Come forestieri

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Come forestieri ...perchÊ il cristianesimo è diventato estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo a cura di don MARCELLO FARINA

Le riflessioni sono state tenute presso la Parrocchia S. Pio X di Canova (Gardolo - Trento)


1 NON POSSIAMO NON DIRCI PAGANI Canova, 17 dicembre 2010

1.

Introduzione

Tre immagini possono accompagnarci in questo primo incontro su un tema che è di per sé provocatorio: perché il cristianesimo è divenuto estraneo alle donne e agli uomini del nostro tempo. La prima ce la offre Heinrich Heine, grande poeta tedesco dell’Ottocento. Egli scrive: «Suona la campanella. In ginocchio! Si stanno portando gli ultimi sacramenti a un dio che muore!». Il Dio cristiano soffre oggi di una grave crisi di credibilità, almeno per il modo con cui egli viene presentato alla sensibilità delle donne e degli uomini di oggi. «Dire Dio» oggi è diventato difficile. La seconda immagine ci viene da un’osservazione del teologo Hermann Häring, che scrive, ancora qualche anno fa: «Se non andiamo errati, pare proprio che la Chiesa cattolica abbia iniziato una delle fasi più difficili della sua storia. Anch’essa, infatti, viene coinvolta da problemi, nuovi e incalcolabili, che investono il nostro futuro. Ma più che altrove, in essa che si qualifica come Chiesa universale, oggi esplodono dei gravi contrasti di natura culturale, geopolitica e sociale» (in Diritti e limiti del dissenso, p. 151). La terza immagine fa da prologo al bel testo di don Armando Matteo, da cui ricaviamo la profonda analisi sul cristianesimo di oggi, che si intitola appunto Come forestieri (Rubbettino, 2008). È un’immagine che si trasforma in invito: quello di «diventare», ciascuno di noi, come i Magi del racconto di Matteo. Essi sono segno di un mondo estraneo, lontano, che reca omaggio a un piccolo bambino, che un astro celeste indica come re. Da uomini di prestigio e potenti, si trasformano in ricercatori, prendendo distanza dalla loro agiatezza e dalla situazione di sicurezza, per tenere il passo con quell’astro speciale apparso all’orizzonte della loro vita. «Dinanzi ai loro occhi si configura, però, un paesaggio davvero particolare: sacerdoti che sanno leggere le profezie ma dimostrano di non cercare più nulla e un re che sembra interessarsi alla cosa come da lontano: “fatemi sapere”, raccomanda ai Magi. Ma come è possibile tutto ciò? Stranieri che hanno percorso un lungo cammino dicono con la loro pura presenza che la profezia potrebbe davvero compiersi e loro, i sacerdoti, i capi del popolo e il re in persona, stanno a guardare cosa accade! Restano spettatori semplicemente incuriositi. È davvero estraniante la freddezza con cui tutti costoro si pongono dinanzi al possibile compimento di quella promessa che nel tempo della prova aveva sostenuto i loro padri» (A. Matteo, Come forestieri, p. 4). Coloro che dovrebbero sapere, non cercano più nulla; per loro la profezia è diventata sterile, così che, nel momento di tornare a casa, gli stessi Magi si sentono dire che devono farlo «per altra via», cioè a percorrere altri sentieri, a non temere l’estraneità e il cambiamento. È per questo che, secondo l’assistente nazionale della FUCI, la storia dei Magi si presta a introdurre l’atmosfera e la sostanza della nostra riflessione sull’estraneità del cristianesimo per le donne e gli uomini del nostro tempo. Scrive ancora don Armando Matteo: «Il tempo che viviamo segna un grande turbamento per la religione cristiana, ne provoca un forte disagio: sembra di non essere mai al suo posto, a volte di esigere troppo, altre di chiedere troppo poco. I contorni della sua teologia e 2


della sua morale risultano oltre misura sfuocati. Pochi sanno ormai a che serve la Chiesa. Ma più in profondità, il cristianesimo non è solo estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo, è divenuto estraneo a se stesso: lo dimostrano non da ultimo il fervore e il fiorire delle nuove e disparate forme di esperienza credente, dai movimenti di fresca fondazione alle comunità di base. Tutti più o meno alla ricerca di quel surplus spirituale che assicurerebbe un futuro sicuro alla fede, e tutti certi di aver individuato l’ultimo carisma che scioglierà ogni dubbio e ogni domanda. In verità e con buona pace di tutti, grande parte della tradizione cristiana è divenuta estranea agli stessi fedeli, dai canti in latino alle litanie più recenti, e, mentre la speculazione teologica e le direttive morali risultano lontane dal modo ordinario di pensare e di relazionarsi all’esistenza, le figure magisteriali appaiono staccate e semplicemente irrelate con i vissuti e con i contesti di riferimento. Davvero il cristianesimo appare oggi spaesato, senza dimora» (Ivi, p. 6). Ciò porta con sé che: – È necessario anche per la fede cristiana riconoscere l’urgenza di un viaggio incontro al mondo straniero che in realtà la ospita. – Il cristianesimo non deve avere paura di prendere le distanze da se stesso, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un collaudato universo concettuale, da uno specifico modo di organizzare il suo spessore intellettuale. Deve affrontare con scioltezza il viaggio dentro il cuore di un tempo che gli si dichiara estraneo. – Occorre anche prendere le distanze da ogni forma di irrigidimento dogmatico e morale della sua verità, da ogni difesa autoreferenziale dell’istituzione ecclesiastica e accogliere la sfida di un confronto aperto con la cultura del nostro tempo. – Occorre, cioè, percorrere «un’altra via». «Una via altra, che possa condurre verso un cristianesimo che insegni agli uomini e alle donne lo sguardo di Gesù, quello sguardo che invita a riconoscere la presenza dell’amore di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella stupefacente bellezza dei gigli dei campi e ancor più nell’impensato di un amore divino che si preoccupa anche dei nostri capelli; verso un cristianesimo che non fa la predica a nessuno, promuovendo e compiacendosi di ogni gesto di bontà; verso un cristianesimo che eleva e rianima, esortando e ispirando nuove riprese e nuovi cammini; verso un cristianesimo che sappia inventare nuovi spazi di ospitalità dentro le strutture delle sue comunità, nuove forme di culto e di preghiera dentro i canoni della sua liturgia; verso un cristianesimo meno preoccupato di sé e più aperto ad intercettare i tanti magi che hanno iniziato il loro cammino e non sanno più a chi chiedere indicazioni per non perdersi» (Ivi, p. 7).

2.

Non possiamo non dirci pagani

a)

Il Dio accessorio

«Dobbiamo confessarlo apertamente: negli ultimi quarant’anni di storia collettiva dello spirito, gran parte dell’umanità ha imparato a vivere senza Dio» (Ivi, p. 9) («Etsi Deus non daretur»). Non si coglie più la sua «presenza» in modo netto dentro il continente dei nostri sentimenti, all’interno di quel «plesso vitale» che noi via via chiamiamo «coscienza», «interiorità», «anima», lì dove si decide del bene e del male da compiere, o da rifiutare. Dio non è più 3


necessario. Certo, ogni tanto qualche problema di tipo religioso diventa ancora un argomento da opinione pubblica: affascina, stuzzica, incuriosisce, sollecita dibattiti televisivi (veniamo da Adamo o dalla scimmia del dottor Darwin? Gesù ha avuto o no una discendenza francese dalla Maddalena? È meglio che i preti si sposino o che si mantenga il celibato?). Ma tutto questo non tocca la vita quotidiana di migliaia di persone. Sono altri gli orientamenti, altre le premesse. Davanti e durante lo svolgersi feriale della propria esistenza, per la normale gestione degli affari quotidiani l’ipotesi Dio non scatta più: Dio è diventato estraneo, accessorio. Talvolta io penso che c’è anche qualcosa di più, in questo mettere Dio ai margini: perfino un senso di fastidio, di ribellione, quando egli viene evocato come «il garante di valori morali», che devono apparire come «valori non negoziabili» dal punto di vista del dibattito contemporaneo, o addirittura come il giudice spietato di scelte, che appaiono invece «umane», «misericordiose», o anche come il nume tutelare di un sistema sociale, ecclesiastico e laico, indeformabile e gerarchicamente organizzato. Scrive ancora Armando Matteo: «Pertanto, invertendo profondamente la nota frase di Benedetto Croce, se non vogliamo mentire a noi stessi, dobbiamo dire che oggi, avendo imparato a vivere senza Dio, non possiamo non dirci pagani. Se l’epoca antica-medioevale era, infatti, caratterizzata da una vita che trovava proprio in Dio il suo maggiore riferimento: tutto era posto sotto lo sguardo e la provvidenza divini – una società dunque con Dio; e se l’epoca moderna si è emancipata da questo schema assumendosi il compito di rendere l’uomo “maggiorenne” e di conseguenza libero dal dominio dell’Onnipotente e della sua Chiesa – una società pertanto contro Dio; il tempo che viviamo ricorda molto da vicino l’epoca pre-cristiana: l’epoca dove Dio – almeno nella versione personale e specifica assunta nella religione cristiana – non c’era. La nostra dunque è una società senza Dio. Dio è diventato perciò l’illustre dimenticato dell’epoca attuale (cfr. il testo di Houtepen: Dio, una domanda aperta)» (Ivi, p. 10). Uno sguardo puntuale e lucido sulla vita ordinaria ci permette di concludere che sono pochi, molto pochi coloro che ritengono che, per accedere ad una »vita veramente vita» (Benedetto XVI) ci si debba rivolgere alla fede cristiana. «Chi cerca la felicità – scrive un autore all’inizio del nostro secolo – deve rivolgersi altrove» (Lauster, 2006). Un tale «altrove» è appunto quella forma di saggezza «pagana» che sta sempre più caratterizzando il nostro vivere senza Dio: un vivere che tenta da sé di trovare le forze per «reggere» alle ambivalenze e ai rovesci del destino, e le ragioni per apprezzare (o disprezzare) la propria vita. In molti uomini di cultura contemporanei l’affermazione da cui siamo partiti – perché non possiamo non dirci pagani – non assume il semplice effetto di una constatazione, ma il tono di un invito accorato, caldo, persuasivo. Ad esempio: «Il filosofo italiano Salvatore Natoli, per citare un nome autorevolissimo, è profondamente convinto di ciò. A suo avviso solo un nuovo paganesimo, consapevolmente assunto, potrebbe recuperare un rapporto diretto e immediato con i grandi temi della vita: quello del dolore, della felicità, della morte, calibrandoli sul metro dell’equilibrio e della forza. Attraverso quest’opzione l’uomo ritroverebbe la possibilità di essere all’altezza della sua finitezza senza promesse di metafisiche salvezze. Da tale intuizione dovrebbe sorgere la ricerca di uno stile di vita che esprima la conquista di una misura e di un equilibrio con la realtà che ci circonda. Pertanto viene meno ogni discorso su una trascendenza di tipo cristia4


no e all’uomo non resta che dominare la contingenza. Ciò che ci è concesso è una pace con il finito, anche una speranza, che può al più tradursi – come per i Greci – in “una manifestazione intensa della voglia di vivere” (Natoli 2002, 140). Gli fa eco Umberto Galimberti, altro notissimo pensatore, per il quale è urgente il recupero della saggezza greca – saggezza pre-cristiana, appunto – la quale “guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron)” (Galimberti 2005, 26)» (Ivi, p. 12). Lo scenario odierno inviterebbe, secondo costoro (ma si potrebbero citare altri pensatori, R. Bodei, G. Giorello, ad es.), a prendere le distanze dalla fede cristiana, perché essa, a dispetto di ogni proclamazione teorica, tarpa le ali delle possibilità, non infinite del resto, che la vita offre a ciascuno. Non conviene, perciò, scommettere sul cristianesimo, che si rivela, spesso, come «antiumano»: il cristianesimo non è per l’uomo: è contro l’uomo. E qui dovrebbe risultare convincente, immediato, il grido di chi non può definirsi in alcun modo cristiano e meno che mai cattolico (Odifreddi, 2007).

b)

I campanili vuoti

Se Dio è diventato accessorio, estraneo, straniero, anche i segni esteriori che ne richiamano, per così dire, la presenza – i campanili – non rappresentano più lo strumento condiviso di una interpretazione globale e condivisa dell’esistenza. Essi si sono integrati con il resto del paesaggio urbano, così come il suono delle campane si è perfettamente integrato nella cacofonia ordinaria delle nostre strade. Paradossalmente, proprio nella loro perfetta assimilazione al paesaggio urbano, i campanili diventano estranei all’uomo qualunque e danno a pensare che la fede cristiana oggi non si intenda più da sé. È diventata così disomogenea rispetto ai «modelli» del pensare e del vivere contemporanei che l’atto del credere non viene più percepito come un gesto umanamente significante e rilevante, come una esperienza che «facilita» l’esistenza ordinaria. Di conseguenza le chiese sono sempre più vuote. Di giovani soprattutto, i quali, in verità, non le frequentano non perché abbiano deciso in un momento puntuale della loro crescita di porsi contro la Chiesa e meno che mai contro Dio, ma perché, non avendo ricevuto dai loro genitori alcuna testimonianza circa la convenienza del cristianesimo, hanno imparato a cavarsela senza Dio. non avvertono il bisogno di rivolgersi a lui, né di ascoltarne la parola. Non sanno, letteralmente, credere né pregare. Sono semplicemente senza fede: increduli. Di fronte a tutto ciò, la presenza degli anziani è preponderante dentro le comunità cristiane. E i due fenomeni creano un terribile circolo vizioso. Annota Armando Matteo: «Ci sarebbe bisogno di parrocchie che generino alla fede, che insegnino a credere e a pregare, che favoriscano un primo contatto con Dio ed invece diventano sempre più immobili, andando dietro a quelli di sempre, che, invecchiando, non riescono né vogliono smuoversi dalle loro pratiche di culto, sempre pronti invece ad impedire ogni cambiamento. E il cambiamento impedito ostacola l’avvicinarsi dei giovani. Come reazione a tale immobilismo, nel frattempo sono state inventate, elaborate e promosse nuove forme di esperienza religiosa: quelle dei movimenti carismatici, delle Giornate mondiali della Gioventù, dei pellegrinaggi. Spesso tali eventi inviano segnali di controten5


denza: piazze stracolme, dichiarazioni a favore della religione cristiana e delle sue presenze istituzionali, quantità considerevoli di conversioni. Non si dimentichi, tuttavia, che sono tutte modalità di tipo occasionale, fuori dall’ordinarietà, che allontanano per un momento la vera urgenza della Chiesa odierna, aggravandola: l’immobilità della vita delle parrocchie, che non riescono in alcun modo a farsi carico della prima generazione giovanile incredula» (Ivi, p. 14). Senza giovani, però le tante comunità cristiane diffuse sul territorio rischiano di scomparire per il semplice mancato ricambio generazionale.

c)

L’arca di «Mosè»

È subito chiaro che cosa significhi questo titolo: si è diffusa una abissale ignoranza nei confronti del cristianesimo, che è diventato «illeggibile», essendosi esaurito il suo ancoraggio con la cultura comune, per molto tempo condivisa oltre il gruppo assottigliato dei suoi fedeli. Viviamo quindi in un tempo in cui la fede non viene compresa nella sua originalità, in cui non riesce più a mostrare la sua forza e la sua bontà. E per questo nessuno la cerca. Del resto basterebbe sfogliare le pagine di qualsiasi articolo che tratta del cristianesimo, per afferrare quanto poco di esso si conosce, diciamo così, a livello di cultura generale: si confondono le cose più elementari (l’arca di Mosè...), nessuno avverte l’urgenza di una precisione che in altri ambiti sembra maniacale. «Le poche nozioni apprese al catechismo appaiono sufficienti agli intellettuali di destra e di sinistra per esprimere la loro opinione sui temi della morale, della fede e, se capita, del paradiso e dell’inferno, senza dimenticare il purgatorio. La cultura media in questo settore degli studenti universitari lascerebbe sbigottito più di un teologo che volesse interrogarli: tutto è attraversato con superficialità, con un che di sufficienza rispetto ad una realtà spesso considerata anacronistica, e che la storia sta appunto premurando di consegnare ai musei. Già solo per questo, è quasi impossibile al cittadino medio occidentale rendere e rendersi ragione delle verità messe in campo dal Vangelo. Più in profondità, poi, un tale “analfabetismo” del cristianesimo tradisce che i modi attuali di pensare, gli stili di vita e le promesse cui viene legato l’esercizio della libertà umana sono ormai fortemente sganciati e irrelati con l’universo valoriale e teologico cristiano. Non si approfondisce la propria conoscenza del cristianesimo, perché esso non tocca alcun interesse esistenziale. Perciò l’uomo comune non riconosce più con immediata evidenza la forza e l’incremento di umanità che la fede possiede, secondo il Vangelo: non la percepisce più quale felice sostegno al progetto di una vita piena. Si tratta pertanto di capire che altre – rispetto a quelle cristiane – sono le premesse sulle quali fa leva l’uomo qualunque per ordinare e orientare il microcosmo della sua esistenza, perché altre sono le promesse che hanno fatto breccia nel suo cuore.

3.

Come porsi di fronte a questo stato di cose? 6


Nel dibattito contemporaneo affiorano quattro ipotesi: – Si potrebbe, anzitutto, negare che le cose stiano così, affermando che la fede cristiana oggi sia ben presente nel cuore dell’uomo e che abbisogni fondamentalmente di un sussulto di entusiasmo, del rintocco di una campana... – Si potrebbe, ancora, senza negare la pertinenza della tesi qui evocata, richiamare la civiltà occidentale al pericolo che una simile tendenza alla estraneità della fede potrebbe provocare per il suo stesso destino. Abbandonando una radice sulla quale l’Occidente ha costruito il suo presente non può avverarsi che esso stia pensando ad un progetto suicida? – Si potrebbe anche addebitare tale stato di cose semplicemente alle manie contemporanee di un pensiero vago e relativista, al quale vale la pena di rispondere con una rinnovata riproposizione delle verità cristiane e cattoliche, alle quali ogni uomo di buona volontà e retta ragione dovrebbe prestare la dovuta attenzione. – Oppure si potrebbe, infine, assumere l’odierna estraneità della religione cristiana senza risentimento e senza desiderio di rivalsa rispetto ad una cultura che non si vuole più sotto la custodia della Chiesa, per assumere, invece, tale stato di cose come stimolo e pungolo per rivisitare il panorama della fede e chiedersi se proprio una simile situazione non suggerisca nuovi registri e nuove modalità per un rinnovato rilancio della scommessa cristiana del Vangelo. Resta comunque la domanda: Come è capitato che il cristianesimo sia diventato estraneo all’anima occidentale? Un passaggio, comunque, c’è stato: l’uomo di questo tempo è l’uomo della «postmodernità», convenendo in proposito con chi afferma che la categoria del «post-moderno / post-modernità» indica un trend (passaggio - tensione) caratteristico delle trasformazioni antropologico-culturali, che il mondo occidentale conosce nella stagione recente. Per capire in che modo il cristianesimo sia diventato estraneo nella terra dove il sole tramonta, è essenziale afferrare che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, in modo progressivo e incisivo, gli uomini e le donne hanno iniziato a vedere e ad abitare il mondo in un modo sostanzialmente diverso rispetto a quello dei loro predecessori. Il nuovo stile di vita si è costruito proprio in forte tensione con l’epoca precedente, ampiamente radicata nella tradizione cristiana, la quale perciò ci è diventata estranea. La mentalità postmoderna ha fatto, cioè, saltare il connubio esistente tra le istanze del cristianesimo e quelle della sensibilità media diffusa, orientando quest’ultima verso una configurazione originale, innovativa, trasgressiva, plurale, dinamica, mentre simultaneamente ha reso opaco, non immediatamente percepibile, il valore del messaggio della fede per la conduzione di una vita buona e riuscita. Per questo chi intende trovare risorse, tracce, indicazioni e istruzioni per affrontare con dignità il mai semplice mestiere di vivere non riesce più a cogliere nel cristianesimo un valido aiuto e alleato. L’uomo ecclesiale, normalmente, vive codesto momento storico con grande trepidazione: come è possibile – egli si chiede – un simile tracollo di fiducia nelle possibilità di umanizzazione proprie della fede cristiana? Come è spiegabile una tale trasmutazione dei valori e dei princìpi? Cosa ne è, allora, della verità che la “fede aiuta la vita”? In realtà, se si desidera comprendere il modo in cui si è giunti a questa situazione, gli spiragli che essa concede per rilanciare la scommessa cristiana e i punti di non ritorno dei 7


quali si deve con buona pace prendere coscienza, è indispensabile decifrare le strutture fondamentali della mentalità corrente, in particolare quelle maggiormente in tensione con la fede. Il pensiero postmoderno «si può definire provvisoriamente come una prassi intellettuale esteticamente orientata che trova fruttuoso il contrasto insuperabile tra mondi e forme concettuali diversi, come un pensiero del limite che si compiace della differenza, dell’estraneità, della posticipazione delle soluzioni e risoluzioni, come un senso della transitorietà, provvisorietà e interconnessione delle prospettive» (Salmann 2000, 101); e pertanto rivela un ampio tratto antiideologico e antisacrificale che si manifesta «nell’espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare una istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell’assoluto e dell’intangibile proviene dalla religione. [...Oggi] non vi è più alcun assoluto, alcun ordine che si imponga a tutti» (Lenoir 2005, 182-183). Tutti gli aspetti qui rapidamente accennati dovranno venire accuratamente analizzati, al fine di rintracciare la via migliore che l’epoca presente offre al cristianesimo per tornare a bussare e a parlare al cuore dell’uomo di questo tempo. Intanto, per abituarci all’immagine del «postmoderno» potremmo gustarci questa immagine di «umanità», che esprime il profondo mutamento in atto: « Le nomadi identità moderne sono onde, più che alberi con radici, le nutrono il mare e il vento, non solo la terra, e ogni giorno si rimette tutto in gioco, e nulla si custodisce, se non nella trasformazione». (Ivan Nicoletto, Transumananze, Servitium, 2008, p. 15).

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Come forestieri ...perchÊ il cristianesimo è diventato estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo a cura di don MARCELLO FARINA

Le riflessioni sono state tenute presso la Parrocchia S. Pio X di Canova (Gardolo - Trento)


2. COME IL CRISTIANESIMO (CI) è DIVENTATO ESTRANEO Canova, 21 gennaio 2011

1.

Introduzione

La seconda tappa del nostro itinerario di ricerca sul perché il cristianesimo è divenuto estraneo alle donne e agli uomini del nostro tempo riprende e sviluppa uno dei temi chiave, cui avevamo accennato nel primo incontro: cioè il fatto che «la mentalità postmoderna ha fatto saltare il connubio esistente tra le istanze del cristianesimo e quelle della sensibilità media diffusa (cioè su che cosa “pensa la gente” nella vita quotidiana), orientando quest’ultima verso una configurazione originale, innovativa, trasgressiva, plurale, dinamica della propria esperienza, rendendo opaco, non immediatamente percepibile, il valore del messaggio cristiano per la conduzione di una vita buona e riuscita» (A. Matteo, Come forestieri, p. 19). Si tratta di mettere a confronto il paradigma postmoderno con l’eredità culturale dell’Occidente per quel che riguarda la trasmissione di alcuni «capisaldi» della tradizione cristiana e valutare ciò che di essi può ancora essere significativo per il futuro di essa. L’itinerario è interessante; esso risponde alla domanda: quali pensatori, quali pensieri, che hanno contribuito alla diffusione del messaggio cristiano, sono ormai diventati «obsoleti», «muti», un ingombro per un dialogo sincero con la post-modernità? 2.

No Platone? No fede!

«L’Occidente non sarebbe ciò che è senza alcuni pensatori fondamentali, i quali hanno disegnato le coordinate principali della sua identità. Nell’alternarsi della sua storia, ha sempre mantenuto la propria specificità vivendo delle loro idee o contro le loro idee, mai in ogni caso senza» (A. Matteo, op. cit., p. 21). Tra questi Platone (428-348 a.C.) ha un posto di rilievo straordinario. Il suo insegnamento, infatti, ha invitato l’uomo a non arrestare lo sguardo a ciò che vede con il suo occhio fisico, ma ad usare l’occhio della mente, per librarsi al mondo delle idee, che rappresenta il «luogo» metafisico, cioè un aldilà eterno ed immutabile. «Questo spazio oltre-il-sensibile, e in particolare l’idea del Bene che l’accompagna, è anche l’autentica patria dell’uomo, la cui anima, a differenza del corpo, ha caratteristiche di eternità e immutabilità ed è così chiamata a percorrere un cammino di liberazione dalle maglie troppo strette della finitezza e corruttibilità delle cose terrene» (Ivi, pp. 21-22). Di questo «prodigioso» schema di pensiero la religione cristiana si è appropriata con destrezza e fermezza fin dai suoi primi passi: la visione cristiana della vita si installava sullo schema platonico di una discesa nel mondo, grazie alla nascita, di un’uscita da esso grazie alla morte, mentre nell’intervallo tra i due eventi all’uomo era consegnata la terra come luogo di fatica e di prova in vista del giudizio finale. In questo modo la religione cristiana offriva una spiegazione razionalmente convincente dell’esistente: appunto la spiegazione platonica. Ma al momento come stanno le cose? La mentalità post-moderna, lo abbiamo già accennato, è fortemente antiplatonica, e non concede più fiducia alla tesi che ciò che esiste non si riduce a ciò che è visibile e meno che mai al corollario che ciò che dell’esistente non-è-visibile dia ragione e significato a ciò che 2


dell’esistente è visibile. «Ciò che ci è dato è il cosmo finito, con tutto il suo carico di limiti e di potenzialità: non esiste un cielo oltre il cielo, né una verità oltre le mille e più verità grazie alle quali ci si destreggia nel vivere quotidiano» (Ivi, p. 23). La teoria darwiniana (l’uomo è frutto di un’evoluzione, non di una creazione diretta di Dio), la psicanalisi di stampo freudiano (l’anima dell’uomo non è solo spirituale, ma «biologica») e la rivoluzione industriale (con i conseguenti benefici sulle condizione di vita) hanno reso meno appetibile l’ultimo viaggio verso il paradiso celeste. Si potrebbe dire: la terra, per un verso, è sempre meno «valle di lacrime», ma anche un luogo in cui ci si può sistemare con un certo vantaggio. Il primo che inizia a sospettare (da buon «maestro del sospetto») una siffatta rivoluzione dell’animo umano è un altro filosofo, e precisamente Federico Nietzsche (1844-1900), che esprime il suo convincimento con il famoso aforisma «Dio è morto»! che dice la fine della visione del mondo platonica, segnata, come abbiamo visto, regolata, dalla preminenza dell’«aldilà» sull’«aldiquà», del mondo ideale sul mondo reale. Del resto il Novecento, il «secolo breve», come lo chiama qualcuno, sembra confermare ampiamente con le sue tragedie immani (la Shoah fra tutte) la fine di ogni possibile discorso su Dio nei termini della filosofia e della teologia precedenti. È pur vero che, dopo la seconda guerra mondiale, la società intera cercò e trovò nei valori della solidarietà e della giustizia alcuni punti fermi per riprendere il cammino fiaccato dagli orrori del Nazismo e del Fascismo. (La Chiesa cattolica, ad es., celebrò il Concilio Vaticano II – 1962-65 – per instaurare un nuovo dialogo tra cristianesimo e mondo moderno!). Ma su quel clima «irenico» e carico di buone speranze, se si può dire così, si abbatté la rivoluzione del 1968 (il «Sessantotto»!), vero inizio pubblico del mondo che viviamo, della cultura che respiriamo, dello stile di vita che professiamo, del modo di sognare, di sperare e di amare che ci fa sentire altri rispetto ai nostri avi. È molto importante coglierne gli elementi di mutamento e di novità. Come scrive A. Matteo: «Tale rivoluzione travolse in pochi mesi la ritrovata fiducia nelle istituzioni della tradizione, in particolare nel campo della morale e dei costumi, che apparivano oltre misura marchiati da una tendenza regressiva e repressiva. Fu come il semplice sollevamento di un coperchio e dalla pentola emersero con insospettata e dirompente forza le istanze della corporeità, della singolarità, della libertà, della sensibilità, dell’istantaneità, della volontà, della temporalità. Un nuovo approccio, che possiamo definire “estetico”, si produsse nei confronti della vita umana. Per questo la sentenza di Nietzsche della morte di Dio oggi non indica più solo la distrazione delle energie dalla contemplazione metafisica dell’origine e del destino umani, bensì più direttamente il primato attualmente concesso al corporeo rispetto allo spirituale, alla singolarità rispetto all’universalità, alla libertà rispetto alla necessità, alla sensibilità rispetto alla razionalità, all’istantaneità rispetto alla durata, alla volontà rispetto all’intelligenza. Alla temporalità rispetto all’eternità. Platone viene definitivamente rimosso» (Ivi, pp. 24-25). Così la fede cristiana deve ora fare i conti con un mondo che non vive, né pensa più «platonicamente» e il rischio che l’accompagna è quello di diventare sempre più «estranea» alla mentalità postmoderna. Ed è qui che nasce la grande, difficile domanda: il cristianesimo è pensabile solo a partire da Platone? Si deve, per forza, contrapporre l’aldiquà all’aldilà, il mondo a Dio, il corpo all’anima? Le donne e gli uomini di oggi respingono con forza questo «dualismo», che per loro è sterile e falso. Il desiderio di corrispondere all’esaltante scoperta della propria singolarità, dell’irripetibilità del gesto libero, della presenza corporea, spinge, però, donne e uomini a sottovalutare il senso della finitezza, della contingenza della loro ricerca materiale e spiritu3


ale, così che talvolta essa si trasforma in depressione e ossessione diffuse. Accompagnare la propria umanità in una dimensione che sappia coniugare limiti e aspirazioni ideali, voglia di pienezza e rischio di fallimento, è del tutto estraneo a una fede «altra» da quella che era diventata una religione dell’Infinito e dell’Assoluto, una religione astratta e distratta, nella difesa di Dio senza il mondo da «generare» come terra abitabile per tutti?

3.

Non ci sono più storie

«Insieme a Platone, è Agostino di Ippona (354-430 d.C.) colui che fa le spese dell’avvento della mentalità postmoderna, nel senso ovviamente di un rapido pensionamento dal ruolo di ispiratore della cultura occidentale» (Ivi, p. 27). Egli ha predicato, come strada per la felicità, quella del contenimento dei desideri, del disprezzo del mondo, della rinuncia a sé per far posto all’amore di Dio. Detto con altre parole: per Agostino la vita e il paradiso si conquistano con il sacrificio. Non solo. Ma egli è anche colui che costruisce una vera e propria «teoria generale» della religione cristiana, che porta il nome di «storia della salvezza». Secondo quest’ultima c’è un lungo e faticoso cammino di purificazione che l’umanità è chiamata a compiere a causa del peccato del primo uomo Adamo e che durerà sino alla risoluzione finale della lotta tra il bene (la città di Dio, la civiltà cristiana) e il male (la città degli uomini, la civiltà pagana). Anche questa visione è stata messa profondamente in crisi dalla «condizione postmoderna», la cui prima connotazione è stata proprio quella di riconoscere finito il tempo delle grandi narrazioni. Non ci sono più immagini e discorsi capaci di spiegare l’intero (Hegel, Marx, ecc. ecc.); ci sono solo «piccole narrazioni», come si constata tutti i giorni ascoltando le tante «confessioni» alla radio e alla televisione. E la sfiducia nelle grandi narrazioni ne sottende una ancora maggiore: quella che investe la potenzialità della ragione umana, nella sua pretesa, classico-moderna (dai Greci a Cartesio e Galileo), di offrire una visione e una versione complessiva del reale, così da poter assegnare un posto preciso ad ogni cosa e fornire infallibili istruzioni circa l’esercizio della libertà. «Sin dalla prima decade del secolo scorso, negli ambiti della letteratura, della psicologia, dell’arte, della musica, della filosofia, della stessa politica, inizia ad emergere la gestualità tipica del pensare attuale. È allora che si impone, difatti, una rivoluzione della ragione, che assume una forma più aperta dell’alterità, maggiormente disposta all’interpretazione, alla presa in considerazione di altre e meno immediate dimensioni, di differenti punti di vista; nasce una razionalità che trova la sua piena esecuzione nella scrittura del “romanzo” e nelle forme dirompenti dell’arte post-ottocentesca, le quali respingono come impossibile l’esistenza di un oggettivo che non sia correlato al mondo soggettivo e non intrattenga legami stabili con la sfera emozionale e vitale. È una forma di ragione che insomma rinuncia alla definizione di sé tramite la scomunica dell’altro, ritrascrivendo la nozione giudicata astratta del falso in quella del diverso» (Ivi, p. 29). In tal modo muta anche l’orizzonte classico del sapere. Il metodo della scienza diventa tutto ad un tratto mobile e duttile, meno gerarchico e più relazionale (si pensi al principio di falsificazione di Karl Popper). Tutto ciò che esiste assume significato dalle relazioni che riesce a instaurare con gli altri elementi del mondo: non si danno «cose», «sostanze», che abbiano in sé il loro significato indipendentemente dal sistema di cui fanno parte, cioè delle loro relazioni. E se questo è l’apporto della scienza, ancora più significativa è l’azione della tecnica, 4


che sta diventando addirittura il luogo di un radicale mutamento antropologico; la tecnica, infatti, non è più semplicemente il mezzo per rispondere ai nostri bisogni, ma l’ambiente di riferimento nel quale il soggetto umano ha iniziato a ridefinire i propri bisogni. Così il miglioramento qualitativo della vita media produce ovviamente un nuovo «sapere» della vita, ne altera il senso. La vita – oggi – non è più fatta di sacrifici; piuttosto essa è fatta di occasioni. Bisogna dunque espandere gli orizzonti del proprio desiderio, progettarsi in nome delle mille opportunità che ci sono concesse: nulla ci è precluso e nulla ci assegna ad una scelta una volta per sempre. Dilatare gli spazi dell’io: ecco il nuovo comandamento. Z. Bauman lo descrive così: le donne e gli uomini del passato concepivano la loro vita da pellegrini; le donne e gli uomini di oggi concepiscono la vita da vagabondi, turisti, giocatori. Ciò che si può fare si deve fare; bandiamo dunque il sacrificio, l’attesa, il rilancio, il differimento, la resistenza... La svolta antisacrificale mette definitivamente in crisi l’influenza esercitata da Agostino per interi secoli di civiltà occidentale. In riferimento al nostro tema ciò significa che «l’intero apparato morale della Chiesa risulta di difficile comprensione oltre che di scarsa condivisione: in un tempo che ha trasformato il falso nel diverso, che ha rinunciato ai metadiscorsi, il riferimento a leggi naturali, “oggettive”, “vere”, si rivela poco convincente; in un tempo che tecnicamente avalla senz’altra domanda il desiderio, le leggi morali cristiane, che comandano la rinuncia o quanto meno il restringimento di esso, vengono guardate con sospetto e addirittura giudicate antiumane. Che cosa dire poi di tutte le forme che la tradizione, a dire il vero non solo cristiana, ci ha consegnato per ordinare la vita, quali il fidanzamento, il matrimonio, la famiglia e la consacrazione al culto? Le quali si reggono proprio sulla capacità dell’io di fare spazio all’altro e quindi sulla capacità di resistenza alla tentazione di attrarlo dispoticamente nel proprio spazio vitale e viceversa sulla capacità di permanere nell’identità di se stessi? Le forme dell’essere insieme umano subiscono dunque ridimensionamenti eclatanti: a molti appaiono simboli di un tempo antico ormai destinato a finire» (Ivi, p. 33). E il cristianesimo, allora? Come potrà reagire o più semplicemente reggere tale situazione? Insistendo sull’oggettività, sulla «naturalità» delle sue indicazioni morali? Cercando di imporre con leggi statali (testamento biologico, aborto, eutanasia) la propria posizione sulla famiglia, sulla generazione, sulla vita e sulla morte? Oppure si può, con discrezione, tener vivo almeno il dubbio (insinuato da Agostino) che «la vita, su questa terra, non è fatta per essere equa e giusta verso ognuno: vi è un prezzo da pagare, uno scotto da accertare e da incassare. Il mondo non può adeguare l’orizzonte cui sono disponibili il cuore e la libertà umani. Dimenticarlo, significa dannarsi, chiedendo al mondo di essere ciò che esso non è. C’è quindi anche da soffrire, un portare sotto, un portare dentro un’attesa: attesa di un paradiso che non è questo mondo, dove la piccola storia di ognuno potrà trovare la sua incastonatura. La vita ha bisogno di essere inserita in un più grande respiro, in una più ampia narrazione» (Ivi, p. 34).

4.

Berlino 1989: la crisi istituzionale

Non c’è chi non pensi che la caduta del muro di Berlino del 9 novembre 1989 non sia stata senz’altro un gesto di liberazione, l’avverarsi di una giusta emancipazione. Ma il crollo di quel muro si presta a significare molte altre cose insieme. In quella «caduta» c’è qualcosa di simbolico che va interpretato e che si inserisce a pieno titolo nel mutamento dell’identità dell’Occidente. 5


Per esempio: essa (la caduta del muro) segnala apertamente la perdita della forza incondizionata di una struttura politica (il regime comunista), delle norme, delle leggi, degli istituti da essa previsti e garantiti. È il simbolo della vincita della democrazia come sistema socio-culturale della convivenza dei diversi, che non si appoggia sulla forza dell’istituzione ma sul consenso dei cittadini. In tale maniera indica pure la fine di dualismi politici usati per descrivere uno status quo: l’antagonismo tra amico-nemico, tra simile e diverso, tra cittadino e straniero. Essa (la caduta del muro) segnala, però, anche che nessuno oggi si sente totalmente rappresentato da un partito o da una coalizione politica, tutt’al più da questo o da quell’altro leader (è la cosiddetta «personalizzazione» della politica). E cosa non dire dei continui – e a volte stravaganti – mutamenti del nome dei partiti, se non che è il segno di una identità politica che deve essere sempre di nuovo «contrattata» con i cittadini? A rendere più complicata la situazione c’è anche il fatto che negli ultimi tempi si coglie la necessità di strutturare il rapporto con altri soggetti che provengono da contesti culturali diversi da quello occidentale, che manifesta la incompletezza degli ordinamenti legislativi di quasi tutte le nazioni europee. E lo scenario globale si tinge ulteriormente di grave insicurezza a causa delle guerre scatenate dal e per il terrorismo internazionale. Ma anche il mondo economico e finanziario mette in seria crisi la stabilità civile e politica di intere nazioni. Il risultato complessivo, in termini culturali, dell’intreccio di tutte queste spinte è dato dal fatto che il «modello romano» (giuridico-imperiale) della gestione della res pubblica viene semplicemente liquidato: le istituzioni sono ricondotte a una sfera di naturalità, cioè di creazione umana, e quindi stimate passibili di fallibilità e di corruzione. Non si riconoscono idee o teorie cadute dal cielo che possano guidare la convivenza civile e lo sviluppo, ma ciò che ora conta è la proposta elettorale e la capacità di convinzione. Lo spazio pubblico non è più spazio etico. Esso si ritrova sotto l’assedio e la tortura del principio del «politicamente corretto» e delle sue aberranti applicazioni. Si ritrova aggredito dalla comunicazione di massa, che tira giù costantemente il livello della discussione per mantenere alto l’indice di interesse su elementi marginali, personali, scandalistici, libidinosi. Naturalmente anche la Chiesa risente della svolta antiistituzionale della post-modernità, che respinge di petto quello che abbiamo chiamato il «modello romano» della reggenza della civitas (della comunità), su cui ella aveva fatto grande affidamento. Anche la Chiesa viene sempre più allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di leggi, di funzioni e funzionari, che non si può sottrarre alle regole del convincimento e del confronto democratico e alla fallibilità propria di tutto ciò che è umano. La sua voce non gode di una particolare accoglienza nel cuore dell’uomo post-moderno: è una delle molte altre, con le quali deve condividere quel piccolo «parlamento» che è diventata la coscienza di quest’ultimo. La scoperta e la denuncia di molti scandali a sfondo sessuale, alcuni dei quali davvero riprovevoli, che hanno coinvolto numerosi preti, rendono la situazione ancora più delicata: non si dovrebbe sottovalutare la carica di risentimento e quindi di allontanamento che tali eventi possono provocare. Il fatto è che molti non cercano più la Chiesa «come spazio vitale di una fede vissuta». In questo modo assume contorni meglio definiti l’estraneità del cristianesimo all’anima postmoderna. Come interagire con tale estraneità? Due proposte sono state avanzate: che il cristianesimo diventi una «religione civile», cioè diventi «l’anima» della cittadinanza, nel vuoto di senso delle istituzioni pubbliche o che il cristianesimo (i cristiani) si ritiri totalmente dallo 6


spazio pubblico, sino a configurare per la religione cristiana il ritorno a una qualche forma di settarismo. Non sarebbe, invece, una grave perdita la rinuncia allo «spazio pubblico» delle Chiese, lì dove esse manifestano interesse per tutti gli uomini e le donne di buona volontà e non solo di coloro che frequentano la Chiesa? «La difesa dello spazio pubblico come luogo della crescita umana dei più piccoli, come spazio di discussione della difesa degli interessi dei più deboli, come ambito dello sviluppo della consapevolezza che il mondo non può reggersi sulla collusione di alcuni contro altri e questi contro i primi, impone il riconoscimento che i benefici possibili derivanti dalla somma degli interessi dei singoli saranno sempre minori rispetto a quelli derivanti dal perseguimento della realizzazione del bene comune della pace, della giustizia, dell’equa distribuzione delle risorse, della salvaguardia del creato. Ricordare e rafforzare la possibilità di essere altrimenti umani è l’autentica carica del progetto “politico” di Gesù: l’uomo non è destinato a seguire le parti più bieche del suo cuore, le parti della violenza cieca o dell’egoismo vuoto, può amare l’altro, può umanizzare il mondo. È proprio questa la forza e la promessa della redenzione» (Ivi, p. 40).

5.

Transito

«La svolta verso la mentalità postmoderna, con la netta presa di distanza dal sapere tradizionale sull’umano, ha certamente il sapore di una liberazione da tanto attesa e finalmente realizzata: la rinuncia a norme e a condotte morali valide per tutti e in pratica per nessuno, offrendo esse poco riguardo per le mille sfaccettature delle condizioni singolari di ciascuno, la sovversione di un progetto di vita che fondamentalmente puntava all’accettazione dell’esistenza in vista di ciò che le sta oltre, e infine lo scioglimento della libera espressività del soggetto dall’inquadramento in strutture di sapere, di ordinamento politico e sociale decise dall’alto e da altri, hanno senz’altro allargato l’orizzonte di libertà degli uomini e delle donne di oggi più che in qualsiasi altro momento della civiltà umana. Nello stesso tempo, la postmodernità ha attivato il desiderio di una prassi sensibile, puntuale, attenta, la speranza di una riconciliazione intramondana con l’esistenza, e ancora il progetto di una convivenza civile e sociale che non faccia ricorso alla sola forza della legge, la quale troppo sovente si trasforma in legge della forza. Tutto ciò in vista di una vita buona e degna di essere vissuta. Ma il mutamento rapidamente descritto e le corrispondenti attese impegnano il soggetto umano molto più che nel passato» (Ivi, p. 41). Anche per la comunità cristiana le difficoltà della comunicazione con questa cultura sono diventate più grandi: l’estraneità pesa, preoccupa, infastidisce, ma non va respinta, rinviata sdegnosamente al mittente, anzi accolta come occasione che invita tutto il mondo cristiano a diventare un’istanza di verifica e di controcampo profetico nei confronti dell’uomo contemporaneo, perché non perda le sue conquiste, non soccomba alle sue invenzioni e, soprattutto, non trasformi le energie positive che ha riscoperto in energie negative che pure ha risvegliato e che in ogni caso evoca ogni cambiamento radicale come è quello che da almeno quarant’anni sta vivendo l’Occidente.

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Come forestieri ...perchÊ il cristianesimo è diventato estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo a cura di don MARCELLO FARINA

Le riflessioni sono state tenute presso la Parrocchia S. Pio X di Canova (Gardolo - Trento)


3.IL CRISTIANESIMO COME SCOMMESSA APERTA Canova, 18 febbraio 2011

1.

Introduzione È la riflessione più difficile quella di oggi. Per vari motivi:

– il più banale, se si vuole, è quello che ciascuno di noi esperimenta quando vuole passare dall’analisi critica di una situazione (dalla pars destruens, come si usa dire) all’analisi propositiva di essa (la pars construens, evidentemente). È più facile dire ciò che non va che intravedere vie d’uscita creative, capaci di ridare senso e vigore. – Il secondo motivo sta nel fatto che l’estraneità del cristianesimo nei confronti del mondo postmoderno non è una realtà di superficie, quasi bastasse una spolverata, per far brillare di nuovo il suo «splendore», ma una realtà che ne ha intaccato profondamente la credibilità, sia nei contenuti, sia nel linguaggio che lo esprime, come abbiamo potuto constatare precedentemente. La cultura attuale (il postmoderno) si presenta, infatti, con caratteristiche tali da rendere sempre meno percepibile all’uomo della strada il valore della fede per una vita buona e felice. Essa, nel suo costituirsi, si è liberata di alcune delle matrici fondamentali della civiltà occidentale, su cui finora aveva fatto leva il cristianesimo (si possono ricordare: il platonismo con il suo «dualismo metafisico»; l’agostinismo con la sua storia della salvezza da conquistare con il sacrificio; il «modello romano» nella gestione della «res publica») per l’annuncio del vangelo. Questo determina l’attuale estraneità di quest’ultimo. – Un terzo motivo riguarda da vicino l’arroccamento dell’istituzione ecclesiastica in una sorta di turris eburnea, di cittadella fortificata, che le impedisce un autentico dialogo con le donne e gli uomini di oggi, sospettati sempre di prevaricare nell’esercizio della libertà di coscienza e considerati moralmente incompetenti (come se si ripetesse che «se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente», anzi «se Dio non c’è, dio sono io») come vanno ripetendo le più alte gerarchie ecclesiastiche.) A ciò si accompagna l’oblio (o, se si vuole, l’avocare a sé di Roma dell’interpretazione esclusiva) del Concilio Vaticano II e della sua eredità più significativa. E tuttavia continua a sollecitarci l’idea, la speranza, l’aspettativa che il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire all’uomo moderno. I rapidi cambiamenti cui abbiamo accennato hanno ripercussioni notevoli sull’esistenza ordinaria delle persone. Anche il paganesimo ha i suoi costi. Per essere all’altezza dello spirito del nostro tempo, sarebbe allora necessario un cristianesimo profetico: un cristianesimo lungimirante, dotato di solida competenza critica, all’altezza di un controcanto deciso rispetto agli slanci e alle sconfitte, alle conquiste e alle delusioni delle donne e degli uomini di oggi; un cristianesimo chiamato a pensare l’impensato, a dire il non detto, ad ascoltare l’inaudito e in tutto ciò a promuovere l’inedito delle promesse di Dio.

2


2.

Questione di sguardo

Il cristianesimo è «questione di sguardo», afferma Armando Matteo all’inizio del terzo capitolo del suo bel testo Come forestieri, che è diventato la guida per la nostra ricerca. Non basta il cuore, come sembra, invece, affermare Saint-Exupéry nel suo famoso testo del Piccolo Principe, mettendo in bocca alla volpe le note parole: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi». La fede riguarda lo stile del nostro guardare. «Come dimenticare che proprio ciò che la Sacra Scrittura indica quale primo peccato nasce da uno sguardo che non coglie più la differenza del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male da quelli degli altri alberi posti nel giardino dell’Eden?» (op. cit., p. 45). Uno sguardo «cattivo»: un atto d’invidia, incapace di cogliere le differenze, di notare le sfumature, di ravvisare le connessioni, le sinergie tra le cose e le vicende del mondo, e tra queste e Dio. All’opposto, credere ha a che fare con una conversione dello sguardo, con la capacità di assimilare il modo di «vedere» di Gesù di Nazareth, del suo sguardo su Dio, il mondo e se stessi. Rivolgere lo sguardo a questi tre «oggetti» e «vederli» alla maniera di Gesù di Nazareth è, allora, il percorso-viaggio verso la fede che il cristianesimo ci propone, un viaggio rispetto al quale nessuno può vantare vantaggi di sorta o corsie preferenziali. Nessuno può credere al posto di un altro o a causa di un altro.

a)

L’ordine dell’amore (lo sguardo su Dio)

Anzitutto, perciò, «vedere Dio», con gli occhi di Gesù di Nazareth, vuol dire «vedere il Padre». «Egli, infatti, indica Dio come sfondo a cui volgere lo sguardo ogni volta che si è tentati di chiudere in se stessi o in un altro o in qualche cosa del mondo il segreto dell’esistenza e, nello stesso tempo, come spazio liberante in cui rinnovare la nostra fedeltà alla bontà della vita, quando ne pariamo i contraccolpi. Solo un Dio, che è padre, presente da lontano, remoto nella prossimità, può donare all’uomo quell’amore in cui riconoscersi riconosciuto così da poter amare se stesso e non mollare il mai semplice mestiere di vivere» (op. cit., p. 48). Gesù di Nazareth non trasforma mai la paternità di Dio in una chiave risolutrice di tutto ciò che il destino prepara per la nostra e altrui esistenza, ma invita a vedere Dio come colui che salvaguarda e si fa garante della vivibilità dell’esistenza, come colui che promuove la libertà umana (la autonomia dell’uomo), aprendo spazi e continuamente rilanciando la scommessa umana sulla fecondità del futuro, perché è garante di una giustizia e di una verità finali di questo mondo. Il Dio cristiano è così estraneo ad un amore che non sappia coniugarsi con la libertà, sia a una libertà che non sappia convertirsi in amore, concreto, singolare, specifico. Scrive Paul Ricoeur, acuto indagatore del cristianesimo: «Il rivolgersi a Dio come padre [...] è raro, difficile, audace, perché profetico, vòlto verso il compimento più che verso l’origine. Esso guarda [...] in avanti verso una nuova intimità plasmata sul modello della conoscenza del figlio [...]. La religione del padre, dunque, non è la religione di una tra3


scendenza lontana e ostile, poiché in essa la paternità comporta la figliolanza e la figliolanza la comunità di spirito» (in Il conflitto delle interpretazioni, 1977, p. 505). Significativamente Ricoeur preferisce parlare, anche in altri testi, di Dio onni-amante piuttosto che onnipotente: «Sì, l’unico potere di Dio è l’amore disarmato». A questo punto non posso non riportare una pagina stupenda del teologo valdese Paolo Ricca che si domanda a sua volta: «E chi è questo Dio che Gesù chiama “Padre” e che ci insegna a chiamare “Padre”?» Così egli ne delinea i tratti essenziali: a) È un Dio discreto, la cui presenza è vicinanza e segretezza, un Dio non spettacolare, oggi diremmo non mediatico, non evidente, non invadente, che non si impone, ma chiama, cerca, aspetta. b) È un Dio attento alla singola persona, non solo al gruppo, al popolo, al collettivo. È un Dio che si accorge se su cento pecore ne manca una. Certo, è il pastore del gregge, ma questo per lui significa non perdere nessuna pecora, neppure una, e conoscerle e chiamarle per nome ad una ad una. Un Dio personale, dunque, e non solo universale, di tutti, sì, ma anche di ciascuno, che conosce il tuo nome (anche senza cognome) e lega, nel battesimo, il suo nome tre volte santo al tuo. c) È un Dio che perdona, che chiede all’adultera colta in flagrante adulterio: «”Donna, dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?” L’adultera rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù: “Neppure io ti condanno. Va’ e non peccare più”» (Giov. 8, 10-11). Un Dio che perdona. Non c’è in cielo e sulla terra mistero più grande del perdono dei peccati. Gesù lo ha portato dal cielo sulla terra. Scandalizzando scribi e farisei ha detto a molti, su questa terra, la parola che solo Dio ha il diritto di pronunciare: «I tuoi peccati ti sono perdonati» – gratuitamente, immeritatamente, incondizionatamente. Dio ama i peccatori e Gesù «è morto per gli empi» (Rom. 5, 6) – per colpa degli empi, ma a loro favore. Questo è l’evangelo cristiano. Credere significa credere questo. d) È un Dio che guarisce i corpi e le anime, i singoli e la comunità, da malattie, paure, diffidenze, colpe; un Dio che libera da ogni sorta di servitù materiale, morale e spirituale; un Dio che si ferma davanti all’uomo ferito e avvilito, si china su di lui, gli ridà fiducia e speranza; un Dio che fa fiorire la vita, restituendole gioia e libertà. e) È un Dio inclusivo, che reintegra nella comunità i lebbrosi, gli esclusi, gli scomunicati, i ripudiati, secondo la grande parola che accompagna l’azione di Gesù: «Anche questo è figlio di Abramo» (Lc. 19, 9); e «Costei, che è figlia di Abramo [...]» (Lc. 13, 16). Un Dio non nazionale, non tribale, non razziale, alla cui mensa sederanno persone da Oriente e da Occidente, dal Settentrione e da Mezzogiorno, insieme ad Abramo, Isacco e Giacobbe (Lc. 13, 29). f) Infine, è un Dio che, pur essendo «pietoso e clemente, lento all’ira e di gran benignità» (Salmo 103, 9), resta il giudice degli uomini e della storia. Gesù non è venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo (Giov. 12, 46). Dio però giudica il cuore e la vita di tutti e di ciascuno. La nostra vita è qualcosa di cui dobbiamo rendere conto a lui che ce l’ha data. Ma quando il giudizio avverrà, ci saranno molte sorprese: «Molti primi saranno 4


ultimi, e molti ultimi primi» (Mt. 19, 30). C’è chi pensava di essere innocente, e invece si ritrova colpevole (Mt. 25, 41-46), e c’è chi pensava di aver solo aiutato il prossimo bisognoso a vivere la sua vita terrena, e invece, senza saperlo, s’è guadagnato la vita eterna (Mt. 25, 34-40). Molte sorprese, dunque. C’è un «premio», di cui Gesù parla più volte (Mt. 5, 12; 6, 1; 10, 41; Mc. 9, 41), e c’è una «ricompensa» (Mt. 6, 4). Non che la vita cristiana sia un affare, un calcolo del tipo do ut des. Chi ragionasse così, dimostrerebbe di non aver capito nulla del cristianesimo. Ma Dio è generoso, questa è la verità. E c’è anche un risarcimento: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli o sorelle [...] per amore del mio nome, ne riceverà cento volte tanti, ed erediterà la vita eterna» (Mt. 19, 29-30). E questo risarcimento riguarderà anche chi non ha avuto su questa terra la sua parte di vita, di affetti, di soddisfazioni, di felicità. Ecco, per sommi capi è questo il Dio che Gesù ci ha fatto conoscere, nel quale egli ha creduto e per il quale è vissuto. La fede cristiana è credere con Gesù e come Gesù in questo Dio (in Le ragioni della fede, Claudiana, 2010, pp. 14-16).

b)

Altrimenti umani (lo sguardo sul mondo)

Poi, «vedere il mondo», con gli occhi di Gesù di Nazareth, ha a che fare con uno sguardo che sa cogliere in esso il lievito del «regno di Dio». «È essenziale – scrive Armando Matteo – per il pensiero e la prassi cristiana, guardare al mondo (alle realtà mondane nel loro complesso) non solo nella sua data attualità ma anche nella sua possibilità, non solo dunque per ciò che è, ma pure per ciò che può diventare: soprattutto quel “mondo” che è il risultato delle mille relazioni tra gli umani, del confluire delle loro libertà e dei loro desideri» (op. cit., p. 51). A partire dallo «sguardo di Gesù», «la salvezza del mondo passa attraverso l’impegno della costruzione del “regno di Dio”, segno e sogno di un’umanità che non si regge sulla collusione di alcuni contro altri, che non sfrutta la debolezza dei molti a vantaggio dei pochi, che non pone continuamente in essere condizioni di vita talmente degradanti da far desiderare a milioni di esseri umani la fine della vita piuttosto che la vita fino alla sua fine. È segno e sogno, al contrario, di un’umanità che tenta strade di riconciliazione in nome dell’unica paternità divina e che desidera condividere il mondo secondo progetti di equità e di autentica giustizia» (Ivi, p. 51). Ci sono sempre, nella storia, coloro che categoricamente affermano l’inevitabilità dell’ingiustizia, del sopruso, della violenza, in una parola coloro che giustificano il bruto mondo, dicendo bene del male, facendo una bandiera dell’egoismo, dell’arroganza, della prevaricazione. Di contro, il regno di Dio porta con sé che l’ingiustizia non è il marchio definitivo della storia. Esso, anzi, annunzia che a nessuno dovrebbe essere negato il desiderio di cose davvero belle, piene, gratificanti, consonanti con i ritmi profondi del cuore. A nessuno dovrebbe essere negata la possibilità di una felicità del proprio essere al mondo, a nessuno dovrebbe essere consentito di addurre ragionevoli e fondati motivi per maledire la propria esistenza. «Ecco il regno di Dio: la radicale possibilità di immaginare un mondo diverso, un mondo semplicemente più umano. Gesù insiste su tale opportunità, si compromette sino 5


in fondo con essa e alla sua luce giudica le istituzioni civili e religiose del proprio tempo: contesta l’autorità religiosa e quella romana, perché, sulla base della loro teologia politica, fissano in uno status definito e definitivo gli esseri umani e li privano di qualsivoglia margine di miglioramento. Il potere, quando non è vissuto come corresponsabilità e servizio, ma come dominio e conquista, non può che tendere a mantenere in un rigido ordine la situazione di tutti coloro che ricadono sotto il suo raggio d’azione: ha bisogno di uno sguardo d’insieme che fissa e delimita, che struttura ogni movimento e riduce gli spazi di libera invenzione dei singoli, che inventa il mito del nemico e dello straniero e giustifica il ricorso alle leggi e alle istituzioni della forza per dare forza alle sue leggi e alle sue istituzioni» (op. cit., p. 52). Si potrebbe, qui, riferirsi a un passo importante del vangelo di Matteo, successivo alla proclamazione delle beatitudini, lì dove Gesù di Nazareth avverte: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito tu non voltargli le spalle» (Mt. 5, 38-42). Non si tratta di una regola, ma di uno stile: una sorta di eccedenza della risposta rispetto alla replica che normalmente si aspetta. Sì, ogni risposta dà di più di quanto richieda la prudenza ordinaria: la guancia destra? L’altra guancia! Il mantello? E in più anche la tunica! Un miglio? Uno in più! Non solo questo, ma persino quest’altro! È la logica della sovrabbondanza, della generosità, che si scontra sempre con la logica dell’equivalenza, quella che regna anche sulle nostre relazioni nel quotidiano, sul commercio, sul diritto civile e penale; la logica di Gesù di Nazareth che si scontra sempre con la logica mondana del diritto, dell’economia (lo scambio), della politica. Qui si radicano il senso e il compito dei cristiani dentro la storia delle donne e degli uomini. In questo contesto «l’estraneità» del cristianesimo riconquista un valore positivo nel suo confronto della realtà storica, politica, economica, culturale e anche religiosa che sperimentiamo ogni giorno. Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose la qualifica come «differenza cristiana», la quale si connota essenzialmente come la fiducia e l’impegno a realizzare un mondo altrimenti, configurato secondo uno stile di generosa accoglienza degli altri, di mite proposizione di se stessi, di ragionata ricerca del bene comune, di totale attenzione alla costruzione della pace e della giustizia e alla salvaguardia del creato: «La differenza cristiana diventa così stimolo e fermento nella società perché ogni parola, ogni gesto profetico hanno ricadute nella compagine sociale» (E. Bianchi, La differenza cristiana, 2006, pp. 48-49). È certamente tale compito che attende il cristianesimo futuro: generare comunità che respirino e lascino respirare il profumo liberante e consolante del vangelo, profondamente attraversate dall’interesse verso il Regno di Dio piuttosto che all’autopromozione e all’autoconservazione. Mantenersi fedeli a simile irrinunciabile ruolo profetico, per il bene del mondo, significa respingere con grande fermezza ogni progetto vòlto a trasformare il cristianesimo in una “religione civile”, in un baluardo dei valori occidentali, in una riserva simbolicoculturale di questa tradizione, in un collante ideale di quella vuota congiuntura burocrati6


ca che è diventato lo spazio pubblico, in un serbatoio di identità di un re – l’Occidente – ormai dichiarato nudo da ogni pivello che passa per strada. Del resto, oggi, la religione civile si esaurisce tutta nel “politicamente corretto”, che reclama uguaglianza di diritti e corrispondenza assoluta alla singolarità di ciascuno; il cristianesimo, da parte sua, critica un tale dogmatismo, collocando tali di per sé giuste aspirazioni in un differente contesto e legittimandole non come rivendicazioni, ma come promesse, la cui forza apre cammini di impegno e di responsabilità. Il nuovo scenario della mondializzazione dell’economia e dei mercati, delle comunicazioni e degli scambi culturali, d’altro canto, interpella seriamente la componente politica e intellettuale della società, sollecitandola ad una ricerca meno apatica dei modi in cui appassionare i cittadini alle sorti generali del pianeta e dei suoi abitanti, mai come nel nostro tempo divenuto “piccolo villaggio globale”. Il ruolo della comunità credente è quello di ricordare, nella e con la concretezza della propria vita, che la scommessa sul futuro può essere più vantaggiosa della rapina del presente e che la somma dei benefici del perseguimento del bene comune è maggiore di quella dei beni singoli e che, in una parola, il cuore dell’uomo non è irrevocabilmente logorato dal potere che non ha. c)

Questo mondo non è il paradiso (lo sguardo su se stessi)

Il terzo consistente vettore della conversione dello sguardo ha a che fare con l’immagine che ciascuno ha di se stesso. Anche in questo caso è Gesù di Nazareth a rendere «preziosi» ai suoi occhi l’umanità delle donne e degli uomini, certo segnati dalla finitezza, che, però, non va interpretata come «limite», colpa da espiare, un fardello da cui liberarsi. Piuttosto il nostro essere nati al mondo va colto come apertura di uno spazio di libertà e di possibilità, cui dover e poter corrispondere con generosità e passione. «Non si deve pertanto temere di compromettere se stessi nelle cose in cui si crede, nelle azioni che appaiono degne del proprio operare, in una tensione permanente tra il passato che precede e condiziona e il futuro che viene generato e condizionato a sua volta. Così ciascuno dovrà vivere la sua storia di figlio, di apprendista, di adulto e di maestro. E ogni volta più si saprà donato, preceduto, accolto, più sarà capace di dare, precedere, accogliere, dare forma al (suo) futuro. È indubbio che ci si dovrà lasciare toccare, ferire, e segnare da ciò che precede, perché è solo in questa disponibilità a restare figlio che sarà possibile anche nascere ogni volta come padre, come colui che sa dare una forma alla vita, all’insegnamento, al mestiere, che ha accolto. Si tratta di rispondere con generosità al “patrimonio” ricevuto, alla “tradizione” alla quale si appartiene, perché tutto è donato in prestito affinché possa essere trasmesso ad altri» (op. cit., p. 58). In un tale continuo agire ogni persona potrà fare esperienza di sé innanzitutto nella relazione con gli altri, che permetta il riconoscimento reciproco, nella fatica che tale passaggio comporta. Non va trascurato, per questo, un essenziale spazio di solitudine, un porsi dinanzi al «santissimo» della propria interiorità, dove possono nascere le domande radicali: che cosa vogliamo, che cosa cerchiamo, che cosa possiamo sul serio, che cosa non è di nostra competenza, che cosa sappiamo e che cosa è, invece, puro oggetto di fantasia, che cosa nasconde il nostro carattere, e che cosa, invece, trama quasi di nascosto a noi stessi... Solo così ci si potrà accorgere della luce che dall’alto illumina e può donare forza e respiro alla propria esistenza e proiettarla verso il futuro, verso quel compimento, cui 7


rinviare ogni giudizio ultimo su se stessi e sulla storia: «La redenzione non cambia le cose, le leggi e i ritmi della realtà contingente, del corpo e dell’intelligenza, ma lavora sul reale, apre degli spiragli, incide sui parametri del pensare, sentire, agire, volere [...] ci ricorda [...] la verità che questo vecchio mondo antico non sarà mai un paradiso, mai un luogo utopico, ma può e deve essere ciò che è: il mondo limitato come giardino, come luogo di fatica, di sofferenza e della presenza indicibile e rincuorante della Parola, dello Spirito, di uno spazio e di una dinamica che portano oltre» (E. Salmann, Contro Severino. Incanto e incubo del credere, 1996, p. 288). Ci si accorge che la dinamica della fede è uno spiraglio aperto, inconcluso ed eccedente. Dio che si fa umano perché possiamo diventarlo anche noi, che siamo ancor sempre pre-umani. Non una parola o un ordine definitivi, ai quali affidare le proprie certezze, o per tessere una rete di inviolabili normative, ma il travaglio di una creazione in fieri, una generazione incompiuta che preme sulla pelle delle forme e delle regole per aprirla ad un di più. «Come imprigionare l’Aperto in sepolcri chiusi? Perché cercare tra i morti colui che non è qui?» Egli, cioè il Risorto, ci invita ad essere, ciascuno e ciascuna, molecole di Aperto, soglie dell’incommensurabilità del mistero umano e divino. 3.

Transito

C’è un gesto evangelico, che capovolge radicalmente il meccanismo umano del più e del meno importante, di una gerarchia verticale di grandezze-potenze che innesca inesorabili processi di selezione, emarginazione ed esclusione, fino alla sopraffazione. Nel momento della sua ultima cena con i discepoli, prima che accada l’irreparabile, Gesù si toglie le vesti, si denuda del proprio, e lava i piedi dei suoi amici, preoccupati a discutere chi fosse il più grande fra di loro, chi avrebbe assunto il comando, una volta insediatisi al governo a Gerusalemme. Togliendosi la veste, egli rivela una signorìa che si pone fuori di ogni funzione, ruolo e rango sociale, fuori di ogni appartenenza ad un interno, a ogni gerarchia visibile indicata dal vestito. «Solo un grembiule», avrebbe detto don Tonino Bello. Forse questa è la lezione più grande del postmoderno: spogliati di tanti segni maggioritari, prominenti ed eminenti, il corso degli eventi ci depriva dello sforzo e del monopolio a cui per secoli ci si è assuefatti. Esso ci chiede di rinunciare volontariamente ai vantaggi di posizioni egemoniche conquistate, alle cattedre dalle quali governare o dettare legge al mondo. Rinuncia a servirsi della forza dei poteri costituiti, quando essi si prestano a tradurre nei codici statuali le direttive sacrali, etiche o valoriali della gerarchia ecclesiastica. È lo sfaldamento di una forma di cristianesimo, il regime di Cristianità, nata da un’autorappresentazione della Chiesa come unica mediatrice dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, un’agenzia di valori perenni e universali, «al cui interno si aveva la garanzia sociale e culturale di abitare il campo della verità» (De Certeau, Debolezza del credere, 2006, p. 281. «Questo travaglio ci potrebbe intonare con lo spirito di pietà per ogni umana vicenda, magari piena di crepe, ad immagine di un Dio crocifisso, ridotto a nulla, accomunatosi ai molti crocefissi della storia... Eppure, in quel vinto, in quel sommerso che s’impatta con il negativo, che si fa carico del dolore innocente, si manifesta tutta la passione consumante ed eccedente, folle e delirante del divino, la sua consumazione eucaristica a favore del mondo. Un Dio affidabile che si affida alla singolare e libera ricettività di ciascuno, alla responsabilità personale che offre la propria carne come spazio incarnatorio, senza previa garanzia, tutela 8


o copertura istituzionale contro il rischio...Âť (I. Nicoletto, Transumananze, 2008, p. 38).

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Come forestieri ...perchÊ il cristianesimo è diventato estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo a cura di don MARCELLO FARINA

Le riflessioni sono state tenute presso la Parrocchia S. Pio X di Canova (Gardolo - Trento)


4.AVER CURA DELL’AMORE: UNA COMUNITÀ ACCOGLIENTE. Canova, 18 marzo 2011

1.

Alla ricerca dell’«altro»

C’è un bel testo ne I Racconti dei Chassidim di Martin Buber, che vorrei mettere a capo di questa riflessione. Esso narra di un’esperienza capitata a Moshe Löb, un ebreo polacco, attento indagatore della Scrittura antica. «Come bisogna amare gli uomini, l’ho imparato da un contadino – egli ci ricorda –. Questi sedeva in una mescita con altri contadini e beveva. Tacque a lungo come tutti gli altri, ma quando il cuore fu mosso dal vino, si rivolse al suo vicino dicendo: “Dimmi tu, mi ami o non mi ami?” Quello rispose: “Io ti amo molto”. Ma egli disse ancora: “Tu dici: io ti amo e non sai che cosa mi affligge. Se tu mi amassi in verità, lo sapresti!” L’altro non seppe che cosa rispondere, e anche il contadino che aveva fatto la domanda tacque come prima. Ma io compresi: questo è l’amore per gli uomini, sentire di che cosa hanno bisogno e portare la loro pena» (M. Buber, op. cit., p. 406). Da oltre un secolo le figure più emblematiche della dedizione agli altri, nel nostro mondo carico di ingiustizie e di povertà e, insieme, di slanci e di generosità assolutamente gratuiti, fanno riferimento alla fede in Gesù di Nazareth, come fondamento della loro testimonianza: da Martin Luther King a Oscar Romero, da Desmond Tutu a Madre Teresa di Calcutta, da Suor Emmanuelle a l’Abbé Pierre, fino a tante donne e uomini anonimi, che hanno riconosciuto nel Cristo, come ha scritto Dietrich Bonhöffer, «l’uomo per gli altri». È proprio l’Abbé Pierre che afferma: «Quando noi cristiani ce ne andiamo per il mondo dicendo il Padre Nostro, questa preghiera dell’Uomo a Dio dovrebbe farci capire la preghiera che Dio rivolge all’Uomo e che dovrebbe risuonare in continuazione nella nostra anima: “E gli altri? e gli altri? e gli altri?”» (Messaggio di Natale 1970).

2.

A partire da Matteo 25, 31-45

Ciò che va immediatamente osservato, è il fatto che il grande brano evangelico del «giudizio finale», come viene chiamato, non ha lo scopo di mettere davanti ai suoi lettori, l’elenco dei bisogni dell’uomo, ma la solidarietà di Dio nella persona di Gesù di Nazareth. Lungo la sua vita egli fu rifiutato, perseguitato e crocifisso, condividendo la debolezza dei diseredati. E anche ora, nella sua gloria, continua a vivere sconosciuto sotto le spoglie dei «suoi piccoli fratelli». È questa, e non altra, la radicale novità della solidarietà evangelica. Altre pagine bibliche raccomandano – per fare un esempio – di ospitare il forestiero, ma solo Gesù afferma di identificarsi con il forestiero: «Ero forestiero e mi avete accolto». E questo vale per tutto il resto: «Avevo fame... sete...; ero malato... carcerato... nudo...» (Matteo 25, 34-36). Commenta l’Abbé Pierre: «Nel giorno decisivo, quello del giudizio, vedendo il nostro senso di sufficienza e pesando invece la nostra insufficienza, la domanda che ci sarà rivolta dal Signore non sarà tanto: “Sei stato credente?”, quanto piuttosto: “Sei stato credibile?” Bisogna ripeterlo ancora una volta: è la miseria che giudicherà e farà da arbitra ai destini della terra, come pure ci giudicherà quando compariremo davanti a Dio. Come ci assicura il Vangelo, in quel giorno il Signore dirà a ciascuno di noi: “Avevo fame, avevo freddo... Do2


vunque o in qualsiasi secolo tu sia vissuto, quelli che accanto a te avevano fame, avevano freddo e piangevano, erano Me”» (da La voce degli uomini senza voce, 1990). Tornando al brano evangelico, si può riconoscere che il significato del verbo «accogliere» dice di più di un semplice segno di aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Ad es., accogliere lo straniero è fargli spazio nella propria città, nelle proprie leggi, nella propria casa, nel proprio tempo e nel giro delle proprie amicizie. Ma c’è di più. La solidarietà del «giudice divino» con gli affamati, gli ammalati ecc. ecc., ha una radica teologica: è la trascrizione storica e visibile dell’accoglienza di Dio. Non soltanto un gesto di salvezza in favore dei bisognosi (o dei peccatori), ma ancor più e più profondamente, un gesto di rivelazione: la solidarietà di Gesù «giudice» è lo specchio del volto di Dio. La signoria di Dio si manifesta e prende volto in una società nella misura in cui questa assume tratti umani, a ogni livello, persino al livello dei rapporti economici. È solo quando traduce la solidarietà di Dio in solidarietà tra gli uomini, a tutti i livelli, che la comunità cristiana diventa veramente di Dio: un popolo, cioè, che ridisegna una convivenza in cui Dio può mostrare il suo volto: «Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate dunque il forestiero» (Deuteronomio 10, 17-19). Mi sembra molto bello quello che scrive in questo contesto Bruno Maggioni: «La solidarietà per la Bibbia non è una semplice necessità antropologica, né semplicemente una categoria morale, bensì una categoria teologica (non riguarda semplicemente un “valore” morale – bontà o giustizia – ma ne va della stessa immagine che si ha di Dio!). Per questo la solidarietà cristiana guarda a Dio e non solo all’uomo. Per questa sua eccedenza la solidarietà cristiana, che si misura su Dio, non si identifica mai con nessun progetto di solidarietà, ma allarga e movimenta ogni progetto! La solidarietà biblica non poggia (almeno principalmente) su un bene che gli uomini già possiedono in comune, ma su un di più che è Dio stesso. Un di più che è sopra e in avanti. Per questo la solidarietà biblica è essenzialmente dinamica. Non si è solidali per conservare, o solo per conservare, ma per tendere verso un fine. Tutto questo ha la sua importanza. Per esempio la frase (biblica ed evangelica) “gli uni gli altri” non dice solo un legame da conservare o costruire, ma anche (e soprattutto) una “diversità” da rispettare, un “oltre” a cui tendere in un comune movimento in avanti. Il fondamento ultimo della solidarietà non è qualcosa di semplicemente umano (interessi o bisogni reciproci), né semplicemente qualcosa di Dio che già possediamo in comune (e che ci fa uguali), ma Dio stesso che è oltre e resta altro. Paradossalmente la solidarietà non poggia su ciò che è comune, ma su ciò che è altro» (in Radici e figure bibliche della solidarietà). 3.

Gesù di Nazareth, «una vita donata»

Occorre rileggere l’evangelo. Lì Gesù di Nazareth appare come un’esistenza fraterna e filiale nel grande soffio di vita che noi chiamiamo Spirito Santo. Egli testimonia di un Dio che è in Cristo stesso comunione e fonte di comunione. È questo modo di essere, questa esistenza personale in comunione il suo apporto al cuore del mondo ed egli ce ne fa dono in germe, trionfando, con la sua risurrezione, sulle forze della separazione e del nulla. Egli rifiuta ogni contrapposizione fissa tra iniziati ed esclusi, tra buoni e cattivi. Sostituisce, al fondo della storia delle donne e degli uomini, l’angoscia della morte con la gioia della risurrezione, in modo che essi non abbiano più bisogno di nemici per farne dei capri espiatori delle loro paure. L’evangelo di Gesù di Nazareth pone la persona e la comunione tra le persone al di sopra di ogni sistema, di ogni idea, anche del bene. Gli ideologi invece – e soprattutto forse gli ideologi delle religioni – vogliono imporre il bene con la forza, al limite con la morte. Gesù irradia, con il rispetto e con l’amore, la pie3


nezza della vita. «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Marco 2, 27). Gesù va dritto al cuore, alla persona, svela il volto al di là della maschera, la maschera del partigiano nello «zelota», del collaboratore nel pubblicano, dell’eretico nel samaritano, dell’impurità nella donna adultera o nella samaritana che ha avuto cinque mariti e vive con un uomo che non è suo marito. Nella forza dello spirito, l’uomo intuisce da quel momento in Cristo che gli altri esistono. Si rifiuta di strumentalizzarli, di etichettarli: «Non giudicate e non sarete giudicati» (Luca 6, 37). Nella prospettiva evangelica il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Quel potere si identifica con l’assoluto dono di sé; il «Dio incarnato» è colui che dona la propria vita per i suoi amici e prega per i suoi carnefici. Il potere di Cristo, potere della fede e dell’umiltà, si esprime solo come «servizio». Il testo decisivo, su questo punto, è quello di Luca 22, 25-27: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Infatti, chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve!» Come annota Paolo Ricca, la «diaconia» di Gesù non consiste soltanto nel trarre fuori la persona umana dalla propria angoscia, ma consiste anche nel mettersi al posto dell’essere umano in distretta: «Ho avuto fame...», come abbiamo già colto precedentemente. Mi sembra bello e opportuno, in questo contesto, di inserire un’ulteriore riflessione del grande teologo valdese, sui compiti specifici della «diaconia» cristiana. Secondo Paolo Ricca ci sono tre compiti importanti, che vengono espressi da tre verbi: vedere, dire, fare. Vedere – Ho detto che il diacono è un servitore per la persona umana. Ora, per servire la persona umana, è necessario innanzitutto vederla. Sembrerebbe facile, ma non è così. Si vede il colore della pelle, questo è facile, ma vedere la persona dietro quel colore è difficile. Si riconosce immediatamente lo straniero che è venuto a vivere in mezzo a noi, ma riconosciamo solo con un grande sforzo la persona che c’è dietro questo straniero. Per vedere l’essere umano al di là della classe, della razza, della nazione, della religione, della cultura, l’occhio fisico non basta. Abbiamo bisogno dell’«occhio della diaconia». Solo l’occhio della diaconia vede la persona umana. Vedere con quell’occhio è questione di apprendimento. La diaconia è l’occhio di Dio nella società. Dire – La diaconia ha un duplice compito e svolge un duplice ruolo: il ruolo del servitore, ruolo attivo e silenzioso; e il ruolo dell’avvocato, un ruolo del dire a voce alta. Fino a oggi la diaconia ha svolto principalmente, se non esclusivamente, il ruolo del servitore. È ora che si assuma anche il ruolo di avvocato in relazione costante con quello di servitore. La diaconia deve imparare a parlare. Deve prendere la parola come avvocato dei poveri, come voce dei senza-voce, come portavoce di tutti coloro ai quali non è mai stato permesso di parlare. Se Gesù ha dato la parola ai muti, la diaconia fa la stessa cosa nella società attuale. Essere l’avvocato dei poveri non significa che la diaconia parli al posto dei poveri, ma che lascia parlare i poveri. Di fatto, la diaconia non dice nulla, ma i poveri parlano attraverso la diaconia. In questo senso la diaconia è al servizio della democrazia, costituisce uno spazio nel quale i poveri hanno la parola. Non è uno strumento secondario per la democratizzazione della società. Fare – Il terzo compito della diaconia cristiana è chiaramente il fare. Che cosa deve fare la diaconia cristiana? Questo non può essere stabilito in maniera generale perché varia da chiesa a chiesa, da un paese all’altro, da un luogo all’altro. Nell’Europa di oggi, nel quadro 4


dello «Stato sociale», potremmo dire questo: la diaconia cristiana deve fare tutto ciò che corrisponde a una vera angoscia umana e che non anestetizza la coscienza sociale dello Stato. La diaconia cristiana non deve diventare un alibi per lo Stato, in modo tale che trascuri i suoi impegni sociali e ridiventi uno Stato pre-sociale. È meglio che la diaconia cristiana faccia ciò che non è ancora stato fatto né ancora detto. (in P. Ricca, Grazia senza confini, Claudiana, 2006, pp. 49-50).

4.

Una cultura ambivalente: tra negazione e riconoscimento dell’«altro»

Vorrei soffermarmi, ora, per un attimo, senza un approfondimento, che in un altro contesto sarebbe doveroso, a riflettere sul tema della «crisi» della sensibilità, dell’attenzione nei confronti dell’«altro», tipica della nostra epoca e, contemporaneamente, accennare a una cultura che, se pur minoritaria, tenta di presentare con immagini straordinarie, il riemergere di concetti come «ospitalità», «alterità», «giustizia», «volto» ecc. ecc., per farli diventare punti di riferimento per un’etica «nuova», aperta al futuro. a) La «pars destruens», come la si potrebbe chiamare, riguarda la «crisi culturale», che mette in evidenza l’agonia della «cultura del prossimo», dell’altro, dello straniero, l’ondata xenofoba, la perdita del senso comune di appartenenza alla famiglia umana e la «crisi spirituale» che si manifesta nella difficoltà a immaginare un avvenire, il crepuscolo dei valori «forti» (giustizia, libertà, verità, pace), l’assenza di parole d’ordine collettive in grado di mobilitare e motivare, la perdita dei sogni, l’indifferenza di fronte al fatto della vita. E ad esse vanno aggiunte sia la «crisi sociale», che porta con sé l’incapacità di distribuire con equità la ricchezza del mondo (con la conseguente fragilità dello «spirito democratico») e la «crisi ecologica», messa a tacere fino al giorno in cui sarà troppo tardi. b) Eppure il nostro tempo si lascia affascinare anche da pensieri e riflessioni che lasciano intravedere piccoli spazi di speranza, una «capacità di futuro» non fasulla o campata in aria, proprio legata alla riscoperta dell’«altro», della «prossimità», del primato della giustizia. Qui è possibile solo un accenno, a partire da due autori che vengono scelti da me come testimoni qualificati di questo «pensiero dialogico», come viene oggi chiamato un ricco comporsi di riflessioni e di persone, attente a diffondere questa «nuova» sensibilità. Essi sono Emmanuel Levinas e Dietrich Bonhöffer, filosofo il primo, teologo il secondo, straordinari interpreti della ricerca dell’«altro». Riferendosi alla cultura diffusa del nostro tempo Levinas scrive: «A un soggetto rivolto verso se stesso, a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il desiderio dell’Altro... di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio nemico... né il mio complemento...». Per lui si tratta di ripartire dall’«esterno», dalla realtà della sofferenza e dell’ingiustizia, invece che dall’«interno» della superba superiorità dell’Io assoluto e solitario. La scoperta dell’altro come trascendente e inintegrabile nelle mie categorie, nei miei valori e nei miei progetti, la capacità di ascoltarne l’appello, «deve» portare all’assunzione di responsabilità personale di fronte alla situazione estrema, ultima, provocatoria, del «faccia a faccia» dell’altro. Lì la giustizia diventa la prima delle virtù, scavalcando perfino l’amore, perché «la presenza d’altri è la fonte di ogni significato», che la vita possa offrire a ciascuno senza sconto alcuno. Non da meno è il rigoroso pensiero di Dietrich Bonhöffer a proposito dell’«altro». Egli scrive: «In quest’epoca movimentata corriamo in ogni istante il rischio di perdere di vista la ragione per la quale vale la pena di vivere. Crediamo che l’esistenza di questo uomo o di 5


quest’altro diano un senso alla nostra vita; ma la realtà è un’altra: se la terra è stata giudicata degna di portare l’uomo Gesù Cristo, se è vissuto un uomo come Gesù, allora vale la pena che noi viviamo, noi e gli altri uomini». Per Bonhöffer il discorso sull’etica (sul come «stare al mondo») si trasferisce totalmente sulla persona di Gesù di Nazareth, da lui definito, come si è già ricordato, «l’uomo-per-gli-altri». E questo vale anche per la Chiesa, perché lo stesso Bonhöffer ribadisce che «la chiesa è chiesa soltanto se esiste per gli altri». Il ruolo proprio del mandato-chiesa consiste nel testimoniare che la «realtà, per quanto multiforme, è tuttavia in ultima analisi una, e precisamente nel Dio divenuto uomo, Gesù Cristo». Ciò porta Bonhöffer ad affermare che «non esiste alcuna parte del mondo per quanto perduta ed empia che non sia stata accolta in Gesù Cristo da Dio e non sia con lui riconciliata. Chi guarda con fede il corpo di Gesù Cristo non può più parlare del mondo come se esso fosse perduto, come se fosse separato da Cristo, non può più separarsi, con alterigia clericale, dal mondo. Il mondo appartiene a Cristo e solo in Cristo esso è quello che è». E poi conclude: «Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è la fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, e si diventa cristiani».

5.

«I poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)

Vorrei concludere, rievocando la famosa frase di Gesù, pronunciata nella casa di Simone, durante il banchetto, cui egli stesso era invitato. Il racconto, come si sa, è tutto incentrato sulla figura di Maria, la donna che versa sui piedi di Gesù l’unguento profumato di grande valore, suscitando le rimostranze di Giuda Iscariota, il discepolo che fa notare che «si poteva vendere questo unguento per trecento monete d’argento e poi distribuirle ai poveri» (Gv 12, 5). Perché sciupare tanto denaro, per onorare un corpo? Non è, qui, forse celato un significato non facile da individuare, ma straordinario? Solo quella gratuità inconcepibile poteva essere come la condizione, valida poi per tutte le donne e gli uomini della storia, senza la quale è anche impensabile una rinnovata attenzione ai poveri! Certo, occorre anche qui tenere presente quello che si diceva sopra: che i nostri non sono tempi favorevoli ai poveri. Da un lato c’è apprezzamento per il servizio al povero, delle forme di aiuto da prestare, delle figure di volontariato e di dedizione, del compito anche dei cristiani in questo campo, ma, dall’altro, c’è una cultura dell’identità che rifiuta il diverso, che lo sente come una minaccia, che lo marginalizza dai circuiti della vita quotidiana; e, soprattutto, c’è una cultura del benessere che non vuole mettere in discussione i criteri e i comportamenti di una società dell’accumulo, della crescita, del progresso, dell’ottimizzazione... E se vuol raccomandare l’attenzione al povero (si pensi solo a chi viene da fuori) deve far risultare che è una «risorsa», che senza di lui non potremo svolgere alcuni lavori... È lo stesso atteggiamento che abbiamo nei confronti della sofferenza e della malattia; trattiamo solo quella di cui riusciamo a venirne a capo, che pensiamo di superare e guarire. Prima di «far del bene» ai poveri, occorre riconoscere che essi sono anzitutto un «appello» a noi, al nostro stile di vita, ai criteri del nostro vivere sociale. Essi sono un invito a credenti e ai cercatori di Dio a cercare quell’unico bene che sazia il desiderio dell’uomo e a condividere gli altri beni, 6


affinché nessuno resti fuori dalla sala del convito. E dunque indicano anche il «compito» di vivere l’esperienza cristiana come uno spazio che sente i poveri, i piccoli, e tutte le altre forme di emarginazione nel grembo della propria casa, al centro della comunità. Stando con i poveri, condividendo la loro esistenza, le loro fatiche e le loro lotte, anche lo stesso vangelo acquisterebbe autenticità e rilevanza. Una cura dei bisogni intesa in modo solo materiale, senza leggere in essi una domanda più radicale, senza ascoltare l’appello a un bene più grande, di cui a sua volta il credente è solo testimone e non proprietario, non apre né il singolo, né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare! Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. I poveri sono il libro dove io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione. I poveri sono un frammento dell’evangelo, che rimanda all’evangelo in pienezza; essi ci chiedono di accoglierlo nella sua integrità, di introdurli nella casa della libertà fraterna, nello spazio della comunione, ci chiedono di fare la Chiesa come comunità fraterna. Un tempo l’elenco dei poveri della comunità era conservato gelosamente sull’altare, accanto all’Eucaristia e ai libri della preghiera: da queste tre realtà nasceva ogni giorno la comunità cristiana. Forse si potrebbe ricostruire quella quotidiana «trinità», per cooperare con tutte le donne e gli uomini, interessati a costruire insieme l’accoglienza e la condivisione, un mondo di giustizia, di libertà, di pace.

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