Con la caduta delle ideologie forti e la frantumazione del pensiero filosofico, questa visione unitaria è entrata in crisi ed è stata sostituita da un politeismo di credenze religiose, di valori civili, di comportamenti etici, di sistemi politici ed economici (il crollo del marxismo, dell‟esistenzialismo, del personalismo cristiano!). Il mondo culturale di oggi, privo di agganci ideali forti e condivisi, è plastico e mobilissimo ed è in continua evoluzione e di difficile descrizione mediante concetti e categorie universalmente accettabili. Vince l‟idea dell‟impossibilità, non solo pratica, ma anche teorica, di raggiungere una visione unitaria e integrata della vita e della storia umana. (E‟ l‟idea della “disseminazione” del senso, cara al francese J. Derida). b) “Il mondo culturale odierno mette in evidenza soprattutto che l’uomo che crede oggi non è lo stesso che credeva ieri. Il credere, come tale, implica un rapporto stabile, saldo, duraturo. E‟ una fedeltà a Dio come risposta alla fedeltà di Dio. Ma la mentalità contemporanea ha difficoltà a concepire qualcosa di veramente stabile e duraturo; concepisce solo rapporti corti, precari, insicuri, che si chiamano magari “connessioni”, come quelle del computer. Come una connessione si può sempre disconnettere, così una relazione umana si può sempre interrompere. Come nel computer si può sempre ciccare “cancella”, quando qualcosa non interessa più, così nelle relazioni umane si può sempre rimuovere un‟esperienza negativa, cancellare un ricordo sgradito, emarginare una persona antipatica. E‟ in atto, quindi, una profonda trasformazione nella modalità con cui il soggetto crede, ragiona, decide.

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Ma accade anche qualcosa di più profondo e incisivo: viene messa in pericolo addirittura l‟esperienza elementare, cioè l‟esperienza della propria soggettività, del proprio essere uomo. Oggi si esaspera l‟affermazione di F. Nietzche: “l‟uomo è qualcosa che deve essere superato!”, che corrisponde ad affermare che il soggetto deve essere abbandonato. Se il soggetto va in frantumi, va in frantumi anche ogni sua attività, ogni sua espressione, e quindi, anche ogni sua credenza” (Ignazio Sanna).

B)

CAPIRE IL MONDO CHE CAMBIA (uno

sforzo di conoscenza)

In estrema sintesi, si può dire che il contesto culturale odierno è caratterizzato dalla questione antropologica. (lo spirito e l‟uomo). a) Questa , oggi, è determinata anzitutto da due “pluralismi” in special modo: il pluralismo dell’indifferenza, per il quale messa in crisi la relazione con Dio, invece di non credere più a nulla, si crede a tutto. Ma se si crede a tutto, niente è credibile in assoluto, e non esistono più modelli o immagini di riferimento pedagogico o esistenziale vincolanti; il pluralismo delle differenze, prodotto dalla globalizzazione che ha cambiato la concezione dello spazio e del tempo, dilatando il primo e riducendo il secondo, e ha trasformato le società umane in società multietniche e multireligiose. Lo straniero delle nostre comunità fa cambiare sentimenti e forme di appartenenza, processi di costruzione dell‟identità e del riconoscimento, modi e regole della cittadinanza, rapporto con la memoria e la cultura. b) In secondo luogo la questione antropologica è determinata da un umanitarismo secolarizzato che mette in crisi (o nega) la dimensione spirituale della vita e propone miraggi di felicità e di benessere del tutto estranei alla religione. Si pensi alla logica mercantile, che annulla “l‟originalità” dell‟essere umano come “l‟unica creatura che Dio ha voluto per se stessa” (Gaudium et Spes n. 24) e promuove l‟antropologia dell‟avere… L‟uomo diventa un consumatore… Non è così talvolta anche per la religione, considerata un prodotto da consumare? Si pensi ancora alla logica che è sottesa alla tecnica (U. Galimberti) che, d‟altra parte, non diminuisce, ma acuisce le incertezze, non elimina, ma moltiplica le ragioni dell‟angoscia esistenziale. Esiste un “limite” che permetta all‟uomo di riconoscere ciò che ne promuove o ne mina l‟umanità? c) In terzo luogo, la questione antropologica è determinata da un mondo più frammentato, più instabile, più imprevedibile, che produce la società mondiale del rischio e dell‟incertezza, e alimenta una “disperata” domanda di futuro. Si ha difficoltà a capire tale frammentazione: vengono meno certe protezioni sociali (welfare), ci sono crescenti minacce all‟incolumità, alla salute, alla libertà. L‟ottimismo degli anni Sessanta (Kennedy, Krusciov, Papa Giovanni) ha lasciato il passo a un tempo di stagnazione, dovuto al senso di inquietudine di fronte alle crisi mondiali, alla complessità dei processi di liberazione, alla percezione dei limiti del progresso. Al futuro si guarda con sempre meno speranza e sempre più paura.

C)

VARCARE LA SOGLIA DELLA SPERANZA IN UN MONDO CHE CAMBIA

Di fronte a questo orizzonte problematico che descrive la situazione dell‟uomo di oggi, ci si chiede con insistenza quali possano essere le “risposte”, cioè gli atteggiamenti che il credente sia in grado di offrire per aiutare l‟uomo di oggi a varcare la soglia della speranza: chi sia in grado di dare spessore culturale ed esistenziale alla promessa divina, che ha vinto il mondo (Giovanni 16, 33), ma non ha eliminato il male presente dentro la sua storia. 2


Ci sono alcune suggestioni-provocazioni che vanno raccolte: primo: un annuncio non colto e non capito non è un annuncio. Bisogna far sì che questo annuncio sia recepito e ciò porta con sé la necessità di conoscere il destinatario. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, “i segni dei tempi”, come dice Gaudium et Spes, 4. Giovanni Paolo II parla del “mettersi all‟ascolto dell‟uomo moderno per capirlo e per inventare un nuovo tipo di dialogo con lui (discorso al Pontificio Consiglio per la cultura, 1983). secondo: l‟«oggi» della salvezza è in rapporto all‟«oggi» del salvato. La grammatica della teologia e dell‟annuncio sono le vicende della vita (Auschwitz ha cambiato la teologia, G.B. Metz; la teologia „esperienziale‟ di Karl Rahner). In altri termini la conoscenza dell‟uomo fa parte della rivelazione. Per il Cristianesimo chi dice Dio dice anche uomo: “Dio si è fatto uomo, perché l’uomo si faccia Dio” (S. Ireneo). terzo: l‟annuncio, per sua natura e modalità, ha sempre una valenza missionaria e, quindi, non si ferma a una semplice esposizione dottrinale o alla difesa di un asserto teologico-spirituale. Esso è soprattutto testimonianza aperta, un ponte di amicizia e di dialogo con la creatività dell‟intelligenza e della fantasia dello Spirito, piuttosto che difesa di posizioni acquisite e rivendicazione di verità assolute. quarto: se l‟annuncio cristiano vuole intercettare le domande esistenziali dell‟uomo di oggi, le sue tendenze ideali e le sue categorie simboliche, deve saper creare metafore di fede, adatte a dire Dio in un mondo dominato dai saperi molteplici e dal pluralismo dell‟indifferenza. quinto: detto in altre parole: per parlare a Dio bisogna trovare le parole giuste. Per parlare di Dio, bisogna evitare le parole vane. Le parole giuste sono quelle del cuore e della vita, le parole vane sono quelle dei luoghi comuni e delle mode culturale. C‟è un certo consumo di parole, quali grazia, salvezza, amore, pace, democrazia, diritti umani. Molte di queste parole sono diventate come monete svalutate, con le quali non si compra niente e non si parla a nessuna coscienza. È stato opportunamente sottolineato che Gesù fa breccia nella coscienza di Zaccheo con un invito a pranzo, e non con un ragionamento (Luca 19, 1-10). Ciò significa che nella storia della salvezza e del suo annuncio gioca un ruolo molto importante la relazionalità, l‟incontro, l‟esperienza… La vita dell‟uomo, secondo Paul Ricoeur, non comincia al nominativo, ma all‟accusativo, perché è la risposta alla chiamata divina (è il primato del «me» sull‟«io»). E Hannah Arendt ricorda che “sono stata pensata”, prima ancora di poter dire “io penso, dunque sono” di cartesiana memoria. sesto: si può poi notare che le domande fondamentali sul senso della vita e della morte uniscono gli uomini, che comprendono l‟unicità del loro destino, mentre le risposte alle stesse domande li dividono, perché esse sono legate alla cultura, e questa è formata da convinzioni religiose e umane molto differenti. Nel vangelo non c‟è, d‟altra parte, il primato della domanda, che sollecita, scava, importuna, afferma…? settimo: il pericolo è che la religione, nella società contemporanea, si riduca ad un semplice fattore di identità, pena la perdita della sua dimensione soprannaturale di annuncio e di profezia, cioè del suo carattere di trascendenza e di “diversità” tipiche, ad es., del messaggio cristiano. Il rischio è il passaggio a una “religione civile”, a una religione intesa come “progetto umanitario”, ad un‟etica per il popolo. Non era considerato “stoltezza e pazzia” (1 Corinti 1, 18-25) il messaggio cristiano al suo inizio? Che ne è di questa paradossalità evangelica? Senza la provocazione “escatologica”, il messaggio cristiano si riduce ad essere una sorta di Croce Rossa per una società malata, con il rischio di essere esso stesso considerato inadeguato di fronte alle sfide sempre più grandi del nostro tempo. 3


19 novembre 2004 - 2° incontro

Evangelizzare il mondo che cambia (don Marcello Farina)

Mi piace iniziare questo secondo incontro con le parole del documento della Chiesa italiana, che fa da titolo alla nostra riflessione. Esso ci avverte che «preferiamo fare molte cose o cercare distrazioni. Eppure sono l’ascolto, la memoria e il pensare a dischiudere il futuro». Sembra di risentire la parola evangelica di Gesù a Marta, la sorella indaffarata, distratta dall’essenziale per i troppi servizi. E ciò non riguarda solo coloro che sono a capo della comunità, ma tocca a ciascuno il compito serio di liberarsi dall’illusione di trovare il senso della propria missione e della propria vita nella fatica del troppo lavoro. Non basta mai la fatica a riempire di senso la vita. Le troppe cose possono nascondere: - la paura di interrogarsi e possono offrire l’illusione di aver fatto il proprio dovere per il Regno; - la mancanza di coraggio di accettare serenamente la situazione di minoranza in cui sempre più ci troviamo. Capita alle nostre comunità quello che capita a molte famiglie: tanto lavoro, tante cose, tanti impegni, e non c’è più tempo per parlare e ascoltare.

1.

UN MONDO CHE CAMBIA

Il tema è immenso e chiede certamente di essere colto nelle sue linee essenziali, per non risultare dispersivo e farraginoso. Ma, prima di cercare di descrivere tali cambiamenti, mi preme affermare che uno di questi (cambiamenti) è intervenuto anche nel modo di vivere della Chiesa al seguito del Vaticano II; «tale cambiamento non fa perno sulla centralità del culto, ma sulla decisività della missione e spinge a sviluppare la relazione con Cristo nel senso di un servizio al vangelo aperto a tutti, noncredenti in prima fila, nel senso di un‟immersione nella vita quotidiana, un uscire dal tempio che diventa accoglienza e scelta degli ultimi, poveri in particolare. Questa conversione alla «missione» chiede di passare dalla gestione dei bisogni religiosi all’attenzione alle domande che le persone, dai credenti ai lontani, portano con sé; dalla ricerca di conferme all’accompagnamento di persone in ricerca. Almeno implicitamente, questo passaggio riconosce l’esistenza di un blocco dell’evangelizzazione e la presenza di una trasmissione protetta, situata all’interno del mondo ecclesiale che troppo spesso, invece di interrogarsi su quanto o come trasmetta la fede a questa società, si accontenta di incolparla del suo fallimento» (Giovanni Colzani). 1


1.1. Va, anzitutto, tenuta presenta la difficoltà della trasmissione culturale oggi. Nel nostro mondo la trasmissione culturale appare segnata da fenomeni contraddittori come l’incapacità di comunicare e, al contrario, la ricerca continua di contatti e di incontri. In tutto questo ha avuto e ha grande incidenza la progressiva tecnicizzazione della comunicazione: l’odierna ampia rete di comunicazioni sostenute dalla tecnologia, in quanto misurata dall’audience e dal successo, sfugge alla problematica del senso. Per questo funziona molto bene come trasmissione di conoscenze, meno bene come trasmissione di valori e di esperienze. In una società sazia, in cui i bisogni primari sono quasi sempre soddisfatti, la comunicazione investe necessariamente i legami interumani, ma li imposta e li risolve in modo molto lontano dalle ragioni della verità e della vita. Inoltre, occorre prendere atto che ogni comunicazione ha degli insopprimibili limiti esistenziali, nel senso che essa cozza contro l’originalità di ciascuno e la sproporzione che sempre si ripropone tra ciò che siamo e ciò che comunichiamo. Questa sproporzione richiama a fondo un dato noto, ma non sempre considerato, cioè che ogni comunicazione riposa anzitutto sulla accettazione dell’alterità, cioè della diversità e della libertà dell’altro: questi non è il riflesso della mia soggettività ma il diverso con cui devo entrare in rapporto. Non è possibile rinfacciare continuamente all’altro la sua diversità come se fosse una colpa. L’accoglienza dell’altro e non la pretesa di dominarlo, l’attenzione a capirlo e non l’atteggiamento di chi lo giudica, sono la base di ogni vera comunicazione. Se poi richiamiamo qui la scissione tra spirito e materia, tra ragione e affetti, che accompagna l’uomo moderno, diventa facile concludere che la trasmissione culturale non è mai un fatto pacifico: fa della società un processo in continuo cambiamento, oggi particolarmente accelerato. Questo implica la necessità di ripensare forme nuove, non autoritarie ma dialogiche, di comunicazione della fede: la sottolineatura delle tonalità emotive e il relativo disinteresse per i contenuti spinge, soprattutto oggi, a ripensare forme capaci di rendere ragione della fede come forza di vita, come ragione di speranza e di gioia, come singolare pienezza, come radice di solidarietà e di impegno. In una parola: come apportatrice di senso e di significati.

1.2. I mutamenti culturali più significativi. L’angolo di visuale che qui ci interessa non è tanto un’analisi accurata della modernità o della cultura postmoderna in termini filosofici o sociologici, quanto piuttosto la capacità di questo clima culturale di «fare mentalità», di offrirci un contesto e una situazione ambientale con la quale la nostra fede e la nostra attività pastorale devono comunque misurarsi. Per comodità si potrebbero ricondurre a tre le caratteristiche fondamentali della nostra cultura: il nodo del soggetto, il mutamento del paradigma del tempo, la possibilità di incontro e di riscoperta dell‟altro. E non si tratta di darne una valutazione di tipo moralistico, di farne, cioè, una questione di valore o disvalore, ma di analizzare sapientemente questo dato culturale per una seria azione educativa e pastorale.

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a)

Il nodo del «soggetto».

Il punto di vista culturale da cui partire è la fine delle ideologie totalizzanti, cioè di un pensiero globale, capace di dare un punto di riferimento comune, un ordine, una stabilità. L’orizzonte, sotto il profilo del vissssuto, si restringe intorno all’individualità di ciascuno, con una concentrazione sulla propria esperienza personale, vista come l’unica àncora capace di esprimere motivazioni, valori, stimoli e di emettere impulsi vitali. Possiamo raccogliere il senso di questa trasformazione dicendo che il nostro tempo conosce: a) un passaggio dalla centralità della questione della verità alla centralità della questione della autenticità: è il vitale, è l’esperienziale, è «l’originale» a imporsi come il dato importante e decisivo. In altre parole: l’orizzonte ovvio e indiscusso è l’interesse per se stessi, per la propria vita. La vita individuale - la «mia» vita - è il primo campo di responsabilità e di libertà, è l’orizzonte su cui le persone misurano la propria organizzazione di esistenza, le proprie scelte e le proprie progettualità. La conseguenza immediata di tutto ciò è la non-ovvietà della trascendenza: cioè il riferimento a Dio non è più né pacifico, né naturale; è, se mai, una conquista che esige educazione e impegno. Ma, sempre in riferimento al soggetto, va poi ricordato che l’attenzione a se stessi porta con se, oggi, b) l’esperienza di scissione della persona. Indicata da san Paolo (Romani 7, 1425), quando scrive «non compio il bene che voglio ma faccio il male che non voglio», questa lacerazione esistenziale è l’esperienza di una fragilità e di una vulnerabilità, di una scissione tra intenzione e azione, fra intelligenza ed emotività, tra libertà e verità. La questione della «unificazione» della propria vita si impone come il problema di fondo, come il problema basilare a cui rispondere. Si accostano scelte diverse, è sempre possibile ribaltare il proprio vissuto, si esaspera l’attenzione a se stessi (narcisismo). Il risultato sociale che deriva da questa attenzione ai cammini individuali è la mancanza di valori condivisi e partecipati da tutti, è la pluralità delle proposte e l’enfasi sulla libertà. Il risultato è che la società in cui siamo inseriti sembra impegnata a offrire a tutti il massimo possibile di libertà individuale, senza alcuna attenzione per la qualità della libertà: la nostra società non impedisce a nessuno di essere quello che vuole, ma non lo aiuta a diventarlo. «Ognuno faccia quello che crede, come meglio crede. In questo senso, se il nostro mondo comporta grandi possibilità di libertà, comporta anche possibilità sconcertanti di degrado della propria esistenza in un quadro di pratica indifferenza comunitaria. In conclusione, possiamo dire che il nodo del soggetto si riassume nel passaggio dall’ideale moderno dell’autonomia - cioè di una ragione che sia norma e guida alla persona - alla concezione post-moderna dell’autenticità. La ragione è sostituita dall’utilità, dal fremere, dal sentirsi vivo, dal vissuto sperimentato in forma di pienezza; l’autenticità diventa il valore assoluto, la modalità insindacabile di autorganizzazione, diventa ciò che erode lo stupore e la meraviglia di fronte all’esistenza, diviene diffidenza o disinteresse per ciò che va oltre l’individuo. Da qui il rischio di passare da un’accoglienza della vita, interiorizzata nella gioia e nel ringraziamento come per un dono, ad una pretesa di fronte alla vita e ad una diffidenza per tutto quanto non mi 3


viene incontro a priori. Il rischio di una persona abbarbicata e ripiegata solo su di sé è il risultato di un soggetto assunto come valore unico e assoluto» (G. Colzani). b)

Il mutamento del paradigma del tempo.

Il secondo elemento è il mutamento del paradigma del tempo, del paradigma della storia. Si tratta di un fatto non ovvio, neppure questo, ma basilare e alquanto difficile da comprendere pienamente. Si può dire che la nostra cultura passata aveva sempre pensato la storia come una continuità, fatta di passato, di presente, di futuro. Oggi, invece - e questo è il cambiamento più importante -, essa è pensata come «rottura», cioè come se i fatti non fossero collegati tra di loro e, soprattutto, come se il futuro, ciò che verrà, non sia legato al passato o al presente, ma possa essere del tutto diverso, nuovo, «originale». È questo il senso della «memoria tradita», della «tradizione smemorata», la sensazione, cioè, che non si abbia a che fare con legami, vincoli, eredità, precomprensioni, pregiudizi. Da questa situazione scaturiscono delle conseguenze impressionanti che non possiamo passare sotto silenzio: - la prima è la fatica a comprendere e a vivere la durata o, in altri termini, la fatica a comprendere e a vivere la fedeltà. In una storia che cammina per rotture e non per continuità, la durata, la fedeltà, o il “per-sempre” sono difficili da accettare, difficili addirittura da capire. Così assistiamo stupiti al fatto che persone ribaltano la propria vita in un momento, giovai curati a lungo nella loro formazione, persone sposate, che fanno scelte opposte alla loro vita; - la seconda è la «dislocazione» della speranza, che non riguarda più traguardi universali da raggiungere (il Regno di Dio) ma il benessere personale, la ricerca di gratificazione subito, e quindi non la responsabilità per il domani; - la terza è proprio la perdita della memoria. Le ragioni del passato e del presente non interessano più; il vissuto personale è rimasto l’unica bussola, l’unico ago in grado di orientare le scelte della vita. Di qui l’insicurezza, l’ansia che si crea per il fatto della mancanza di riferimenti sicuri, di risposte fruibili nei momenti difficili. c)

Le possibilità di incontro e di riscoperta dell’altro.

Il venir meno di un quadro unitario, totalizzante, in grado di spiegare ogni cosa, ha anche valenze positive: spalanca, infatti, nuove possibilità di incontrarsi e di stare insieme, di conoscere e di conoscersi, legittima nuove modalità di vivere. Il venir meno di una identità forte, immediatamente riconoscibile, favorisce certamente lo scambio e la tolleranza, l’esaltazione delle differenze e, si può persino dire, di accettazione della prossimità. Ma è davvero così? Si realizza davvero questo atteggiamento di rispetto e accoglienza? Il rischio (e il timore) è che in questa società, l’alterità venga fatta solo in funzione dell’identità, dell’«Io», del «Me», cioè vi si aggiunta, senza integrarvisi pienamente. In altre parole: la differenza è rivendicata, esibita, imposta, ma non è accolta con fiducia e amore. Spesso la partecipazione (alla vita, alla vicenda dell’altro) si riduce a una dinamica emotiva, consolatoria e gratificante, o a una dinamica funzionale, interessata e strumentale. Per questa via la partecipazione non si apre veramente 4


all’altro in quanto tale, ma all’altro che mi ha colpito: nell’altro è sempre la mia soggettività che ricerco. E là dove la relazionalità è costruita sulla gratificazione e sull’interesse, là dove ci si intende solo in base al guadagno emotivo o funzionale - lo si voglia o no, lo si riconosca o no - là l’intolleranza e addirittura il razzismo sono in agguato. Ciò che è decisivo, anche in questo contesto, è che il comunicare, il dialogare, prima di essere visto come fatto tecnico, deve essere pensato come modalità originaria della persona: la persona è apertura, condivisione, vivere insieme. Prima di volersi l’un l’altro, si vive insieme all’altro: il rapporto tra le persone è iscritto nel gesto, nella parola, nella sessualità. L‟altro è se stesso e non, anzitutto, risposta ai miei bisogni. Il rischio tipico del post-moderno è quello di piegare il desiderio, la comunicazione, a una dinamica soggettivistica, emotiva e gratificatoria, cioè piegata su se stessi, individualistica e particolare.

2.

SI PUÒ „EVANGELIZZARE‟ QUESTO MONDO?

Due interrogativi nascono immediatamente, leggendo anche superficialmente quest’epoca che ci è data: - è possibile scorgere in questo tempo di certezze solo provvisorie una certa attesa di salvezza? Il documento dei vescovi italiani ci ricorda che «l’animo giusto», con cui attuare questo discernimento è quello dell’apostolo Paolo nell’areopago di Atene: «Vi è un Dio ignoto che abita nei cuori degli uomini e che è da essi cercato...» (Atti 17, 16-34); - come, poi, risvegliare ed esplicitare l‟attesa di salvezza; come i cristiani, che sanno di aver ricevuto in dono il Vangelo - «il più grande dono di cui dispongono» - possono «condividere questo dono con tutti gli uomini e le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza di vita»? (n. 32 del Documento). Come si può vedere, non si tratta di impadronirsi delle attese dell’uomo di oggi per subito dirigerle verso l’attesa (di salvezza). Non si tratta neppure di pretendere di disporre totalmente della verità, che sempre ci precede e, insieme, ci “anticipa” nel nostro cammino. Piuttosto occorre saper vedere nelle contrastanti condizioni di vita e nei profondi e rapidi cambiamenti la difficoltà di molti contemporanei di «identificare realmente i valori perenni». Vale per l’azione pastorale quanto ha detto L. Wittgenstein a proposito della fede: «Credere in Dio significa vedere che i fatti del mondo non sono l’ultima parola». 2.1. Un quadro “umano” problematico In pochi decenni si è passati dall’homo faber fortunae suae, artefice di se stesso, lanciato verso «gli impegni terreni» o «verso le attività professionali e sociali», per usare le espressioni della Gaudium et Spes, a un uomo ripiegato su se stesso, rassegnato, succube più che artefice della evoluzione in atto. (Questa è l’atmosfera che ci avvolge, anche se non mancano eccezioni!).

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«Oggi l’annuncio del Regno deve confrontarsi anche con chi non attende nulla e nessuno. È questa una tendenza pragmatica assai diffusa, anche nel nostro Paese, pur se non espressa i modo così esplicito o così drastico. Anzi, ciò che sorprende è precisamente l‟accettazione passiva, rassegnata di una realtà piatta e grigia in cui si vive nella massa ma isolati, senza vere relazioni, quasi lieti di essere privati della storia personale, derubati del linguaggio e dei sogni, in modo da non contrastare l’unica storia, l’unico sogno e l’unico linguaggio, quelli dei mass media. Il disagio della postmodernità, con il suo smarrimento e con la sua incertezza sul futuro, provoca in alcuni l‟abbassamento delle aspettative di una realtà più vera ed autentica, fino al radicale annullamento della tensione verso l‟alto e verso il futuro. Se un tempo, quando dominava il mito del progresso, le attese erano molte e soprattutto forti e determinate, sorrette da una viva speranza, anche se tendenzialmente rivolta ai soli beni terreni, oggi, con il mito del progresso in parte infranto, le attese si sono ridotte di molto, forse sono anche sparite. La società della “gratificazione istantanea” - “il presente come tempo del soddisfacimento dei bisogni”, dice il documento (n. 2) - si accontenta di poco, fino a perdere il senso e il valore dell’impegno costante e duraturo. La presunzione di costruire da soli il proprio destino ha dovuto fare i conti con le numerose esperienze fallimentari: da questo confronto spesso è spuntato un atteggiamento pessimistico, scettico, diffidente. Per alcuni si va anche oltre, fino ad accontentarsi di vivere alla giornata, di godere dei risultati frammentati e provvisori. Per altri poi si arriva all’insidia del nulla, dell’insignificanza. Tutto è semplice accadimento, senza sostanza e senza verità; tutto ciò che viene alla ribalta, subito sprofonda e si dissolve nel nulla. La vita, nella sua corsa senza traguardo e senza meta, appare assurda. Molti - anche fra i giovani - quasi non provano più gusto a vivere: tutto è insignificante. In questa luce, l’attesa del Regno sembra essere fuori luogo, del tutto anacronistica. la salvezza, la questione religiosa, la stesa speranza sembrano senza senso, quando il soggetto è scomparso, quando grave è la perdita della memoria, quanto il linguaggio risulta dissolto, quando la storia è vissuta come un’evoluzione anonima, vuota, senza sorprese, che include tutti e tutto senza clemenza ed elimina ogni sostanziale aspettativa. Anche l‟atteggiamento diffuso del sincretismo relativizzante risulta difficilmente raccordabile con la tensione stimolante dell‟adventus cristiano e con l‟idea e l‟esperienza della salvezza. Si tratta di un atteggiamento che accoglie l’incertezza della postmodernità senza viverla come indifferenza, ma come sincretismo opportunistico, ove convivono aspetti disparati e contrastanti. Possiamo forte riferirci alla “furbizia” di Rachele. Quando entra nella casa di Giacobbe, è lieta di accettare come proprio il Dio di Israele. Però ha portato con sé i piccoli idoli di suo padre, nascondendoli sotto la sella del cammello (Genesi 31, 19.34). Così avviene oggi per molti. Si può attendere il regno di Dio, ma si può vivere all‟insegna di valori molto terreni che di fatto disattendono l‟attesa del Regno. Si può invocare l’avvento del Regno di Dio, riconoscendo che Dio, e non l’uomo, è il protagonista di questo Regno; ma si può poi fare del mondo la nostra proprietà, si può fare dell’uomo il principio di spiegazione del mondo e di autoredenzione, si può della 6


libertà un ambito illimitato e assoluto. Ugualmente si può avvertire la sete di una spiritualità aperta verso l’alto, ma si possono poi seguire percorsi di conoscenza interiore e interiorizzante, di introversione e di tranquillità solipsistiche, fino ad accontentarsi delle “vibrazioni” del proprio corpo o dei “suoni” dell‟universo, con un‟attenzione esasperata per la salute, con costosi metodi per lo sviluppo del potenziale umano, con scuole di successo per vincere la timidezza o per controllare l‟ansia» (G. Ambrosio, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, in la Rivista del Clero, n. 9, 2001, pp. 574-575). Ma c’è anche chi non ha dimenticato Dio nella sua vita, ma il ritmo della vita quotidiana, la routine del lavoro, degli impegni inderogabili non lascia eccessivo spazio alla possibilità di celebrare i segni della salvezza dentro la comunità cristiana, di seguire il ritmo e le proposte. Mi viene in mente la testimonianza di un cameriere con due figli e una moglie, che lavora, ella stessa, nel fine settimana. Egli ha il giorno libero il martedì ed è quello per lui il giorno del Signore. Portando a passeggio i suoi figli piccolissimi, egli entra con loro in chiesa, li fa pregare, celebra a suo modo la fede che lo lega alla comunità. A costui quale catechesi può essere proposta? Quale accoglienza gli è riservata? Non passano in secondo ordine tutte le burocrazie ecclesiastiche dei tempi stabiliti, di orari fatti per borghesi e pensionati? Lì dove l’impegno per il lavoro, per la sopravvivenza materiale, chiede sempre più tempo e fatica, come trovare la disponibilità per l’educazione religiosa dei figli e per vivere dentro la comunità? Lì dove la comunità cristiana si trova a dover affrontare un tale carico di impegni per il mantenimento dello status quo, quali energie può trovare per cogliere il cambiamento in atto? 2.2. Considerazioni conclusive L’osservazione di un grande teologo contemporaneo, Raymond Pannikar, ci permette di cogliere un’ultima considerazione per quel che riguarda la religione oggi. Egli dice: «Tra tutti i tentativi volti a definire la religione, io rischierei questa semplice e breve osservazione: - la religione è il sentiero che l’uomo prende per conseguire lo scopo della vita... il pellegrinaggio esistenziale, in cui l’uomo si impegna con la convinzione che tale impresa lo aiuterà a raggiungere lo scopo finale o il fine della vita». Ciò significa che: - ci si incammina da una religione come proposta in sé compiuta e legittima e come universo di valore e pienezza di significato, ad una religione, che verifica non la propria credibilità, ma l’apporto che sa offrire all’esperienza individuale e collettiva; - ci si incammina da una fede trasmessa con tutto il suo bagaglio di verità e di dogmi in toto, a una fede elaborata esistenzialmente, come «cantiere» da cui «estrapolare» ciò che permette di «rispondere» alle tante domande che la vita suscita quotidianamente (perché il dolore, ecc...?); - ci si incammina da una fede-risposta a priori alle impellenti problematiche del vivere a una fede-domanda, indagatrice profonda del cuore umano, così da renderlo inquieto nel suo tentativo di giungere in chiaro nei confronti di quel «mistero» che è la vita;

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- ci si incammina dal «senso cristiano» dell’uomo, ereditato dai secoli di storia del cristianesimo, alla «elaborazione cristiana del senso dell’uomo, mai data una volta per tutte, capace di novità, di freschezza, di immediatezza. Per il credente di oggi (e in particolare per il giovane che cerca la fede nel nostro tempo) non può essere sufficiente il ricorso a modelli del passato. La sua domanda di religione ha «la pretesa» (in senso positivo) di non essere mai stata fatta con quell’intensità, che è propria di ogni singolo soggetto, che non vuole ripetere il passato e attingere da esso, in maniera passiva, l’esemplarità per l’oggi. Per dirla con Ernst Bloch, si impone un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi «dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu», «dalla terra posseduta alla terra promessa», lasciando spazio alla fantasia, al cuore, alla creatività di ciascuno, che voglia cercare quel Dio «che nessuno ha mai visto». «Anche oggi, nella postmodernità, “il popolo è in attesa”, nonostante tutto. Poiché il cuore è inquieto, poiché è forte, anche se inespressa, la nostalgia della “casa”, poiché vivo è il bisogno, anche se inconsapevole, di essere “salvati”. Tutti abbiamo bisogno di sentirci rivolgere le domande fondamentali, quelle domande troppo spesso eluse per sottrarsi alla serietà delle scelte e all’impegno di un progetto. Tutti abbiamo bisogno di sentire e di capire che la questione di Dio non può essere rimossa, perché è questione decisiva per la serietà della vita, per un progetto che guarda fiducioso al futuro. Tutti abbiamo bisogno di renderci conto che la preghiera è necessaria alla vita, come l’amore, come il cibo, come l’aria. La Chiesa italiana vuole venire incontro a questa attesa, anche se a volte è silenziosa. Gli Orientamenti pastorali vogliono ricordarci che hodie salus facta est, che il dono della salvezza è rivolto a questo oggi, a questa realtà odierna, a questi uomini del nostro tempo. Senza troppo parlare di minoranza, senza troppo accentuare le difficoltà, senza troppo rimpiangere il passato, ma vivendo insieme agli uomini e stando davanti a Dio: così la Chiesa è “la liturgia di tutti coloro che sono muti per Dio” (von Balthasar). Anche questa liturgia è parte essenziale del comunicare il Vangelo in un mondo che cambia» (G. Ambrosio, cit., p. 576).

BIBLIOGRAFIA

«Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», CEI, 2001. G. AMBROSIO: «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», Rivista del Clero, settembre 2001. G. COLZANI: «La trasmissione della fede, Rivista del Clero, n. 6, 2001. P. COLOMBO: «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», Rivista del Clero, n. 2, 2001.

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Canova, 21 gennaio 2005 - 3° incontro

Credere in Gesù Cristo (Aspetti nodali della fede oggi) (don Marcello Farina)

1. Dire che il modo di vivere la fede oggi è profondamente mutato per molti di noi è dire un‟ovvietà, così come dire che è necessaria sempre di più una fede personale matura, che possa “far fronte” alle infinite domande che la interpellano da ogni parte. Mi piace l‟avvio del libro «Problemi di fede della nuova generazione» di K. Rahner - K.H. Weger: «Ciò che m’inquieta – e che costituirà il tema di questo scambio di idee – non è tanto il „che cosa‟, il contenuto della fede cristiana, bensì il „perché‟ della fede. So bene che il problema del perché non può essere posto senza tener conto del contenuto, e avremo occasione d’interrogarci sugli stessi contenuti di fede. Riguardo a questi ultimi posso cioè essere generoso e gretto al medesimo tempo. Gretto se un asserto di fede non mi vuole entrare in testa ed esige di essere semplicemente creduto, perché sta scritto che qui ci si deve fermare. E generoso soprattutto perché un paio di dogmi in più o in meno non fanno alcuna differenza. Se invece di sette i sacramenti fossero dieci, il mio „nerbo di fede‟ non verrebbe nemmeno sfiorato. Ma il „perché‟ della fede! A me sembra che stia qui una delle radici della rassegnazione. La vera fede non dovrebbe forse ardere? Non dovrebbe spingere sulle strade? Non dovrebbe cercare di convincere gli altri, e non perché pretende di avere ad ogni costo ragione, non perché fede saccente, ma perché convinta di aver trovato il senso e fatto esperienza della felicità? o per lo meno perché si sente contenta ed ha raggiunto una tranquillità interiore?» Così almeno “dovrebbe essere” per noi. Ma obiettivamente possiamo dire che ai nostri giorni è proprio sempre così? O non è forse vero che molti cristiani, fin dall‟adolescenza non credono più? Anzi, sembra persino che questa “estraneità” di fronte alla fede si acutizzi nell‟età matura. Ecco, dall‟altra parte, le tensioni che il credente oggi esperimenta nell‟esercizio della fede sono così numerose e frequenti, che anche solo tentarne una rassegna diventa un‟impresa difficile. Abbiamo già parlato, ad esempio, del clima di indifferenza (il “pluralismo dell‟indifferenza”) e di pluralismo religioso in cui spesso si trovano a vivere; ma non va dimenticato


il “silenzio” di Dio, cioè la difficoltà di molti a coglierne la voce e la presenza (“Dov‟eri Dio?”); si tenga presente anche la tendenza a considerare la fede come un atteggiamento del tutto individuale e, correlativamente, l‟impreparazione di molte comunità ecclesiali di fronte al compito di mediare la fede in modo convincente; per non parlare, poi, della storia del “popolo di Dio”, cioè della Chiesa in generale, sempre santa e sempre peccatrice. Più analiticamente: la prima difficoltà è dunque il clima di indifferenza e il pluralismo religioso, in cui il cristiano oggi si trova a vivere. È finito il “regime di cristianità”, che in qualche modo ha agevolato la vita di fede. I cristiani, anche in Occidente, sono ormai una minoranza. Si fanno sempre più sentire i rischi dei condizionamenti introdotti dalla “secolarizzazione”, che veicolano uno stile di vita contrario al Cristianesimo e un‟indifferenza religiosa diffusa. In questa stessa linea si colloca la difficoltà a cogliere la presenza di Dio nella propria vita. È il grande tema dell‟«assenza di Dio». Ciò può accadere per svariati motivi. C‟è chi considera Dio come assente perché riscontra nel mondo o anche nella propria vita la presenza di grandi ingiustizie o di sofferenze inspiegabili, che insinuano il pensiero che Dio sia indifferente di fronte ad esse o non voglia o non possa intervenire. Ma gli ostacoli possono derivare anche dal lavoro di ogni giorno, spesso ripetitivo o meramente esecutivo, oppure logorante e spersonalizzante. Così per le persone è difficile cogliersi come “collaboratori alla costruzione del Regno di Dio” ed esse si sentono private di un valido stimolo a cogliere nel quotidiano un rimando a lui. Altre volte le difficoltà hanno radici più profonde. Può essere sia l‟ambiente circostante ostile che rende difficile la fede, oppure, addirittura, il temperamento spirituale. C‟è, anche tra di noi, chi, pur essendo profondamente credente, non si sente affatto “trasportato” dalla sua fede, né in qualche modo riesce a sperimentarla. Per costui credere spesso comporta una fatica che ogni giorno si rinnova, legata al superamento delle difficoltà che continuamente incontra. Oppure, come si è già detto, un altro grande ostacolo è la tendenza dell‟uomo di oggi a considerare la fede come una scelta del tutto individuale, una faccenda privata, che “serve” solo nell‟ambito della propria coscienza, senza apertura alla comunità. Non da ultimo, per molti credenti o cercatori di Dio è la storia della Chiesa che fa ostacolo alla comunicazione della fede. Non solo la ricchezza delle Chiese, ma la loro fedeltà al vangelo, il loro essere presenza 2


profetica dentro la storia dell‟uomo. (Le cinque paure ricorrenti nella vita della Chiesa: la verità, la libertà, la democrazia, l‟amore, la donna). A questo punto una domanda si impone: è “ragionevole” credere? Il tutto si articola in diverse questioni: è necessario avere delle “prove” per aderire alla fede e quali possono essere le loro caratteristiche? L‟uomo contemporaneo è ancora in grado di riconoscerne la validità, anche in tempi di “pensiero debole”? La credibilità del cristianesimo si può cogliere anche al di fuori della fede? Diventa sempre più chiaro che oggi, più che mai, un cristiano maturo non può sottrarsi al compito di spiegare i motivi che lo portano a credere, cioè a portare delle “prove”. Come ai tempi della Chiesa primitiva, anche ai nostri giorni sono necessarie delle “prove”. Allora, come oggi, erano e sono necessari dei “segni” che mostrassero e mostrino la solidità della fede del credente. Si tratta, come si può vedere, di “prove” di tipo speciale, legate ai detti e ai fatti della vita di Gesù di Nazareth e all‟evento della sua risurrezione, così come i discepoli la testimoniano. Il valore cioè delle “prove” nasce da due premesseprecomprensioni: che il Dio della Bibbia, il Dio della storia del popolo si sia rivelato in Gesù di Nazareth, come testimoniano coloro che sono vissuti con lui; egli solo è la “pietra” su cui si fonda la fede, e nessun altro. Di conseguenza, poiché si tratta di una testimonianza (magari confermata con il martirio), la fede non ha la certezza delle “dimostrazioni matematiche”, ma “si fida” di uomini e donne credenti. Ciò è davvero straordinario: il valore delle “prove” della fede passa attraverso l‟esperienza comunitaria: il cristiano percepisce la ragionevolezza della sua fede principalmente confrontandosi con le ragioni che sostengono la fede degli altri credenti. È perché egli esperimenta la bellezza, la gioia della fede, l‟«equilibrio» che essa compie nella vita di tanti credenti che può “provare” a credere. Che può imparare l‟irresistibilità della figura di Gesù di Nazareth per sé e per la propria vita. 2.

GESÙ DI NAZARETH È LA PROVA DELLA FEDE

È in questo contesto che mi pare importante fermarci un poco sulla figura di Gesù di Nazareth. È appena uscito in Francia un interessante libro di Maurice Bellet, intitolato “La quarta ipotesi. Sull’avvenire del Cristianesimo” (Parigi 2001), dove l‟autore ipotizza che l‟annuncio cristiano, anzi Cristo stesso, sono minacciati di estinzione. E questo acuto osservatore “interno” alla fede cristiana, con la sua rara capacità di provocazione, delinea quattro ipotesi per l‟avvenire del Cristianesimo: 3


la prima non fa che prendere atto della scomparsa del fenomeno cristiano: «il Cristianesimo scompare e con esso il Cristo della fede… Se ne va. Svanisce. È indolore. Non ci si pensa neanche più. Scomparso»; restano delle tracce, monumenti, opere d‟arte, forse qualche elemento d‟inconscio collettivo e un nucleo consistente di adepti…; la seconda ipotesi delinea una dissoluzione: l‟apporto dei valori evangelici entra a far parte del patrimonio comune dell‟umanità come un anello di una tradizione più grande, una componente di un sistema di pensiero e nulla più: «Gesù può anche trovarsi un posto, come nel pantheon indù»: è forse quello che alcuni vogliono veder fissato nero su bianco nella “carta” dell‟Europa?; la terza ipotesi è che il Cristianesimo continui attraverso una dialettica fatta di conservazione, di restaurazione e di aggiornamento, in cui opzioni anche opposte – Bellet cita Pio IX e Giovanni XXIII, canonizzati insieme – permangano “interne a uno stesso insieme” fondamentalmente invariato; infine la quarta ipotesi, quella che già il titolo del libro fa emergere come la più approfondita, quella verso la quale si orienta l‟attesa dell‟autore: qualcosa conosce inesorabilmente la fine, «qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte scende in noi». È la fine di un sistema religioso, legato all‟età moderna dell‟Occidente da un rapporto di interdipendenza. Ma con questa morte si arriva come a un capolinea, dove non si sa se la ripartenza sarà verso il peggio o verso il meglio; l‟unica cosa che si sa è che questo dipende in massima parte da noi. È qui che va posto l‟interrogativo brutale: “Cristo ha un futuro?” Lì dove un mondo finisce, in questa sorta di ‘groundzero’ della cristianità, non tutto è perduto: l‟evangelo può lì apparire come evangelo, cioè come parola inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l‟evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripetizione può essere la ripetizione dell‟inaudito, così come dopo tutto, la nascita di ogni uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l‟inaudito. Scrive Enzo Bianchi: «Sono convinto che un cristianesimo che sappia rinunciare a ogni forma di potere diverso dalla parola disarmata, che faccia prevalere la compassione sulla Legge, che riesca a parlare al cuore di ogni uomo, facendogli intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani si esercitino a essere quelle sentinelle della libertà, della giustizia e della pace che Giovanni Paolo II ha più volte evocato nella sua chiaroveggente visione sul futuro del Cristianesimo. Certo, non va 4


percorsa la strada di quanti, nella loro fede incerta, si aggrappano a false certezze, ricercano un’identità cristiana contro altre vie religiose, sperano in forti mobilitazioni e preferiscono annunciare una babele prossima ventura dovuta all’incontro tra le religioni, piuttosto che operare perché ci sia una nuova pentecoste». In un mondo, che è spesso sopraffatto dall‟angoscia, forse c‟è ancora posto per un cristianesimo che sappia ripresentare l‟inaudito di una buona notizia, l‟inatteso ritrovamento di un senso non solo per una singola vita, ma per la stessa convivenza civile, forse c‟è ancora posto per dei cristiani liberati dalle paure e aperti a una speranza per tutti.

3.

COME GUARDARE AGLI UOMINI E ALLE DONNE DI OGGI?

Le considerazioni fin qui sviluppate rendono quanto mai attuale la domanda di Gesù: «Ma quando verrà, il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra?» (Luca 18, 8). Se la situazione della fede oggi è quella che abbiamo abbozzato, con quali occhi guardare ai credenti incerti e dubbiosi o agli scettici che talvolta incontriamo? Vale la pena di pensare che la risposta appropriata sia: dobbiamo impegnarci a guardare la realtà, la vita, la storia con gli occhi misericordiosi di Dio. Ciò significa principalmente che dobbiamo cercare di capire le difficoltà che molti incontrano nel loro cammino verso Dio. E di cogliere l‟atteggiamento di Dio nei confronti degli uomini e delle donne di “poca fede”. Gesù di Nazareth mostra un‟enorme pazienza con i discepoli e le folle, cui spesso rimprovera di avere “poca fede” (Matteo 6, 30; 8, 26 ecc. ecc.). Le parole che egli rivolge agli apostoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape…» (Luca 17, 6) si riferiscono proprio a questa situazione di incertezza. E questo atteggiamento di pazienza, di attesa fiduciosa, Gesù lo manifesta anche dopo la risurrezione, come risulta dall‟incontro con i discepoli di Emmaus (Luca 24, 25-27) e con Tommaso (Giovanni 20, 27). Egli non giudica, anzi guarda con simpatia e compassione chi ha bisogno di aiuto per maturare la propria fede, (di)mostrando che Dio non abbandona nessuno e, anzi, a chi non lo conosce, egli apre vie d‟accesso impensabili, a lui solo note. In realtà la rivelazione ci avverte che i cammini della fede sono numerosi e diversi: la storia della salvezza racchiude tutte “le storie” della 5


maturazione della fede che Dio ha predisposto per ciascuno e per il popolo. Insomma, «le vie che conducono alla fede sono tante quanti sono gli uomini» (Romano Guardini). Possiamo persino immaginare che, come accadde a Giacobbe, per aderire a Dio nella fede, l‟uomo di oggi spesso debba lottare con lui. Dio parla ad ogni uomo in modo diverso, rispettando i tempi di maturazione, la cultura, le chiusure, i tentennamenti, i ripensamenti. In breve: Dio guarda con attenzione amorosa l‟uomo che si avvia sul cammino della fede e il suo dialogo con lui, sotterraneo e misterioso, dura tutta la vita. Assecondare questo dialogo sotterraneo è il compito di chi crede, di chi accetta di farsi testimone della fede. La “compagnia” della fede è, spesso, il compito più importante e prezioso di chi vuole essere discepolo di Gesù di Nazareth. Recuperare “tracce di fede” rimaste, anche se stanche; sollecitare “nostalgie” ormai sedimentate, ma riaffioranti in determinati momenti; non approfittare dei momento di debolezza delle persone, ma far sentire che nessuna esperienza di vita è insignificante e disprezzabile; osare ogni tanto dire che il Dio cristiano è “il dio dei vivi e non dei morti”, e sulla sua parola si può davvero gettare le reti per sperimentare una vita “sensata”. Quando sentiamo parlare di “nuova evangelizzazione” (almeno da vent‟anni a questa parte) non possiamo pensarla allora, semplicemente, come una “nuova inculturazione”, visto il fallimento-oscuramento delle “grandi narrazioni” precedenti, ma come un atteggiamento di grande accoglienza e di rispetto per la “fragilità” e la “debolezza” della umanità di oggi. Una delle sfide più urgenti è proprio il prendere coscienza della “gravità” dell‟impegno. Ma non deve mancare “una strategia missionaria”, cioè una consapevolezza nuova riguardo agli strumenti e ai linguaggi, che possono di nuovo suscitare la fede in un contesto storico che non le offre più un appoggio negli ambienti vitali dell‟uomo e della donna nostri contemporanei.

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APPENDICE 1

pretazione scientifica, perché esso tiene in serbo possibilità fino ad ora sconosciute, tesori nascosti di conoscenza, di felicità e di prove superate; crediamo perché per noi le forze della repressione, dello sfruttamento, dell’umiliazione e della eliminazione non possono avere l’ultima parola, perché pensiamo dell’uomo meglio di quanto corrisponde alla sua valutazione di fatto, perché la sua vicenda per noi va oltre il pozzo oscuro sul cui bordo egli, questo recipiente di insoddisfatte nostalgie, va in mille pezzi. Crediamo dunque perché per noi, al di là delle situazioni contingenti – e già in mezzo ad esse –, ci deve essere uno spazio di respiro, non certo un’isola dei beati, ma uno spazio in cui non ci sentiamo estranei, uno spazio in cui domina la buona volontà, uno spazio di nostalgie colmate e di promesse mantenute. Crediamo perché non ci lasciamo sottrarre la fiducia nella forza della ragione, nella vittoria del giusto e nella attuazione della pace. E crediamo di fronte a tutte le cose perché ci ripromettiamo tutto ciò non, o non primariamente, dalla nostra intelligenza, dalla nostra creatività, dalla nostra disponibilità al rischio e dalla nostra energia, bensì dall’avvicinamento di questo mondo al compendio dell’essenza divina della misericordia, della sapienza e dell’amore. Crediamo perché nella fede ci diviene chiaro che questo avvicinamento non parte da noi ma da Dio il quale, venendoci incontro nell’evento della comunicazione di sé stesso, è il fondamento e il motivo più profondo della nostra fede. Riferito al punto di partenza, ciò significa: credia-

Da: Eugen Biser, La svolta della fede, ed. Morcelliana, pp. 76-77 “Così viene ora alla luce anche il motivo della domanda. Non si tratta, come nel caso della domanda posta strettamente nell’ambito di argomentazioni dimostrative, di curiosità intellettuale, poiché essa in questo caso si collega con un desiderio di sicurezza fondamentale, volto al «tempo e all’eternità». No, si tratta del desiderio, insito in ogni uomo, di maggiore felicità, di maggiore comprensione, di maggiore umanità! Da ciò è alimentata l’aspettativa che noi rivolgiamo alla fede e di ciò si nutre anche la domanda ora nuovamente posta nel suo significato fondamentale: «Perché crediamo?». A partire da questa aspettativa di significato, già ora è possibile dare una risposta, prima di ogni ulteriore approfondimento del problema, per quanto essa possa apparire indeterminata in questo stadio del procedimento di pensiero. E questa risposta chiede già da ora di essere ascoltata nella sua indeterminatezza. Essa è: crediamo perché ci sentiamo chiamati a qualcosa di più grande di quanto il mondo dei fatti, degli affari, dei doveri, il mondo delle piccole felicità, dei vantaggi di breve respiro e delle delusioni che seguono a ogni successo riescano ad offrire. Crediamo perché ci sentiamo alle strette nella unidimensionalità del nostro spazio di vita dominato dagli obblighi, minacciato da manipolazioni e disseminato di frustrazioni; crediamo perché il mondo non ci è ancora stato chiarito fino in fondo con la sua inter7


mo perché in nessun luogo come nell’atto della fede diveniamo consapevoli dell’utopia del nostro proprio esistere, dello stimolo al superamento di noi stessi connaturato a questo esistere, della nostra innata vocazione a qualcosa di più grande di quanto abbiamo effettivamente raggiunto e siamo. Crediamo dunque perché dall’utopia della fede aspettiamo la risposta alla domanda che noi non tanto poniamo quanto piuttosto rappresentiamo”.

restereste soli, senza nessuno che vi approvi. Tolleriamo agevolmente nei nostri presepi un Gesù Bambino di gesso: non è importuno, non è esigente: non parla! Ma se soltanto fosse un piccolo bambino straniero che grida, che sporca, affatica e ci sveglia di notte, saremmo profondamente spaventati e perderemmo ogni «sentimento» religioso. Il vero Cristo, il vero Dio è terribilmente ingombrante. È per questo che ce ne siamo sbarazzati in quel tempo e che noi troveremmo molto bene i modi per sbarazzarcene nel nostro. Ci volgiamo con nostalgia al Natale. Ci lamentiamo di non aver vissuto in quel tempo dove si poteva vedere, toccare, accogliere il Cristo. Ma ci dimentichiamo che quello fu il tempo in cui quasi nessuno lo ha riconosciuto, amato, venerato. Dimentichiamo, soprattutto, che questo tempo continua, che pure per noi il Verbo si fa carne ed abita tra noi, sempre povero, sempre sospetto, sempre misconosciuto. Pensate: se gli albergatori di Betlemme avessero saputo chi bussava alla loro porta l’avrebbero aperta. Erano persone religiose come noi. Ma hanno creduto che Maria e Giuseppe fossero due barboni, due immigrati, due sconosciuti, due importuni, allora non li hanno accolti, come faremmo anche noi. Siamo troppo ragionevoli, troppo prudenti, troppo presi da noi stessi. Come credere che Dio può presentarsi in simile veste? Nelle nostre case confortevoli, tutto è occupato e non ci manca nulla, anche se il Signore non è lì. Perché il Signore non è qui che con il povero, il vecchio, lo straniero.

APPENDICE 2

Luis Evely, Un Natale ingombrante Io mi dico spesso: basterebbe che Gesù si presentasse veramente a casa nostra il giorno di Natale perché non ci sia più alcuna festa di Natale. Sì, basterebbe che Gesù venisse veramente nella nostra famiglia perché le nostre feste siano rovinate. Immaginate che Gesù si inviti a casa nostra nelle vesti di rifugiati senza tetto, di immigrati muniti di un foglio di requisizione, di un giovane delinquente che esce dalla prigione dopo aver scontato la pena, o semplicemente di una vecchia zia (senza eredità) o di un vecchio zio (non d’America) malato e che verrebbe da noi per essere curato e per morire; ebbene la festa sarebbe finita, il nostro Natale andrebbe a monte. Quale imbarazzo, quali fastidi, quali lamentele, quali reazioni! Vostro marito brontolerebbe, vostra moglie protesterebbe e i figli dichiarerebbero di andare altrove a festeggiare il Natale, in un posto più gioioso e più tranquillo. E voi 8


Canova, 18 febbraio 2005 - 4° incontro

La vita di Gesù: bella, buona, beata (don Marcello Farina)

1. Introduzione «C’è un uomo che desidera la vita e che brami giorni per gustare il bene?» (Salmo 34, 13) La domanda del salmista interpreta sicuramente l‟istanza presente in ogni donna, in ogni uomo, tutti alla ricerca di un modo di vivere la propria esistenza quotidiana che «salvi la vita», cioè la dispieghi, la dipani e la raccolga insieme, così da gustare ciò che è bello, buono e felice, in sé e attorno a sé. La saggezza antica e recente ha sempre riconosciuto che la felicità è la motivazione ultima dell‟agire umano. S. Agostino ha potuto scrivere: «Noi tutti bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi l’assenso a questa affermazione, anche prima che venga spiegata in tutta la sua portata». Sigmund Freud, dal canto suo, nell‟opera Il malessere della civiltà si chiede: «Quali sono i progetti e gli obiettivi vitali, rivelati dal comportamento degli uomini?»; e risponde: «Si è certi di non sbagliare: essi aspirano alla felicità; gli uomini vogliono essere e rimanere felici!» In un‟iscrizione egiziana, scoperta sulla tomba del faraone Ai, successore di Tut-ankamon, nel XIV sec. a.C. si legge: «C’è un uomo amante della vita e desideroso di una vita felice?». Certo, la domanda appartiene ad ogni persona, è specifica dell‟umanità. Ed è una domanda che si colloca nella «ricerca di senso», cioè nella ricerca di un «giudizio globale, complessivo» sulla


propria vita, che nemmeno la modernità ha messo in disparte, ma, anzi, ha fornito di una profondità e acutezza nuove: per vivere, la donna, l‟uomo non può fare a meno di un significato e di un orientamento, di un riferimento e di una finalità, nei confronti dei suoi molteplici interessi e possibilità, delle sfaccettate opportunità che la vita stessa gli offre. Non c‟è cammino degno di questo nome senza queste tre domande: Perché andare? Dove andare? Come andare? E oggi, se non vogliamo accelerare i nostri passi verso la barbarie (Petits pas vers la barbarie è il titolo di uno straordinario libro di Guy Coq e Isabelle Richebé), appare sempre più urgente la riscoperta di una «sapienza» che accompagni l‟espansione quantitativa e produttiva nel nostro Occidente, e che, soprattutto, accompagni le nostre società in questo periodo di disincanto e disorientamento. È qui che si inserisce la domanda che vorremmo farci reciprocamente in questo quarto incontro del nostro viaggio all‟interno della ricerca di fede: che cosa ha da dire, di fronte a queste domande, il Cristianesimo, che è nato come «vangelo», buona novella? È ancora una buona notizia? In particolare il Nuovo Testamento vede inverata e realizzata la «buona notizia», cioè il vangelo, nell‟esistenza umana vissuta come Gesù di Nazareth l‟ha vissuta: una vita umana donata «per insegnarci a vivere in questo mondo»¸ come dice Paolo al suo discepolo Timoteo. Attraverso Gesù di Nazareth il Nuovo Testamento svela che la salvezza inizia e si innesta come arte del vivere qui sulla terra, perché la vita di Gesù nei giorni della sua esistenza terrena è stata “salvata” dalla forma stessa del suo vivere. C‟è stata in Gesù una «pratica di umanità», conforme alla volontà di Dio, e questa pratica racconta la salvezza, il progetto di Dio di offrire a tutti beatitudine e gloria nel senso pieno della parola, a cominciare da una vita vissuta come «pienezza di umanità», come umanizzazione autentica. Per il credente e per il cercatore di Dio non c‟è contraddizione 2


tra il vivere la vita così come ha fatto Gesù di Nazareth e il realizzare la propria umanità, il riuscire nella propria vita, perché questa è l‟esistenza delle figlie e dei figli di Dio. 2. «PERCHÉ DIO SI È FATTO UOMO”» (Gesù, il volto umano di Dio!) Cur Deus homo? (S. Anselmo). La domanda sul perché Dio si è fatto uomo è risuonata ininterrottamente lungo i secoli della fede cristiana e ha ricevuto sostanzialmente un‟unica risposta, seppure in due forme distinte, una in Oriente e una in Occidente. Nella tradizione orientale si è imposta la espressione di Atanasio (e poi Ireneo l‟ha ripresa): «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi Dio»; mentre in Occidente si è diffusa l‟espressione: «Dio si è fatto uomo, per salvare l’uomo». Ma si potrebbe riformulare oggi l‟espressione così: «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi veramente umano». Sì, Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth per mostrarci l‟uomo autentico, l‟uomo a sua immagine e somiglianza, e così insegnarci a vivere in pienezza, fino all‟esperienza della gloria, come dice il quarto vangelo: «Si è fatto carne, ha abitato tra noi, ha mostrato la sua gloria» (Giovanni 1, 14). Nel terzo secolo d.C., quando ormai la fede cristiana diventava consapevole della propria originalità, Ippollito, prete romano, così si esprimeva: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo della nostra pasta (uomo come noi siamo uomini!), perché, se non fosse così, invano ci avrebbe domandato di imitarlo. Se l‟uomo Gesù fosse stato di un‟altra sostanza, come avrebbe potuto chiederci, a noi deboli per natura, di comportarci come lui si è comportato?». La fede cristiana proclama dunque che Dio si è fatto umano, che Dio si è reso leggibile nella vita di un uomo, e che solo in 3


un‟esistenza pienamente umana Dio si è espresso in pienezza: l‟uomo Gesù è per i cristiani «l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15), colui che ha raccontato Dio (Giovanni 1, 18), Figlio di Dio e Figlio dell‟uomo contemporaneamente: Ecce homo (Giovanni 19, 5). Gesù si è presentato, secondo la testimonianza dei vangeli, come uomo fino all’estremo, cioè fino alla fine, fino alla morte violenta e ingiusta, una morte “meritata” proprio dalla forma della sua esistenza umana, in cui le sue parole erano carne e sangue, il suo comportamento la negazione dell‟autosufficienza e della pretesa di vivere per se stesso senza l‟altro, le sue scelte un rifiuto della violenza e, invece, una vicinanza ai deboli, ai poveri, agli ultimi, alle vittime della storia, la sua difesa e la sua resistenza un restare fino alla fine un uomo di comunione, un uomo capace di amare. Purtroppo molti cristiani l‟hanno dimenticato da tempo: Gesù non si è manifestato come un Dio venuto con potenza e gloria tra gli uomini… la „forma‟ della sua vita è quella di un‟esistenza spesa e donata agli altri! È questa forma di vita che è vangelo, cioè buona notizia! L‟esistenza di Gesù di Nazareth, un‟esistenza nella libertà e vissuta per amore, è parsa alle donne e agli uomini che lo hanno incontrato dopo la sua risurrezione la vita stessa di Dio. Sì, quella vita è l‟epifania di Dio per gli uomini ed è, al tempo stesso, l‟epifania dell’uomo per tutta l‟umanità. Dice il quarto vangelo: «In lui era la vita e quella vita era la luce degli uomini» (Giovanni 1, 4), cioè Gesù è stato un vero vivente e come tale può insegnare a vivere. Questo è avvenuto per chi gli è vissuto accanto, ma avviene anche oggi per quanti, conoscendo Gesù attraverso il vangelo, si sentono attratti e ispirati a lui attraverso la sequela.

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3. VITA BUONA La prima qualità che connota la vita di Gesù è certamente la bontà. D. Bonhöffer definisce Gesù l‟uomo per gli altri: la sua esistenza è stata una pro-esistenza, una vita segnata dal dono di sé, dal servizio ai fratelli, una vita sempre tesa alla comunione: «Ha fatto bene ogni cosa: fa parlare i muti, fa udire i sordi» (Marco 7, 37); e Pietro nella sua predicazione dice: «Egli passò operando il bene, guarendo, liberando» (Atti 10, 38). Proprio per questa sua bontà Gesù fu chiamato «Maestro buono» (Marco 10, 17). Tutta la tradizione cristiana ha sempre compreso questa bontà, espressa nelle forme più diverse: - lavare i piedi ai discepoli mettendosi in posizione di servizio; - riconoscere l‟alterità di chi è prossimo fino ad amarlo con intelligenza; - spingere i sentimenti di accoglienza e di amore verso l‟estraneo e addirittura verso il nemico e, comunque, sempre vivere l‟amore e la carità sotto il segno della gratuità: questa è la vita secondo lo „stile‟ di Gesù di Nazareth. Il cristiano e il cercatore di Dio, sull‟esempio di Gesù di Nazareth, sono essi stessi chiamati a fare della loro vita una pro-esistenza, cioè un‟esistenza tesa a far vivere gli altri che stanno loro intorno. E questa pratica di una vita umana buona ci permette di conoscere qualcosa del mistero di Dio. (Ma questo non vale anche per tutte le altre religioni, o addirittura per le diverse sensibilità?). Senza questa pratica umanissima, quotidiana, di amore dell‟altro, Dio è solo un‟illusione immaginaria. (“Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio”, dice don Primo Mazzolari!). Certo, questa bontà della vita di Gesù, e dunque del suo discepolo, non è esente dalla sofferenza, dall‟inimicizia, dal tradimento, dalla violenza e dalla morte. E non è esente neppure dall‟ignominia e dal rifiuto, non solo da parte degli empi e dei potenti, ma anche della 5


“gente”, magari della maggioranza… La croce ne è l‟esito: quello di una vita vissuta per amore, per una “passione” intesa come disponibilità appassionata all‟umanità dell‟uomo e proprio per questo anche come “passione” di violenza e sofferenza inaudite. Ciò che ha portato Gesù alla condanna e alla morte è stata la sua interpretazione di Dio e della religione, e di conseguenza la sua interpretazione del potere nella storia. Lì è nato il conflitto, su questi temi la sua condanna. Va detto con forza: non è la croce che ha dato gloria al Crocefisso, ma è Gesù che ha saputo dare senso perfino a un simbolo infamante e orrendo come la croce!

4. VITA BELLA E BEATA Va detto subito che gli scritti evangelici sono sobri nel narrare come Gesù è vissuto e la stessa ricerca esegetica cristiana non ha saputo dare granché spazio alla sua dimensione umana, alla sua arte di vivere. Così, anche per il prevalere dell’ideologia della croce, è stata prodotta l‟immagine di una vita cristiana che, per essere autentica, dev‟essere contrassegnata dalla militanza, dall‟impegno e dal sacrificio, ritenuti incompatibili con una visione di bellezza e di felicità. «In verità i vangeli, pur nella loro sobrietà, ci testimoniano una serie di tratti della vita di Gesù che mostrano la sua umanità semplice, fragile, delicata e, insieme, sapiente, ricca, capace di amicizia con la vita, capace di bellezza. Nella sua lotta contro ciò che è disumano, sciatto, insipido, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio per una vita bella, non solo buona. Sì, la vita di Gesù è stata un’esistenza umanamente bella! È stata la vita di un uomo povero, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalle bruttezze, se non da quelle che gli altri gli buttavano addosso, una vita seriamente e responsabilmente vissuta, ma con 6


sapienza e con la capacità di fruire di ciò che è evento di bellezza. Gesù non ha vissuto da isolato, ma ha conosciuto la gioia del vivere insieme, ha conosciuto la gioia dell’amicizia e dell’esperienza affettiva con Marta, Maria e Lazzaro, con Pietro, Giacomo e Giovanni, con il discepolo prediletto, persone con le quali egli sostava, vivendo l’avventura di chi conosce che cosa significhi ‘amare ed essere amato’. Come dimenticare che addirittura alla vigilia della sua condanna, quando ormai il cerchio si chiudeva intorno a lui, ha sentito il bisogno di fermarsi tra i suoi amici per gustare quella vicinanza umana che tanta gioia gli procurava? E dopo la risurrezione? E come non cogliere l’eco della bellezza della sua vita, della sua capacità di gratuità e di contemplazione, del tempo passato a pensare e a meditare, in quelle sue creazioni sapienziali e letterarie che sono le parabole o i suoi aforismi? Non è racconto di bellezza come Gesù parla del fico che annuncia l’estate con le sue tenere gemme, come ci parla della chioccia che raduna i suoi pulcini, dei gigli dei campi tessuti più splendidamente dei vestiti di Salomone, delle donne che impastano la farina e il lievito, degli uccelli del cielo nutriti dal Padre?» (E. Bianchi). Per creare queste immagini, perché si colga la loro profondità, ci vuole una vita bella, capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza, assieme a quella delle altre creature, delle altre persone. E poi quella sua arte nell‟incontrare a tavola… Quanti banchetti e quanti incontri di comunione a tavola, fino a farsi chiamare “mangione e beone, amico di peccatori manifesti e di prostitute” (cfr. Matteo 11, 19 e Luca 7, 34). Per non parlare poi del suo atteggiamento verso i peccatori: non moralistico, non sessuofobico… ma sempre teso a risvegliare in loro la novità di vita, la consapevolezza della loro capacità di amare, presente in ogni donna e in ogni uomo, “l‟estetica” dei gesti d‟amore! Anche la sua libertà, che tanto scandalizzava gli uomini maestri di religione, è una forma di amore verso il prossimo e, insieme, la scoperta della bellezza della dignità di ogni uomo e di ogni donna. 7


«Mi sia scusata questa annotazione: sovente mi sembra che la vita di Gesù sia stata molto più bella di quella di tanti che sono impegnati nella sua imitazione, di tanti seguaci che restano militanti e non diventano discepoli…» (E. Bianchi). E, infine, non va dimenticato: questa vita di Gesù, buona e bella, è anche una vita beata, felice. Certo non in senso superficiale, mondano, ma nel suo senso più profondo, cioè proprio perché ne ha saputo cogliere «il senso del senso». Solo chi conosce una ragione per cui vale la pena di dare la vita, di perdere la propria vita, conosce anche la ragione per cui vale la pena di vivere. Gesù ha affermato più volte di vivere al servizio degli altri («Non sono venuto per essere servito…») gratuitamente e liberamente, e ha saputo leggere il male che si scaricava su di lui, fino alla morte violenta, come una necessità per chi vive per la verità, la giustizia e la solidarietà tra gli uomini. Gesù ha conosciuto la beatitudine del povero, dell‟affamato di giustizia, del mite e umile di cuore, del facitore di pace, perché ha trovato «sensate» queste situazioni umane. Egli ha dato corpo alle speranza sue e dei suoi discepoli e della folla che stava con lui e ha saputo comunicare che l‟amore vince la morte e che il Padre vuole la vita e non la condanna dei suoi figli. Amore contro odio; vita contro morte; libertà contro servitù; salvezza contro condanna… Così dovrebbe essere la vita cristiana: vita liberata da idoli alienanti, ma liberata anche dalle comprensioni svianti della religione, vita che porta il segno della speranza e della bellezza. Hanno sempre ripetuto i grandi maestri della spiritualità cristiana: «O il Cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è»! Non era questa la convinzione di Dovstojevskij: «La bellezza salverà il mondo!»? 1

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Lo spunto per questa riflessione e ampi riferimenti per essa sono stati presi da Cristiani nella società, al capitolo 9, pp. 181-194.

ENZO BIANCHI:

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Canova, 18 marzo 2005 - 5° incontro

«La Parola si è fatta carne» (Giovanni 1, 14) (don Marcello Farina)

1.

GESÙ DI NAZARETH, PAROLA FATTA CARNE

La contemplazione, che la fede continuamente ci suggerisce sulla persona di Gesù di Nazareth, ci invita stavolta a immergerci nel mistero dell’Incarnazione, cioè a quell’azione straordinaria di Dio dentro la storia dell’uomo, che ci lascia in eredità una «Parola fatta carne»; una realtà, che appartiene simultaneamente alla stessa vitaesperienza del Dio biblico (che è un Dio che parla-crea: Dio disse... e la luce, il cielo, l’uomo fu...) e all’esperienza dell’uomo, le cui parole diventano il tramite privilegiato della comunicazione di esistenza, del dialogo tra le persone, capaci a loro volta di far vivere, oppure di distruggere, di essere seminatrici di morte. Il mistero della Parola, che la Bibbia ci mette davanti, interessa quindi la stessa possibilità di salvezza (“Egli era nel mondo... ma il mondo non l’ha riconosciuto”: Gv 1, 10), ma coglie anche la drammaticità del rapporto di ogni uomo con la “parola”, ad un tempo incombente su di lui e, insieme, prodotta da lui, un utensile per la vita ordinaria. - Che fare di una «Parola-fatta-carne» di fronte ai 35 milioni di parole prodotte ogni giorno dai mass- media? - Che fare di una «Parola-che-salva = Parola che guarisce» (Drewermann) di fronte a tante parole opache, svilite, “malate” del nostro tempo? - Che fare di una «Parola-luce-vera» di fronte ai molti fraintendimenti che le parole dell’uomo portano con sé, anche lì dove dovrebbero portare chiarezza, indicare vie praticabili? - Che fare, infine, di una «Parola-diventata-uomo», di fronte alle miriadi di parole vuote, semplici “nomina”, “Flatus vocis”, come diceva l’antica Scolastica, incapaci di comunicare vita, storia, coinvolgimento esistenziale? I cristiani si scoprono destinatari di una “Parola-ó” che è portatrice di salvezza (è salvezza) e, insieme, dispensatori-comunicatori di quella stessa Parola, diventando nel mondo coloro che ne conservano la memoria e ne propongono la presenza, consapevoli che “la Parola di Dio è viva ed efficace ed è più tagliente di qualsiasi spada a doppio taglio...” (Ebrei 4, 12). Essi si scoprono “servi” della Parola, mai padroni di Essa, umili annunciatori e fedeli interpreti, per quanto lo possono, attraverso la vita, di ciò che la Parola continua a suggerire alla comunità, sollecitandone la conversione e la fedeltà dentro la storia.


2.

PAROLE D’UOMO...

Ci sentiamo sempre più presi da un senso di smarrimento, quando cerchiamo di renderci conto del rapporto che si instaura tra la parola (le parole) e l’uomo (ciascuno di noi), sia egli il comunicatore di parole o un semplice ascoltatore. Le parole sembrano entrare in una sempre più ampia «zona d’ombra», che le rende oscure, incapaci di dire. Ciò capita per due motivi: sia a) a causa dei parlanti che non dicono, che non capiscono, sia b) a causa della parola in quanto tale. a) Nel primo caso occorre renderci conto di tre fatti: Le parole, con gli attuali strumenti tecnici della comunicazione (non solo quella di massa), sembrano avere una vita propria, indipendentemente dai parlanti: si può perfino far finta di parlare (in playback), mentre invece quel che si trasmette è pre-confezionato, non è spontaneo e magari nemmeno in diretta. Vi sono situazioni sempre più numerose in cui, a confronto, appaiono esserci solo una parola, come una specie di cosa autonoma, e l’ascoltante. È la rottura dell’interazione comunicativa faccia a faccia. Il rapporto poi tra coloro che si comunicano parole è cambiato: la credibilità affidata ad esse non è un dato automatico; colui che ascolta, crede, obbedisce, vuole avere uno spazio per una propria interpretazione, una propria decisione di conferma della lealtà o della differenziazione nei confronti di colui che parla. Ad esempio, molti che parlano, perché hanno l’autorità di parlare (o ritengono di averla) non si accorgono che forse hanno un codice culturale e di linguaggio diventato parzialmente diverso da quello di coloro che dovrebbero seguirli, ma - ancora più in radice - non si accorgono che è la loro autorità/autorevolezza che si è indebolita in quanto tale. «Non si tratta infatti solo di un problema di contenuti delle parole che non dicono, ma del rapporto tra i comunicanti che non consente ai contenuti, magari capiti benissimo dagli ascoltanti, di produrre alcun effetto trasformativo (possono fare anzi l’effetto opposto di quello desiderato). Questo processo psicologico-sociale va letto anche in modo reciproco: colui che ha autorità e non ha fiducia nei suoi sottoposti, nei suoi “fedeli”, sente, ma non ascolta le parole che essi gli dicono, specialmente quelle parole con cui chiedono cose diverse da quelle che egli ha già decise, con cui pongono problemi che mettono in questione le cose. Si può anche dire: colui che non ascolta, di fatto anche se “a parole” o intenzionalmente può negarlo, non ha fiducia in chi gli parla. E l’ascolto è una delle pratiche culturali e spirituali che viene poco esercitata oggi, a tutti i livelli, sia alla base che al vertice delle istituzioni, politiche e religiose. Sono aspetti del processo di comunicazione che vanno riconosciuti e vagliati, distinguendoli ma senza separarli, senza pensare di poterli trattare e risolvere l’uno staccato dall’altro» (I. De Sandre, Le parole che non dicono, in Servitium, n. 89, p. 91). Infine ci si accorge che non c’è sintonia di aspettative rispetto ai discorsi che possono essere fatti: per esempio per uno che attende una parola di affetto, la parola razionale che l’altro eventualmente gli dice può non essere nemmeno capìta, o capìta, ma non accolta. E viceversa, uno si attende un sostegno di amicizia e riceve 2


una spiegazione; un altro si attende una spiegazione e invece riceve un comando a credere anche senza capire, o una parola emotiva. «Nel campo religioso, in particolare, l’istruzione cresce ma è ancora poco diffusa ed uti singulo, la comunicazione è poca e spesso solo dall’alto al basso, unidirezionale, i repertori linguistici sono di tipo teologico-razionale o di tipo rituale, al di fuori della familiarità e della padronanza dei ruoli quotidiani delle persone. Eppure le stesse persone, invece, nella vita normale si sentono di avere “più parola in capitolo”, vogliono “dire la loro”, farsi ascoltare. Il codice non è più così comune, il repertorio dei “catechismi” viene da molti associato in quanto tale al linguaggio dell’infanzia, il lessico teologico-ecclesiastico non viene capito, e il codice biblico è così ignorato e ritualizzato (e poco conosciuto dagli stessi preti) che non dice che pochissimo rispetto alla sua ricchezza, alla sua pluralità di stimoli. È il codice culturale (religioso) il primo problema, nel senso del linguaggio e nel senso delle aspettative di azione (e quindi anche di discorso e di senso)» (Ibidem, p. 92). b) Nel secondo caso, cioè di fronte alla parola in quanto tale, ci accorgiamo: Vi sono parole che volutamente non sono più ascoltate, accolte, fatte proprie da chi pur le ascolta. La parola qui ha un controeffetto, la sua comprensione produce delle scelte, che vogliono differenziarsi, stimola l’identità di chi ascolta a voler essere e fare altrimenti. Ad es. un allievo può ascoltare con attenzione il maestro, ma decidere di pensare e di fare altrimenti: una sfida a se stesso ed al maestro, la decisione di lasciarlo, oppure di cercare di sconfiggerlo come maestro. (E dentro la Chiesa?). Vi sono parole che vogliono non dire, vogliono nascondere, parole che vengono taciute per interesse: parole che vogliono persuadere, senza che chi le ascolta abbia tutte le informazioni giuste per dare una risposta consapevole e libera. «Le élites dominanti, i partiti politici, le chiese, sono stati lungo tutta la storia, e tuttora, fortemente criticati per questo tipo di parole, che sono state chiamate ideologiche. Ma non si tratta di volere delle parole purificate da qualsiasi interesse, quanto la scelta di non nasconderli, quegli interessi, in modo che gli altri possono valutarli, di non manomettere fatti e argomenti in disaccordo, di non nascondere le incompletezze della propria notizia. Il dialogo, come costruzione interattiva e discorsiva di un consenso, è esattamente l’opposto della comunicazione che usa parole ideologiche» (Ibidem, p. 93). Vi sono parole banali, chiacchiere vuote, che cercano di riempire altri vuoti, parole che contengono messaggi superficiali, generici, futili, detti per mostrarsi e per mostrare. Piccoli idoli, che nascono da una cultura dei simulacri, per le quali «lo scambio simbolico» tra persone potenzialmente intelligenti è ridotto ad uno «scambio di simulacri di vita» (il mercato delle parole!). Vi sono parole che dicono troppe cose. Viviamo in una cultura mondiale, con una storia in sviluppo rapidissimo e di elevatissima complessità, nella quale, per certe parole, ai vecchi significati se ne sono aggiunti molti di nuovi. Si fatica ad adoperarle, perché gli altri possono capirle in modo diverso dal nostro, la loro plurivocità non consente più di dare messaggi precisi. Molte parole dell’etica, della spiritualità, della religione, possono essere così. 3


«Amore, alleanza, fiducia, libertà, verità, giustizia, compassione, bellezza. Bisogna riuscire a fare chiarezza sui molti significati per mettere a fuoco quello corretto per intendersi, ma forse bisogna anche non voler sopprimere la possibile ricchezza che la vita ha immesso, ha stratificato dentro quella parola plurivoca, senza cercare sempre la unidimensionalità del linguaggio, delle sfumature. Ogni parola contiene una genealogia, le esperienze di generazioni diverse di parlanti, che vanno conosciute, di cui va fatta memoria. Bisogna arrivare a dire parole più chiare e vitali, senza interrompere la comunicazione tra significati di tempi diversi, facendo tesoro anche delle tensioni che le diversità generazionali delle esperienze hanno fatto emergere» (Ibidem, pp. 94-95). Vi sono parole che non riescono ancora a dire. Ci sono infatti delle cose, dei problemi, dei vissuti, per i quali non abbiamo “le parole per dirlo” e pure vorremmo. Ma non ne siamo gli specialisti, non saremmo autorizzati a parlare, e pure ne sentiamo il bisogno, l’urgenza, la bellezza. Allora cerchiamo di appropriarci di parole nuove, di nuovi codici, cerchiamo radici più profonde, la memoria, la sapienza sedimentate (Ibidem, p. 95). Vi sono, infine, parole che non vogliono dire tutto, per sobrietà, che lasciano libertà a chi le ascolta di andare avanti per proprio conto. «Sono pensate e gettate come semi per coloro che sono disposti ad accoglierle nello stesso spirito, come semi, che devono morire, maturare e germogliare. Parole di testimonianza dello spirito, religioso o non-religioso che sia, parole che si offrono e non si impongono. Parole che non dicono tutto, non vogliono avvolgere in una argomentazione, che, in quanto tale, spesso non ha bisogno di coinvolgimento personale, ma solo di analisi e di obbedienza logica. Mostrano un cambiamento possibile, un allargamento dell’esperienza, che però dev’essere creato da chi ascolta, dalla sua presa di parole e dalla sua esperienza, di senso e di relazione» (Ibidem, p. 96).

3.

LE PAROLE DELLA FEDE

Di fronte alle tante parole, di cui abbiamo cercato una certa identificazione e descrizione, dentro il mondo babelico della comunicazione e dei linguaggi del nostro tempo, ci accorgiamo sempre di più della difficoltà di dire, e di ridire l’esperienza della fede. Ma se accettiamo di confrontarci con il Nuovo Testamento per identificare «quali parole» diventano significative per la “trasmissione” della stessa fede, noi ci accorgiamo che il problema si trova per un certo verso semplificato e, per un altro, aumentato, se non reso addirittura più complesso. a) Il Nuovo Testamento (soprattutto in Marco, Giovanni, Paolo) conosce una prima risposta alla domanda «quali parole?»: La Parola è Cristo. Il Vangelo di Marco e quello di Giovanni si aprono con un’affermazione esplicita che, pur nella diversità dei termini e dello stile (la diversa teologia) rinvia a una convinzione profonda del Nuovo Testamento, ossia che la parola espressiva di Dio sia Gesù Cristo. E su questa linea si muove anche il pensiero di Paolo.

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1. All’inizio del Vangelo di Marco troviamo queste parole: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (Mc 1, 1) …Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”» (Mc 1, 14-15). Vangelo significa parola buona, lieta novella, annuncio atteso. E questo in un contesto di storia della salvezza, di dialogo tra Dio e l’uomo. L’annuncio di questo vangelo è il compito prioritario di Cristo. La buona parola predicata da Gesù appartiene dunque a Dio, e comunica che il tempo è compiuto ed il suo regno è vicino. Questa parola però, data da Dio agli uomini, e segnale di una prossimità ineludibile della sua azione tra di essi, è lo stesso Gesù Cristo: “vangelo di Dio”, ma anche, in definitiva, la buona notizia. 2. Il Vangelo di Giovanni è ancora più esplicito: in principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio (Gv 1, 1); e il Logos si fece carne (Gv 1, 14). Emergono, qui, tre sottolineature importanti: - Anzitutto, che la Parola è già all’inizio; che essa è vicina a Dio, che la Parola è Dio. Tra la Parola e Dio si dà un rapporto di prossimità e convergenza. Si potrebbe, se mai, aggiungere che, fin dall’inizio, la Parola è dialogica (trinitaria); - Poi la Parola si è fatta, è, «carne»; - Questa carne, infine, è la carne dell’uomo, la carne di un uomo: Gesù, il Cristo. Scrive Karl Rahner: «Noi abbiamo pensato che l’uomo miserabile potesse essere solo un abbozzo primitivo e mal riuscito del superuomo, che deve ancora venire, perché è duro per noi tollerarci così come siamo, specialmente vicino agli altri. E non abbiamo torto, perché è difficile sopportare l’uomo, che sbaglia continuamente e cade da un estremo all’altro. Eppure lui - come canta la Chiesa nel suo inno più sublime - non ha sdegnato il seno della Vergine! È venuto nella sua creatura, nell’uomo (senza questa realtà delle realtà, avremmo il coraggio di credere che l’opera di Dio è riuscita?). Si è insinuato in tutti i limiti di questa creatura, che sembrava poter esistere solo ad una distanza infinita da lui: nei limiti del seno materno, di una patria decaduta e soggetta al dominio straniero, di un’epoca disgraziata, di un ambiente ristretto, di una politica sbagliata, di un corpo destinato alla morte, nel carcere dell’incomprensione, del monotono quotidiano, del completo insuccesso, nella notte oscura della desolazione e della morte. Non si è risparmiato. Eppure i limiti in cui è penetrato Dio devono avere una via d’uscita. Deve valere la pena di essere uomo, se Dio non si è accontentato di se stesso, ma ha voluto anche essere uno di noi, se questo non gli è sembrato troppo pericoloso o troppo meschino. L’umanità non è un gregge, ma una sacra famiglia, in cui Dio stesso è presente come un fratello. La tragedia della sua storia deve pur avere un lieto fine, se Dio non assiste impassibile a questa commedia dal trono della sua infinità, ma vi svolge una parte con la stessa serietà di noi tutti, che siamo obbligati a farlo, ci piaccia o no». b) Questa Parola è oggetto di esperienza: si può vedere, udire, toccare; di conoscenza: si può cogliere con l’intelligenza, lo studio, si può contemplare, si può 5


entrare in comunione con Lei. Ciò vuol dire che la Parola è sempre una parola immersa nella storia, che l’avvolge e, in qualche modo, la spiega. Ed è per quello che, per comprenderla, bisogna guardare alla sua storia, tutta intera, dall’inizio alla fine, fin dentro le pieghe e gli anfratti. Se la Parola è Gesù Cristo, tutto nella sua vicenda è significante, vangelo, dall’inizio alla fine. E per questo Paolo si sente autorizzato a interpretarla proprio cominciando dal suo compimento, cioè dalla Croce. Per lui sono equivalenti le espressioni “predicare il Vangelo” e “predicare Cristo crocefisso”. Cristo è parola di Dio e lo è emblematicamente sulla croce, che diventa così non un semplice dire, ma una comunicazione d’essere, contenente per suo conto, paradossalmente, anche il silenzio. Parola e silenzio si incontrano nel Cristo crocefisso, quasi a ricordarci che la parola di Dio emerge dentro il silenzio e in silenzio ritorna e, quindi, a farci cogliere l’estrema «gradualità» necessaria per accompagnare ogni tentativo dell’uomo di esprimere la realtà di Dio, prima della sua compiuta manifestazione. c) È la Croce che rende possibile capire le molte parole che Gesù ha detto. Le parole dell’uomo nascondono, anche quelle del credente, il pericolo di assegnare all’iniziativa di Dio, del suo Cristo, dei contenuti che vengono dall’uomo stesso. Anche le parole della fede non sono aliene da questo pericolo. Pietro confessa il Cristo, ma riempie questa confessione di contenuti mondani, nel senso della potenza e del successo, anziché del servizio e del dono di sé. «La croce svela, quindi, non solo il volto di Dio, ma anche la radicale insufficienza della parola umana, continuamente minacciata dal fraintendimento. A ben vedere, però, dietro ai fraintendimenti e agli equivoci della parola umana, anche di quella che tenta di dire Dio, la parola religiosa, si nasconde un vizio di univocità: l’uomo pensa a Dio a partire da se stesso; l’uomo tende ad umanizzare Dio; l’uomo è incline a negare la trascendenza, l’essere-Altro di Dio, sebbene una simile trascendenza, o forse proprio per questo, si riveli nel cuore dell’immanenza. La croce, denunciando i pericoli e mostrando la radice - molti non credono proprio per la croce! -, pone nel modo più acuto il problema linguistico, il problema del come dire Dio, offrendo anche alcuni criteri orientativi. La croce è il momento in cui si svela il massimo del divino, accanto al massimo dell’uomo. Di qui deriva che la parola della croce è una parola essenzialmente aperta, non esclusiva ma solidale, capace di tenere insieme la comprensione dell’uomo e la diversità di Dio, la trascendenza accanto all’immanenza, la vicinanza e la distanza» (F. Riva, Parola, parole e silenzio nel Vangelo, in Servitium, n. 89, pp. 20-27).

3.

ALCUNE REGOLE DEL DIRE

La Parola di Dio, che discende dal suo dire, dal suo essere e dal suo fare, si rivolge, infine, a stimolare il dire, l’essere e il fare dell’uomo. Essa si presenta con delle caratteristiche, che ci permettono di confrontare la sua efficacia con la mai esausta ricerca della comunicazione della fede, che non ci lascia mai soddisfatti pienamente. Si può qui ricordare: 6


«La parola di Dio è essenziale, e questo, almeno, secondo una triplice direzione: è evangelicamente povera; raggiunge l’essenza, il profondo dell’essere di Dio, di Cristo, dell’uomo; dice tutto, senza impedire di approfondire ancora. La parola di Dio è una parola aperta, che riesce ad evitare contemporaneamente sia la dispersione dei significati (l’equivoco) sia l’appiattimento degli stessi su di una dimensione univoca, che non tollera differenze possibili. Vive in una costitutiva polivalenza che trova unità a partire da un nucleo centrale, costituito dall’esperienza di Gesù come uomo e come Figlio di Dio. La parola di Dio è dinamica ed efficace, capace di arrivare ad un dunque non solo nel discorso ma nella vita. La parola di Dio è anche discreta, graduale, e rispettosa: dice tutto, ma non sciupa la gioia della scoperta; dice cose vitali, ma sa rispettare una crescita. La parola di Dio è una parola attenta: non si misura sul solo contenuto ma anche sul tempo e sul modo, senza però cadere nella logica delle convenienze e delle opportunità. Pur tenendo presente la situazione dell’uomo, il tempo ed il modo si valutano sulla necessità dell’annuncio della parola stessa, e non su altre, più o meno opportunistiche, considerazioni. La parola di Dio è una parola bella, capace di coinvolgere e affascinare, capace di narrare e poetare, capace di alludere e meravigliare, sfruttando tuttavia non l’eccezionale, il mirabolante, la maschera o lo sconvolgente, ma l’essere e l’esperire quotidiano dell’uomo» (Ibidem, p. 26).

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Canova, 15 aprile 2005 - 6° incontro

L‟Eucaristia: un pane e un vino per tutti (don Marcello Farina) 1. 2. 3. 4.

1.

Introduzione: un pane dato per amore; L‟Eucaristia, “culmine e fonte” della fede; L‟Eucaristia e la città: un pane spezzato; La fame dell‟uomo e il pane di Cristo. L‟EUCARISTIA: PANE SPEZZATO, VINO VERSATO PER TUTTI

Dal Vangelo di Luca: 24, 28-35 «Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l‟un l‟altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. E partirono senz‟indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro; i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l‟avevano riconosciuto nello spezzare il pane». Il grande brano di Emmaus ci mette subito davanti lo stupore di due discepoli che assistono emozionati all‟incontro con quel pellegrino misterioso che li aveva accompagnati nel loro viaggio segnato dalla delusione e dalla sconfitta. Quel pane e quel vino condivisi, nella piccola locanda di Emmaus, li rinfranca e li rende testimoni di risurrezione. Ora, quella storia si è ripetuta. Infatti, c‟è, nella vicenda di un grande credente del XX secolo, Charles de Foucauld, un passaggio, che diventa significativo, per poter cogliere il “senso” dell‟Eucaristia, il suo significato più pregnante. Egli ha vissuto la sua gioventù, come scrive Arturo Paoli nel bellissimo libro Quel che muore quel che nasce, secondo l‟atteggiamento: «Ci sono, il y a», ho il diritto di esistere, posso accedere a tutti quelli che scopro bisogni e diritti del mio essere qui, al mondo, in quest‟epoca. Ci sono, non vi basta? Il „perché‟ e il „per chi?‟ esisto, erano domande che non presentavano per lui alcun interesse e nessuna necessità di risposta. Ma, ad un certo punto, Charles tocca i limiti di questo “ci sono” e comincia a sentire l‟appello dell‟Altro, dell‟assolutamente Altro. E a poco a poco arriva a sentire che questo appello è Dio e che lui non ha altra possibilità di scelta che “farsi altro” per l‟Essere che lo chiama. E il modello di questa alterità è Gesù, „modello‟ che si fa vicino, presente, reale, in una “cosa” di cui si può disporre molto facilmente: pane e vino. E diventa un fanatico ricercatore di questa presenza, non ne può fare a meno. Da lì, da quella presenza, spunta in lui un interesse e un amore nuovo, mai provato, l‟amore per gli altri”. (L‟Eucaristia gli fa incontrare l‟altro!). Conosceva l‟amore per le donne, per i colleghi d‟arma, per i membri della sua famiglia; ma questo è del tutto nuovo, è l‟amore per gli altri che scuotono le fondamenta del suo “ci sono”,


esisto, ho il diritto di farmi la mia vita. Come scrive un suo confratello, «nel momento in cui Charles de Foucauld ritrova questa nuova prossimità con Gesù, è divorato dal desiderio di una più grande prossimità con coloro che gli sono vicini. La parola di Gesù acquista un nuovo realismo: “Tutto quello che fate a uno di questi piccoli, lo fate a me”. Queste parole che in altri tempi hanno prodotto in lui una profonda impressione, ora le risente sullo stesso piano, uscite dalla stessa bocca: “Questo è il mio corpo”. E questa parola non cessa di trasformare la sua vita, portandolo a cercare e ad amare Gesù in questi piccoli. Servizio eucaristico e servizio dei piccoli, unico culto del corpo di Cristo» (Antoine Chatelard). Paolo, l‟apostolo, ha detto ai cristiani di Corinto con parole chiare, per non dire violente, che l‟effetto dell‟Eucaristia, il suo fine, non è quello di presentare a Dio il pagamento di una rata, per scontare i nostri peccati o quelli dei nostri parenti, ma è caricarsi di responsabilità verso l‟altro; la fede trabocca nella responsabilità (nell‟etica, come direbbe Levinas); è questo il messaggio nuovo. Parole violente, perché ha detto loro che, partecipando a questo atto che ricorda la morte di Cristo “o avanzate verso la vita o verso la morte” (1 Corinti 11, 29: “Perché chi mangia del pane e beve del calice senza discernere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”). E l‟eremita del Sahara, liberato dal devozionismo eucaristico, ha scoperto che la presenza di Cristo “ci è data per amore, per il nostro bene, per renderci caldi, ferventi, ricchi d‟amore, teneri perché siamo freddi; per renderci forti e coraggiosi, perché siamo deboli; per darci speranza e fiducia, perché siamo senza speranza; per renderci felici, perché siamo tristi e scoraggiati”. La sua esistenza per gli altri, spenta nel sangue in forma violenta, conferma che queste sue parole erano vere. Si vive così l‟Eucaristia? L‟Eucaristia, nel mondo cattolico, è spesso avvolta da una nube di declamazioni, di cantici, di espressioni di amore, spesso patologiche, che l‟allontanano da una comprensione “vera”, realistica, accettabile anche da persone che se ne sono allontanate proprio per seguire il loro progetto di vita che è quello di “essere veri”, di non accettare nulla che non si presenti come contenuto della loro responsabilità di essere uomini e donne dentro la storia. Il “memoriale della morte del Signore” è diventato, spesso, una festicciola mediocre e persino noiosa, insopportabile per la sua fredda ripetitività. Come si fa a vivere per anni la stessa mattina (o domenica), facendo la stessa funzione, davanti alla stessa gente e invecchiare dentro questo bellissimo salone che è il mio tempio? E devo leggere con monotonia che la Chiesa sia modello di giustizia e di pace, di verità e di amore. È questo il vero mistero che faceva vaneggiare Kierkegaard e che, nell‟inevitabile cambiamento di cultura, sarà sempre più mistero. Spesso, „il servizio eucaristico‟, anche per il prete, diventa un servizio ecclesiastico, non ecclesiale, cioè per il „regno‟, e il sacerdote viene ad essere il servitore delle pie persone che hanno incluso nel loro ozioso programma la messa quotidiana (o domenicale). E il celebrare l‟Eucaristia si rivela in una persona meschina, senza grandi orizzonti, lontana dalla realtà, schiava di un piccolo ghetto che difende con tutti i mezzi il proprio privilegio, un ghetto che vive semplicemente per conservarsi, per „essere‟. Invece l‟effetto fondamentale dell‟Eucaristia è proprio la scoperta di questa discesa di Dio fino all‟abisso del nulla, di cui essa è il simbolo più eloquente. Questa energia di riscatto delle azioni umane che sta dentro la storia, per ritorcerla dal loro orientamento verso la morte e rimetterla nella direzione della vita, agisce con la mediazione dell‟uomo. Ma per essere assunto in questa mediazione è necessario che l‟io viva l‟esperienza, che è forse la più dolorosa, della sproporzione abissale tra la propria finitudine e i mali del mondo. Nel mondo del potere, dell‟affermazione di sé, della rissa permanente tra quelli che sanno fare, che hanno in mano le leve per muovere il mondo e per rimetterlo, dove, secondo loro, è il suo vero posto, la forza di Dio è contenuta in coloro che hanno scoperto di „non-essere‟ e che vivono ogni giorno la sorpresa di questa sapienza-pazzia: «Dio sceglie quelli che nel mondo non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che si ritengono forti» (1 Corinti 1, 28). E non c‟è cammino più diretto per prepararsi a questa scelta che diventare “ostaggio del volto 2


dell‟altro”. Qui si scopre (ed è l‟Eucaristia più vera, il pane e il vino “vissuti”) che la piccolezza non è l‟equivalente della mediocrità, che l‟essere altro da quelli che sanno quello che devono fare, come farlo e perché farlo, ti fa certo di un‟utilità, che ti viene incontro ogni mattina con l‟abito che indossi e la prima preghiera è un saluto alla luce che ti attende all‟uscita di casa e ti accompagna nel tuo cammino tra gli uomini. 2.

FONTE E CULMINE È L‟EUCARISTIA

Il Concilio Vaticano II, quarant‟anni fa, invitava i credenti e i cercatori di Dio a riconoscere nell‟Eucaristia “il culmine e la fonte” della loro vita. Chiamati, infatti, alla sequela di Gesù di Nazareth, essi sono costantemente coinvolti nella passione e risurrezione del Signore Gesù dall‟Eucaristia, per mezzo della quale viene confermato e reso pieno il patto battesimale, che ci ha fatti suoi discepoli. I cristiani compiono questo gesto in memoria del Signore fino al suo ritorno, ponendo all‟interno della sequela quel cibo necessario per camminare nel viaggio „troppo lungo‟ verso il Regno, cibo senza il quale sarebbe loro facile cadere nell‟infedeltà, nell‟oblio, nel tradimento. a) In effetti l‟Eucaristia è il nutrimento della comunità: la Chiesa cresce „solo‟ spezzando il pane per tutti e condividendo la vita di tutti; è necessario spezzare quel pane alla gente! b) L‟Eucaristia è il segno della fedeltà di Gesù di Nazareth; la sua vita donata viene „moltiplicata‟ a vantaggio delle generazioni lungo il corso della storia umana; c) l‟Eucaristia è la risorsa della vita spirituale, dalla quale attinge il senso profondo da dare alla vita (pane e vino donati per „l‟altro‟) e il conforto nel momento della tribolazione e della tentazione a lasciar andare, ad abbandonare l‟impresa. Nel tentativo di coglierne la ricchezza „simbolica‟, ci sono quattro „momenti‟ della „realtà‟ dell‟Eucaristia che meritano la nostra attenzione: - l‟Eucaristia come memoriale dei „mirabilia Dei‟; - l‟Eucaristia come „sacrificium laudis‟; - l‟Eucaristia come banchetto di comunione con Dio; - l‟Eucaristia apre al futuro di Dio e dell‟uomo. a) L‟Eucaristia, memoriale dei “mirabilia Dei”. L‟Eucaristia viene, per così dire, da lontano; essa porta con sé lo spessore della memoria dei rapporti tra Dio e l‟uomo lungo la storia della salvezza. “Memoriale” di una liberazione: quella dalla schiavitù dall‟Egitto, descritta dall‟Esodo; “Memoriale”, perciò, di un privilegiamento, di un affetto e di una tenerezza senza confini; “Memoriale” di grazia, cioè di una gratuità che non trova motivazioni di interesse e di scambio. Come si sa, nell‟Antico Testamento il “memoriale” per eccellenza delle opere di Dio nella storia è la liturgia pasquale dell‟Esodo. Nella festa di Pasqua si incrociavano i due ricordi: quello divino e quello umano, cioè la grazia salvifica e la fede riconoscente. Ma nel Nuovo Testamento è un‟altra Pasqua quella che viene ricordata: il passaggio dalla morte alla vita di Gesù di Nazareth, il Figlio primogenito del Padre, così che essa (la Pasqua) diviene: Memoriale di una vita donata per i fratelli e per le sorelle, “un sacrificio di soave odore”; Memoriale dell‟umanità di Dio, che non rinuncia a diventare “pane e vino” come nutrimento per l‟immortalità dell‟uomo; Memoriale del Figlio, primogenito tra tanti fratelli, segno perciò di comunione, di fraternità, di soavità. Nell‟Eucaristia Cristo “una volta per tutte” diffonde la sua presenza salvifica nel tempo e nello spazio della storia umana, “fino alla fine” del mondo. 3


Essa (l‟Eucaristia) è, perciò, anche il segreto della vigilanza della Chiesa: le sarebbe troppo facile, altrimenti… cadere nell‟insensibilità, nella infedeltà. Ricordare è “riportare al cuore”, secondo il significato etimologico della parola: al cuore pasquale di Cristo, da cui uscì il sangue della sua divinità e l‟acqua della sua umanità a vantaggio di tutti. b) L‟Eucaristia, “sacrificium laudis”, sacrificio di lode. L‟Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell‟alleanza celebrata sul Sinai, quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull‟altare, simbolo di Dio, e metà sull‟assemblea dei figli d‟Israele, simbolo di tutta l‟umanità. L‟altare e l‟uomo, il segno di Dio e la presenza dei fedeli sono uniti indissolubilmente insieme in un legame indelebile di solidarietà. È per questo, come afferma il Concilio Vaticano II, che il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. È molto bello quanto afferma il n. 48 della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Liturgia: “La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all‟azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella Parola di Dio; si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l‟ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo Mediatore, siano perfezionati nell‟unità, con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti”. Nel “sacrificio” eucaristico tutta la creazione, amata da Dio, è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ecco il compito: dare voce all‟intera creazione, offrendo la propria esistenza, il proprio „corpo‟ in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, in comunione piena con Cristo (Romani 12, 1). Sacrificio di lode: per essere fatti partecipi della stessa vita di Cristo, pane spezzato per i fratelli; per essere fatti partecipi della sua gloriosa risurrezione, attraverso il germe della vita eterna, contenuto nel corpo e nel sangue del Figlio, per poter dar voce a coloro che, oppressi dalla fatica e dalla sofferenza, non riescono a intravedere la presenza del dono di Dio; per poter innalzare tutta la creazione al di sopra del peso che la fa gemere fino alle doglie del parto; per poter spiegare a piena voce l‟inno di ringraziamento che ci sgorga prepotente dal cuore, dopo aver contemplato e, spesso, sperimentato, la tenerezza accompagnatrice di Dio. c)

L‟Eucaristia, banchetto di comunione con Dio.

L‟Eucaristia è il convito di cui tutti abbiamo bisogno, il pane santo della vita eterna. Noi siamo ancora in cammino, pellegrini, errabondi, sempre sospinti in avanti, nel provvisorio. Come potremmo pellegrinare senza intuire già in noi le forze dell‟eternità; come potremmo sperare, se quello che speriamo fosse solo lontano? Dio si può cercare solo con Dio e noi non lo cercheremo, se non l‟avessimo già trovato, se egli stesso non si facesse trovare ogni giorno da noi. Per questo il Signore ha preparato questo convito: un segno per i sensi, manifestatesi come un po‟ di pane e vino, che nutrono il corpo e ricreano lo spirito. Dove, infatti, per suo mandato e nella sua autorità, viene celebrata con la sua parola la memoria dell‟ultima Cena, che inserisce veramente questo convito nel nostro attimo specifico, là la verità e la realtà di quei segni è Lui stesso nella sua carne e nel suo sangue, là egli diviene il pane della forza inesauribile ed il vino della gioia ineffabile. Nella nostra ora (il tempo della nostra disponibilità ad incontrarlo) egli stesso fa per noi del suo corpo il segno di ciò che vuol essere nel suo spirito: il Dio che dona la propria vita ad una povera creatura; adesso che noi riceviamo il pane degli altari, Egli diviene ciò che è l‟elemento terrestre in cui l‟eternità di Dio è entrata nelle strettoie della nostra finitezza. “O sacro convito (banchetto) - prega la Liturgia - in cui Cristo è il nostro alimento, in cui rivive il ricordo della sua passione, l‟anima è ricolma di grazia e noi riceviamo il pegno della vita futura!” 4


Scrive Karl Rahner: «Ah, noi cristiani! In questo sacramento riceviamo contemporaneamente la pura beatitudine del cielo e la sottile trasfigurata essenza estratta dal frutto agrodolce di questa terra; la riceviamo certo incapsulata nel duro guscio del quotidiano, ma pur sempre in tutta la sua verità. E la riceviamo come se non accadesse nulla, trascinando stancamente e pigramente il vecchio cuore dalla mensa di Dio ai bugigattoli della vita, dove ci troviamo più a nostro agio che nella magnifica aula di Dio! Offriamo il Figlio e ci rifiutiamo di dare i nostri cuori, recitiamo il dramma divino della liturgia e non facciamo sul serio. Forse la buona volontà c‟è, ma purtroppo ha tanto poco potere sull‟ottusa inerzia del cuore. Ma forse anche questo serve a significare che nel tempo presente Dio corre incontro alla sua creatura e che già fin da ora viene celebrato anticipatamente il banchetto della vita eterna. Quando la cena della vita eterna viene apparecchiata nelle misere casupole del tempo, non bisogna meravigliarsi se si presentano dei miserabili che con la loro meschinità ed avarizia non comprendono neanche che cosa viene loro offerto. Allora si spiega perché siamo un po‟ sconvolti e ci sentiamo sopraffatti, anzi quasi intimiditi ed irritati da questa munificenza divina. Poiché è sempre grazia sua se veniamo alla sua mensa; se veniamo, se ci trasciniamo fino a lui, malcontenti e curvi, affaticati ed oppressi. Egli ci accoglie, anche se non vede luccicare nei nostri occhi la gioia per la sua presenza. È disceso in tutti gli abissi di questa terra; non si offende di dover entrare nella buia tana del nostro cuore, purché vi brilli una piccola scintilla d‟amore e di buona volontà. Il ss. Sacramento vuole essere il sacramento della nostra vita quotidiana nella pazienza che Dio ha con la nostra debolezza» (In “La fede che ama la terra”, ed. Paoline). d) L‟Eucaristia apre al futuro di Dio e dell‟uomo. La comunione con Cristo che ora viviamo mentre siamo pellegrini e viandanti sulle strade della storia, anticipa l‟incontro supremo del giorno in cui “noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è”. Ci viene incontro la bella immagine del profeta Elia, che in cammino nel deserto si accascia privo di forze sotto un ginepro e viene rinvigorito da un pane misterioso fino a raggiungere l‟Oreb, il monte dell‟incontro con Dio. Come non vederci il simbolo del pane eucaristico, che nutre i fedeli nel loro itinerario verso la città di Dio? Un pane che sazia, un pane che rincuora, perché contiene in sé la forza, il nutrimento di Dio. Per mutuare un‟espressione dedicata alla liturgia del sabato ebraico, l‟Eucaristia è un “assaggio di eternità nel tempo”. Come Cristo è vissuto nella carne, permanendo nella gloria di Figlio di Dio, così l‟Eucaristia è presenza divina e trascendente, comunione con l‟eterno, segno della “compenetrazione tra città terrena e città celeste”. Come memoriale della Pasqua di Cristo, essa è per sua natura apportatrice dell‟eterno e dell‟infinito nella storia umana: germe di immortalità, come si diceva sopra, dono che anticipa nel tempo la dimensione del divino propria di Gesù di Nazareth, segno del futuro di Dio, partecipazione alla sua vita che è eterna e vince la morte. Per questo Gesù dichiara: “La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell‟ultimo giorno” (Giovanni 6, 51).

3.

L‟EUCARISTIA E LA CITTÀ: UN PANE SPEZZATO

Ancora il Vangelo: Mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate. Questo è il mio corpo” (Mt. 26, 26). L‟Eucaristia e la città sono due realtà in stretta comunicazione, perché il cristiano che vive di Eucaristia appartiene alla città, sta nella compagnia degli uomini, nella consapevolezza di essere innanzitutto un “figlio di Adam (e perciò) figlio di Dio” (cfr. Luca 3, 38), ma soprattutto perché l‟Eucaristia è la narrazione del dono di Dio alla città degli uomini, al mondo intero: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio!” (Giovanni 3, 16). Narrazione umile (pane e vino) dell‟umiltà di Dio… come si esprime Francesco d‟Assisi, parlando ai suoi frati dell‟Eucaristia: “O 5


sublime umiltà! O sublimità umile, che il Signore dell‟universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili… Guardate, fratelli, l‟umiltà di Dio…”. Sì, l‟Eucaristia, umile segno e umile parola, umile liturgia, narra l‟umiltà di Dio: Dio che si è abbassato, Dio che si è umiliato “fino alla morte e alla morte in croce” (Filippesi 2, 8), Dio che si dona come cibo, perché il mondo viva. L‟Eucaristia è realtà umile, rende umili quelli che la celebrano, è forza e speranza degli umili della terra. Dentro la città, secolarizzata, molteplice, eterologa, luogo comune di tutti, campo della vita pubblica, spazio in cui trovare i valori comuni (non è essa il simbolo della nostra civiltà? E che senso può avere, allora, la fuga urbis?), abitano i cristiani, insieme con tutte le donne e gli uomini, alla maniera raccontata dalla splendida Lettera a Diogneto (cap. 5), cioè come stranieri e pellegrini, con la certezza che la loro cittadinanza ultima è nei cieli, obbedendo però alle leggi dello stato, come leali e sinceri cittadini. Nessuna evasione, tuttavia, perché “è talmente grande il posto che Dio ha assegnato ai cristiani, che non è loro permesso disertare”. Dentro la città i cristiani offrono “pane e vino”, i segni della terra, frutti insieme della natura e della cultura (quanto amore per fare il pane e quanta perizia per un vino buono!), simboli insieme dell‟uomo intero, della sua città, del suo mondo. Per questo la città degli uomini non è estranea all‟Eucaristia, quand‟anche gli uomini si sentissero estranei ad essa: qualunque sia l‟atteggiamento della città verso il cristianesimo, verso l‟Eucaristia, questa non è estranea agli uomini e alla loro città. Anzi, con Karl Rahner, potremmo dire con audacia che l‟Eucaristia “è liturgia sul mondo”. Ed è su questo pane e su questo vino, su questo segno, che “accade” la Parola, parola di Gesù che invita, che provoca l‟incontro, la condivisione, la commensalità, la comunione. Pane e vino, causa di benedizione e ringraziamento a Dio; pane e vino offerti: “prendete e mangiate”; pane spezzato e vino condiviso da tutti; pane che dà vita e bevanda che ristora… Ecco la tavola eucaristica, così diversa dalla tavola della società degli uomini: una è la tavola comunionale, la cena del Signore in cui tutto è condiviso, affinché tutti abbiano la vita; l‟altra è la tavola piena di cibo per alcuni, luogo di voracità per chi consuma tutto e subito, e luogo di esclusione per i poveri, gli affamati, gli assetati della terra. La tavola eucaristica appare dunque un magistero silenzioso per i cristiani, perché quel pane che proviene dal lavoro di tutti gli uomini, fra tutti gli uomini sia condiviso. Non voracità ma rendimento di grazie, non egoismo ma condivisione, non ricerca della propria vita, ma della solidarietà con gli altri, non consumo, ma comunione, non potere ma servizio: magistero anti idolatrico dell‟Eucaristia…! Così i cristiani nella celebrazione del mistero della fede stanno davanti alla cattedra eucaristica e, se ascoltano e recepiscono l‟insegnamento, allora, al cuore della città degli uomini tra i quali dimorano, instaurano la logica eucaristica. I non-cristiani possono anche non vedere, non sapere, ma anche per loro, mai senza di loro, i cristiani celebrano l‟Eucaristia: l‟Eucaristia è sempre “messa sul mondo” (T. de Chardin). Di questo dobbiamo avere coscienza: quando celebriamo l‟Eucaristia, l‟umile nostra Eucaristia, se la celebriamo da poveri e sofferenti che invocano la venuta del Signore, noi coinvolgiamo nel nostro atto tutta la città, portiamo con noi tutti gli uomini in una solidarietà, in un‟intercessione che magari non suppongono, ma che per noi è realissima, autentica, sofferta e vissuta da tutto il nostro essere umano. È vero che l‟Eucaristia è cibo per i credenti, e che questi vivono in virtù di essa, ma l‟Eucaristia così vissuta dai cristiani riassume, coinvolge tutta l‟opera degli uomini: il loro lavoro, la loro cultura, sono purificati, benedetti, risignificati. Tutto è così apprestato per la città veniente; tutto è invocazione di trasfigurazione! Così si esprimeva Ireneo di Lione: “Il calice e il pane ricevendo la parola di Dio diventano Eucaristia, sangue e corpo di Cristo”… natura e cultura diventano il luogo in cui Dio sarà tutto in tutti (1 Corinti 15, 28). Ma l‟Eucaristia riguarda la città anche per ciò che Dio, attraverso di essa, dona alla città. È il dono di uomini e donne eucaristici, che ammaestrati dall‟Eucaristia, plasmati nella loro vita dall‟Eucaristia, vivono la logica eucaristica. E questa logica è quella del dare la vita per gli altri,

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quella del servizio agli altri, della trasfigurazione di questa terra in un cielo nuovo e in una terra nuova. Comunicando al corpo e al sangue del Signore, i cristiani diventano un solo corpo con il servo del Signore, di cui l‟Eucaristia narra l‟autoconsegna, il martirio, il sacrificio per la vita degli uomini. Essi sono invitati a fare memoria di lui spezzando, donando, condividendo la loro vita come egli ha fatto e come lo ha narrato anticipatamente spezzando il pane.

4.

PAROLE CONCLUSIVE: LA FAME DELL‟UOMO E IL PANE DI CRISTO

Gesù di Nazareth, “parola fatta carne”, non si tira indietro nel momento in cui il padre gli chiede di diventare il segno vivente della sua volontà di saziare la ricorrente e multiforme fame degli uomini: - pane-carne per i poveri di spirito, perché essi sappiano cogliere che può esserci chi non affida la propria sazietà soltanto ai beni della terra, con il rischio sempre ricorrente di affamare gli altri; - pane-carne per i mansueti, come Cristo agnelli condotti al macello, in una storia che ci mette continuamente davanti fatti in cui i “duri” calpestano la terra e anche i suoi abitanti; - pane-carne per quelli che piangono, perché con tutta la creazione soffrono le doglie del parto, nell‟attesa di nuove modalità di vita, che eliminino le tante sofferenze e le violenze a danno di tanta gente; - pane-carne per quelli che hanno fame e sete di giustizia, in un mondo dove spesso prevale la fame di potere e di vendetta, la prepotenza e l‟esclusione. Non viene mai meno nella storia l‟anelito profondo di donne e di uomini che si impegnano per un “altro” modo di vivere; - pane-carne per i misericordiosi, perché come essi si chineranno sui più deboli, così Dio si chinerà su di loro. Questa, infatti, è la giustizia della Grazia, secondo la Legge per cui colui che si offre ad un fratello, a una sorella riceve il centuplo…; - pane-carne per i puri di cuore, cioè per coloro che riescono a liberarsi da avidità e timore, che offuscano lo specchio che è nel cuore, così come la tempesta che rende oscura la superficie delle acque; - pane-carne per coloro che riescono a costruire la pace, che richiede un cibo e una bevanda molto nutriente, a causa dei tentativi sempre presenti dentro la storia degli uomini di ritornare alla forza, alla “ragione” dei potenti, al „diritto‟ della “civiltà” imposta; - pane-carne per i perseguitati a causa della giustizia, che da vicino partecipano alla stessa sofferenza di Cristo, prendendo parte con lui all‟opera di salvezza compiuta dal Padre che dà vita lì dove a prima vista si vedono solo segni di morte. Gesù di Nazareth invita tutti a realizzare nella propria vita quel dinamismo che in lui si è compiuto e per il quale la parola non è rimasta vana, vuota, solo suono esteriore, ma è diventata nutrimento per un dono sempre a disposizione per tutti, capace di rendere “beati”. Ignazio di Antiochia nella sua grande lettera ai Romani si augura di diventare presto „grano macinato‟ dai denti delle fiere e così diventare „puro pane di Cristo‟, immagine di tutti coloro che accostandosi all‟Eucaristia, intendono loro stessi diventare “pane-carne” per un‟umanità redenta.

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Canova, 20 maggio 2005 - 7° incontro

Una comunità attenta ai bisogni della gente (Quale Chiesa oggi?) (don Marcello Farina) 1.

UN DISCORSO DIFFICILE

L’ultimo nostro incontro è forse anche quello più difficile, più problematico, perché dobbiamo parlare di noi stessi, delle comunità cui apparteniamo, spesso con fatica e talvolta con una voglia inconfessata di prenderne le distanze. È la «Chiesa» l’oggetto della nostra ricerca di oggi, cioè «il popolo di Dio» che cammina nella storia, la comunità dei credenti e dei cercatori di Dio, delle donne e degli uomini che, legati insieme dal vincolo battesimale, continuano a chiedersi come possano vivere positivamente la loro testimonianza insieme, come movimento comunitario, condividendo, come dice il Concilio Vaticano II, le gioie e le speranze, i dolori e le sofferenze delle persone del nostro tempo. La prima osservazione che va affrontata è che la Chiesa, la fede nella Chiesa, sembra interessare sempre meno. «Cristo sì, Chiesa no», si sente spesso ripetere anche tra di noi. Non bastano le statistiche a ricordarcelo (soprattutto per quel che riguarda l’Occidente e l’Europa in particolare); non basta sperimentare il prendere le distanze di tante persone in modo silenzioso e senza drammi apparenti (appena attenuati dalla visione di folle commosse e plaudenti o dal suo ruolo di “moralizzatrice” sociale, che le è ancora riservato in molte nazioni). La crisi della Chiesa cattolica, ad esempio, sembra esprimersi soprattutto in tre ambiti, che ne mostrano l’affaticamento e l’estraneità dalla vita reale: l’incapacità di avvertire l’ineluttabile mutazione del tempo e dello spazio (sono i «ritardi culturali», cioè la difficoltà sempre grande di un dialogo sincero con la cultura dell’uomo di oggi, con il suo “relativismo”); l’incapacità di autocomprendersi al di fuori degli schemi di una «sacralità feudale» (sono i «ritardi strutturali», che fanno apparire la Chiesa ancora come una monarchia assoluta, con padroni e servi!); l’incapacità di superare definitivamente la «seduzione del potere» (sono i «ritardi ‘profetici’» della Chiesa, soprattutto nell’ambito della testimonianza della “povertà”, della libertà di coscienza, della pace…). Succintamente si può anche dire che la comunità cristiana, la Chiesa cattolica soprattutto, non ha superato cinque grandi paure, che la tengono attenagliata da tempo: la paura della libertà, della democrazia, della verità, dell’amore,


della donna. Non si tratta, come si può vedere, di cose di poco conto, anzi possono essere proprio queste paure a rendere le Chiese sempre più lontane dalla sensibilità della gente. 2.

IL CONCILIO VATICANO II E LA ‘NUOVA’ «IMMAGINE» DELLA CHIESA

Il nostro tentativo di rispondere alla domanda «Quale Chiesa, oggi?», non può prescindere dal grande evento che ha caratterizzato la storia del cattolicesimo nel secolo appena passato. Quarant’anni fa la Chiesa cattolica portava a compimento la celebrazione del Concilio Vaticano II (1962-1965), che mutava profondamente sia la comprensione della comunità cristiana nei confronti di se stessa, superando definitivamente la visione tridentina e del Vaticano I (1869-1870), sia comprensione del suo rapporto con il mondo, non più conflittuale, ma dialogico. Dal Concilio la comunità cristiana, cioè la Chiesa, ci viene presentata sotto tre immagini principali: essa è mistero, comunione e missione. La Chiesa come «mistero». Essa è frutto dell’intelligenza e della volontà di Dio, non sale dalle forze della storia, ma scende dall’alto della misericordia divina (dalla “tenerezza-dolcezza” di Dio); discende dalla Trinità, fa parte del progressivo svelarsi-donarsi di Dio. La Chiesa, in questo contesto, diventa «la parte cosciente» dell’umanità, in cammino verso “l‟éscaton”; essa non è il Regno di Dio, se non nell’inizio e nel mistero. Le immagini bibliche e patristiche, ampiamente valorizzate dai testi conciliari, rivelano la «mistericità» (la «essenza» misteriosa) della Chiesa, la quale è anche sorgente, invocazione e incentivo di santità. La Chiesa è una realtà complessa, in qualche modo «paradossale», capace di rifuggire, come il suo modello, che è Cristo, da ogni indebita semplificazione e confusione. Punto di congiunzione di due mondi, la Chiesa è realtà impastata di Spirito e di materia, di eternità e di storia, di grazia e di mediocrità, se non proprio di peccato, di mistica e di sociologia, di carisma e di istituzione, di luce e di opacità. Le porte del mistero restano chiuse ai curiosi, ai sociologi e ai critici di professione. E anche ai teologi, se questi non accompagnano la loro riflessione con la contemplazione. «Propriamente parlando, non esistono libri di storia della Chiesa. La sua storia è scritta in cielo. I nostri libri sono un abbozzo, un tentativo, una cornice, che lasciano però al di fuori quello che di più intimo c’è nella vita della Chiesa. La Chiesa è comunione dei santi, storia di santità, vicenda inenarrabile. Tale è il peso del mistero che essa porta e da cui è portata». Assumono quindi un significato nuove parole di uso corrente, quali: consultivo, democrazia, presidenza, assemblea, popolo ecc. 2


Come siamo lontani da una visione feudale e perfino “moderna” della Chiesa, assimilata, da san Roberto Bellarmino, alla repubblica di Venezia e al regno di Francia, con le loro leggi, le loro gerarchie, i loro sudditi! «Mistero» non significa qualche cosa di irrazionale o di assurdo, ma «qualche cosa di intraducibile nell’esperienza umana e mai esaurita da essa», perché ricca di uno spessore derivante dal dialogo tra la Trinità e l’umanità di ciascuno e della comunità, aperta ad un futuro non ancora realizzato e non tutto nelle mani dell’uomo, caratterizzata dall’apertura ad una pienezza definitiva (l’escatologia), che la fa vivere nel «già» e «non ancora». Se la Chiesa viene colta solo nel suo apparato esteriore, come istituzione, essa viene tradita, così come vengono manomessi (nel senso di banalizzati) i rapporti che si possono coltivare al suo interno. Quante volte, in proposito, si è frainteso il rapporto pastore-gregge dentro la storia della Chiesa, fino a farlo diventare un rapporto tra padrone e servo! Scrive Giorgio Cracco, un grande storico medioevale, che, «dopo la lotta per le investiture e la “svolta gregoriana” solo il Papa poteva confrontarsi con la verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità;… d’ora innanzi il problema che si poneva ai credenti non era più di vivere secondo la verità, ma secondo l’autorità…». Il mistero, che è libertà, lasciava il posto alla mera sottomissione, all’obbedienza senza adesione personale e sincera. La Chiesa come «comunione». Se la Chiesa nasce dalla Trinità e fa parte del progressivo donarsi-svelarsi di Dio, essa non può, di conseguenza, non realizzare uno «stile» trinitario, cioè di comunione, di unità, di rispetto delle diversità, di partecipazione, di uguaglianza. Uniformizzazione, disuguaglianze costitutive, irriguardosità, emarginazioni, individualismi sono le voci principali (ma non uniche) del sempre possibile tradimento. Nella Chiesa, tutto fa riferimento alla pluralità: vocazioni, carismi, ministeri, chiese, stati di vita. Ma la diversità non è lacerazione e sparpagliamento. Per la forza innovativa dello Spirito di Pentecoste, la Chiesa è fondamentalmente una comunione di uguali e di fratelli. In questo fondo comune del popolo gerarchico, va compreso il sacerdozio comune e il sacerdozio ordinato. La Chiesa è un corpo organico e strutturato, che ha bisogno di tutti e vive del contributo di tutti. Questo porta a valorizzare l’Eucaristia come causa e fondamento della comunione ecclesiale, e a ripensare il ministero della presidenza, della convocazione e della sintesi, la potestà primaziale, la sinodalità, il cammino ecumenico, la preghiera ecclesiale, la Chiesa particolare, la parrocchia, il mondo del laicato (definitivo «il gigante addormentato»), e in particolare della donna. L’esigenza di partecipazione nasce dalla stessa natura della Chiesa, tempio 3


dello Spirito. La sinodalità supera e trascende tutte le forme giuridiche e tende a diventare un orientamento costante della vita e dell’azione della Chiesa. Sperimentiamo veramente, nella nostra esperienza quotidiana, che la Chiesa è comunione? Davvero il contributo delle sorelle, dei fratelli, anche dei lontani, sono tenuti in seria considerazione? È scomparsa la tentazione di dividere tra “i nostri” (“i nossi”) e gli altri le persone del paese, della comunità? «Se il cristianesimo è un sistema di concetti, nobilissimi quanto si vuole, non mi interessa proprio», scrive Cettina Militello, una brava teologa italiana. Non si può ricusare di prestare attenzione all’uomo, alle sue decisioni concrete, problematiche e gravi, proprie della nostra cultura e della sua crisi, se si accetta di vivere la Chiesa come comunione. Che facciamo: dimentichiamo i poveri, gli extracomunitari, dimentichiamo le vittime, dimentichiamo quelli che ci disturbano? Inventiamo una cristianità metafisica dove c’è spazio solo per quelli che pensano Dio in termini di verità e lasciamo fuori tutti gli altri dati? Occorre renderci conto che non ci si salva da soli, ma che è questo mondo, è questa unità che bisogna condurre a coscienza e trasparenza d’essere a immagine di Dio! È mai possibile stabilire, da credenti, una dialettica tra Dio e il prossimo, pensando che si possa raggiungere il primo trascurando il secondo? Forse non è più parola di Dio quella trasmessaci dalla 1 Giovanni 4, 20-21: “Se uno dicesse: „Io amo Dio‟ e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”. Bernanos ci ricorda che l’unica domanda che, alla fine, ci verrà rivolta sarà questa: “Avevo fame… e Tu?”». La Chiesa come «missione». Si tratta qui di comprendere che tutta la comunità cristiana è depositaria del «messaggio» evangelico, anzitutto per viverlo al suo interno e per testimoniarlo alla gente. Tutta la Chiesa è, perciò, paese di missione, cioè è chiamata alla conversione, a una vita secondo il Vangelo. Tutti i cristiani vengono invitati a passare dalla logica della delega a quella del coinvolgimento, da un impegno portato avanti dalla Chiesa universale a un impegno che chiama in casa anzitutto le comunità locali, dal metodo dell’esportazione a quello del dialogo e dell’inculturazione. La Chiesa è presentata come salvezza di tutti, senza identificarsi esternamente con tutti. Essa è la schiera dei pochi tramite i quali Dio vuole salvare i molti. La Chiesa non è tutto, ma esiste per tutti: è rappresentante dell’umanità davanti a Dio nella fede, nella preghiera, nella speranza per tutti, e anzi nell’amore per tutti. Nell’attuale contesto plurietnico e multireligioso, con una Chiesa numericamente minoritaria, fa bene risentire l’afflato missionario: «La Chiesa è mistero 4


di comunione per la missione». Quest’ultima non è mai un’avventura individuale, ma una vicenda comunitaria. Si è missionari nella e per la comunità. La comunione è la prima testimonianza e la prima forma di missione. La Chiesa è missionaria per identità: se c’è la Chiesa c’è la missione e viceversa. La missionarietà non è un dato aggiunto, anche se importante: essa è invece costitutivo della sua essenza ed esistenza. Una Chiesa non missionaria è una contraddizione in termini. La Chiesa nella missione è serva della Trinità, la terza mano in possesso del Padre, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna. La missione della Chiesa attualizza le due missioni trinitarie, quella del Figlio e quella dello Spirito. Di qui la riscoperta del primo annuncio, reso più rilevante dal contesto di prevalente indifferenza; la nuova evangelizzazione; il valore imprescindibile della testimonianza gioiosa; l’incidenza della comunicazione di esperienze più che di soli contenuti astratti; la salvaguardia della propria identità cristiana e l’apertura dialogica agli altri (religioni, culture, ecc.), l’animazione della società postmoderna. Davvero il Concilio apre scenari poco noti, addirittura sconosciuti, ignorati, della realtà ecclesiale. Abituati a guardare alla Chiesa soprattutto come istituzione e a «esaltarne», per così dire, l’aspetto giuridico, mondano, sullo schema del Concilio di Trento e di san Roberto Bellarmino, ci è difficile gustare la complessità della sua «natura» trinitaria, incarnata nella storia. 3.

Ed è qui che si apre uno squarcio, riguardante TRE TENTAZIONI POSSIBILI per il corpo ecclesiale.

La Chiesa che voglia costruire futuro (speranza) si ritrova però di fronte a tre tentazioni/minacce non semplici da comprendere. La prima minaccia è il cristianesimo come religione. All’uomo di oggi che chiede religione (cioè una rete onnicomprensiva di domande-risposte cui affidare la propria insicurezza), non un Dio personale, non Gesù Cristo, la tentazione è quella di far apparire il Cristianesimo come religione, mentre esso deve restare attaccato all’unica promessa cristiana che non può passare all’uomo salvatore (adulto, nel linguaggio di Bonhöffer), cioè la risurrezione. L’alterità, la differenza, il cristianesimo la esprime là dove annuncia la risurrezione di Cristo e quindi nostra; la vittoria della vita sulla morte. «Se il cristianesimo continua ad avere questa speranza allora il cristianesimo svolgerà davvero la sua funzione e sarà necessario come il lievito nella pasta, come il sale della terra perché in tutti gli uomini è presente quell’ansia di eternità di cui parla Qohelet. Per quell’ansia la fede cristiana della risurrezione è una promessa che solo Dio fa, e che può avere senso» (E. Bianchi). 5


La seconda minaccia è il cristianesimo come etica. «Non stemperiamo il cristianesimo in etica. Eppure quel che succede è che i giovani sanno tutto dell’etica cristiana, poi non sanno chi è Gesù Cristo. Non osservano l’etica cristiana, ma sanno cosa il cristianesimo, la Chiesa chiede nelle relazioni prematrimoniali, nella sessualità, nella vita; lo sanno perché il martellare di questo annuncio è il martellare che ha toccato tutte le orecchie, anche se poi non lo osservano. Ma il problema serio è che il cristianesimo trascende l’etica. La società chiede che noi gli diamo un’anima supplementare visto che si sono frantumate le ideologie e le morali (laiche). E allora le componenti dell’attuale società non cristiana applaudono a questo tipo di Chiesa. Questa Chiesa serve. Ma serve per annunciare la fede o serve come cemento in una società malata, come intonaco a un muro cadente, usando l’espressione di Ezechiele? Perché intonacare muri cadenti? Guai se il cristianesimo si esprime solo in etica, e se non si esprime nel dare la vita per gli altri, perché se c’è qualcosa che unisce Cristo, gli uomini e i credenti insieme, è quella formula di Bonhöffer: Gesù uomo per gli altri. Il cristiano è colui che dà la vita per gli altri; è colui che trova una ragione per morire, dunque anche una ragione per vivere. Ma guai se passasse il progetto, per cui il cristianesimo si fa semplicemente portavoce di un’etica mondiale. Il cristianesimo sarebbe ridotto a filantropia e a quel punto abbisognerebbe di maestri spirituali, in concorrenza con altri maestri spirituali di altre vie religiose, che sono sovente raffinate, più delle nostre vie occidentali» (E. Bianchi). La terza minaccia alla fede cristiana viene dall’attuale organizzazione delle Chiese. Ormai è “quasi” scomparsa la contestazione. Molti di noi si ricordano che cos’è stato il Post-concilio. Ma se è scomparsa la contestazione, non si è allontanata la possibilità di una crisi all’interno della Chiesa: una crisi di implosione. «Se le Chiese continuano ad organizzare tutto intorno a se stesse e non a Cristo, se continuano ad ecclesificare la fede come stanno facendo tutte, se continuano in questa forma in cui l’esaltazione della Chiesa è un’esaltazione che contagia addirittura i non cristiani e i non credenti, io mi chiedo se questo non rappresenterà un’altra minaccia alla fede cristiana» (E. Bianchi). «Noi seguitiamo a vivere la nostra vita come se i valori di riferimento fossero gli stessi della societas christiana delle generazioni passate. Seguitiamo ad autocelebrarci, a fare delle nostre liturgie spettacoli. Seguitiamo a crogiolarci in bagni di folla che, pur cospicui, sono statisticamente irrilevanti. Seguitiamo a pensare a improbabili mutazioni di tendenza solo perché c’è un lievissimo incre6


mento delle vocazioni al ministero o alla vita consacrata. Seguitiamo a pensarci in termini di ambienti rassicuranti quali parrocchie, associazioni, movimenti, magari investendo su questi ultimi, vita la loro carica d’efficienza presenzialista. Siamo paghi delle nostre chiese in apparenza, della nostra brava gente il cui livello d’informazione religiosa non oltrepassa l’asilo infantile. Non ci rendiamo conto che rischiamo di restare fuori dal corso della storia» (Cettina Militello). Dov’è la Chiesa serva dell’umanità: la “Chiesa col grembiule” come diceva il caro e compianto vescovo Tonino Bello? La tentazione della Chiesa cattolica di organizzare tutto intorno a se stessa si traduce, ulteriormente, nelle tentazioni di una “chiesa clericale”, dell’«uniformità teologica» e della «omologazione culturale», che sono autentici ostacoli al dialogo, al confronto, all’umile ascolto dell’altro.

4.

UNA CHIESA ATTENTA AI BISOGNI DELLA GENTE

Alla fine della nostra ricerca sulla Chiesa, vale la pena, allora, di porci a bruciapelo la domanda: vale la pena di «viverci dentro»? Che cosa vuol dire tutto questo per noi? Come si può costruire una comunità attenta ai «bisogni della gente»? a) Prima di tutto occorre avere «il senso della comunità», che è il punto di vista, l’angolo di visuale fondamentale anche per amare la vita, la propria e quella degli altri. Lì dove si predica di farsi «i fatti propri» non può nascere condivisione, solidarietà, dialogo. Lì dove si predica una salvezza solo individuale (anche nella Chiesa), non nasce il sentimento di una storia comunitaria, di un intreccio tra la vita di uno con la vita dell’altro. Lì dove si grida il «si salvi chi può», non può fiorire il senso del comune destino che ci lega e che ci salva, perché, di solito, a salvarsi sono solo quelli che hanno le risorse più grandi, sia economiche, sia culturali e, persino, spirituali. In un mondo come il nostro, dove la fragilità e la paura di vivere diventano sempre più grandi e diffusi, si possono salvare solo i «ben forniti, coloro che non vengono sfiorati da quel «malessere» invadente che significa dubbio, perplessità a scegliere, disorientamento, malattia, disperazione, povertà, miseria, distruzione dei desideri, delle aspettative, dei progetti coltivati e perseguiti. In un mondo come il nostro dove solo «i furbi» e «i forti» sembrano trovare vie d’uscita al disorientamento generale, l’essere discepoli del Crocifisso, cioè di colui che non ha salvato se stesso, non ha più niente da dire alla comunità cristiana e ai cercatori di Dio? Costoro sono invitati, paradossalmente, a non vedere il futuro dell’uomo nel progresso, bensì nelle sue 7


vittime. I poveri, i sofferenti, gli «erranti», coloro che non hanno un posto in questo mondo, questi sono l’utopia di Dio nel mondo. Questa può essere detta l’utopia cristiana… un’utopia ben radicata nella fatica di gestire la quotidianità, nei problemi complessi di ogni giorno, nella delusione di vivere ancora pienamente un «già» e «non-ancora», che ci svela, ma contemporaneamente ci vela, la pienezza dell’eternità. b) Poi occorre sensibilità per «i bisogni» della gente. Anzitutto occorre ricordare, qui, l’importanza (il primato, persino) che hanno «i bisogni» nella sensibilità dell’uomo di oggi. Ciò che è individuale, privato, mio, sembra più importante di ciò che è universale, pubblico, di tutti. Ciascuno sembra richiedere per sé il primato dell’attenzione, del rispetto, della tenerezza. Ciò rende più difficile l’individuazione dei bisogni della gente, perché occorre attenzione alle singole persone, alle storie private, alle richieste individuali, alle grida nascoste e sommesse di uomini e donne, che vivono spesso da soli la loro esperienza umana, buona o triste che sia. Ciò che si vede in superficie, ciò che si mostra agli occhi di tutti è, spesso, solo una piccolissima parte di una pena, di un dolore, di un bisogno che stenta ad essere compreso in tutta la sua gravità ed estensione. Sotto un certo aspetto la gente di oggi è più restìa a sbandierare in piazza il proprio bisogno e la conseguente richiesta di aiuto, presa com’è da una sorta di ritegno, di pudore che nasconde l’esperienza che si vive in un determinato momento. Inoltre si deve tenere presente che sono «cambiati» anche i bisogni (almeno nel nostro ambiente) che, da materiali in senso stretto, sono diventati sempre di più «spirituali», cioè legati, si può dire, alla fatica di vivere, di scegliere, di far fronte alla vita. La povertà, per così dire, è oggi soprattutto del cuore. La gente chiede tenerezza, comprensione, coraggio, «compassione», cioè «compagnia» nella prova, nel cammino quotidiano. È questa «la vita» che merita di essere presa in considerazione, accanto, certo, alla promozione della vita, lì dove essa può venire attaccata, disprezzata, avvilita e, persino, negata. Come non sognare una comunità (da singoli non si fa nulla!), che sa testimoniare con generosità il suo attaccamento alla vita, perché offre rapporti di comprensione e tenerezza tra i suoi membri, perché incoraggia, perché sa fare compagnia, con discrezione e semplicità, a coloro che essa scopre in un momento di debolezza, di sconforto, di mancanza di prospettive, di fallimento del disegno della propria vita o, anche, in una mancanza di pane, vestito, casa? Possiamo davvero pregare: «Signore, che io non dimentichi i bisogni degli altri. Conservami nel tuo amore, come vuoi che tutti dimorino nel mio».

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