I cattolici nella storia d'italia

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MARCELLO FARINA

Breve storia del movimento cattolico in Italia dall’Ottocento al Concilio Vaticano II

Parrocchia s. Pio X - Canova (Trento)


DAL CONGRESSO DI VIENNA ALL’OPERA DEI CONGRESSI CAPITOLO I

(1814/15 - 1874)

1.

Introduzione

«La Rivoluzione francese – affermava all‟inizio del secolo XIX il cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII – ha fatto nel campo politico e morale ciò che il diluvio fece nel fisico, cambiando la faccia della terra». Se ciò è vero in senso generale, come confermano gli studiosi di storia e le persone attente a cogliere il significato dei grandi eventi che essa racconta, lo è ancora di più, si può dire per il mondo «cristiano» e «cattolico», cioè per quel grande fenomeno storico, dai mille volti e dalle mille esperienze, qual è il Cristianesimo (e il Cattolicesimo) in Occidente, sia dal punto di vista dottrinale, sia da quello istituzionale propriamente detto. Il balzo in avanti della secolarizzazione, cioè della laicizzazione della società e della politica europea, sul finire del secolo XVIII e l‟inizio del XIX, non solo ha determinato un nuovo tipo di rapporto tra gli Stati e le Chiese, ma anche obbligato i cristiani (i cattolici) all‟interno delle loro istituzioni a «rivedere» profondamente il loro rapporto con la società civile e con l‟istituzione politica, dando ai laici, per esempio, una opportunità e un ruolo impensabili appena qualche decennio prima. Se tutto, in antecedenza, discendeva dall‟alto, cioè dall‟istituzione, dalla gerarchia ecclesiastica, ora è «il basso» che scopre un suo ruolo caratteristico e originale nel suo confronto con il mondo secolarizzato, lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese soprattutto nel campo sociale e politico. Si potrebbe dire che il processo di laicizzazione esteriore delle società e degli Stati ha portato alla ribalta la «necessità» di un nuovo ruolo dei laici dentro le Chiese e la nascita di una «coscienza» più vera e autentica della loro presenza dentro la comunità, non più come «sudditi», come affermava il cardinal Bellarmino, riferendosi all‟immagine di chiesa del Concilio di Trento, ma «cittadini» a tutti gli effetti, come già affermava alla fine del secondo secolo dopo Cristo la splendida Lettera a Diogneto. In realtà, il processo di trasformazione della società europea durava, come si può immaginare, da più antica data. Già la Riforma luterana aveva segnato la fine dell‟unità cristiana medievale; l‟Illuminismo, poi, aveva visto affiorare più radicali critiche alla stessa fede religiosa; la Rivoluzione industriale, infine, aveva impresso un‟accelerazione straordinaria non solo ai modi di produzione della ricchezza, ma aveva rivoluzionato l‟assetto sociale, introducendo nuovi modelli di vita (la classe operaia) e nuovi problemi di giustizia sociale, con un dinamismo assolutamente impensabile per tutta la storia precedente. Così, all‟inizio dell‟Ottocento, il mondo cristiano (e, per noi, specificatamente, il mondo cattolico) è stato messo di fronte alla necessità di «dover fare i conti» con un mondo diverso, immerso in una crisi di crescita e di discernimento gigantesca e difficile da interpretare. La Rivoluzione francese divenne la «cifra» di riferimento privilegiata, considerata sia come punto di arrivo di tutta la mentalità moderna, sia come punto di partenza, cioè nuovo angolo di visuale per una rivalutazione delle realtà umane, politiche, economiche, sociali e culturali. 2


2.

I cattolici di fronte alla Rivoluzione francese

In particolare si può dire che i cristiani (e in modo specifico, i cattolici) europei si posero di fronte alla Rivoluzione francese con tre atteggiamento diversi: a) il primo è quello interpretato dai cosiddetti «teorici della Restaurazione» (che, poi, diventeranno, dal punto di vista operativo i cosiddetti «cattolici intransigenti»), per i quali la Rivoluzione francese era l‟ultimo atto, quello conclusivo e catastrofico, di un mondo dominato dall‟eresia e dall‟errore. Erronea era l‟idea di sovranità popolare; erroneo il concetto di costituzione, intesa come patto stretto tra cittadini; erronee tutte le dottrine liberali, sbandieranti i diritti del cittadino e la libertà di coscienza, quest‟ultima in particolare riconosciuta come l‟elemento più negativo e pernicioso della mentalità moderna. Certo, nessuno, dopo la Rivoluzione, pensò che la restaurazione potesse o dovesse essere un ritorno puro e semplice all‟Ancien régime. Anche chi guardava al passato, per trarne norma per il futuro, come il conte savoiardo Joseph De Maistre (1753-1821), era convinto che di ben altro si trattasse: «Secondo il mio modo di vedere – scriveva – il progetto di mettere il lago di Ginevra in bottiglia è molto meno folle di quello di ristabilire le cose proprio sulle stesse basi in cui esse si trovavano prima della rivoluzione». Ma proprio De Maistre, nella sua opera più importante, Il Papa (1819), sosteneva che la restaurazione, di cui l‟Europa aveva bisogno, doveva essere una restaurazione religiosa, anzi cattolica, ridando al Papato la funzione di giudicare l‟operato dei monarchi alla luce delle verità e delle consuetudini cristiane, travolte dal pensiero illuministico e dalla stessa rivoluzione francese. Si trattava di ritornare a una «monarchia cattolica», di tipo medievale, prodotta dalla azione civilizzatrice svolta dal Papato (di cui De Maistre, in anticipo sui tempi, riconosceva il primato e l‟infallibilità), considerato, oltre il resto, il miglior garante dell‟indipendenza delle nazioni europee e specialmente dell‟indipendenza italiana (da lui affidata come compito ai Savoia, di cui era stato ambasciatore). La contrapposizione delle verità tradizionali presenti nel cattolicesimo agli «errori» della ragione individuale, origine delle libertà moderne, fu poi ripresa in termini ancora più drastici dai francesi De Bonald (1754-1840) e La Mennais (o Lamennais, 1782-1854). È proprio quest‟ultimo che afferma: «Senza Papa non vi è Chiesa; senza Chiesa non vi è Cristianesimo; senza Cristianesimo non vi è religione, né società». Solo la fedeltà della Chiesa al pontefice, e alla preminenza della Chiesa nella società avrebbero permesso un‟effettiva ricostruzione sociale e politica, in opposizione agli «errori moderni». Con Lamennais prendeva dunque forma teorica l‟ultramontanismo, cioè la tendenza a guardare «oltre i monti» (le Alpi), a Roma e al Papato, come al fulcro della restaurazione sociale e cattolica. Diversamente, però, da De Maistre, Lamennais pensava che il rinnovamento dell‟Europa non doveva passare attraverso una nuova alleanza tra trono e altare, ma tra altare e popolo, in un patto che liberasse addirittura la Chiesa da tutte le pastoie e le compromissioni politiche, così da far propria la causa di tutti gli oppressi, sia per motivi nazionali (irlandesi, polacchi, italiani), sia per motivi sociali (i ceti popolari sacrificati allo sviluppo capitalistico e all‟industrializzazione). Ma quest‟idea del collegamento tra altare e popolo avrebbe portato Lamennais a una seconda fase del suo pensiero, secondo la quale la Chiesa, per rompere con qualsiasi privilegio garantito dal potere politico, avrebbe dovuto accettare le libertà moderne, cioè i princìpi liberali della separazione della Chiesa dallo Stato, così da poter asserire che la verità cattolica si 3


sarebbe espansa, dimostrandosi l‟unica in grado di assicurare un ordinato sviluppo della società nel periodo postrivoluzionario. E il motto, coniato dal Montalembert, riportato sul giornale da lui fondato «L’Avenir» (1830), di «libera Chiesa in libero Stato» sarebbe diventato anche lo slogan del liberalismo italiano nel momento cruciale della ricerca dell‟unità politica della nazione. Ma proprio l‟iniziativa di Lamennais provocò la reazione negativa della gerarchia ecclesiastica e del Papato, che in quell‟epoca stava perseguendo una politica di incremento dei Concordati con i governi restaurati (dopo quello di Napoleone del 1801, concordati furono sanciti con la Spagna, con Napoli, con la Sardegna, con la Russia e con la Baviera), che paradossalmente contribuì a rafforzare il «centralismo» papale romano, garanzia non solo di purezza di dottrina, ma anche di libertà «politica» delle singole Chiese nazionali. L‟enciclica «Mirari vos» (1832) di Gregorio XVI (1830-46) venne a dichiarare che le libertà moderne non erano accettabili neppure come strumento, perché non si poteva mettere sullo stesso piano la verità cattolica con l‟errore, riconoscendo ad esempio la libertà di coscienza. Più generalmente si può affermare che i governi restaurati provvidero in blocco a formare una salda alleanza «politico-spirituale» tra trono e altare, con il riconoscimento pubblico per la Chiesa cattolica di insostituibile guida spirituale dell‟Europea. E in Italia da un lato la Chiesa riassunse una posizione unica nel controllo dell‟istruzione e della cultura e, dall‟altro, beneficiò di misure «riparatrici» da parte di molti governi nella direzione di un notevole rafforzamento della proprietà ecclesiastica. Fu, in pratica, il trionfo della Restaurazione. b) Il secondo atteggiamento è quello dei cosiddetti «cattolici liberali», i quali danno un giudizio positivo della rivoluzione francese, come l‟inizio di un‟epoca di libertà nei vari campi in cui essa avrebbe potuto crescere e svilupparsi. Come si ricordava sopra a proposito del „secondo‟ Lamennais (quello della svolta „liberale‟), per costoro la religione poteva addirittura essere considerata il più sicuro ed efficace baluardo contro lo strapotere dello Stato e, insieme, come un elemento capace di evitare con le sue dottrine e le sue tradizioni che la libertà si trasformasse in licenza e anarchia (e così alimentasse di nuovo la rivoluzione). «Alla base del cattolicesimo liberale c‟era la convinzione che le libertà costituzionali, se intaccavano la supremazia e i privilegi ecclesiastici, potevano offrire un fertile terreno di diffusione alla Chiesa e alla verità cattolica, come dimostrava l‟esempio degli Stati Uniti e dell‟Inghilterra. Per di più il cattolicesimo, accettando ed adattandosi alla nuova realtà (come si era adattato, nella storia, ai più diversi sistemi politico-sociali) poteva acquisire eccezionale forza storica, rinunciando a rimpianti anacronistici, e facendo proprie le nuove aspirazioni liberali e nazionali. Non a caso il cattolicesimo liberale ebbe un certo rilievo culturale, politico e civile sia nei paesi, come la Francia, dove più diffusa e generale era l‟aspirazione a un potenziamento del sistema costituzionale, sia nei paesi cattolici dove più forti emergevano le aspirazioni all‟indipendenza nazionale, come il Belgio, l‟Irlanda e l‟Italia» (in F. Traniello, Storia contemporanea, SEI, vol. 3°, p. 38). In Belgio, ad es., i cattolici liberali sostennero a spada tratta la costituzione del 1830. In Francia il liberalismo cattolico era sostenuto dal gruppo vivace di Montalembert (con la sua formula, citata, di «Libera Chiesa in libero Stato»!), di Chateaubriand, di Lacordaire, del vescovo di Orléans Dupanloup, osteggiato ovviamente dai sostenitori della Restaurazione. Anche in Inghilterra esso trovò terreno fertile nel Movimento di Oxford, che lavorava per una riforma della Chiesa anglicana in senso cattolico. A quel movimento appartenne il grande cardinale Henry Newman (1801-1890) che affermava con grande libertà: «Prima la coscienza, poi il Papa!», suscitando l‟opposizione del suo confratello, il cardinale Manning, uno tra i più accesi sostenitori del cattolicesimo intransigente.

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Anche in Germania i cattolici diventano i fautori di un rinnovamento in senso storicocritico della cultura cristiana, con la Scuola di Tubinga iniziata da G.A. Möhler e con la Scuola di Monaco animata da Ignazio von Döllinger. Ma il cattolicesimo tedesco si dedicò anche alla creazione di attività assistenziali e caritative, atte ad alleviare i danni dell‟ingiustizia e dello sfruttamento, resi più acuti dalla rivoluzione industriale. L‟uomo più significativo in proposito è certamente Wilhelm Emmanuel von Ketteler (1811-1877), arcivescovo di Magonza, il quale nell‟opuscolo La questione operaia e il Cristianesimo (1864), in altri scritti e con iniziative pratiche, si propose di affrontare da un punto di vista cristiano la condizione della classe operaia. Egli favorì iniziative come istituti assistenziali, casse di risparmio e di credito, ecc., sostenendo la necessità di equilibrare la proprietà, di fondare cooperative di produzione e di richiedere allo Stato interventi legislativi nei rapporti di lavoro. Rifacendosi a San Tommaso, egli sostenne che il diritto naturale alla proprietà ha un limite preciso nei suoi fini sociali e che lo sfrenato principio liberale dell‟uso indiscriminato della proprietà stessa mette in pericolo la società favorendo il socialismo. Ketteler auspicava che la pietà dei fedeli, la quale un tempo aveva reso possibile la nascita di chiese e conventi, finanziasse le cooperative di produzione secondo criteri corporativi medievali. Accanto a lui Adolf Kolping di Colonia, diventa «l‟apostolo degli apprendisti». In Italia «l‟incontro tra cattolicesimo e liberalismo servì a predisporre, presso l‟aristocrazia liberale, l‟alta borghesia, in larghi strati del clero, una mentalità religiosa che poneva in primo piano la responsabilità della coscienza individuale e un atteggiamento non malevolo verso la cultura e le conquiste della civiltà moderna. Pur diversi tra loro, Alessandro Manzoni, Raffaello Lambruschini, Antonio Rosmini, Ferrante Aporti, Gino Capponi, operarono per la conciliazione di un cattolicesimo rinnovato con l‟idea nazionale e i moderni princìpi di libertà... I cattolici-liberali italiani non solo dettero vita a una fioritura di studi storici, tesi a esaltare la funzione civilizzatrice della Chiesa medievale, ma si fecero in molti casi propugnatori dell‟educazione popolare, convinti che una più diffusa cultura andasse a tutto vantaggio di una religiosità più consapevole. Essi aspirarono, in modi più o meno aperti, a una riforma ecclesiastica, che liberasse la Chiesa dal temporalismo, dalle pericolose collusioni con i poteri politici, permettesse una più diretta partecipazione popolare ai riti e alla vita religiosa, restituisse ai beni ecclesiastici la loro originaria funzione di aiuto ai poveri e ai bisognosi. Il loro modello, come risulta dal capolavoro di Rosmini, Le cinque piaghe della S. Chiesa, scritto nel 1832 (ma pubblicato solo nel 1848) era la Chiesa dei primi secoli» (F. Traniello, op. cit., p. 44). Verso la metà del secolo XIX sembrò addirittura che il cattolicesimo liberale prendesse il sopravvento, quando salì sulla sedia di Pietro il cardinale di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che prese il nome di Pio IX (1846-1878). Data, infatti, la particolare situazione italiana, nella quale il Pontefice era simultaneamente anche capo di uno Stato, oltre che la guida della Cristianità, la sua elezione fu salutata come una vittoria del cattolicesimo liberale e addirittura del liberalismo favorevole alle riforme politico-istituzionali. Nacque, allora, una sorta di movimento a favore del Papa, il «piononismo», cioè la leggenda di un papa liberale e nazionale, cui diedero il loro appoggio anche uomini totalmente alieni da simpatie ecclesiastiche o clericali come Mazzini e Garibaldi. È in questo contesto che il riformismo liberale cattolico si trasforma in «neoguelfismo», cioè in un movimento politico che riconosce che «la civiltà italica si è sempre segnalata nella storia per il suo elemento religioso, rappresentato dal cattolicesimo romano ed espresso visivamente nella sede pontificia» (Vincenzo Gioberti). Gli esponenti più in vista di questo movimento che, ispirandosi ai guelfi medievali schierati dalla parte del Papa nella sua lotta contro l‟imperatore tedesco, riteneva che l‟unità d‟Italia potesse realizzarsi solo intorno alla figura 5


del Pontefice, garante dell‟indipendenza nazionale, furono Vincenzo Gioberti (1801-1851), Massimo d’Azeglio (1798-1866), Cesare Balbo (1789-1853) e Giacomo Durando (18071894) che, pur con diverse sfumature, alcune perfino avverse al mantenimento dello Stato pontificio (Cesare Balbo e il gruppo toscano dei neoguelfi: Lambruschini, Capponi, Ricasoli, e lo stesso d‟Azeglio), riconoscevano nella «civiltà cristiana» il collante necessario per il rinnovamento della politica. c) C‟è, infine, un terzo atteggiamento del mondo cattolico nei confronti della Rivoluzione francese, considerata sì come l‟inizio di un‟epoca di libertà, fraternità ed eguaglianza, ma, purtroppo, anche come l‟epoca in cui quei grandi ideali erano diventati appannaggio solo della borghesia, ricca e intraprendente, lasciando fuori le classi più umili e più disagiate come i contadini e gli operai. È questo il cattolicesimo democratico, decisamente minoritario, costituito da uno sparuto gruppo di credenti, il cui slogan era : «Il cristianesimo è la democrazia». Anche questo movimento si sviluppa soprattutto in Francia e in Belgio, animato da uomini come Charles de Coux, A. de Villeneuve, Gerbert, Bouchez, Maret, Leneveux, Corion, Pierre Leroux, che non rifiutavano alleanze con il nascente movimento socialista. Tra essi il rappresentante più significativo è Federico Ozanam (1813-1853), professore alla Sorbona di Parigi, che inaugura il movimento sociale cristiano, che si svilupperà prima in Germania, come abbiamo già visto, e poi anche in Italia nella seconda metà del secolo decimonono. Già il giornale «L’Avenir» (1830-1831), con Montalembert, Lamennais e Lacordaire – condannato da Gregorio XVI –, aveva caldeggiato una ristrutturazione «corporativa» delle forze del lavoro, che unisse le classi dei lavoratori e dei proprietari in nuovi rapporti solidaristici, contro l‟odio di classe e secondo esigenze di conciliazione reciproca. Ozanam, col fine di svelare la portata della questione sociale alle classi ricche e responsabilizzarle, fondò nel 1833 la Società di San Vincenzo de‟ Paoli, che riunì giovani borghesi e nobili con fini caritativi. Vi sono molti uomini – scriveva nel 1836 Ozanam – che hanno troppo e che vogliono avere ancora di più, ve ne sono ancora di più che non hanno abbastanza, che non hanno nulla, e che vogliono appropriarsi di quel che non si vuol dar loro. Tra queste due classi si prepara una lotta, una lotta che minaccia di essere terribile; da una parte la potenza del danaro, dall‟altra la potenza della disperazione. Ozanam riteneva che la lotta fra le classi sociali potesse essere evitata solo concedendo ai lavoratori la possibilità di associazione da un lato, dall‟altro richiamando le classi ricche ad un nuovo senso della propria responsabilità sociale fino alla formazione di unioni comuni di padroni e operai secondo il modello delle corporazioni medievali e sotto le direttive spirituali di un Cristianesimo aperto ai bisogni sociali.

3.

Dopo il 1848: tra «intransigenti» e «transigenti»

Se il periodo che va dal 1815, l‟anno del Congresso di Vienna, al 1848, l‟anno delle «rivoluzioni» in Europa, ha portato con sé un variegato dibattito sulle idee e sul ruolo dei cattolici dentro la storia segnata profondamente dalla rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale, coinvolgendo in esso uomini e donne dell‟intero continente, in un tentativo di pacificazione e di rinascita economica, sociale e culturale, dopo il 1848 il quadro ideologico e quello pratico di una presenza dei cattolici nella vita concreta degli Stati e delle persone muta profondamente, attraverso un fenomeno di semplificazione che può essere colto nella contrapposizione tra «cattolici intransigenti» e «cattolici transigenti», a seconda della disponibilità dei gruppi di assecondare o di costituirsi come alternativa al cammino delle diverse società civili e politiche in Europa. In una situazione di diffusa e crescente secolarizzazione e laicizzazione della società e della politica, i cattolici si divisero tra coloro che intendevano opporsi 6


e rendersi alternativi a tale processo per salvaguardare i «valori cristiani» o le istituzioni cattoliche (gli intransigenti) e coloro che, invece, intendevano collaborare con le donne e gli uomini che favorissero l‟espandersi dei «valori moderni» di libertà, partecipazione, democrazia, socialità, ecc. ecc. (i transigenti). In Italia tale semplificazione fu, per così dire, favorita da una situazione, di cui s‟è fatto cenno antecedentemente, cioè dalla presenza del Papato e dal suo ruolo politico nel nostro paese. Difendere il Papa, voleva dire anche difenderne il potere temporale? La libertà spirituale del pontefice era collegata alla sua indipendenza politica? Pio IX, dopo il fallimento tragico dell‟esperimento di Pellegrino Rossi, assassinato il 15 novembre del 1848 e la fuga a Gaeta, si lasciò facilmente convincere dal suo entourage, guidato dal cardinale Antonelli, a intraprendere la strada dell‟intransigenza, timoroso ad un tempo di accordare spazio a dottrine erronee e pericolose e di perdere, come alcuni andavano chiedendo, lo Stato pontificio, da lui e da molti cattolici intransigenti considerato fonte della libertà d‟azione stessa della Sede apostolica. È facile qui osservare come la questione del potere temporale del Papato assuma in questo periodo un significato che va al di là della semplice domanda sul ruolo del potere temporale del Pontefice poiché, per una Chiesa che si ritiene accerchiata e minacciata dall‟errore da ogni lato, esso viene caricato anche di una valenza che poté sembrare in quel tempo per molti una questione di vita o di morte, di libertà della Chiesa e del suo asservimento al potere degli Stati. L‟atteggiamento chiuso e ostile di Pio IX sulla questione del potere temporale era visto con preoccupazione dai cattolici liberali, alcuni dei quali erano uomini di governo (Ricasoli, Jacini, Minghetti), che intravedevano il danno della rottura tra la Chiesa e lo Stato nazionale. I cattolici intransigenti italiani invece, proprio prendendo lo spunto dalle vicende dello Stato pontificio e dalla politica ecclesiastica dei liberali (a incominciare dal Cavour, ecc.), riaffermarono dopo il 1850 l‟inconciliabilità tra cattolicesimo e «rivoluzione». a) Sul piano politico, gli intransigenti obbedirono alla volontà pontificia che i cattolici non partecipassero alle elezioni di uno Stato come quello italiano giudicato illegittimo e usurpatore (si ricordi il motto di don Giacomo Margotti, apparso sull‟Armonia dell‟8 gennaio 1861: «Né eletti, né elettori»; o si ricordi la più celebre formula del 1874: «Non expedit, attentis omnibus circumstantibus» il concorso alle urne politiche, il cui spirito però era già incominciato all‟indomani del discorso di Cavour alla Camera dell‟8 novembre 1860, dove egli ricordava che Roma doveva diventare la “splendida capitale d‟Italia”). A più lungo termine essi progettavano una riconquista cattolica della società, da attuarsi attraverso nuovi strumenti organizzativi (associazioni, iniziative sociali, stampa quotidiana, ecc.) con l‟intenzione di scalzare dal basso lo Stato liberale. b) Sul «piano dottrinale essi si avvalsero della condanna ecclesiastica dei princìpi liberali, nonché della reazione contro le tendenze innovatrici in campo cattolico, viste personificate da Rosmini, Gioberti e padre Ventura (di cui vennero messe all‟indice varie opere). In questo quadro prese maggior forza il neo-tomismo, che sembrava garantire alla dottrina cattolica un‟assoluta indipendenza dalle filosofie moderne» (l‟Enciclica Aeterni Patris di Leone XIII nel 1879 sancì questa scelta della Chiesa cattolica). c) Infine, sul piano istituzionale gli intransigenti accentuarono sempre più l‟autorità del Pontefice, proponendo una visione, per così dire, monarchica e centralistica della Chiesa. La Curia romana, nota il Bellu, durante il pontificato di Pio IX aveva assunto una consapevolezza sempre maggiore della sua funzione di centro vitale della Cristianità. Purtroppo, però, questo progresso dello spirito religioso era accompagnato da un regresso in campo intellettua-

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le e soprattutto da una preoccupante incomprensione del mondo moderno e della sua evoluzione. Contemporaneamente diminuiva l‟influenza del collegio cardinalizio nella direzione temporale dello Stato e nella direzione religiosa della Chiesa («Mai i cardinali hanno avuto tanta poca importanza, come oggi; la loro influenza è insignificante», notava l‟ambasciatore di Francia). I contemporanei sono concordi nell‟attribuire la responsabilità di questa situazione al cardinale Antonelli, il quale «ha visto rinnovarsi quasi interamente il sacro collegio e la sua più grande cura, con una preoccupazione un po‟ personale, è stata quella di scartare tutti gli uomini il cui merito potesse fargli ombra o la cui influenza avrebbe potuto controbilanciare il suo credito. E oggi l‟Antonelli appare chiaramente come colui su cui, più che su chiunque altro, cade la responsabilità della politica della Santa Sede relativamente al potere temporale. Era questo quindi l‟ambiente in cui viveva Pio IX: i suoi collaboratori erano in genere assertori dell‟intransigenza ed in questo senso influenzarono il Papa. Con il passare degli anni, si faceva purtroppo sempre più visibile la tendenza a identificare le disgrazie della Chiesa con i progressi delle forme di governo ispirate ai princìpi liberali». Tutto viene centralizzato da Roma: l‟educazione del clero, la cultura ecclesiastica (la nascita delle università pontificie contro le università laiche). La stessa vita delle diocesi e il loro governo vengono sottoposti a un più rigido controllo da parte della Santa Sede. Si consolida così la struttura ecclesiastica, ma si sacrificano le autonomie e le tradizioni delle Chiese locali. Tra il 1860 e il 1864 in tutta Europa il contrasto tra cattolici intransigenti e cattolici transigenti si fece ancora più aspro. Nel 1863 in un convegno di studiosi a Monaco di Baviera, il Döllinger, citato precedentemente, chiese esplicitamente a Roma il diritto alla libertà di ricerca. «Essa è altrettanto indispensabile – scriveva – quanto l‟aria per il corpo umano». È del 1863 anche il rilancio da parte di Montalembert, a Malines in Belgio, del suo slogan: «Libera Chiesa in libero Stato» e in Italia la stessa Civiltà cattolica, rivista dei Gesuiti dal 1850, nei confronti dei princìpi liberali, era arrivata a distinguere tra «tesi» (la loro condannabilità) e «ipotesi» (la sperimentabilità di una società liberale). Ma Roma era ormai orientata a una condanna globale di tutto il mondo «moderno». “Il culmine teorico di tutta questa azione fu l‟enciclica Quanta cura, emessa l‟8 dicembre 1864, nel decimo anniversario della proclamazione del dogma dell‟Immacolata concezione, a cui faceva seguito un‟appendice, il Sillabo, vale a dire un‟elencazione di proposizioni condannate dalla Chiesa: si affermava la reazione a tutti gli «errori» dei tempi moderni. Il proposito era quello, come si diceva all‟inizio dell‟enciclica, di «nutrire assiduamente tutto il gregge del Signore, imbeverlo di sane dottrine e rimuoverlo dai pascoli avvelenati». Pio IX condannava il principio democratico della «volontà del popolo», in quanto sovvertitore dei diritti divini di sovranità da parte delle legittime monarchie; definiva il socialismo e il comunismo «funestassimo errore», in quanto sovvertitori dei diritti naturali della proprietà; avvertiva i governi che «la podestà reale non è solamente conferita pel governo del mondo, ma specialmente a presidio della Chiesa». Fra le proposizioni condannate dal Sillabo erano lo spirito laico di ricerca, la libertà religiosa e di coscienza, la negazione del potere temporale, la scuola libera da interferenze religiose, la ribellione contro l‟autorità costituita, il liberalismo e il socialismo. Si condannavano irremissibilmente proposizioni come le seguenti: XIV. La filosofia vuolsi trattare senza avere nessun riguardo alla rivelazione soprannaturale. XV. Ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione, che, col lume della ragione, reputi vera. XXVII. I sacri ministri della Chiesa e lo stesso Romano Pontefice debbonsi al tutto rimuovere da ogni cura e dominio delle cose temporali. 8


XLII.

Nel conflitto fra le leggi delle due potestà [lo Stato e la Chiesa] prevale il diritto civile. XLV. Tutto il regime delle pubbliche scuole [...] può e deve essere affidato alla civile autorità [...]. LXIII. È lecito negare obbedienza ai legittimi Principi, anzi ribellarsi a loro. LXXVII. Ai tempi nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto. LXXX. Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione. Questa dura affermazione dell‟ortodossia cattolica in termini di assoluta intransigenza non mancò di provocare fra gli stessi cattolici effetti contrastanti: ne furono entusiasti i cattolici più conservatori, mentre i cattolici liberali ebbero l‟impressione di sentire suonare a morto. Ai liberali anticlericali la Chiesa parve ora più che mai la sede prima dell‟oscurantismo antimoderno. Persino governi come quello di Napoleone III, così legato ai cattolici, non gradirono l‟enciclica e il Sillabo. Ma Pio IX, convinto che la Chiesa potesse sopravvivere solo con la più forte rivendicazione dei propri princìpi, proseguì nella sua tendenza, fino alla proclamazione dell‟infallibilità pontificia, ritenuta necessaria al fine di dirigere in modo adeguatamente centralizzato l‟opera di reazione alle tendenze «moderne». L‟8 dicembre 1869 venne convocato a Roma un Concilio ecumenico, che il 18 luglio 1870 proclamò che le decisioni emanate dal papa «ex cathedra» in materia di fede e costumi dovevano essere considerate infallibili, indipendentemente dall‟approvazione dei concili ecumenici: il che stava a significare la piena, assoluta vittoria del papalismo nella lotta iniziata fin dal terzo secolo fra questo e l‟episcopalismo. Le resistenze esistenti fra parte dei vescovi vennero fatte cadere e la nuova dottrina diventò una delle colonne fondamentali della Chiesa” (M.L. Salvatori, Storia dell’età contemporanea, ed. Loscher, vol. 1°, pp. 316-318). Detto con altre parole, per la Chiesa di Pio IX il rafforzamento istituzionale (cioè il consolidarsi dell‟organizzazione ecclesiastica intorno all‟autorità del pontefice) e il successivo impegno cattolico per la riconquista del mondo moderno a tutti i livelli, erano due momenti di uno stesso programma: quello di una «ricristianizzazione» dell‟Europa, che poneva la Chiesa in concorrenza e in lotta con ideologie, istituzioni e organizzazioni giudicate ad essa estranee ed ostili. A questo fine tutti i cattolici erano impegnati e, se pur strettamente sottoposti all‟autorità gerarchica centrale, vescovi e laici avrebbero dovuto contribuire, con il loro apostolato, alla riconquista civile e sociale del mondo moderno. È da qui che nasce il cattolicesimo sociale negli ultimi decenni dell‟Ottocento, di cui si parlerà nel prossimo capitolo. A fare da apripista a questa straordinaria attività del mondo cattolico va qui ricordata l‟azione degli «apostoli della carità», volta a provvedere all‟elevazione del popolo, soprattutto con istituzioni assistenziali e l‟istruzione professionale: tra questi il Cafasso, il Cottolengo e don Bosco in Piemonte; i Cavanis a Venezia; le Canossiane a Verona e a Trento; i Pavoniani a Brescia; G.N. de Tschiderer a Trento per i sordomuti; Lodovico da Casoria a Napoli; si svilupparono anche in Italia le Conferenze di S. Vincenzo e le Società di mutuo soccorso. Dal punto di vista politico, poi, va tenuto presente che nel decennio 1860-1870, dopo l‟unità d‟Italia, si prepara il definitivo disfacimento dello Stato pontificio, compiuto con la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870. la Legge delle Guarentigie del 1871, che avrebbe dovuto conciliare i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, viene rifiutata da Pio IX, aprendo così un “contenzioso” che avrebbe pesato sulla storia italiana per lunghi decenni.

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I cattolici trentini nel periodo della Restaurazione fino al «non expedit» del 1874 Mi sembra importante fare un accenno anche alla storia trentina dell’Ottocento, nel tentativo di mettere in evidenza l‟apporto dei cattolici ad essa, in un contesto che, come è facile comprendere, è per un lato simile a quello dei vari territori europei di fronte ai fenomeni di restaurazione politica e culturale dopo il Congresso di Vienna e, per un altro lato, profondamente diverso da quanto abbiamo descritto in riferimento alla situazione italiana. Dal 1803 in avanti, con la fine del potere temporale del vescovo di Trento, si può dire che il Trentino, diventato ormai parte della contea principesca del Tirolo (tranne il periodo bavarese e quello “italiano” - 1805-1813) orbita all‟ombra dell‟Impero asburgico, delle cui vicende politiche, sociali e culturali è pienamente partecipe fino al 1918. Paradossalmente proprio questo fatto mette la Chiesa trentina nella condizione di essere parte integrante della struttura dello Stato e della contea principesca del Tirolo, secondo forme di rappresentanza che dureranno per tutto il secolo XIX, pur con variazioni legate all‟evolversi della stessa storia dell‟Austria. La costituzione tirolese, ad es., prevedeva nella Dieta una rappresentanza per «ceti», che portava con sé anche tre rappresentanti del clero (il vescovo, un canonico, l‟arciprete di Arco), più gli altri deputati dei nobili, delle città e dei contadini. E i Trentini, all‟inizio, si affidarono senza alcuna recriminazione a questo assetto, che poneva fine ad anni di turbolenze, di guerre, di miseria. I vescovi di Trento di questo periodo, Francesco Saverio Luschin (1823-1834), Giovanni Nepomuceno de Tschiderer (1834-1860) e Benedetto de Riccabona (1861-1879), tutti eletti dall‟imperatore d‟Austria, manifestarono sempre nella loro azione pastorale una sostanziale sintonia con la politica asburgica, attraverso un lealismo ribadito nel tempo. Soprattutto nel primo periodo, fino al 1848, il mondo cattolico trentino operò compatto con le direttive di Vienna, che assicuravano al clero una funzione di controllo nel settore scolastico e civile. Se si vuole, si può dire che solo la presenza di Antonio Rosmini a Trento e a Rovereto, dal 1832 al 1835, turbò un poco la monotona vita delle istituzioni ecclesiastiche del territorio. A partire dal 1848 il clima mutò velocemente di fronte agli eventi che toccarono direttamente anche il Trentino, sull‟onda di quanto accadeva in Europa e a Vienna. Il vescovo Tschiderer intervenne nel marzo del 1848 a placare la folla che voleva saccheggiare i magazzini del grano e del tabacco e, in seguito, dopo la promulgazione della Costituzione, il 25 aprile 1848, da parte dell‟imperatore Ferdinando, egli chiese un parere su di essa a tutti i decani della diocesi, i quali fecero obiezioni sugli articoli 17 e 31 sulla libertà di culto e di coscienza e sull‟articolo 19 sulla libertà di parola e di stampa. Sempre il Tschiderer dovette difendere presso il commissariato di polizia di Trento alcuni preti che avevano manifestato la loro simpatia per il movimento nazionale italiano. Tra costoro l‟uomo più significativo fu l‟abate Giovanni a Prato (1812-1883), che fondò il «Giornale del Trentino» nel 1850, trattando in modo aperto e aggiornato il problema sociale e riportando notizie sulla politica in Italia e in campo internazionale, fino ad affrontare questioni di natura politico-religiosa dibattute in quel momento. La reazione contro il «Giornale del Trentino» fu vivacissima, guidata dal decano di Rovereto, Benedetto de Riccabona, futuro vescovo di Trento, e dallo stesso vicario generale Giacomo Freinadimetz, in nome del diritto canonico e della disciplina ecclesiastica, così che la pubblicazione di esso cessò già nel settembre del 1851. Il Concordato tra la Santa Sede e l‟Austria del 1855 riconosceva, invece, i princìpi generali affermati dall‟Ultramontanismo, dando alla Chiesa cattolica una posizione privilegiata

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all‟interno dello Stato attraverso il controllo delle scuole e dell‟istituto matrimoniale, oltre che attraverso privilegi di natura economica e fiscale. Fu l‟episcopato di Benedetto de Riccabona, invece, che dovette affrontare la lotta contro le cosiddette «leggi confessionali» del 1867, anticipata in Trentino da una serie di prese di posizione del vescovo contro ogni forma di remissività nei confronti dell‟integrità della dottrina e di aperture di stampo liberale. Le leggi confessionali privavano, secondo il vescovo, la Chiesa cattolica della posizione di privilegio rispetto alle altre confessioni religiose e ne ledeva i diritti fino allora goduti in materia di scuole e di insegnamento e nel campo del matrimonio (si introdusse il matrimonio civile). Ma, nonostante la dura protesta, il de Riccabona non volle arrivare a una rottura definitiva con il potere politico. È in questo periodo (1866) che nasce «La voce cattolica», come portavoce del mondo clericale in sostituzione de «L’eco delle Alpi retiche» edito nel 1864. Altro momento conflittuale fu per il vescovo il momento dell‟entrata a Roma delle truppe del generale Cadorna, il 20 settembre 1870. In Trentino si raccolsero ben 91.520 firme contro quello che si definiva un sopruso spaventoso. Il de Riccabona intervenne, infine, a sollecitare i Trentini a scegliere per le elezioni alla Dieta di Innsbruck prima, nel 1871, e al Parlamento di Vienna poi, nel 1873, «persone le quali nelle questioni religiose, riguardanti le relazioni della Chiesa con lo Stato, non presumano del loro giudizio privato, ma si attengano agli insegnamenti e alle decisioni della Chiesa». Finita, infatti, l‟epoca dei «ceti», si trattava ora di eleggere, negli organi di rappresentanza politica, uomini che sostenessero il ruolo e l‟importanza della istituzione ecclesiastica, come guida delle coscienze in campo sociale, politico e culturale. Nel 1871 erano apparsi in diocesi anche i primi movimenti dell‟Azione cattolica. È di quell‟anno, infatti, la fondazione a Trento della «Società della gioventù di S. Vigilio» e il suo primo presidente fu Pio Garbari. E nel 1877 i primi «clericali» furono eletti al parlamento di Vienna, per i collegi «rurali» (Luigi Ippoliti, don Luigi Gentilini e mons. Nicolò Negrelli). Finiva nel frattempo l‟episcopato di Benedetto de Riccabona, nel 1879. L‟imperatore Francesco Giuseppe nominò come suo successore Giovanni Giacomo Della Bona (18791885), uomo leale nei confronti del potere asburgico.

Canova, 19 dicembre 2008

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MARCELLO FARINA

Breve storia del movimento cattolico in Italia dall’Ottocento al Concilio Vaticano II

Parrocchia s. Pio X - Canova (Trento)


IL «CATTOLICESIMO SOCIALE» NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO CAPITOLO II

(1874-1904)

1.

La vittoria dell’«Intransigentismo» cattolico

I fatti che erano seguiti alla Rivoluzione francese e alla successiva Restaurazione in Europa avevano portato con sé alcune conseguenze molto importanti nell’ambito dei rapporti della comunità cristiana (e cattolica) nei confronti del mondo moderno: a prima vista un rinnovato legame tra trono e altare, cioè tra politica e religione, in nome del ritorno a valori tradizionali e a strutture gerarchiche ispirate dal Cristianesimo (si pensi a Novalis e alla sua opera “Cristianità ed Europa”!); ma anche un progressivo diffondersi del fenomeno della secolarizzazione (della «laicità») nell’ambito della politica e dell’economia, con il conseguente distacco degli Stati (soprattutto con il diffondersi del liberalismo politico) dalla tutela delle Chiese e, in parallelo, delle Chiese nazionali nei confronti degli Stati. Per la Chiesa di Roma, cioè per il Papato, ciò ha significato il riconoscimento di un «nuovo ruolo» di centralità non solo spirituale, ma anche «amministrativa», se così si può dire, mai sperimentata prima e interpretata in maniera specifica dall’Ultramontanismo, così che il Papa e la Curia romana divennero il punto di riferimento obbligato di tutta la cattolicità. A salvaguardare tale «primato» di fronte alle «insidie della modernità», costituite sia dal pensiero moderno sia dal progressivo distacco degli Stati dall’ossequio alla religione e alle Chiese, i fedeli (in particolare i cattolici) erano chiamati a raccolta, per una lotta comune a salvaguardia della fede e dei costumi cristiani. È la prima volta, in effetti, che anche i laici vengono coinvolti in prima persona nella difesa degli interessi e della libertà della Chiesa. Dopo il 1848, in particolare, e fino agli ultimi anni del pontificato di Pio IX (18461878), all’interno della Chiesa cattolica si ha un primo, serrato confronto tra cattolici liberali e cattolici intransigenti sul tema del «potere temporale» del Papa, considerato dai primi come l’ostacolo più ingombrante per un rinnovato rapporto tra fede e politica e, invece, difeso dai secondi come la condizione necessaria per l’azione libera del Pontefice nella sua missione spirituale. A Malines, in Belgio, nel 1863, i cattolici dei due schieramenti si confrontarono con grande vigore, ma alla fine, anche per la presa di posizione dei delegati italiani, l’intransigentismo ebbe il sopravvento sul moderatismo cattolico. L’intransigentismo italiano, infatti, in maniera del tutto particolare anche per l’acuirsi del conflitto tra Stato e Chiesa dopo il 1860 (l’anno dell’unità d’Italia!) coglierà ciò che anche molti cattolici europei percepivano ormai come una vera minaccia: il fatto, cioè, che la storia

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moderna e la rivoluzione (liberale o, ancor di più, socialista) apparivano come lo scatenarsi delle potenze del male contro i seguaci della verità, considerati immuni da responsabilità e da colpe. Gli intransigenti vedevano nel liberalismo, vincente in quel periodo, la sintesi di tutte le moderne eresie e lo consideravano quale aspetto politico-sociale del nazionalismo moderno, negatore della Rivelazione e sostenitore di una società libera da qualsiasi legge morale, fondata sul principio della sovranità popolare, sull’«idolatria» della nazione e sulla legge del libero mercato. Essi ritenevano che fosse necessario un aperto divorzio tra Chiesa e mondo, trasferendo l’intransigenza cristiana dal piano delle dottrine a quello dei metodi, al piano tattico. E tale distacco, tale «egoismo dell’ortodossia», come venne chiamato successivamente, doveva certo portare i cattolici all’isolamento e all’estraneità dalla cultura e dalla «politica laica», ma otteneva anche l’effetto, cercato del resto, di un rafforzamento ideologico e di purificazione del loro movimento. È in tale contesto di contrapposizione che i cattolici italiani progettarono di costituire proprie associazioni, propri giornali, proprie scuole, proprie accademie, accanto a organizzazioni sindacali, di mutuo soccorso, cooperative e, perfino, un proprio parlamento nazionale che rappresentasse l’Italia «reale», contro l’oligarchia liberale e borghese, che si identificava con il paese «legale». Certo, come si diceva sopra, ciò portò con sé anche un’opera di purificazione dello stesso movimento cattolico che, se in un primo tempo aveva preso le difese di tutto il passato (si pensi ai teorici della Restaurazione!), legittimismo compreso (l’alleanza trono-altare), ora costruiva una opposizione concentrata soprattutto sulla difesa delle verità della fede e della libertà della Chiesa, cioè sul piano religioso-ecclesiastico e non direttamente politico. Ciò è quanto sarebbe stato espresso nel primo Congresso cattolico, del 1875, dal milanese Filippo Meda: «Dunque, né cattolici liberali; né cattolici nazionali; né cattolici legittimisti; né cattolici di qualunque altro genere; ma semplicemente cattolici!». I cattolici intransigenti, liberi quindi da legami con il passato (riferito ai modelli politici dell’ancien régime), intesero volgere tutte le loro forze per riconquistare a Cristo la società italiana e ad assicurare al pontefice l’indipendenza. La conquista della società avrebbe potuto attuarsi attraverso l’educazione del popolo ad opera di nuovi strumenti di apostolato: in particolare le associazioni laicali e la stampa. Ma proprio queste due realtà, considerate dai laici cattolici così importanti, dovevano suscitare in molti vescovi ulteriori preoccupazioni, perché parevano sovvertire l’antica costituzione ecclesiastica: alla gerarchia tradizionale (i vescovi con «la mitria») sembrava contrapporsi, se non addirittura sovrapporsi una nuova gerarchia laicale (i vescovi con «il cilindro»), disposta perfino a dare patenti di ortodossia e a lanciare accuse di eresia contro vescovi e preti. Così alcuni prelati non tardarono a manifestare le proprie riserve. Tra essi un certo mons. Fornari commentava: «Siamo disgraziatamente ad un’epoca in cui tutti credonsi chiamati all’apostolato». E gli faceva eco mons. Scalabrini, uomo aperto sul piano sociale, ma preoccupato che alcuni laici «non contenti della loro parte di sudditi che loro spetta nella Chiesa di Dio, credessero di poterne avere qualcuna anche nel governo di essa». Egli pensava che il pretendere che un vescovo dovesse dipendere, nella direzione delle coscienze, da un pugno di laici, fosse «oltreché disdicevole al sommo, nemmeno conforme all’ordine divinamente stabilito della gerarchia ecclesiastica». Era perciò suo desiderio che «all’azione cattolica (allora nascente come progetto laicale) si desse una forma mediante la quale la sua organizzazione seguisse più da vicino che fosse possibile quella della Gerarchia ecclesiastica e dipendesse perciò dalla Santa Sede pel tramite dei vescovi». 3


Se già erano state accolte senza grande entusiasmo le Conferenze di S. Vincenzo e le prime società operaie (del cattolicesimo democratico), più accentuata sarebbe stata l’opposizione alle associazioni professionali di fine secolo e alla grande organizzazione nazionale dei cattolici laici italiani, a quell’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici, che sottraeva le associazioni cattoliche al controllo episcopale. Quanto alla stampa, si può ricordare che i giornali cattolici ebbero una nascita difficile, anche per le resistenze sopraindicate e, generalmente, fu inadeguata per il compito che si era prefissata, ostacolata dalle autorità governative, povera di mezzi, di scrittori, di lettori, anche se, tra l’800 e il ’900, il suo tono andò elevandosi, grazie alla collaborazione di alcuni uomini significativi come Sacchetti, Casoni, Albertario, Meda, Murri, ecc. ecc. I cattolici transigenti accusarono questi giornali di voler «ammonire i vescovi, imporre al Papa le loro idee e terrorizzare i fedeli»; i vescovi, a loro volta, affermavano che non si doveva permettere che «una stampa, diversa da quella liberale, che può anche aver prestato qualche servizio, inorgoglisca al punto di chiamare a sindacato coloro che lo Spirito Santo mise a reggere la Chiesa di Dio».

2.

L’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia (1875-1904)

Si è già accennato, nella prima tappa del nostro viaggio all’interno del movimento cattolico italiano tra Ottocento e Novecento, al fatto che tra il 1860 e il 1870 si siano moltiplicati in Italia gli inviti a non partecipare alla vita politica del nuovo Stato, che si presentava agli occhi dei più come nemico e avversario della Chiesa cattolica e del Papato. La polemica era iniziata già nel 1861, quando su un giornale torinese, L’Armonia, l’8 gennaio, comparve un articolo dal titolo Né eletti né elettori, ove era scritto: «Nelle prossime elezioni noi non vogliamo essere né eletti né elettori [...]. Noi non vogliamo appartenere ad una Camera che, a detta dei giornali, deve compiere la spoliazione del Santo Padre, e dar opera a levargli anche la sua Roma [...]. Dapprima la lotta elettorale verte oggidì tra Camillo Cavour e Giuseppe Garibaldi, tra coloro che combattono il Papa colle ipocrisie e coloro che vogliono combatterlo apertamente coll’empietà e colla demagogia. E noi diciamo: – né, l’uno, né, l’altro: sono tutti della stessa buccia. – E ci asterremo. In secondo luogo, quando noi pigliammo parte alle elezioni, e in molti luoghi riportammo la vittoria, ci chiamammo addosso ogni maniera di vessazioni, e l’opera nostra andò in fumo. Dunque questa volta non vogliamo fare cosa inutile e ci asteniamo. In terzo luogo per eleggere ci vuole la piena libertà, e il piglio de’ giornalisti, e il contegno della rivoluzione, e le lezioni dell’esperienza ci dicono che non saremmo pienamente liberi; epperò ci asterremo... Noi non vogliamo essere né eletti né elettori». Molti cattolici avevano seguito l’esempio del Margotti: il «Difensore» di Modena, l’Eco delle Romagne di Bologna ad esempio... e Pio IX aveva appoggiato la corrente fautrice dell’astensione. Fin dal 1868, infatti, la Sacra Penitenzieria Apostolica rispondeva che «non expedit» (cioè «non è conveniente») l’intervento dei cattolici alle elezioni politiche, tanto che nel 1874 lo stesso Papa ne confermò l’opportunità, affermando che «non era lecito andarsi a sedere in quell’aula – il parlamento italiano – dove dovrebbe giurarsi l’osservanza delle leggi dello Stato: cioè si deve giurare di sancire lo spoglio della Chiesa, i sacrilegi commessi, l’insegnamento acattolico, e quel di più che si fa o si farà in avvenire». Così ormai la questione era risolta e i cattolici italiani ebbero la loro linea di condotta ben tracciata: «né eletti, né elettori»; «non expedit attentis omnibus circumstantibus». In realtà, dal punto di vista politico, stante anche la particolare legge elettorale italiana che nella sua prima stesura del 17 dicembre 1860 dava diritto di voto a circa il 2,9% dei cittadini su base censitaria (circa 420 mila elettori) e nella seconda stesura del 24 settembre 1882 4


allargava la base elettorale (sempre su base censitaria) al 6,8% dei cittadini (fino a 2.900.000 elettori), e quindi riservava il diritto di voto a una stretta minoranza «borghese» dei cittadini italiani, il non expedit non ebbe mai una piena, convinta adesione, sia per la mancanza di chiare norme applicative da parte dell’autorità ecclesiastica, sia perché il divieto fu considerato da pochi come un vero comando, mentre dai più fu ritenuto come un semplice consiglio da interpretarsi secondo le convenienze e le opportunità politiche del momento. Ne è testimonianza precisa il fatto che già nel Natale del 1874 Pio IX doveva lamentarsi di alcuni ecclesiastici «che non si erano vergognati di scendere nell’arena delle elezioni per portare il voto a questo o a quel candidato incredulo o anticristiano». Invece il non expedit «liberò» per così dire le energie del mondo cattolico dal punto di vista sociale, per quella «riconquista» a Cristo del popolo italiano, disorientato dal punto di vista sia politico che culturale e, insieme, per quella difesa della libertà del Papa, che portava con sé il mantenimento del potere temporale del Pontefice (la «questione romana»). È in questo contesto che nasce nel 1874 l’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici, con gli scopi accennati appena sopra. Essa raccoglieva l’eredità di alcune associazioni nate nel decennio 1860-70, come: - L’Associazione per la difesa della libertà e della Chiesa in Italia, fondata nel 1865 a Bologna dall’avvocato Casoni; - La Società della Gioventù Cattolica Italiana, pure fondata a Bologna nel 1867 da Mario Fani e Giovanni Acquaderni; - La società primaria per gli interessi cattolici fondata a Roma nel 1870 ad opera del padre Curci. Gli storici sono concordi nel rilevare il carattere difensivo e apologetico di queste istituzioni, che non avevano approfondito un vero e proprio studio sulle vicende italiane di quell’epoca dal punto di vista sociale e sottolineano anche la scarsa maturità di un laicato «abituato più ad ascoltare che ad eseguire» (cioè a ricevere ordini più che ad agire con consapevolezza matura. Forse la storia si ripete...!). In realtà l’Opera dei Congressi divenne, nonostante tutto, una tappa fondamentale per la vita e l’azione del Cattolicesimo italiano. Scrive Silvio Tramontin, nella sua opera «Un secolo di storia della Chiesa» (2 voll., ed. Studium, Roma): «Con i suoi Comitati permanenti, regionali, diocesani, parrocchiali, con le sue assemblee parrocchiali, diocesane, regionali e nazionali, con le sue sezioni permanenti (opere religiose, opere di carità, stampa, scuola, arte sacra) l’Opera dei Congressi – come per brevità viene generalmente nominata – contribuì veramente (dove riuscì ad instaurarsi) alla creazione di un tipo di laicato e di clero formato ad una mentalità di intransigente difesa degli interessi papali e religiosi in contrapposizione allo Stato liberale e laico, ma nello stesso tempo aperto non tanto ai problemi sociali (qui si rileverà – come vedremo – uno dei grossi limiti) quanto alle conseguenze che essi portavano nel popolo. Pronti per ciò, chierici e laici, a tutta una serie di iniziative deliberate nei congressi, coadiuvati dalla seconda sezione dell’Opera, e da essi realizzate in piccoli o grossi centri, con pochi o larghi mezzi, in città o in campagna, a beneficio delle categorie più trascurate e più bisognose. Questa azione fa parte anzi di quella contestazione – per così dire – dello Stato, tipica della mentalità intransigente e spesso carica di toni eccessivamente polemici. Proprio perché lo Stato, preoccupato degli interessi della borghesia e magari delle battaglie contro la Chiesa invece di quelle contro la disoccupazione o la malaria (a giudizio degli uomini dell’Opera dei Congressi e in parte anche realmente), trascurava quelli del popolo, occorreva agire per soccorrere quelle miserie e sanare quei mali. Abbandonare cioè alla propria sorte il “paese legale” e prendersi cura di quello “reale”. Anche perché – sempre a loro giudizio – il

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primo aveva già abbandonato Chiesa e religione e anzi le combatteva, mentre il secondo rimaneva sostanzialmente religioso o poteva essere recuperato» (pp. 31-32). Dopo i primi congressi di Firenze (1875) e di Bologna (1876), dove si trattò soprattutto di temi «assistenziali», cominciò a farsi strada, nel congresso di Bergamo del 1877, anche l’interesse per i problemi sociali e del lavoro, portando in primo piano, appunto, la «questione sociale». Ciò portò a una maturazione lenta e contrastata, che diede vita nel 1879 a una seconda sezione all’interno dell’Opera, intitolata Economia Cattolica, che divenne in seguito la Sezione di carità ed economia cattolica, con il chiaro proposito di estendere l’attività proprio a una più seria considerazione del problema sociale, operaio e contadino, proponendo Circoli e Unioni di lavoro e invitando il governo ad intervenire. L’uomo più significativo in questo frangente, il vero animatore della Sezione della carità ed economia cattolica, fu il prof. Giuseppe Toniolo, un trevisano, insegnante di economia all’università di Pisa. Già nel 1878 egli scriveva: «Occorre riorganizzare la società che si dissolve, e le masse popolari soprattutto, sotto la bandiera del cattolicesimo. Sta bene, ma sarà impossibile riorganizzare questo grande esercito, questa moltitudine di militi della civiltà restaurata in Cristo, se non si pensa prima a costituire lo stato maggiore, ad istruirlo, educarlo, e porlo alla testa dell’opera di riordinamento sociale e di tutto quel movimento militante che conviene oggi al cattolicesimo. E questo stato maggiore è naturalmente composto dalle classi superiori. Bisogna cominciare dunque dal richiamare i doveri che loro incombono, gli uffici nobilissimi che loro spettano e i modi e l’indirizzo con cui devono esercitarli. Se si vuole che il movimento restauratore sia veramente popolare, come lo è purtroppo il movimento rivoluzionario, urge rinnovare il grande e fecondo patronato delle classi superiori sulle inferiori, che formò già la salvezza e la gloria della civiltà cristiana nel medio evo» (in S. Tramontin, op. cit., p. 37). Uomini come Toniolo, Rezzara, Medolago-Albani tentarono in quegli anni di dare consistenza culturale e politica alla loro proposta, chiedendo anche maggior autonomia per le loro iniziative di studio e di ricerca, ottenendo che la sezione dell’Economia cristiana diventasse una sezione permanente dentro l’Opera dei Congressi. Ciò procurò, d’altra parte, una certa preoccupazione da parte di alcuni, che vedevano crescere a loro parere una eccessiva «socializzazione e politicizzazione» nella Sezione economica, così da far perdere di vista l’ideale della difesa della religione e del Papato. Nel 1889, quando a capo dell’Opera dei Congressi venne eletto il veneziano Paganuzzi, portatore di quelle critiche, Toniolo e i suoi amici pensarono di dar vita a una nuova sezione di studi che si chiamò Unione cattolica per gli Studi Sociali in Italia, con il seguente programma: « 1 Promuovere la costituzione od aggregazione di circoli locali per diffondere nelle varie regioni d’Italia la cultura di quest’ordine di scienze; 2 Fondare una rivista pegli studi sociali, che sia il periodico divulgatore del programma dell’Unione; 3 Propugnare e predisporre la istituzione di una scuola superiore di studi sociali diretta alla educazione civile e cristiana delle classi più elevate e quindi alla formazione di un ceto dirigente informato al medesimo spirito scientifico. Come mezzi ulteriori coordinati ai tre suddetti principali: 1 tenere conferenze nelle principali città d’Italia onde divulgare l’ordine di idee scientifiche della società; 2 fare acquisto e tenere raccolta speciale delle principali opere e rassegne di scienze sociali cattoliche delle varie nazioni per comune conoscenza e mutuo prestito fra i soci; 3 fornire sussidi in danaro a giovani cattolici promettenti (laici od ecclesiastici), perché possano dedicarsi agli studi sociali sotto la guida di taluna persona competente e retta in Italia, 6


perché accedano per lo stesso intento alle università o istituti cattolici all’estero (Lovanio, Friburgo, Parigi), e infine perché conseguano nelle nostre università la docenza libera di quelle discipline; 4 provvedere ad un corso continuato di pubblicazioni di scienze sociali e dottrine affini per nome e conto dell’Unione; 5 promuovere con personali e diretti inviti ad uomini credenti e colti, ovvero mediante pubblici concorsi a premio, lavori di scienze sociali ed affini, rispondenti al programma dell’Unione; 6 tenersi in frequente ed intima comunicazione con persone dotte sinceramente credenti, con università, accademie, società cattoliche di Italia e dell’estero, le quali cogli esercizi del pensiero si adoperino alla soluzione in senso cristiano delle odierne questioni sociali; 7 convocare congressi scientifici per discutere problemi dottrinali in ordine agli argomenti sociali di carattere nazionale e all’uopo anche internazionali» (in S. Tramontin, op. cit., pp. 49-50). Il successivo congresso di Lodi del 1890, nonostante i contrasti interni, segnò in effetti un progresso nella elaborazione dottrinale e nelle proposte di iniziative pratiche. Vi furono affrontati temi scottanti, quali quelli dell’intervento dello Stato e del salario, della fissazione delle ore di lavoro per le donne e i ragazzi, dell’organizzazione operaia. Si insistette in particolare sulla necessità di creare associazioni di mutuo soccorso nel mondo del lavoro di fabbrica, così che già nel 1891 nacquero 289 sezioni operaie. In questo tempo Leone XIII (1878-1903) emana l’enciclica Rerum Novarum (15 maggio 1891), in cui il Papa per la prima volta affronta la «questione operaia» per metterla davanti alla coscienza di tutti i credenti. Essa è, evidentemente, il frutto di un dibattito che in tutta Europa i cattolici avevano prodotto su quella questione e le sue conseguenze. Sull’onda della Rerum Novarum in Italia nascono varie iniziative, di cui qui vale la pena di coglierne gli elementi principali: 1) La nascita della Rivista internazionale di Scienze sociali del 1892. È questa rivista che due anni più tardi, nel 1894, avrebbe elaborato un Programma dei cattolici di fronte al Socialismo, per rispondere alle tesi del neonato Partito Socialista italiano (1892). È significativo ciò che la Rivista scrive in proposito: «Il socialismo non deriva in ultima analisi da demagogia o da brame sfrenate di godere, ma da reali esigenze del popolo ed è l’ultimo prodotto di tutta una serie di violazioni dell’ordine cristiano iniziate con la rivoluzione liberale. Ora, in quanto ha finito per rivoltarsi contro se stessa, attesta che non c’è ormai più posto che per una rivoluzione socialista o per una restaurazione sociale cristiana». E i rimedi vengono poi indicati sia per la vita agricola che per quella «industriale e commerciale: già si chiede un superamento del regime salariale attraverso una partecipazione agli utili e addirittura al capitale e si invocano leggi a tutela dei diseredati e degli oppressi dal vorace capitalismo. Nella conclusione, dove il linguaggio si fa più duro, si parla pure di “legale resistenza” pur rifiutando una concezione classista. Da ciò dovrebbe derivare “la Democrazia Cristiana del secolo ventesimo”. Era la prima volta che veniva adoperata una espressione che sarebbe diventata poi quasi un magico talismano per tanti giovani cattolici italiani e con cui veniva additata la via per un rinnovamento cristiano della società» (S. Tramontin, op. cit., pp. 76-77). 2) La nascita di Cooperative e Casse Rurali, soprattutto per far fronte alla «questione agraria», diventata esplosiva nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Già nel Congresso di Genova del 1892, il veneziano don Luigi Cerruti se ne era fatto interprete, proponendo: « 1 Unioni di credito agrario o Casse Rurali di prestito; 7


2 Unioni di assicurazione contro i danni della grandine e dell’incendio; 3 Unioni di assicurazioni contro la mortalità e il deperimento fortuito del bestiame; 4 Unione per gli acquisti collettivi di macchine e di materie prime; 5 Forni cooperativi; 6 Consorzi di irrigazione» (ivi, pp. 87). La loro diffusione fu esplosiva, anche se non in maniera omogenea in Italia: straordinaria a Nord e sempre più rara andando verso il Sud della Nazione. A titolo di esempio: Al Congresso delle Casse Rurali di Tarbes (1897), Giuseppe Micheli, un giovane avvocato emiliano, propagandista di tali istituzioni, poteva portare una prima statistica, da cui risultarono già costituite 440 Casse Rurali cattoliche, con un movimento di quasi 6 milioni di lire, e così ripartite per diocesi: 94 a Treviso, 74 a Verona, 66 a Bergamo, 65 a Padova, 54 a Vicenza, 40 a Adria, 30 a Udine, 29 a Brescia, 20 a Concordia, 18 a Ceneda, 17 a Casale, 13 a Ivrea e a Alba, 12 a Parma, Bologna, Aosta, 11 a Milano, 9 a Piacenza, Mantova, Alessandria, Fermo, 8 a Tortona, 7 a Girgenti, 6 a Reggio Emilia, Cuneo, Como, Belluno, 5 a Novara, Albano, Asti, 4 a Torino, Ferrara, Caltagirone, 3 a Venezia, Velletri, Mondovì, Modena, Genova, Firenze, Fermentino, Crema, Chioggia, Caltanissetta, Acqui, 2 a Cremona, Vercelli, Acireale, Alatri, Ancona, Biella, Cesena, Civita Castellana, Faenza, Feltre, Guastalla, Pisa, Magliano Sabina, Ravenna, Rimini, Subiaco, Terracina, Vigevano, 1 all’Aquila, Oppido, Cagliari, Capua, Forlì, Frascati, Acquapendente, Larino, Lucera, Licata, Macerata, Magliano, Massara, Nepi, Nicosia, Noto, Palermo, Patti, Piscina, Roma, San Miniato, Sutri, Tivoli, Urbino, Veroli. Soltanto nel 1897 ne vennero costituite 167, per cui lo stesso Micheli l’anno successivo alla Sezione cooperazione ed assistenza pubblica dell’Esposizione agricola di Torino poteva presentarne più di 700, già affiancate da 31 Banche cattoliche. Al Congresso di Genova del 1892 non erano state però proposte all’attenzione dei cattolici solo le Casse Rurali. Si era parlato pure di unioni di assicurazioni contro i danni della grandine e dell’incendio, di unioni di assicurazioni contro la mortalità e il deperimento fortuito del bestiame, di unioni per gli acquisti collettivi di macchine e di materie prime, di forni cooperativi, di consorzi di irrigazione. Queste ed altre istituzioni di cooperazione come caseifici sociali, cooperative di consumo, ecc. fiorirono ben presto un po’ in tutte le zone e specialmente in Alta Italia. Scrive a questo proposito lo Spadolini: «Chi si fosse soffermato, tra il 1894 e il 1895, in qualche plaga delle campagne cattoliche del Veneto e della Lombardia, si sarebbe trovato dinnanzi una fitta rete di istituzioni sociali che accompagnavano l’agricoltore, il fittavolo, il bracciante, nelle operazioni più delicate della sua vita economica: le Casse Rurali per i piccoli e medi prestiti (...), le cooperative di consumo per contenere i prezzi dei prodotti di prima necessità e spezzare il monopolio degli esercenti, le latterie sociali, i circoli vinicoli, i molini sociali, le società per la costituzione di fondi e di affitto collettivi, le cooperative per le abitazioni economiche, i nuclei assicurativi in difesa del bestiame e contro i danni della grandine». 3) Accanto a queste realizzazioni, uno dei problemi che appassionò di più il mondo cattolico italiano dopo il 1892 fu quello delle «unioni professionali», cioè dei «sindacati», che avrebbe creato seri contrasti tra i giovani dei gruppi «democratici cristiani» di don Romolo Murri e i dirigenti dell’Opera dei Congressi, soprattutto nell’ambito di una possibile collaborazione con i socialisti. Al posto delle Camere del lavoro venne proposto, nel congresso di Torino del 1895, il Segretariato del Popolo, l’organizzazione tipica del movimento cattolico italiano per il mondo operaio e contadino. L’istituzione avrebbe avuto una larga diffusione, con l’intento di sopperire alle deficienze delle Camere del lavoro, individuate nella lotta di

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classe e nella limitatezza dei bisogni sopperiti, anche se essa stessa sarebbe rimasta un’opera di patronato, cioè di assistenza più che di coinvolgimento per un autentico mutamento sociale.

3.

La «crisi» dell’Opera dei Congressi

Verso la fine degli anni ’90 dell’Ottocento si tenne a Milano nel 1897 l’annuale congresso dell’Opera, in cui fu fatta la rassegna delle forze cattoliche, che elencava: 4036 comitati parrocchiali, 708 sezioni giovani, 16 circoli universitari (nel 1896 era nata la FUCI), 705 Casse Rurali, 921 Società Operaie e 1273 associazioni varie, tra cui diverse di assistenza e di cooperazione. Tale rassegna fu fatta davanti a 8.000 cattolici organizzati e ciò poteva dare la sensazione del trionfo dell’ideale cattolico. In realtà la situazione era solo apparentemente rosea, perché da una parte persistevano le rigide pregiudiziali dei governi liberal-massoni, dall’altra il forte rassodarsi del socialismo nelle città e nelle campagne. Inoltre dentro e fuori l’Opera dei Congressi stava manifestandosi tra i cattolici una nuova mentalità, un nuovo indirizzo che si sarebbe ben presto contrapposto a quello ufficiale. Erano soprattutto i giovani a mordere il freno nella statica situazione in cui si trovava l’Opera. Se ne faceva interprete, già nel 1891, un giovanissimo avvocato milanese, Filippo Meda, sull’Eco della gioventù: «Mille doni ci ha dato Iddio, mille benefici ci ha concesso e fra gli altri quello importantissimo di non averci fatto attraversare quel periodo di lotte politiche, che hanno preceduto di poco il nostro nascere. Noi quindi non ne sentiamo l’influenza; noi non abbiamo i lirismi dei quarantottisti come non abbiamo gli astii codini. Noi non abbiamo interessi che ci leghino al passato: il nostro campo è l’avvenire. Abbiamo trovato una patria fatta». I giovani parlavano ormai di «classe», di «giustizia sociale», di «sindacati». L’opposizione allo Stato nasceva in essi non tanto per la questione dello Stato pontificio o per l’inconciliabilità filosofico-dottrinale con i princìpi che lo sorreggevano, quanto per l’«abbandono» in cui esso aveva tenuto il popolo. Questo nuovo – se pur ancora confuso – modo di vedere le cose e di prospettare l’organizzazione della società aveva già un nome: Democrazia cristiana. Come si ricorderà esso era stato usato da Giuseppe Toniolo nel 1894 nel suo Programma dei cattolici di fronte al Socialismo, ma ora la sua riproposizione suscitava non poche diffidenze. Abituati a modellare la società sull’esempio della Chiesa (la Chiesa gerarchica dell’Ultramontanismo e del Vaticano I) molti cattolici, tra cui i capi dell’Opera, erano restii a usare il termine «democrazia cristiana», che indicava o avrebbe potuto indicare un capovolgimento di mentalità nella concezione del rapporto Chiesa-mondo e addirittura all’interno della struttura ecclesiastica. Così, a Milano, durante il congresso del 1897, la stragrande maggioranza dei presenti si dichiarò contraria all’uso di quel nome. La si giudicava una «novità inutile e pericolosa, che avrebbe minacciato una disgregazione nel fascio delle forze cattoliche» e i vescovi veneti pensarono per un momento di pubblicare una «pastorale istruzione intorno alla Democrazia cristiana», per chiarire ai fedeli le idee. Ma non se ne fece nulla, per non sollevare una «inutile» curiosità. Uno dei gruppi della «democrazia cristiana» si era raccolto intorno a don Romolo Murri, prete marchigiano e al suo circolo di studi sociali S. Sebastiano, all’associazione universitaria romana e alla rivista «Vita Nova», fondata nel 1895, come «quindicinale di sociologia, letteratura e cose d’Università», protesa verso un serio aggiornamento e rinnovamento della cultu9


ra cattolica, che veniva messa a confronto con gli scritti di spirito marxista sulla «questione sociale» (come La Critica sociale di Antonio Labriola). Un giovane studente genovese, Giambattista Valente così riassumeva lo spirito del gruppo: «Che cosa precisamente ci divideva dai vecchi di allora, i cosiddetti veneti? Direi che ci divideva soprattutto una cosa: il modo di concepire la responsabilità dei ceti meno abbienti nell’ambito degli organismi cattolici e nell’ambito della società in generale, nonché nella vita politica. Noi volevamo che i lavoratori assumessero in pieno tutte le loro responsabilità e vedessero riconosciuta l’autonomia dei loro organismi e il peso dei loro giudizi. Essi ritenevano che le classi lavoratrici non fossero ancora sufficientemente mature per l’autogoverno e credevano necessario “guidarle” verso le mete agognate, come un padre guida il figlio. Perciò li chiamavamo paternalisti» (in Tramontin, op. cit., p. 130). Centri vivaci di «democratici cristiani» sorsero in tutta Italia: a Torino, a Genova, in Toscana, a Napoli (Gennaro Avolio), in Sicilia (don Luigi Sturzo), a Milano (Filippo Meda, Vico Necchi, padre Semeria, Giuseppe Micheli) ecc. ecc. Tutto questo avveniva mentre il paese era in preda a quei gravissimi tumulti per il rincaro del pane e la mancanza di lavoro, che dovevano portare alle tragiche giornate di Milano del maggio 1898 e alla successiva repressione governativa da parte del marchese Di Rudinì e del generale Bava Beccaris. Insieme ai socialisti i cattolici furono accusati di essere nemici dello Stato; quasi cinquemila associazioni cattoliche furono sciolte e tra queste le istituzioni economico-sociali e i primi gruppi giovanili democratici cristiani. Di fronte a questi fatti un prete, don Albertario, che fino allora era stato un accanito intransigentista, si schierò apertamente per una necessaria preparazione politica dei cattolici stessi. «Gli avvenimenti del ’98, le leggi eccezionali di Pelloux (il generale successo al Di Rudinì) che ne seguirono, la stessa caduta del governo Pelloux, la timida svolta della politica liberale di fine secolo, accentuata poi nei primi anni del ’900 dal Giolitti, furono decisivi per la storia del movimento cattolico in Italia e di quello sociale in modo particolare. Essi aumentarono infatti, da una parte, nei dirigenti dell’Opera dei Congressi la paura del socialismo (i socialisti avevano tra l’altro conquistato il comune di Milano), e fecero loro intravedere la necessità di appoggiare la parte moderata dei liberali, tanto più che con Giolitti essa manifestava nuove possibilità d’incontro con i cattolici, mentre dall’altra fecero capire ai democratici cristiani che era venuto il momento di agire più e meglio per abbattere il liberalismo ormai deteriorato ed instaurare una vera democrazia cristiana prima che arrivassero i socialisti (Il Popolo Italiano parlava in quei giorni della necessità di un’azione cattolica “più fiera e più forte”), ponendo così gli uni contro gli altri. La rottura doveva però profilarsi a poco a poco, e non mancarono ancora i tentativi di snellire l’Opera, di rinnovarla e di spingerla ad una più incisiva azione sociale, cercando di farle evitare le possibili secche di un sorpassato conservatorismo» (S. Tramontin, op. cit., p. 133). Verso la fine del 1898 il presidente dell’Opera, il Paganizzi, si premurò di riaffermare i caratteri dell’azione dei cattolici, definendola come «religiosa, gerarchica, papale, aristocratica e popolare», mettendo le mani avanti, per così, dire, nei confronti di un possibile mutamento di indirizzo. Ma al congresso di Ferrara del 1899 Filippo Meda propose di prepararsi all’azione politica e don Romolo Murri a sua volta dichiarò che era arrivato il tempo di una «democrazia cristiana» per l’Italia. Il 15 maggio 1899, nell’anniversario della Rerum Novarum essi, con altri giovani, proposero il loro programma sul giornale Il Popolo Italiano. Esso comprendeva 12 richieste e alcune dichiarazioni, che andavano dal diritto di iniziativa popolare per le leggi, alla rappresentanza proporzionale per i partiti, alla creazione di un ministero del lavoro, all’esenzione delle imposte per un minimum di esistenza, al disarmo generale progressivo.

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«Il programma attrasse subito la simpatia di migliaia di giovani che, pur fedeli al non expedit, dibattevano tra loro quelle idee di chiara impronta politica, creavano istituzioni a favore del popolo, fondarono tra il 1900 e il 1903 gruppi o fasci democratici cristiani in quasi tutte le città italiane, soprattutto dell’Emilia, Liguria, Toscana, Lombardia, Piemonte, non esclusi i centri tradizionali dell’intransigentismo, e condussero una lotta a fondo in comizi, contraddittori, dimostrazioni contro il demagogismo e l’anticlericalismo dilaganti. La murriana Società cattolica italiana di cultura era l’organo editoriale – per così dire – del movimento. Romolo Murri per incrementare tra i laici colti e il clero lo studio dei problemi che riguardavano il riassetto della società, come i socialisti facevano nella Critica sociale, fu creato un settimanale di grande formato e di crescente tiratura (25.000 copie), intitolato Il Domani d’Italia, a carattere popolare e a scopo di propaganda, e furono stampati innumerevoli opuscoli. Vari altri foglietti diocesani ne ospitavano e diffondevano poi le idee. Giambattista Valente ne conservò un elenco di 66 con cui egli scambiava il suo Garofano bianco, un quindicinale da lui creato con l’appoggio di mons. Bandi quando gli parve che anche Il Domani d’Italia fosse troppo poco adatto ai semplici operai e contadini. L’Operaio, La Fionda, Il Martello, Per il Popolo, Il Lavoratore, La Sveglia, Vita Nuova, L’Era Novella, L’Unione: sono fogli che nel titolo e nel contenuto riecheggiano motivi socialisti. Ma l’impresa maggiore dei giovani democratici cristiani fu la costituzione dei primi sindacati semplici. Si sa quanto l’atteggiamento dell’Opera dei Congressi sia stato profondamente contrario a tale formula e con quante riserve essa sia stata in seguito accettata: ma proprio per questo era restata sulla carta. La prima realizzazione (79 organizzazioni locali tra il 1900 e il 1902) si dovettero ad essi, al loro entusiasmo e al loro coraggio» (S. Tramontin, op. cit., pp. 139-140). Al di là delle critiche degli intransigenti, molto feroci, parve per un attimo che la «democrazia cristiana» venisse accettata e appoggiata anche dal mondo ecclesiastico. Prima alcuni vescovi (Bandi di Tortona, Svampa di Bologna, Ferrari di Milano, Manicardi di Reggio Emilia) e poi lo stesso papa Leone XIII, nel 1901, con l’enciclica Graves de communi re, volle precisare l’ambito e il fine della democrazia cristiana di fronte alle diffidenze e ai timori di molti cattolici. Essa veniva non solo difesa, ma raccomandata, se ne accettava la denominazione e la si distingueva da una azione soltanto politica, anche per distinguerla dal socialismo. Sembrava un trionfo, tanto più che le idee dei democratici cristiani entrarono a far parte dei nuovi statuti dell’Opera dei Congressi, con la mediazione del Toniolo, del Paganuzzi, del Grosoli e altri. Ma il 27 gennaio 1902 quei nuovi statuti furono emanati insieme alle Istruzioni della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, le quali inquadrarono la democrazia cristiana nella «Sezione economica» dell’Opera. Per un attimo ci fu una divisione all’interno dei democratici cristiani: alcuni accettarono il compromesso e furono chiamati «ortodossi», altri, con Murri, si dissociarono e furono chiamati «autonomi». Ma ormai la resa dei conti era vicina. Morto Leone XIII il 20 luglio 1903, il nuovo Papa fu il patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, che prese il nome di Pio X (1903-1914), già prevenuto nei confronti del Murri e del suo movimento. Al congresso di Bologna dell’Opera nel novembre 1903 ci fu lo scontro decisivo tra i vecchi rappresentanti e i giovani democratici cristiani. Il card. Svampa, delegato del Papa, assicurò libertà di parola e diritto di voto per tutti i rappresentanti delle società cattoliche, mettendosi contro tutta la vecchia guardia dei Paganuzzi e dei don Cerruti che volevano far rispettare lo statuto. In sala i giovani gridavano: «Non vedete che siete già morti!», così che essa uscì dall’aula, tranne il Cerruti. Il Congresso era stato – come disse Murri – «il termine, l’epilogo subitaneo e drammatico di sei anni di vivaci lotte interne». 11


Ma Pio X giocò qui un ruolo particolare. Egli temeva «possibili errori nel propagandare la causa democratica», cosicché promulgò un Motu proprio del 18 dicembre 1903, in cui riprendendo alcuni pensieri della Graves de communi re di Leone XIII, ammoniva che «fosse rettamente moderata e condotta l’azione popolare cristiana e fossero osservate esattamente quelle prudentissime norme». In pratica egli sconfessava Bologna. I conservatori presero la palla al balzo per dire che la «democrazia cristiana» doveva rimanere una azione popolare intesa al miglioramento religioso, morale e materiale delle classi più bisognose, del tutto estranea alla politica, mentre i «progressisti», per così dire, non dettero peso all’intervento, considerandolo un atto dovuto. Ma queste pregiudiziali tra i due gruppi portarono la Santa Sede a sciogliere l’Opera dei Congressi. Il 29 luglio 1904 il card. Segretario di Stato di Pio X, Merry del Val, scrisse ai vescovi d’Italia la decisione di Roma, che conteneva sì la preoccupazione dell’integrità dottrinale, ma voleva anche distinguere tra azione clericale e azione laicale nell’apostolato, che non coinvolgesse la Chiesa nelle faccende temporali, di cui, invece, erano i laici a doversene prendere tutta la responsabilità. Per questo non venne sciolta la seconda sezione dell’Opera, cioè il Gruppo Economico-sociale. Nello stesso anno 1904 si ebbe anche un primo, tacito allentamento del «non expedit». Le condizioni «nuove» della politica italiana, con l’avvento al potere di Giovanni Giolitti, chiedevano ormai ai cattolici di partecipare dal di dentro alla vita dello Stato.

I cattolici trentini negli ultimi decenni dell’Ottocento Vale la pena di ricordare, anche all’inizio di questa seconda tappa della storia del movimento cattolico, che in Trentino la situazione politico-istituzionale era profondamente diversa dal resto d’Italia, sia per quel che riguardava il rapporto tra i cattolici e lo Stato (l’Impero asburgico), sia per quel che segnava le relazioni istituzionali tra la Chiesa e l’Impero. Detto con altre parole: le ragioni dell’intransigentismo cattolico italiano, ostili al «paese legale» e segnate dalla «questione romana», non potevano trovare un terreno adatto in un contesto di sostanziale «lealtà» politica e, perfino, di collaborazione dei Trentini alla vita dello Stato asburgico, pur all’interno di una lotta decisa, soprattutto dopo il 1848, a favore dell’autonomia del Tirolo del sud (italiano) e di una altrettanto tenace difesa dei diritti della Chiesa trentina nell’atmosfera del perdurante gioseffinismo di Vienna. La presenza dei cattolici (preti e laici) nella vita dello Stato austriaco, sia nei Comuni, sia alla Dieta di Innsbruck, sia al Parlamento di Vienna è stata costante a partire dalla secolarizzazione del Principato vescovile, prima all’interno dei «ceti» (clero, nobiltà, cittadini e contadini) e poi, a partire dal 1861, delle «curie» (prelati, grandi proprietari terrieri, città, comuni rurali – con l’aggiunta nel 1896 di una quinta «curia» della «classe elettorale generale» a suffragio universale, che andava ad aggiungersi alle altre quattro). Si trattava per lo più di eletti tra le file del clero, soprattutto a partire dal 1871, nel momento in cui, come si accennava nel primo incontro, il vescovo De Riccabona aveva preso posizione contro il liberalismo austriaco e il suo tentativo di laicizzazione dello Stato (le famigerate «leggi di maggio» del 1867). A suo modo ciò portò con sé una sorta di «intransi-

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gentismo cattolico trentino», non in alternativa al potere «legale», ma per contrastarne l’attività legislativa considerata anticattolica. In questo contesto vanno ricordate due cose: l’astensionismo cattolico alla Dieta di Innsbruck, nell’ambito della richiesta dell’autonomia per il Tirolo italiano, sempre negata da quel Parlamento; e l’alleanza programmatica dei cattolici con i liberali trentini, per ottenere quel risultato sia a Innsbruck che a Vienna. Del resto i cattolici trentini, come scrive Maria Garbari, «non sentirono il bisogno di costituirsi in partito, perché stretti intorno al vescovo, al clero e integrati alle strutture della diocesi che, al momento opportuno, si trasformavano in macchina elettorale tanto da portare quasi sempre dei sacerdoti alla carica di deputati di Innsbruck e a Vienna. Il loro lealismo verso la casa regnante e l’autorità costituita era indiscusso, così come l’avversione al laicismo che avrebbe scardinato l’ordine cattolico e conservatore della società, ma non mancavano fra di essi le componenti sensibili ai bisogni delle popolazioni trentine anche in merito alla questione nazionale, ferma restando l’assoluta chiusura verso l’irredentismo. Già all’interno degli ambienti de “La voce cattolica” si era profilato nel corso del tempo il contrasto fra i clericali e i cattolico-nazionali, tanto che questi ultimi, rappresentati da don Emanuele Bazzanella e don Antonio Brusamolin, avevano dato vita al periodico “Il popolo trentino”, pubblicato dal 1888 al 1891. Restava per tutti ferma e in primo piano la richiesta dell’autonomia, non scalfita dalle polemiche, che vedeva anche, all’atto delle petizioni e delle proposte compiute nelle sedi istituzionali, la ricomposizione della solidarietà fra clericali e liberali» (M. Granari, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, in Storia del Trentino, vol. 5°, p. 118). La presenza politica dei cattolici (preti e laici) in Trentino fu accompagnata, soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento, anche da una capillare e decisa azione sociale. La grave crisi economica a livello europeo in quello stesso periodo e la ancora più profonda crisi agricola, accompagnata da disastrose annate di carestie e sottoproduzione (alluvioni, ecc. ecc. come quella del 1882), avevano portato anche in Trentino miseria, emigrazione, disperazione. In Germania il mondo cattolico si era già attivato, a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento con i Katholikentage, il Partito di centro (il Zentrum) e, nel 1890, con il Vorksverein, per un preciso intervento nel campo sociale e politico. In Austria si fece altrettanto un po’ più avanti, soprattutto con il barone Karl von Vogelsang e i conti Gustav von Blome e Franz von Ruefstein e dal 1895 con il borgomastro di Vienna Karl Lueger, il leader che portò il movimento cristiano-sociale a grandi traguardi elettorali e politici. Nel Trentino, animati da questi diversi fermenti ed esperienze, alcuni sacerdoti, mossi da una genuina sensibilità pastorale, riversarono in diocesi il dibattito sociale cattolico. Lungo gli anni Ottanta don Silvio Lorenzoni e don Lorenzo Guetti pubblicarono su «La voce cattolica», sull’«Almanacco agrario» e sul «Bollettino del Consiglio Provinciale dell’Agricoltura» (organismo nato nel 1881) una serie di articoli su tematiche economico-sociali. «Il primo presentò e fece conoscere all’opinione pubblica trentina il modello cooperativistico come era applicato in modo particolare nel campo del credito, il secondo compì un’attenta analisi dell’emigrazione trentina in America, facendone toccare con mano, per la prima volta, le dimensioni spaventose» (S. Vareschi, Il movimento cattolico trentino tra Ottocento e Novecento, in Storia del Trentino, vol. 5°, p. 819). Fu, poi, don Guetti colui che passò per primo dalle parole ai fatti, dando vita nel 1890 alla prima cooperativa di smercio e consumo a Villa di Bleggio e poi, nel 1892, alla prima cassa rurale a Quadra di Bleggio, il paese dove egli era curato. Nella sua opera per il riscatto economico-sociale e culturale della sua gente Guetti scelse il sistema «Raiffeisen» dal nome del suo fondatore Friedrich Wilhelm Raiffeisen, che aveva fondato la prima Cassa sociale di 13


credito nel Westerland tedesco nel 1847, piuttosto che il sistema «Schulze Delitzsch», più macchinoso e complicato per il mondo contadino, sospettoso nei confronti di cambiali e ipoteche previste da esso. (Sul modello Schulze Delitzsch erano nate nel 1893 la «Banca mutua popolare di Rovereto» e nel 1885 la «Banca cooperativa di Trento», che avevano incontrato scarsa fiducia nel mondo rurale). Per don Lorenzo e per i suoi seguaci il sistema Raiffeisen avrebbe potuto assumere il ruolo di polo centrale della cooperazione nel mondo contadino, spingendosi a promuovere tutte quelle società agricole, di cui in qualche modo si fosse ipotizzata l’utilità o, comunque, la funzionalità, per una crescente razionalizzazione sia della fase produttiva, che di quella di commercializzazione dei vari prodotti della campagna (tra questi Caseifici o Caselli turnari, Cantine sociali, Famiglie cooperative ecc. ecc.). Lo sviluppo delle imprese cooperative fu rapidissimo (già nel 1900 le Famiglie cooperative erano 125 e le Casse rurali 92!), tanto che si sentì il bisogno di un ente di secondo livello che fungesse da agenzia di servizi. Nacque così nel 1895 la «Federazione dei consorzi cooperativi», cui fecero seguito la «Banca cattolica trentina», come cassa di compensazione tra Casse rurali, e il «Sindacato agricolo industriale trentino» (SAIT), con l’intento di razionalizzare l’azione delle Famiglie cooperative, sia per l’approvvigionamento delle merci, sia per lo smercio delle produzioni locali, entrambi nel 1899. Ma già negli anni precedenti era cominciato, nel frattempo, nel mondo cattolico trentino un significativo dibattito tra coloro che consideravano l’intraprendenza dei cristiani in campo sociale ed economico come un «dovere» derivante dal Vangelo, possibile per ogni uomo di «buona volontà» e quindi senza etichette confessionali (come don Guetti) e coloro che, invece, sull’onda di quanto accadeva in Austria e in Italia, volevano che tutte le iniziative nate in quell’ambito, apparissero sempre di più come il distintivo specifico della presenza cattolica nella società trentina (l’ingegner Emanuele Lanzarotti e poi don Giovanni Battista Panizza). Certo, a spingere verso questa seconda posizione c’era il fatto del diffondersi anche in Trentino del socialismo, soprattutto in città e nei centri più grossi del territorio. Per questo pareva che bisognasse «rinserrare le fila» di fronte al nemico e, soprattutto, occorreva ribadire «l’impronta cristiana» su tutte le iniziative dei cattolici. Scrive Andrea Leopardi: «Si trattava di due posizioni – entrambe legittime – che andarono a dividere il mondo cattolico trentino circa il modo di concepire l’agire sul piano eticoreligioso, finendo però per assumere un chiaro connotato di tipo politico in un momento in cui le contrapposizioni risultavano particolarmente evidenti. Finché rimase in vita Lorenzo Guetti la sua capacità carismatica fece sì che non si evidenziassero in termini dirompenti frizioni traumatiche all’interno del movimento cooperativo trentino tra “neutri” e “confessionali”. Dopo la sua morte nel 1898 tuttavia, la componenti confessionale prese gradualmente il sopravvento, fino ad emergere con chiarezza durante il congresso del 1899 della Federazione dei consorzi cooperativi, che chiamò alla presidenza Giovanni Battista Panizza, un altro sacerdote, che però a differenza del suo predecessore nutriva una chiara impostazione “confessionale”. La svolta non mancò di creare qualche tensione e alcuni momenti di scompiglio; tuttavia il movimento cooperativo trentino dimostrò nei fatti di accettare la guida “confessionale”, che non impose alcun tipo di mutamento nella prassi operativa, ma seppe rilanciare con convinzione tutti i capisaldi impostati durante la fase pionieristica del movimento» (A. Leonardi, La cooperazione: da un esordio difficile a uno sviluppo prorompente, in Storia del Trentino, vol. 5°, p. 802). Nel frattempo, soprattutto per l’iniziativa di due giovani preti, appena ritornati da Roma, dove avevano completato il loro ciclo di studi alla Gregoriana, don Celestino Endici (il futuro vescovo, 1866-1940) e don Guido de Gentili (1870-1945), era nata prima l’Unione cattolica trentina (1897), il cui scopo era quello di «promuovere e tutelare lo sviluppo delle opere cattoliche del paese in tutti i campi dell’attività cattolica-sociale» e poi, nel 1898, «Il Comitato 14


diocesano di azione cattolica», che avrebbe dovuto diventare il motore per la crescita quantitativa e la compattezza ideologica del movimento cattolico in Trentino. Infatti, nella letterainvito per l’adunanza costitutiva (12 settembre 1898) il Comitato diocesano di azione cattolica veniva presentato come un organismo avente lo scopo «di dare maggiore, più stabile e più regolare sviluppo al movimento e all’organizzazione cattolica, di riunire le forze cattoliche e coordinarne l’azione». «Nella prima delle adunanze, nel novembre 1898, don Panizza raccomandò la cura per la purezza dell’ispirazione cattolica delle opere economico-sociali, essendo (e in ciò citava Giuseppe Toniolo) “errore gravissimo credere che sia possibile separare la religione dall’industria, dal commercio, dalla politica, onde lo spirito cattolico deve intromettersi in tutto come l’anima nostra tutto invade il corpo... La confessionalità è e dev’essere il carattere indispensabile delle nostre istituzioni cattoliche... Togliendo il carattere religioso alle nostre associazioni sparirà la fratellanza fra il ricco e il povero, la vera e santa democrazia cristiana e si alzerà un muro divisionale fra le diverse classi sociali”. Era così posta all’ordine del giorno la svolta in senso confessionale della Federazione dei consorzi cooperativi da parte di colui che nel congresso di luglio di quell’anno era stato chiamato a presiederla in successione del defunto don Guetti. Nel congresso dell’anno successivo a Mori (aprile 1899), don Panizza traghettava in maniera definitiva la Federazione – non senza un deciso strappo con la sua passata tradizione neutra e con gli esponenti di quella – su una sponda dichiaratamente cattolicoconfessionale» (S. Vareschi, op. cit., p. 825). Si moltiplicarono in questo tempo le iniziative per essere presenti nei vari campi della vita sociale. Già nel 1895 don Endici animò il «Circolo cattolico» di Trento, che poi divenne nel 1896 la «Società operaia cattolica di Trento e del circondario», con un quindicinale «Fede e lavoro», da cui nacque nel 1900 la Federazione delle Società agricole operaie cattoliche (SAOC) con lo scopo di fondare unioni professionali, cioè società operaie di settore. Già una di queste, la Società magistrale cattolica, con lo scopo di formare maestri cattolici, era nata l’anno prima, nel 1899. La nomina di Celestino Endici a vescovo di Trento il 18 marzo 1904 fu la dimostrazione che anche in alto loco non si dubitava del movimento cattolico trentino e ciò significò per esso, in ogni caso, un grossissimo successo.

Canova, 16 gennaio 2009

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MARCELLO FARINA

Breve storia del movimento cattolico in Italia dall’Ottocento al Concilio Vaticano II

Parrocchia s. Pio X - Canova (Trento)


LA PRIMA PARTECIPAZIONE DEI CATTOLICI ALLA VITA POLITICA ITALIANA CAPITOLO III

(1904-1922)

1.

Tra delusioni e speranze

Il nuovo secolo, il Ventesimo, e il nuovo Papa, Pio X (1903-1914) portarono con sé fin dall’inizio, delle novità importanti per il mondo cattolico italiano. Il primo doveva fare i conti con i fenomeni sociali seguiti alla nascita della rivoluzione industriale in Italia (dagli anni ’80 dell’Ottocento) con lo sviluppo del movimento operaio e del partito socialista (1892), con le gravi crisi sociali ereditate da fine secolo, con una nuova esigenza di partecipazione alla vita politica delle masse, con la conseguente crisi dei partiti risorgimentali. Il secondo, cioè Pio X (Giuseppe Sarto) avrebbe, invece, dovuto affrontare una «crisi di crescita» della Chiesa cattolica, promossa da quel movimento del rinnovamento cattolico, che avrebbe preso il nome di «Modernismo» e, per quel che riguardava il movimento cattolico italiano, dalla sua nuova collocazione all’interno delle modalità diverse di rappresentanza previste per esso dallo stesso Pontefice. Infatti, come si ricorderà, due eventi accompagnarono l’elezione a Papa di Giuseppe Sarto, relativi al movimento cattolico italiano: lo scioglimento dell’Opera dei Congressi nel luglio del 1904, e la contemporanea abolizione (allentamento) parziale del non expedit, dopo trent’anni (1874-1904). (L’abolizione ufficiale sarà fatta il 12 novembre 1919). La prima azione del Papa, dettata dalla sua ostilità nei confronti di don Murri e della sua «democrazia cristiana», la cui forza ideale stava imponendosi all’interno dell’Opera stessa, era stata accolta nel mondo cattolico con giudizi discordanti. Don Luigi Sturzo parlò di «fortunati e dolorosi eventi» che avevano solo fatto «scomparire quelle forme e quelle formule già cadute da un pezzo dall’animo dei cattolici riformisti» e che «lo spirito doveva ritenersi libero», non essendo più possibile tornare indietro; il vescovo Radini-Tedeschi parlò a sua volta di «giornate veramente dolorose» che rischiavano di compromettere «per il sospetto di pochi il gran bene» che si stava facendo; molti giovani democratici cristiani restarono a loro volta incerti sul da farsi e mentre alcuni di loro avrebbero finito coll’esplicare la loro attività nell’ambito del Gruppo economico-sociale rimasto in vita, altri si riunirono intorno a don Murri per costituire la Lega democratica nazionale, erede della «democrazia cristiana»; per Giuseppe Toniolo, invece, si doveva continuare nell’azione di prima, senza dare eccessiva importanza agli «influssi murriani». Nel frattempo la Santa Sede aveva incaricato i gesuiti Pavissich, De Santi e Brandi di studiare la riorganizzazione del movimento cattolico italiano: le loro idee erano di modellarlo sul tipo di quello tedesco (partito politico del Zentrum e il Volksverein), ma esse parvero a Pio X ancora premature per l’Italia. Ad ogni modo molti di quei concetti vennero accettati e trovarono posto nell’enciclica «Il fermo proposito» dell’11 giugno 1905. Essa accoglieva, sia pure con grossi limiti, il principio di una partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana (ecco perché si può parlare di parziale abolizione del non expedit!), ne chiarificava l’azione, costituendo tre associazioni 2


distinte per le attività rispettivamente di formazione e propaganda, economiche e sociali e politico-ammini-strative. È così che nascono le tre Unioni: l’Unione popolare, l’Unione economico-sociale e l’Unione elettorale, proprio sull’onda dell’enciclica del 1905. a) L’Unione popolare, sull’esempio del Volksverein tedesco, doveva diventare la potente associazione che avrebbe stretto in unità di studio e di azione la grande massa dei cattolici italiana, guidata dai loro capi riconosciuti. In realtà i risultati, soprattutto quelli riguardanti la formazione culturale, non furono molti (si preferì, come sempre, la “pratica”!). I più rilevanti furono la costituzione dell’Unione fra le donne cattoliche d’Italia nel 1908; l’avvio delle Settimane Sociali; la fondazione di un periodico sociale popolare, «L’azione sociale»; e la celebrazione del Congresso di Genova nel 1908, in cui trattò dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica e della promozione sociale del popolo attraverso l’istruzione. b) L’Unione economico-sociale era l’erede del Secondo Gruppo, quello economico, dell’Opera dei Congressi. Si tentò in tutti i modi di conservare l’Unione sotto la direzione gerarchica, dando ad essa anche l’assistente ecclesiastico. Nel febbraio del 1911 vennero creati all’interno dell’Unione quattro segretariati generali, corrispondenti alle varie attività del movimento e cioè uno per i sindacati, uno per le casse rurali e le cooperative agricole, uno per le società operaie di mutuo soccorso, uno per le banche cattoliche. In questo contesto venne istituito a Bergamo il Segretariato delle unioni professionali, il cui scopo era assai vicino a quello della Confederazione Generale del Lavoro, la CGL, creata nel 1906 dai socialisti a Milano per potenziare il movimento sindacale. c) L’unione elettorale poi si concreterà nel Patto Gentiloni del 1913, cioè nelle alleanze clerico-moderate. L’enciclica «Il fermo proposito» invitava i cattolici a prepararsi alla vita politica ed alla organizzazione di associazioni che avrebbero goduto di una certa libertà, ma sempre alle dipendenze della gerarchia, perché non potevano essere concepite «indipendenti dal consiglio e dall’Alta Direzione dell’Autorità Ecclesiastica, specialmente poi in quanto devono tutte informarsi ai princìpi della dottrina e della morale cristiana; molto meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la medesima autorità [...]. È quindi conveniente che [...] a questa materna vigilanza i cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figlioli. Per la qual cosa appare manifesto quanto fossero sconsigliati coloro, pochi in vero, che qui in Italia e sotto i nostri occhi, vollero accingersi ad una missione che non ebbero da noi, né da alcun altro dei Nostri Fratelli nell’Episcopato, e si fecero a promuoverla non solo senza il debito ossequio all’autorità ma perfino apertamente contro il volere di Lei, cercando di legittimare la loro disobbedienza con frivole distinzioni... Con estremo rammarico del Nostro cuore abbiamo dovuto condannare una simile tendenza ed arrestare autorevolmente il moto pernicioso che già si andava formando» (P. Bellu, Gli italiani alle urne, pp. 121-122). L’enciclica invitava, poi, il clero «a mantenersi egualmente al di sopra di tutti gli umani interessi, di tutti i conflitti e di tutte le classi della società», e a non partecipare ad associazioni di tal genere, se non nei casi particolari e di intesa con i loro vescovi. L’allusione al Murri e ai democratici cristiani autonomi era evidente. Ma proprio il Murri, dal canto suo, approvava questa presa di posizione, che gli pareva indicare l’invito al non-intervento dei preti nelle questioni politiche, anche se non gli piaceva l’alleanza con i moderati liberali predisposta ormai dai responsabili dell’Unione elettorale: se un’alleanza doveva essere fatta, non si vedeva perché bisognava escludere le sinistre, considerato che dal punto di vista religioso non avevano nulla da invidiare alle destre e, anzi, rappresentavano istanze sociali ben più autentiche di quelle dei moderati. Don Romolo sperava, addirittura, in questa circostanza di ottenere un placet dalla Chiesa per guidare i cattolici nella vita politica; ma la sua speranza fu vana, cosicché egli, vedendo 3


boicottato il suo desiderio, senza badare ai suggerimenti di Sturzo, fondava a Bologna, nell’ottobre del 1905, la Lega Democratica nazionale, con uno statuto proprio. Da questo momento sarebbe divenuta sempre più precaria la posizione già tanto delicata del Murri, ormai ineluttabilmente avviato alla rottura completa con l’autorità ecclesiastica. «Pio X, infatti, con l’enciclica Pieni l’animo del 28 luglio 1906 condannò la Lega Democratica e proibì ai sacerdoti l’adesione al movimento. Con questa disposizione veniva colpito personalmente il Murri, il quale tuttavia continuò ad essere la guida principale della Lega. Gradatamente la Lega prese una posizione laica e separatista nei rapporti tra Stato e Chiesa e, in merito, nel settembre 1907 diffuse un programma di politica ecclesiastica (cfr. R. Murri, La politica clericale e la democrazia, 2a ed., Roma, 1910, pp. 260-263). Nelle elezioni del 1909 la Lega sostenne candidati radicali e socialisti e presentò come proprio candidato anche il Murri, che fu eletto nel collegio di Montegiorgio nelle Marche ed in quella legislatura alla Camera fu, come indipendente, tra le file dei radicali. Dopo l’elezione il Murri, che era già sospeso a divinis sin dal 1907, fu scomunicato, ed allora accentuò la sua linea politica laica e anticlericale in pieno contrasto con quella dei suoi stessi amici della Lega. In seguito a queste divergenze alcuni dei più quotati dirigenti della Lega si separarono da lui e costituirono la Lega democratico-cristiana, con a capo Eligio Cacciaguerra, la quale ebbe una certa diffusione in Romagna e poi confluì nel partito popolare. Da allora il Murri svolse la sua attività fuori del movimento cattolico. Morì nel 1944 riconciliato con la Chiesa» (P. Bellu, op. cit., p. 123).

2.

La prima partecipazione alla vita politica dei cattolici italiani

Quanto, poi, alla partecipazione alla vita politica italiana da parte dei cattolici cui, come si è visto, invitava a suo modo l’Unione elettorale, va qui ricordato il «nuovo» clima politico instaurato dalla personalità più in vista della storia di questo inizio di secolo, Giovanni Giolitti, il cui ruolo sarebbe stato decisivo per l’inserimento dei partiti di massa nella vita politica italiana. Dal 1903 al 1914 Giolitti avrebbe assunto un ruolo decisivo nella guida alle trasformazioni istituzionali e sociali della nazione. Nella nuova situazione diventava comprensibile che alcuni gruppi di cattolici, soprattutto quelli dei settori borghesi, imprenditoriali, bancari e agrari, fossero favorevoli all’inserimento nella vita politica in funzione del rafforzamento delle posizioni moderate. In questo senso fecero la loro scelta: difesa dell’ordine costituito, antisocialismo, antiradicalismo, accettazione di fatto dell’ordine politico vigente, appoggio al Giolitti. Una tendenza, come si è visto, che era in netto contrasto con quanti – come i democratici cristiani – miravano all’inserimento nell’azione politica con un partito proprio. Si arrivò così a una «conciliazione nell’indifferenza», come la chiama Jemolo, o a una «conciliazione silenziosa», come la chiama Spadolini, a «uno stato di distensione e tolleranza che introduce nelle vecchie leggi eversive e spogliatrici uno spirito nuovo, uno spirito di comprensione, di benevolenza, talvolta pure di amicizia». Certo, «i due poteri formalmente e dottrinalmente non si incontrano mai; ma nella pratica si possono fare tutte le transazioni possibili, purché non sorgano dissidi e non si verifichino attriti. Una politica, insomma, per essere franchi, di ipocrisia, perché si coopera di fatto, mentre di diritto si ignorano e sono addirittura in contrasto aperto» (P. Bellu, I cattolici alle urne, Della Torre, p. 99). Nel 1904, Giolitti, dopo i tragici fatti di Buggerru in Sardegna, dove i carabinieri avevano ucciso tre minatori in sciopero, e dopo lo sciopero generale che ne era seguito, decise di sciogliere le Camere il 18 ottobre per le nuove elezioni del 6 novembre, con l’intento di indebolire l’estrema sinistra e di aggregare così i cattolici alla vita politica.

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La lotta elettorale fu particolarmente intensa nell’Italia settentrionale, dove si presentarono diversi candidati cattolici nelle liste moderate, dando così inizio alle alleanze clericomoderate (i «cattolici deputati»). «Per tutta l’Italia era corsa rapida come una scintilla la parola d’ordine di entrare in lotta contro i partiti sovversivi. E dovunque i cattolici scesero in campo, alcuni alla spicciolata e altri meglio disciplinati, come la condizione e la improvvisa risoluzione poterono loro suggerire, il trionfo del partito dell’ordine fu assicurato oltre ogni aspettativa, e in tutti fu chiara la convinzione che un simile risultato era stato conseguito per il concorso delle riserve cattoliche. Dopo le elezioni, considerato come si erano svolte le cose e molte altre circostanze particolari e locali, molti cattolici poterono in generale dichiararsi contenti dei risultati ottenuti. Il fine principale della loro azione, fermare il socialismo rivoluzionario sempre più avanzante, era stato raggiunto. Ma oltre a questo era loro apparsa più chiara la possibilità di una loro migliore affermazione in campo politico qualora si fossero organizzati meglio» (P. Bellu, op. cit., p. 106). Ma il mondo cattolico non fu uniforme nel giudicare questa prima partecipazione alla vita politica. Ad esempio, «la corrente veneta, che faceva capo a La Riscossa di Breganze, difese a spada tratta l’inviolabilità del non expedit, accusando di ribellione tutti coloro che non l’avevano osservato, perché il non expedit era “una legge papale; ma una legge papale che trova la sua ragione d’essere nella legge naturale e divina” e neanche il papa avrebbe potuto revocarla – sosteneva – “finché non siasi resa alla Sede Apostolica tutta la giustizia che le si deve”. Prima di citare le motivazioni di coloro che furono contrari e non approvarono l’opera dei cattolici che si erano recati alle urne, bisogna tenere presente un elemento molto importante, a cui, sul momento, i favorevoli all’intervento, avevano badato poco. Si trattava di un accordo stipulato in alto, al vertice, tra alcuni esponenti cattolici e governativi senza un programma stabilito e concordato. I cattolici avevano promesso e dato effettivamente il loro contributo di voti che, come abbiamo visto, in alcuni casi era stato determinante. Ma i liberali che cosa assicuravano ai cattolici? Ufficialmente, niente. Non ci fu un programma studiato insieme, non una garanzia, non una contropartita. Si trattava in pratica di far affluire alle urne dei voti che andavano a vantaggio dei soli liberali» (P. Bellu, op. cit., p. 107). Sul lato opposto, quello «progressista», si lamentava che i cattolici fossero andati alle urne, ma a vantaggio di altri; avevano fatto pesare sulla bilancia la loro forza, ma a favore del governo; s’erano mostrati, ma sparendo ancora di più, se fosse stato possibile come partito a sé. Don Sturzo definì il contributo dei cattolici opera di reazione, «sino alla prostituzione di un voto che nulla significa per sé, perché non ha programmi, non ha carattere, non ha vita, cedendo tutto questo col voto, cioè programma, carattere, vita al governo, ma vita in antagonismo con gli interessi morali e religiosi che noi sosteniamo. [...] Ma c’è di peggio; noi combattiamo i socialisti, è vero, ma con le forze nostre e le nostre idee, che hanno un valore sociale democratico; invece appoggiando i moderati e i conservatori si è fatto opera di reazione, si è andato contro un complesso di aspirazioni e di vitalità, che rispondono al bisogno del proletariato, all’avvenire delle forze sociali cristiane». Don Murri aveva chiamato la partecipazione dei cattolici moderati «il partito delle stampelle» e dopo le elezioni definì «un delitto» il gesto con cui i cattolici italiani avevano gettato lontano da sé il non expedit; i partecipanti erano chiamati «mercanti del cattolicesimo, poveri di spirito». «Fu proprio allora che il Meda decise di accingersi alla fondazione di un partito politico, composto, articolato su una diversità di tendenze, interclassista e aconfessionale. Intermediario del Meda a Roma presso la curia fu Giovanni Mercati il quale, con l’aiuto, pare, del gesuita padre Pavissich, agiva con grande cautela, e altrettanta ne consigliava anche al Meda, sug5


gerendogli di non dare alcuna pubblicità alla decisione prima di ottenere dalla Santa Sede almeno un’approvazione segreta del programma». Ma proprio la Santa Sede agì con estrema durezza nei confronti di ogni tentativo autonomo di dar vita a gruppi organizzati di cattolici, che non rientrassero nell’Unione economicasociale, l’unica rimasta dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi, prima che si costituissero, come si è visto, nel 1905 le tre Unioni, tra cui quella elettorale, interessata direttamente alla questione della partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. Ma anche dopo il 1905 molti cattolici sentirono un particolare disagio in riferimento sia alla norma che legava le scelte elettorali alla dipendenza dall’autorità ecclesiastica, sia alla mancanza della possibilità di un’azione comune, essendo loro assolutamente vietato di costituirsi come gruppo autonomo. Solo nelle elezioni del 1909 si sentì la necessità di un migliore coordinamento tra candidati cattolici e di una miglior «consapevolezza» da parte degli elettori (cattolici), che potevano richiedere ai primi una «dichiarazione pubblica», che li impegnasse a combattere e ad opporsi a tutte quelle eventuali proposte di legge, che fossero presentate in odio ai princìpi religiosi dei cattolici e a propugnare, dal canto loro, i seguenti punti: «riaffermare il diritto della nazione all’istruzione cattolica nelle scuole pubbliche di tutti i gradi; favorire la libertà di insegnamento di fronte alle tendenze odierne del laicismo di Stato... difendere la scuola privata tenuta ora dai pubblici poteri in condizione di umiliante inferiorità con disposizioni sempre più vessatorie; sostenere quel programma minimo di carattere sociale che trova la sua base nel Vangelo...» (P. Bellu, op. cit., p. 132). Troviamo qui i germi di quello che sarà poi il patto Gentiloni, che perfezionerà quanto qui era stato abbozzato. Intanto, nelle elezioni del 1909, i cattolici eletti furono 16, tra cui Filippo Meda a Rho, ecc., ed essi dovettero subito sostenere una sorta di battaglia parlamentare per difendere la loro fedeltà allo Stato. Infatti, nelle sedute preliminari del nuovo Parlamento, due oratori vollero discutere, come argomento del dibattito, proprio l’ingresso dei cattolici nella vita politica e l’atteggiamento del governo in relazione a questo fatto. Il socialista Treves asserì che la partecipazione dei cattolici in campo politico costituiva un pericolo per la libertà e una minaccia per lo Stato. L’onorevole Cameroni (cattolico) ribatté che i cattolici, partecipando alla vita politica, non minacciavano né lo Stato né la libertà, anzi essi «amavano la patria». Mentre parlava si udì chiaramente una provocatoria frase: «Roma capitale!»; egli allora raccolse la provocazione ripetendo: «La patria tutta con Roma capitale... È assurdo chiedere ad un deputato italiano che siede in Roma, se riconosce Roma capitale d’Italia». Ma la stampa intransigente cominciò a cavillare se l’affermazione dovesse intendersi solo nel «fatto» o anche nel «diritto» e continuò con lunghe disquisizioni per parecchio tempo. «Dopo le elezioni però, quando le cose furono più calme, e si potevano valutare le situazioni con più chiarezza e spassionatamente, si vide ancor più palesemente come in alcuni collegi i vescovi, o novelli o digiuni di politica, s’erano lasciati abbindolare da candidati screditatissimi in ogni campo, i quali, andatisi a battere il petto davanti ad essi, ne avevano carpito il favore. In altri collegi, soggetti a più diocesi, alcuni vescovi avevano sospeso il non expedit per un candidato, altri per un altro, altri finalmente per nessuno, generando una gran confusione. Ad ogni modo in tutt’Italia i vescovi si erano esposti a sospetti di compromissione politica. Di questa situazione si fece interprete presso il Papa Filippo Crispolti, invitato anche da molti amici; e la conseguenza fu che poco dopo si prese il provvedimento di sottrarre la questione ai vescovi ed attribuirla all’Unione Elettorale Cattolica Italiana della quale fu eletto presidente nel luglio il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, noto per capacità organizzative e sostenitore della linea clerico-moderata, cioè del sostegno delle forze cattoliche alla classe politica liberale, prevalente allora nel movimento cattolico ufficiale. Questa linea implicava da 6


parte dei cattolici organizzati una lotta per frenare l’avanzata dei socialisti, dei radicali e in generale delle forze laiche di estrema sinistra e di sinistra liberale; ma al tempo stesso, poiché permaneva il divieto papale di costituire un partito cattolico, l’azione elettorale dei cattolici mirava in sostanza ad appoggiare Giolitti e a condizionarne la politica, quanto più possibile, in senso clerico-moderato» (P. Bellu, op. cit., p. 136). Il nuovo presidente si mise al lavoro con animo veramente indefesso, contribuendo alla stesura di un nuovo statuto per l’Unione elettorale, che sottraeva ai vescovi il controllo sui candidati e lo rimetteva direttamente nelle mani del Presidente e, tramite lui, in quelle dello stesso Papa. Intanto, tra il 1911 e il 1912 si diede spazio all’elaborazione di una nuova legge elettorale, che trovò intoppi a causa della guerra di Libia. Essa fu approvata il 29 giugno del 1912, con il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che sapessero leggere e scrivere (e l’avessero dimostrato con una prova!). La paura che l’allargamento del suffragio portasse nuovo potere alle frange politiche estreme, rese il patto tra Giolitti e i cattolici ancora più importante. Dal canto loro questi ultimi, dopo lo sbandamento seguito alla soppressione dell’Opera dei Congressi, si erano gradatamente ripresi e negli ultimi anni (dopo il 1907) avevano messo a punto una notevole organizzazione, sia in campo economico, dove si era sviluppata l’organizzazione creditizia cattolica, soprattutto tra i ceti rurali, sia in campo sociale, dove era andato sviluppandosi l’associazionismo tra i contadini, i mezzadri, i piccoli affittuari, i piccoli proprietari e i braccianti (tra il 1907 e il 1910 c’erano 364 leghe con 104.614 iscritti, tra industria e agricoltura). Contemporaneamente, molto importante fu la penetrazione dei cattolici nel settore del lavoro delle industrie tessili, con l’organizzazione delle donne operaie, delle sarte, delle lavoranti a domicilio, delle domestiche: in questo settore, lo si è già visto, era sorta l’Unione delle donne cattoliche d’Italia e, più tardi, l’Opera per la protezione della giovane. Anche i settori impiegatizi pubblici e privati, come quelli dei commessi e degli impiegati delle ferrovie e delle poste, furono organizzati. Altra influenza di capitale importanza fu quella esercitata tra i maestri, i quali svolgevano un’opera di grande mediazione tra larghi strati popolari, con la costituzione dell’associazione magistrale cattolica “Nicolò Tommaseo” (19.000 iscritti nel 1913). Tutte queste forze cattoliche, orientate con compattezza, avrebbero avuto un peso elettorale determinante. E con l’approssimarsi delle elezioni, fissate per il 26 ottobre 1913, il Gentiloni stilò quei punti programmatici, che i candidati liberali avrebbero dovuto accogliere per ottenere l’appoggio dei cattolici. «I sette punti del patto non contenevano altro che le linee generali di un programma minimo dei cattolici italiani; linee generali che a volte erano in antitesi con quelle di altri gruppi politici: opposizione al divorzio ed a proposte di legge che tendessero a turbare la pace religiosa e a intralciare o screditare la scuola privata; tutela del diritto delle famiglie riguardo all’istruzione religiosa per i loro figli nelle scuole pubbliche; riconoscimento del diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali indipendentemente dai princìpi religiosi ai quali esse si ispirassero» (P. Bellu, op. cit., p. 145). La partecipazione alle elezioni fu inferiore alle previsioni e si attestò sul 60,4% degli aventi diritto (che erano 8.672.249, pari al 24,49% degli abitanti residenti in Italia!). L’esito poi lasciò molti punti interrogativi. Le accuse di brogli e di corruzione misero in forse parecchie vittorie e, soprattutto, venne allo scoperto tutta la «trama» delle alleanze tra i liberali e il Gentiloni con i relativi patti e con i nomi dei candidati che li avevano sottoscritti. Fu un putiferio (qualcuno commentò più tardi: «fu una bomba atomica...»): ogni nome fu scrutato, indagato, discusso. «Con ironia si commentava che la maggior parte dei membri, noti per le loro inclinazioni religiose o miscredenti, ligi alla massoneria, avevano consentito a combatterla in quel modo drastico. Infatti, liberali, moderati, radicali, socialisti, repubblicani, giornali d’ogni colore, da quello del Corriere della sera a quello de Il Messaggero, da quello della Perseveranza a quel7


lo de l’Avanti!, si scagliarono contro il capo dell’UECI e contro i cattolici stessi e, non bastando gli estranei, scesero in campo anche i “gentilonizzati”, come furono chiamati i deputati eletti con l’aiuto dei cattolici e firmatari del patto: si smentirono, si confermarono i patti in una maniera a volte poco decorosa. Anche in campo cattolico ci furono forti reazioni, soprattutto tra i cattolici sociali (organizzatori di leghe operaie e di cooperative contadine), e tra gli aderenti all’ala democratica cristiana» (Ibidem, p. 150). Nel complesso rimase un senso di amarezza, sia nei cattolici, sia nei candidati liberali e moderati. Questo senso di disagio lo avvertirono in modo particolare Sturzo e Meda, i quali da questi avvenimenti ricevettero ulteriore conferma che il patto Gentiloni e simili espedienti erano inadeguati e che i cattolici avevano ormai bisogno di un partito proprio, autonomo, aconfessionale, che permettesse loro di inserirsi attivamente con un preciso programma nella vita nazionale. Gli ultimi anni del Giolitti, poi, dopo le elezioni del 1909, videro il progressivo incrinarsi di quel delicato equilibrio, da lui costruito con il tacito accordo dei socialisti riformisti, con l’appoggio condizionato delle diverse frange del Partito liberale e con il sostegno elettorale del mondo cattolico tramite le alleanze clerico-moderate. Gli elementi di crisi furono in particolare due: la guerra di Libia e il programma di ulteriori riforme messo in atto dal Giolitti nel 1912. Benché fosse personalmente poco entusiasta delle imprese coloniali, Giolitti ritenne che non poteva resistere alle crescenti forze che premevano in senso colonialista, pensando così di poter attenuare o annullare la loro opposizione facendo propri i loro programmi. L’impresa era voluta da vasti settori dell’industria pesante e del mondo bancario, anche cattolico. Diversi settori del variegato mondo socialista si pronunciavano apertamente in favore della guerra: alcuni, perché pensavano a un possibile sbocco per la sovrabbondante manodopera contadina meridionale; altri, come il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola, perché cercavano nella guerra la rivincita contro i riformisti. Soprattutto, però, l’impresa di Libia era voluta dai nazionalisti, che avevano da tempo innescato una violenta e sanguigna polemica contro il sistema giolittiano e, più in generale, contro il sistema democratico-liberale. Le conseguenze della guerra di Libia non furono quelle che il Giolitti aveva sperato. Il nazionalismo si fece più aggressivo e il partito socialista fu percorso da un’ondata di polemiche e di conflitti che portò al prevalere dell’ala antimonarchica, anticlericale, antigiolittiana (Mussolini e l’«Avanti!»). Egli, nel frattempo, volle affrontare con decisione alcuni nodi critici della società italiana, presentando un progetto di imposta progressiva sul reddito e sulle successioni, attuando la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, la riforma scolastica Credaro e, appunto, introducendo il suffragio universale maschile. Di fronte alle resistenze a questa politica e, come si è già visto, alle delusioni del patto Gentiloni, Giolitti pensò di uscire per qualche tempo di scena, cedendo le redini del governo al conservatore Salandra (1914), mentre la situazione sociale del paese si deteriorava. Nel giugno ci fu la «settimana rossa» con lo sciopero generale, guidato da uomini diversi, ma animati da una comune velleità rivoluzionaria: Mussolini, l’anarchico Malatesta, il giovane repubblicano Pietro Nenni. La repressione seguì immancabile; ma ormai la situazione italiana veniva coinvolta nella tragica stagione, che sarebbe iniziata a luglio, della prima guerra mondiale (1914-1918). Nel lungo e combattuto dibattito, seguito in Italia dopo la dichiarazione della sua neutralità, il 4 agosto 1914, i cattolici presentarono una certa varietà di posizioni. «In generale, tra i cattolici non ebbero molto seguito gli entusiasmi interventisti; ma il prevalente neutralismo cattolico fu di un tipo tutto particolare. Da una parte prevaleva l’obbedienza verso il neoeletto pontefice Benedetto XV (1914-1922), che aveva assunto subito un atteggiamento pacifista e contrario alla guerra, da lui denunciata come frutto dello scatenarsi degli egoismi nazionali e di classe, e del “materialismo” imperante nel mondo moderno. 8


Dall’altra parte c’era la preoccupazione di mostrare che i cattolici italiani erano ormai cittadini leali e obbedienti alle legittime autorità dello Stato, cui toccava decidere qual era il bene della nazione. Quest’appello alla disciplina dei cattolici, lontana sia dagli entusiasmi interventistici sia dal neutralismo assoluto dei socialisti, si tradusse, al momento in cui fu scelta dal governo italiano la via dell’intervento, in un indiretto appoggio alle forze interventiste» (F. Traniello, op. cit., p. 323; cfr. anche Scoppola, Dal Neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Studium, p. 145).

3.

Il tormentato dopoguerra e la ripresa della attività del mondo cattolico italiano: la nascita del Partito Popolare italiano

Un primo accenno, per questo periodo, non può non riguardare la pesante eredità della guerra, le sue perdite umane e materiali e il fragile assetto politico che ne seguì, soprattutto in Europa. «Le perdite che le parti contrapposte avevano subìto erano state spaventose. Secondo le attendibili stime fatte dal Dipartimento della guerra USA, i morti ammontavano a 8.538.315. Di questi, quelli del campo alleato erano: 1.700.000 per la Russia, 1.357.800 per la Francia, 908.371 per la Gran Bretagna (incluse le forze dell’Impero), 650.000 per l’Italia, 126.000 per gli USA, 335.706 per la Romania, 45.000 per la Serbia; in totale, compresi anche la Grecia, il Portogallo e il Montenegro, il campo antitedesco aveva perduto 5.152.115 uomini. Le perdite dello schieramento raccolto intorno alla Germania ammontavano a 3.386.200 così suddivise: 1.773.700 per la Germania, 1.200.000 per l’Austria-Ungheria, 325.000 per la Turchia, 87.500 per la Bulgaria. Ai morti andavano aggiunti per entrambi i campi ben 21.219.452 feriti. I mobilitati erano stati 65.038.810, con un massimo per la Russia di circa 12 milioni e per la Germania di 11 milioni. L’Italia aveva mobilitato 5.615.000 uomini, la Francia quasi 8 milioni e mezzo, la Gran Bretagna (incluso l’Impero) quasi 9 milioni. Come si vede, l’Europa aveva subìto perdite assolutamente micidiali. E non basta a questo punto tenere presente soltanto il numero dei morti e dei feriti; bisogna pensare che questi erano nella quasi totalità uomini fra i 20 e i 40 anni. La loro scomparsa o invalidità significava la perdita di enormi energie umane fisiche e intellettuali. Accanto alle perdite umane, fonte di tante sofferenze morali, vi era poi la perdita di gigantesche quantità di beni materiali. I trasporti, i macchinari delle aziende erano stati sottoposti ad una usura continua, senza la possibilità di provvedere adeguatamente al loro rinnovo. I bilanci di tutti gli Stati europei erano più o meno dissestati, i debiti fortissimi. Gli stessi paesi vincitori erano in debito soprattutto con gli Stati Uniti. Inoltre la guerra aveva modificato profondamente le correnti del commercio internazionale, creando condizioni di debolezza per l’Europa. I paesi dell’Intesa, mentre crollava il commercio intereuropeo, avevano aumentato in modo fortissimo le proprie importazioni specie dalle Americhe, senza poterle pareggiare con le proprie esportazioni. I due Stati che trassero maggior profitto da questa “eclissi” dell’Europa furono le due grandi potenze extraeuropee: gli Stati Uniti e il Giappone» (Massimo L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, vol. 2°, Löscher, pp. 556-557). Per quel che riguarda l’Italia, essa, paradossalmente, usciva dal conflitto mondiale, da un lato, come una delle grandi potenze vincitrici, dall’altro, in preda ad una crisi di enorme portata. Lo sforzo, sostenuto dagli Italiani durante la guerra, era stato gigantesco, se considerato dal punto di vista delle potenzialità interne, ma sicuramente modesto, se paragonato a quello compiuto da Francia e Gran Bretagna, tanto che, al tavolo della pace e delle trattative per i compensi, i veri «grandi» europei e gli statunitensi trattarono l’Italia come una potenza di secondo rango, gettando in uno stato di frustrazione profonda quei gruppi che avevano voluto e sostenuto l’intervento in guerra alla luce di speranze di grandi risultati. Inoltre, a differenza che in Francia e in Inghilterra, le masse popolari non avevano sentito affatto la guerra come 9


una guerra nazionale e patriottica, bensì come una fonte di sofferenze ingiustificate volute dalla classe dirigente o, comunque, da una minoranza. Fu così che nel 1919 la polemica tra «interventisti» e «neutralisti» riprese violenta. I primi chiedevano l’esaudimento delle promesse del trattato di Londra del 1915 (la Dalmazia, Fiume, larghe zone dell’Anatolia, ingrandimenti coloniali), sostenuti anche, a Parigi, dal primo ministro Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli esteri Sonnino, ma non ottennero alcun risultato, cosicché si parlò di «vittoria mutilata», dando spazio alle ulteriori rimostranze dei nazionalisti (D’Annunzio e Fiume, 12 settembre 1919). I secondi mettevano l’accendo sulle conseguenze «sociali» della guerra, che aveva impoverito enormemente la nazione. «Il dopoguerra vide infatti la società italiana profondamente mutata. Anzitutto il bilancio dello Stato mostrava un deficit pauroso: nel 1918-19 il deficit ammontava a 23.345 milioni, mentre nel 1913-14 era di 214 milioni. Il debito pubblico raggiunse cifre altissime. La moneta si deprezzava sempre più. I risparmiatori piccoli e medi vedevano i loro capitali faticosamente accumulati polverizzarsi e perdere sovente ogni valore, mentre le tasse crescevano notevolmente. Lo stesso discorso valeva per i piccoli possessori di alloggi o di terreni dati in affitto, soggetti a blocco. Tutto ciò mentre i prezzi salivano velocemente. Anche la massa degli impiegati statali riceveva salari che non tenevano dietro all’aumento della vita. La piccola e media borghesia insomma, che aveva fornito i quadri degli ufficiali di complemento all’esercito, da un lato si trovava esaltata dal patriottismo e orgogliosa della guerra vinta e dall’altro, impoveritasi durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, era afferrata da un profondo senso di delusione per le proprie crescenti difficoltà economiche e per la debolezza dell’Italia nelle trattative con gli alleati al tavolo della pace, che non procurarono facili ricchezze in colonie o protettorati ricchi di materie prime. Molti ufficiali piccolo-borghesi, che si erano abituati al comando durante la guerra, quando vennero smobilitati si trovarono disoccupati ed emarginati socialmente in un sistema produttivo troppo debole per offrire lavoro a tutti» (M.L. Salvadori, op. cit., p. 580-581). In questo clima confuso e di grave disagio sociale, i cattolici riprendono la loro attività sia nell’ambito «sociale» sia in quello più propriamente politico. Il 16 marzo del 1918, ancora in piena guerra, il segretario generale delle Unioni professionali cattoliche, Giambattista Valente, convocava a Roma i rappresentanti di nove sindacati cattolici a base nazionale e quelli di 26 uffici del lavoro esistenti nelle principali città italiane, dando vita alla CIL, Confederazione Italiana dei Lavoratori, il sindacato cattolico con 150 mila iscritti. (Accanto alla CGL, nata nel 1906, all’USI - Unione sindacale italiana, nata nel 1912 da una costola della CGL e alla UIL, Unione italiana del lavoro, nata nel 1918 per opera degli interventisti). Il suo sviluppo fu enorme se si pensa che già nel 1920 i suoi iscritti superarono il milione. La CIL professava la libertà nei confronti dei partiti politici, l’equidistanza tra capitalismo e collettivismo, il rifiuto della lotta di classe, il perseguimento dell’«idealità cristiana», che vuole che «tutti gli uomini siano fratelli e solidali nel bene e nel progresso». «Per quanto riguarda la composizione sociale della CIL occorre però osservare come il 75% fossero agricoltori. Parlando del primo Congresso della CIL tenuto a Pisa nel marzo di quell’anno così il Valente scriverà nelle sue memorie: “gli demmo il nome di Congresso operaio, anche se buona parte degli intervenuti rappresentavano categorie rurali”. E su 900.000 contadini iscritti soltanto 100.000 erano braccianti, gli altri mezzadri, affittuari o piccoli proprietari, mentre la CGL, che contava un numero pressoché uguale di iscritti nel settore agricolo, aveva più di 700.000 salariati. Tra i salariati organizzati dalla CIL attraverso la Federazione italiana lavoratori agricoli vanno particolarmente ricordate le mondine che, per l’opera appassionata di Giuseppina Scanni, ebbero anche alcune Case della risaiuola nei luoghi della monda e un giornaletto particolare, La Risaiola. Il mondo rurale – soprattutto nella sua parte moderata – era ancora abbastanza tradizionalmente legato all’ambiente cattolico ed era logico 10


che i sindacati cattolici avessero lì il maggior numero di iscritti. Non si deve però pensare che i sindacati agricoli cattolici accettassero sempre o facilmente le condizioni poste dai padroni a differenza di quelli socialisti. Le leghe bianche del Cremonese, guidate dall’on. Miglioli, da Giuseppe Cappi e da Piero Brugnoli, avevano dato vita proprio nell’estate del 1920 ai consigli di fattoria e nel 1922 dopo mesi e mesi di sciopero otterranno, in collaborazione al partito socialista e la Camera del lavoro, il noto “lodo Bianchi” entrato nella storia del sindacalismo per la sua carica innovatrice che sanciva la fine del salariato (anche i braccianti avrebbero partecipato alla divisione dei profitti) e l’instaurazione di un regime associazionistico avente come fine la gestione congiunta del podere. Anche se purtroppo per non attuarlo i proprietari ricorsero – e con effetto – alle squadre fasciste di Farinacci». «Accanto alla Confederazione dei lavoratori italiani e molto più potente di essa due altre organizzazioni economiche di ispirazione cristiana agirono in quegli anni in Italia, entrambe costituitesi tra il 1918 e il 1919 e resesi entrambe autonome nei confronti dell’Unione popolare nel cui ambito avevano prima operato, e cioè la Confederazione cooperativa italiana e la Confederazione mutualità e previdenza. a) La prima, con sede a Roma e segretario generale Ercole Chiri, aveva raggruppato la Federazione nazionale cooperative di consumo, la Federazione casse rurali, e la Federazione nazionale cooperative agricole di produzione e di lavoro. Alla fine del 1920 la Confederazione cooperativa italiana contava 3.200 cooperative di consumo, 2.116 casse rurali, 800 unioni agricole per acquisti o per fittanze collettive, 694 cooperative di lavoro, 40 cooperative di pescatori e 525 cooperative varie costituite con speciali convenzioni da ex combattenti. Era un bel risultato nei due primi decenni del secolo, ottenuto sulla spinta che l’Opera dei Congressi prima e l’Unione economico-sociale poi, avevano dato al movimento cooperativistico. Poco dopo però, per la particolare impostazione data alla politica creditizia favorevole alle grosse concentrazioni bancarie, le istituzioni cooperative e in modo particolare le casse rurali diminuirono notevolmente, ancor prima che la rete, costituita con tanta pazienza, fosse d’un sol colpo distrutta dal fascismo. b) La seconda, la Confederazione mutualità e previdenza sociale, con sede a Genova, raccoglieva quasi 2.000 società di mutuo soccorso. Le mutue erano di due tipi: casse di mutuo soccorso fra lavoratori di diverse categorie abitanti nella stessa parrocchia, o mutue di malattia fra lavoratori della stessa categoria. Le mutue, questa forma così primordiale, ma anche così facile e perciò più sentita e realizzata, di solidarietà e organizzazione, erano talmente capillari che in alcune province venete come a Padova o a Vicenza ne esisteva una per ogni comune, mentre quelle di Milano, Bergamo e Brescia ne avevano una ogni due, o altre, come Cremona, Ascoli Piceno, Siena e Napoli una ogni tre. Anche zone di solito refrattarie al movimento operaio vi erano in qualche modo entrate proprio attraverso questi organismi. La Confederazione della mutualità costituì così un ente di servizi assistenziali e previdenziali autorganizzati e gestiti dai lavoratori stessi, vera scuola di democrazia. Anch’essa però fu distrutta dalla legislazione fascista, statalizzatrice pure delle forme previdenziali». Accanto alla febbrile attività sindacale si sviluppò, così, l’attività politica con la nascita del Partito Popolare italiano (18 gennaio 1919). Con la sua costituzione si deve considerare conclusa la storia del «movimento cattolico», se per esso si intende quel complesso movimento religioso, sociale e politico, nato dal conflitto tra la Chiesa e lo Stato italiano. Va qui ricordato che una parte determinante nella nascita del nuovo partito la ebbe l’avvento al pontificato di Benedetto XV (1914-1922), che aveva una visione assai chiara dei problemi e dei compiti che si ponevano alla Chiesa nella nuova fase storica aperta con il tremendo conflitto mondiale. A questo scopo egli aveva istituito una Giunta direttiva dell’Azione cattolica che coordinasse efficacemente i vari rami dell’attività dei cattolici e vide chiara l’opportunità che l’attività politica e sindacale non restasse chiusa negli schemi angusti 11


di un’organizzazione a base religiosa, ma si inserisse efficacemente nel vasto mondo del progresso sociale e popolare cui la guerra aveva dato l’avvio. Fu così che Luigi Sturzo ottenne senza difficoltà l’autorizzazione a creare un partito di cattolici, aconfessionale nel suo programma e indipendente dalla gerarchia. Il 18 gennaio 1919 venne dato alla stampa, unitamente all’«Appello ai liberi e ai forti» il programma del Partito Popolare italiano. Quanto al programma, si può notare che esso mantiene, per un verso, quelle tradizionali rivendicazioni dei cattolici, che avevano già formato l’oggetto delle loro richieste al tempo delle alleanze clerico-moderate (integrità della famiglia, libertà di insegnamento, libertà nell’attività sindacale), rimarcando ora, ad esempio, l’incremento e la difesa della piccola proprietà rurale, tanto attesa dai contadini. Dall’altro verso, il programma di Sturzo va oltre, proponendo che il Partito Popolare divenga strumento di un profondo rinnovamento dello Stato, che porti al superamento della sua base individualistica e borghese, alla rivalutazione di tutte le forze sociali e di tutti quegli organismi intermedi fra l’individuo e lo Stato che erano rimasti privi di spazio nello Stato borghese. «Così vediamo fortemente riaffermata la libertà e l’autonomia degli enti locali, vediamo ribadito il principio della libertà delle iniziative di assistenza e beneficenza e subito dopo affermata la libertà della Chiesa, la quale esigenza, dunque, non ha qui un significato propriamente religioso, ma è stata tradotta in termini politici e inserita in un complesso quadro di rivendicazioni e di autonomie e libertà contro lo Stato esclusivista e accentratore» (P. Scoppola, op. cit., pp. 154-155). Accanto a tutto questo, il programma richiedeva una riforma tributaria ispirata a criteri progressivi, l’affermazione di una riforma elettorale che estendesse il diritto di voto alle donne e introducesse il sistema proporzionale (contro il maggioritario-uninominale esistente), allo scopo di spezzare, specie nel Sud, le clientele locali, fondate sui favori amministrativi. «Al blocco di potere che aveva caratterizzato il periodo giolittiano – fondato sull’alleanza, come si è già visto, della grande industria del Nord con le frange più avanzate del mondo operaio e con il potere centrale – Sturzo tende a contrapporre un nuovo “blocco storico”, fondato sull’intesa fra mondo contadino e ceti medi, che dia spazio alle esigenze e ai problemi non risolti del Mezzogiorno» (P. Scoppola, op. cit., p. 155). Il primo Congresso del Partito Popolare si tenne a Bologna dal 14 al 16 giugno 1919. Lì furono ampiamente discusse e approfondite le linee ideologiche e programmatiche del partito, con particolare riferimento alla aconfessionalità del partito. E proprio questo problema rivelò chiaramente la presenza, tra le file dei popolari, di tre anime culturali e politiche: quella dei clerico-moderati, che non avrebbe disdegnato la continuazione della collaborazione con i liberali, quella sturziana, centrista, proponitrice di una «moderata intransigenza» e quella di Guido Miglioli, di sinistra, che chiedeva un’intransigenza assoluta di fronte ad ogni alleanza con i liberali. Il travaglio, come si vede, delle correnti dentro il Partito Popolare, incominciava subito. Fu soprattutto il discorso di Miglioli a dare l’idea dei forti contrasti già esistenti e, insieme, della vivacità e consistenza dell’ala sinistra. Miglioli denunciava l’affarismo bancario, il capitalismo industriale, il militarismo, tanto da provocare l’interruzione del padre Gemelli, ex socialista: «Tu hai parlato come parla un socialista e non come parla un cristiano». La sua corrente, in seguito, nel successivo Congresso di Napoli del 1920, ottenne un discreto successo, anche se non poté agire apertamente, per il divieto di dar vita a correnti organizzate nel partito. Poiché, allora, due seguaci di Miglioli, Speranzini e Cocchi, si rifiutarono di obbedire, essi furono espulsi dal partito e fondarono il Partito cristiano del lavoro, appoggiato dal periodico Bandiera bianca, che però non ebbe alcun peso nella vita del paese. Intanto anche i membri della Lega democratica cristiana (Murri) non avevano voluto entrare nel nuovo partito, temendone il confessionalismo e il moderatismo. Nell’aprile del 12


1919 alcuni di loro, con a capo Giuseppe Donati, avevano fondato il Partito democratico cristiano italiano, che però ebbe breve vita e fu sciolto nel 1920, quando molti membri, tra cui il Donati, confluirono nel PPI rinforzando l’anima della sinistra cattolica. Sarebbe qui difficile tracciare la complessa vicenda della collaborazione popolare ai vari governi che si succedettero in quegli anni tormentati della nostra vita politica: dai due governi Nitti, al governo Giolitti, al governo Bonomi e, infine, dopo il famoso «veto» popolare al ritorno di Giolitti, ai due governi Facta. Si trattò di una collaborazione certo non consona alle esigenze più profonde del partito, imposta tuttavia dalle circostanze politiche. Solo qualche accenno può bastare: il 16 novembre 1919, alle prime elezioni cui partecipano, i popolari ebbero il 20,5% dei voti validi e 100 deputati (i socialisti il 34,5% e 156 deputati); nelle elezioni del maggio 1921, volute dal Giolitti, i popolari ottennero 107 deputati, 123 i socialisti, 15 i comunisti (e 35 deputati fascisti!), ma fu allora che, in mancanza di un accordo tra loro e i socialisti, ebbe l’incarico di formare il nuovo governo il luogotenente di Giolitti, dopo un brevissimo tentativo di Bonomi, cioè l’onorevole Facta. Ma si era ormai alla vigilia della marcia su Roma.

I cattolici trentini nei primi due decenni del Novecento (1904-1922)

1.

L’episcopato di Celestino Endrici (1904-1940)

All’inizio del ventesimo secolo, lo si è ricordato nelle considerazioni conclusive dell’incontro precedente, alcuni fatti significativi hanno contribuito a dare al movimento cattolico trentino un’impronta che sarebbe durata a lungo nel corso dei decenni successivi. Essi sono: a) Innanzitutto la vittoria degli «intransigenti» o dei «confessionali» all’interno del movimento cooperativistico, guidato ormai da don G.B. Panizza e dall’ingegner Emanuele Lanzarotti dopo la morte di don Guetti (+ 1898). Ciò significava la salvaguardia della «società cristiana» anche attraverso le attività sociali legate alle cooperative e alle casse rurali, che dovevano essere guidate solo da cattolici. b) Poi la nascita, prima, dell’Unione politica popolare trentina (1904) e, subito dopo, del Partito popolare Trentino (1905 - PPT) ad opera di Alcide Degasperi (18811954), che divenne di fatto (nonostante l’opzione “aconfessionale” di Degasperi) l’unica via praticata dai cattolici trentini per la loro partecipazione alla vita politica. c) Infine il ruolo centrale che venne ad assumere con Celestino Endrici il Comitato diocesano di Azione cattolica, nato nel 1898, al tempo del vescovo Valussi, affidato da Endrici al suo amico fidato, compagno di studi a Roma, don Guido de Gentili (1870-1945). Esso era già stato presentato, come si è visto nel precedente incontro, come un organismo avente lo scopo «di dare maggiore, più stabile e più regolare sviluppo al movimento e all’organizzazione cattolica, di riunire le forze cattoliche e coordinarne l’azione». 13


Nasceva così con Endrici quel «sistema a tripla rotaia», come venne chiamato, che univa insieme attività pastorale, attività sociale, attività politica, guidato da tre uomini, Endrici appunto, de Gentili e Degasperi. Tutti gli altri erano comprimari, utili a ricondurre l’attività dei cattolici trentini, preti e laici, all’unico scopo di «instaurare omnia in Christo», che era anche il motto di Pio X. Se si possono fare qui alcune osservazioni di fondo, si può affermare che proprio questa rigida e «onnicoinvolgente» struttura permise al movimento cattolico trentino di agire con grande unità e uniformità. Esso aveva il suo punto di forza nella curia diocesana e nelle campagne, mentre stentò ad affermarsi nei pochi centri urbani. I suoi punti di debolezza, a partire già dal 1906, riguardarono l’attenzione per la questione operaia, nonostante gli sforzi compiuti dallo stesso Degasperi con i segantini della val di Fiemme e poi da don Costante Dallabrida nel 1907 nel campo dell’organizzazione dei lavoratori delle fabbriche (i tabaccai di Sacco, i ferrovieri). Le stesse SAOC, come si è visto (Società Agricole Operaie Cattoliche), ebbero vita breve e travagliata. Qualche fatica vi fu nel campo delle unioni professionali nel campo industriale, mentre fiorirono quelle nel mondo contadino, anche contro la Lega dei contadini di Patrizio Bosetti di Isera, di ispirazione laico-socialista. Si è già parlato della nascita della «Società magistrale trentina» del 1899. Per il resto il movimento cattolico trentino fu indubbiamente – come scrive Severino Vareschi (Storia del Trentino, vol. 5°, cit., p. 831) – una grande avventura del cattolicesimo locale e un momento di una sua forte presenza nel sociale. Guidati da quella sorta di «triumvirato» (mi si passi la parola), laici e preti erano impegnati a costruire una società tutta cristiana, i primi attraverso l’attività sociale e politica in particolare, i secondi attraverso l’educazione morale e religiosa dei fedeli, di cui erano le guide indiscusse. Nel secondo «Katholikentag» (Congresso cattolico) del 1912 (il primo si era celebrato nel 1902) nel discorso di introduzione il vescovo Endrici ricordava quel era lo scopo di quella celebrazione: si trattava di «rievocare lo spirito cristiano che deve informare l’azione cattolica, che deve cooperare a quella restaurazione sociale in Cristo che è la base fondamentale dell’azione cattolica della Chiesa». E don Guido de Gentili, concludendo il Congresso, ricordava che «l’uomo oltre che nel sacrario intimo della coscienza e dell’attività individuale, deve seguire la legge divina nella famiglia, nella scuola, in tutte le manifestazioni pubbliche della vita... A questa norma nulla si sottrae: non il vincolo coniugale, non l’insegnamento, non l’educazione, non i contratti, non la legislazione!». 2.

Il primo dopoguerra (1918-1922)

Il tempo di guerra, tra il 1914 e il 1918, bloccò temporaneamente il prosieguo del programma pastorale di Celestino Endrici e, di conseguenza, rallentò per ovvie ragioni anche l’attività sociale e politica del movimento cattolico trentino. E l’immediato dopoguerra fu terribile, per un territorio conteso, diventato teatro di guerra in gran parte dei suoi confini con l’Italia. «In Trentino la guerra aveva comportato sia per il territorio che per le strutture, danni materiali enormi, e per le popolazioni un profondo sconvolgimento morale e sociale: 60.000 furono i maschi trentini nati tra il 1871 e il 1897 arruolati nell’esercito austriaco, mentre l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del 1915 fece del territorio della provincia, in modo particolare della fascia periferica, un immediato terreno di guerra. Nei primi anni Venti la valutazione dei danni di guerra nel territorio trentino oscillò tra poco più di 3 milioni e poco meno di 4 milioni di lire italiane. Più gravi ancora furono i danni sul tessuto sociale e nel vissuto delle persone: al momento dello scoppio della guerra con l’Italia più di 70.000 trentini vennero forzosamente trasferiti dall’autorità militare in varie 14


regioni dell’Austria, della Boemia e della Moravia; di questi, 1.600 vennero internati e confinati per motivi politici. Altri 35.000 avevano dovuto abbandonare nelle stesse settimane i territori più meridionali del paese, occupati dal regio esercito italiano, a loro volta trasferiti in varie regioni italiane, alle volte in condizioni anche peggiori» (Severino Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 281). Se la ricostruzione materiale fu lenta e faticosa, quella sociale e morale fu ancora più impegnativa. Già provati dalle deportazioni e dai combattimenti sul campo, uomini e donne dovettero superare le tentazioni dello scoraggiamento e del disfattismo. In quel contesto la preoccupazione e l’impegno del vescovo Endrici furono soprattutto per il recupero, accanto alla pace sociale, del carattere integralmente cattolico della società trentina e della valenza pubblica e istituzionale del Cattolicesimo in questa regione. Si trattava anche di «difendere» quella caratteristica di fronte al nuovo Stato, l’Italia, la cui tradizione anticlericale e fortemente massonica faceva temere il peggio circa il futuro status giuridico della Chiesa e delle associazioni cattoliche, come pure delle loro imprese e proprietà. Si cominciò con la scuola, per difendere i consigli scolastici provinciali, distrettuali e comunali, dove forte era l’influenza del clero e per salvaguardare l’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Se la prima questione sarebbe stata risolta successivamente con la abolizione di quei consigli da parte del Fascismo, per l’insegnamento della religione nella scuola Endrici mobilitò la base cattolica, costituendo le Associazioni parrocchiali di Padri di famiglia, costituite in Federazioni nel 1919, con 90 società e 15.000 soci, che nel 1923 sarebbero diventati 40.000. Si rinnovò il legame con i maestri cattolici, riuniti nell’associazione «Niccolò Tommaseo» che aveva carattere nazionale. La questione scolastica fece da catalizzatore anche alla mobilitazione e la ripresa di tutto il movimento cattolico trentino. «Il 23 novembre 1918, neanche tre settimane dopo l’entrata dell’esercito italiano a Trento, era in edicola “Il nuovo Trentino”, il quotidiano cattolico locale che si collegava anche nella testata al giornale cattolico d’anteguerra, affidato anche questa volta alla direzione di Alcide Degasperi e destinato a fungere, come già allora, da organo del Comitato diocesano di Azione Cattolica, anch’esso nuovamente presieduto da mons. Guido de Gentili. Segretario era don Giulio Delugan... Altro terreno su cui il movimento cattolico doveva presentarsi con tempestività era quello dell’opera di ricostruzione e dell’organizzazione del lavoro. I consorzi cooperativi di smercio e consumo, come pure quelli di credito, non erano scomparsi del tutto durante la guerra. Ora si trattava di ripartire per ricuperare tutta la straordinaria operatività che il movimento cattolico aveva espresso in quel settore già prima della guerra. Così fu: già alla fine del 1920 le cooperative di consumo avevano superato, con 269, il numero di consorzi dell’anteguerra, e a fine 1921 erano 292 con 36.000 soci. Altrettanto vistosa era stata la ripresa del credito cooperativo, con la sua valenza decisiva per l’economia e per la ripresa sociale in generale. Nella primavera del 1922 il nuovo presidente della Federazione, monsignor Giacomo Regensburger, parlava di avvenuto “assanamento delle perdite prodotte alle casse rurali dalla svalutazione dei titoli austro-ungarici”. La situazione e l’urgenza della ricostruzione ponevano al movimento cooperativistico cattolico il compito di cimentarsi anche sul terreno delle cooperative di lavoro, che nell’anteguerra era rimasto quasi inesplorato, lasciato all’iniziativa dei socialisti. A fine ottobre 1919 risultavano costituite 30 cooperative di lavoro, ma nel febbraio dell’anno seguente erano 69, con 5.569 soci. L’organo promotore era anche qui il Comitato diocesano, in particolare attraverso il Segretariato del popolo, pure esso di ascendenza prebellica. Importantissimo divenne anche l’impegno pastorale nei confronti della gioventù. Nel novembre 1919 si discusse all’interno del Comitato diocesano per “venire a un’intesa sul modo di organizzare la gioventù cristiana”. Si trattava di riavviare e intensificare l’erezione di ricreatori parrocchiali e circoli giovanili. Nel marzo 1920 la situazione non appariva molto soddisfacente e il mese seguente venne messo a punto uno statuto “tipo” per i circoli che an15


davano sorgendo. Nel febbraio 1919 era sorto, ad esempio a Trento, il circolo “Juventus”, e nel novembre dello stesso anno a Rovereto il circolo “Benedetto XV”. Nella primavera 1920 venne costituita la Federazione dei circoli giovanili, supportata economicamente dal Comitato diocesano, dalla Banca Cattolica e dal SAIT. In questo modo si andava ricostituendo – come prima e più di prima – il sistema che Alcide Degasperi aveva definito “a tripla rotaia”, costituito da circoli di Azione Cattolica (con il Comitato diocesano), opere economico-sociali e partito. Anche su quest’ultimo terreno occorreva essere tempestivi. Nel gennaio 1919 venne fondato anche in Italia, per iniziativa di don Luigi Sturzo, il Partito Popolare Italiano. I popolari trentini, reduci da un ultimo scampolo di attività parlamentare a partire dal maggio 1917 nel Parlamento di Vienna, vennero subito coinvolti nell’omonimo raggruppamento italiano. Nel giugno 1919 Guido de Gentili parlò nel primo congresso del PPI e Degasperi nel secondo a Napoli, nell’aprile 1920. Anche a questo riguardo Endrici, nella lettera ai decani del luglio 1919, mise all’opera il clero. In ottobre si tenne a Trento l’assemblea costitutiva del Partito Popolare del Trentino, avendo come prossimi impegni la ricostituzione della rappresentanza elettiva provinciale e il mantenimento della pressione sul governo italiano in vista dell’opera di ricostruzione e per il risarcimento dei danni di guerra; inoltre la rappresentazione, presso il governo medesimo, dei bisogni e delle lamentele della popolazione trentina; infine la promozione di istituzioni amministrative autonome in regione. Quest’ultimo punto rimarrà solo una speranza, affossata dall’applicazione nel 1923, ormai in epoca fascista, della comune legislazione provinciale italiana. Le forze politiche trentine si contarono per la prima volta in maniera precisa nelle elezioni politiche nazionali del 15 maggio 1921. Su sette seggi, cinque andarono ai popolari, con 35.921 voti, due ai socialisti, con 20.392 voti. Se il risultato era consolante per i popolari, i socialisti avevano compiuto un balzo nettissimo rispetto all’anteguerra e costituivano attualmente il 30% dell’elettorato. Per di più risultavano il primo partito in tutte le città della provincia: Trento, Rovereto, Riva, Levico, Arco, Ala. Liberali e bosettiani non avevano ottenuto rappresentanza. Per il mondo cattolico trentino, e in particolare per Endrici e per il Comitato diocesano, le elezioni del 1921 furono dunque anche un campanello d’allarme ed evidenziarono molto chiaramente gli impegni che attendevano il mondo cattolico» (Severino Vareschi, op. cit., pp. 285-287, passim).

Canova, 20 febbraio 2009

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MARCELLO FARINA

Breve storia del movimento cattolico in Italia dall’Ottocento al Concilio Vaticano II


Parrocchia s. Pio X - Canova (Trento)


CAPITOLO V

Dalla «Democrazia cristiana» alle prospettive del Concilio Vaticano II (1943-1965)

1.

La difficile «rinascita» del movimento cattolico

Negli anni del Fascismo, al di là degli scontri tra il regime e il mondo cattolico soprattutto a causa del controllo sull‟educazione della gioventù e sulla presenza nel mondo delle professioni, avvenuti, come si è già ricordato, nel 1931, che videro la chiusura di più di diecimila gruppi giovanili di Azione cattolica, si può ben dire che i cattolici che si opposero al regime non furono molti, sia per ragioni di sopravvivenza (i più), sia per questioni ideologiche (contro il bolscevismo). Negli anni Trenta si distinsero in particolare il gruppo milanese del Movimento guelfo d’azione e quello bresciano di Comunità nuova. Al primo, costituitosi attorno a Pietro Malvestiti, Gioacchino Malavasi, Gaetano Carcano ed Enrico Falk, si deve un manifesto, diffuso tra i partecipanti al Congresso romano che celebrava il quarantesimo della Rerum novarum (1931), che denunciava il fascismo come un «ordine apparente che cela il disordine più distruttivo». Ci fu una presa di posizione contro il gruppo da parte dell‟Osservatore Romano, “forse” per coprirlo contro eventuali manovre del regime (il giornale aveva parlato di “sedicenti cattolici”), e ci fu un processo cui seguirono miti condanne. Nel 1938, in casa di Gaetano Carcano, a Milano, si radunarono alcuni vecchi appartenenti all‟ala sinistra del PPI, come Achille Grandi, Luigi Meda (il figlio di Filippo), appoggiati da don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, nel tentativo di riprendere le fila del movimento politico di ispirazione cattolica. A Brescia, invece, tra il 1940-1944 fu vivace l‟opera di Comunità nuova, promotrice anch‟essa di manifesti e opuscoli antifascisti, i cui membri si trovarono anche a combattere nella Divisione di partigiani cristiani «Tito Speri». Per pochi mesi, tra il 1939-40, fece udire la sua voce di opposizione «Principii», un bollettino pubblicato come supplemento alla rivista Vita Cristiana dei padri domenicani di San Marco a Firenze, redatto dal professore Giorgio La Pira. Esso era una vera e propria protesta evangelica contro quanto di opprimente e di disumano avevano creato in Europa il fascismo, il nazismo e il comunismo, espressa in gran parte attraverso citazioni appropriate di Padri e Dottori della Chiesa, così da superare abilmente la censura. Fu, però, soprattutto nell‟ultimo periodo del regime fascista e in quello dell‟occupazione tedesca dopo l‟8 settembre 1943 che «le tendenze sociali e innovatrici del cattolicesimo italiano» si rivelarono apertamente, sia con la partecipazione alla lotta armata nella Resistenza, sia con la ricostruzione delle strutture più significative della sua attività, cioè il sindacato e il partito, nel tentativo di ridare un‟anima alla ricostruzione del paese. Molti cattolici, soprattutto al Nord, si unirono agli altri combattenti della Resistenza proprio per collaborare a creare un nuovo Stato e una nuova società. Per farcene un‟idea è sufficiente scorrere la stampa clandestina, come ad es. Il Ribelle, giornale del gruppo partigiano di Teresio Olivelli che nella testata aveva il motto: Libertà, Giustizia, Solidarietà. In un suo numero (n. 5, Brescia 25 agosto 1944) si poteva leggere:


«Diciamo ai patrimoni e ai redditi fuori classe (eccessivi per i tempi!) che devono abituarsi all‟idea che le forti divergenze sociali ed economiche stanno tramontando inesorabilmente...». «Ancora più caratterizzante è lo Schema di discussione sui princìpi informatori di un nuovo ordine sociale, elaborato dall‟Olivelli e da Carlo Bianchi, approvato in un convegno milanese di intellettuali cristiani e pubblicato nell‟organo clandestino lombardo della DC. All‟inizio vi si può leggere: “Il mondo è in crisi: qualcosa nelle convulsioni del nostro tempo muore: qualcosa, con dolore e con sforzo, cerca di venire alla luce. Muore l‟epoca economica, l‟epoca del capitalismo che generò infinite ricchezze e infinite miserie. Un‟organizzazione senz‟anima permise l‟indigenza più vasta, l‟anarchia della produzione, lo sfruttamento dell‟uomo sull‟uomo: sfociò nel culto della violenza, nel dispotismo statale e si consuma nella guerra. Sorge la società dei lavoratori, più libera, più giusta, più solidale, più cristiana”. Anche per questi ideali sociali oltre che per la libertà della patria combattevano molti dei partigiani cristiani e le idee erano dibattute non solo attraverso la stampa clandestina, ma pure nelle discussioni che spesso movimentavano i ritrovi nei periodi di tregua» (S. Tramontin, Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Marietti, pp. 105-106). Negli ultimi anni del fascismo, frattanto, v‟era stato un nuovo scontro con l‟Azione cattolica, nel 1938, che Mussolini riteneva fosse l‟ostacolo maggiore per la completa «fascistizzazione» della società italiana. Pio XII (1939-1958), il nuovo Papa, optò allora per una maggior «clericalizzazione» e per una ulteriore «diocesanizzazione» (dislocazione in periferia) dell‟A.C. stessa, quasi per proteggerla contro l‟esterno, lasciando tuttavia che al suo interno si conservasse la tradizione e lo spirito del popolarismo, così che da essa si potessero cogliere in seguito i quadri dirigenti e le masse dei votanti per il nuovo partito dei cattolici. Furono soprattutto le punte avanzate dell‟Azione cattolica, la FUCI (nata a Fiesole nel 1896) e il Movimento laureati di AC (nato a Cagliari nel 1932) a tener viva l‟idea di un nuovo ordinamento sociale, cui il Cristianesimo avrebbe fatto da motivo ispiratore. Nei quaderni di Azione fucina di quegli anni (1940-1942 con Aldo Moro e 1943 con Giulio Andreotti) si urgeva il risveglio «della nostra coscienza di cittadini viventi e operanti nella comunità statale, che è quanto dire la nostra coscienza politica». A sua volta la rivista Studium dei laureati cattolici invitava i suoi iscritti con le parole: «Studiate, perché quando il conflitto sarà terminato e si tratterà di dare una forma alla società, ci siano delle idee cui ci si possa ispirare». Sono, poi, gli stessi laureati cattolici a organizzare le «Settimane di Camaldoli», nel tentativo di preparare i singoli ad assumere quei compiti che il futuro avrebbe riservato loro e a ricostruire quei rapporti sociali che il fascismo aveva gravemente compromesso. È da quegli incontri che nasce il cosiddetto «Codice di Camaldoli» del settembre 1943, che dettava 76 enunciati, redatti in termini sintetici e riguardanti la vita familiare (vi era compresa anche la tematica dell‟educazione), la vita civile (origine della società civile, autorità e libertà), lo Stato (il campo politico, lo Stato e la Chiesa), la vita economica (le leggi economiche, l‟emigrazione, la colonizzazione). Il tutto aveva anche un titolo emblematico: Per la comunità cristiana, aperto alla collaborazione di ogni persona. È interessante in questo contesto il giudizio sul Codice di Camaldoli espresso quarant‟anni dopo, nel 1985, dallo storico Silvio Tramontin, più volte citato in questo studio: «Ancor oggi – a quarant‟anni di distanza – il Codice di Camaldoli viene considerato come l‟espressione di “una vera e propria svolta – sul piano della dottrina economico-sociale – del movimento politico dei cattolici, perché è il momento del definitivo passaggio dalle concezioni e dalle impostazioni della scuola sociale cristiana della fine Ottocento e dei primi del Novecento a quelle ben più realistiche, che tengono conto del mutamento verificatosi con la rivoluzione industriale nell‟economia in particolare e, in genere, in ogni aspetto della vita pubblica e privata. A Camaldoli quelle teorie e impostazioni di vetero-cattolici furono abbandonate. Si ripudiò l‟illusione di risolvere la questione sociale con il corporativismo o con gli istituti – pure validi, ma solamente là dove possibili – della cooperativa e della partecipazione al profitto. Tenendo anche conto dell‟esperienza dell‟Iri, il Codice segnalò l‟adesione dei cattolici a una terza via, che può chiamarsi di economia mista, adeguata alle insopprimibili esigenze dell‟età industriale.


È importante sottolineare che il Codice di Camaldoli fu il testo a cui si ispirarono i giovani democristiani della Costituente, più volte citato in commissione e in assemblea, per la stesura degli articoli economico-sociali della Costituzione. E infatti parecchi articoli del Titolo III (Rapporti economici) riflettono i princìpi del “Camaldoli”». Accanto al Codice di Camaldoli si sviluppò ulteriormente in quegli anni di guerra, il Movimento guelfo, che aveva rappresentato, come si è visto, il primo esperimento a carattere politico sorto tra i cattolici italiani nel periodo ancora fascista. Nel 1943 esso indirizzò Agli italiani degni della libertà un programma in 12 punti con l‟invito «ad unirsi sotto le bandiere del Partito democratico cristiano». Sempre nel 1943 nacque anche il movimento dei Cristiano-sociali, fondato da Gerardo Bruni, su ispirazione del pensiero personalista di E. Mounier. Esso proponeva un cattolicesimo molto impegnato nell‟ambito sociale, che fu però rifiutato da quello spirito moderato che si stava ormai diffondendo nel mondo cattolico italiano, impersonato da Alcide De Gasperi e dai suoi amici. Il movimento del Bruni respinse addirittura nel 1944 la proposta degasperiana di fusione con la Democrazia cristiana, che nel frattempo era nata, per mantenere una sua fisionomia autonoma, che trovò un punto di convergenza alla fine di quell‟anno, con i Cattolici-comunisti, proponenti la collaborazione con il PCI, per sbloccare progressivamente, come si disse allora, «la prassi del cattolicesimo da una posizione di politica cattolica a una posizione di cattolicesimo e politica». (Gli uomini più rappresentativi erano Franco Rodano, Adriano Ossicini, Gabriele De Rosa). Si mossero anche i cosiddetti «professorini» dell‟Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, raggruppati sotto il nome di «Civitas humana» dall‟ottobre del ‟41 al luglio del ‟43, con Fanfani, Padovani, Dossetti, Lazzati, Bontadini, Sofia Vanni Rovighi, la cui idea fondamentale era quella proposta dalla cultura francese riguardante l‟animazione cristiana delle strutture sociali, fondate sulla partecipazione popolare e la giustizia. Sempre a Milano, attorno alla rivista L’Uomo, fondata nel 1943, nacque il gruppo di Mario Apollonio, Dino del Bo, Gustavo Bontadini, Davide Maria Turoldo e Camillo De Píaz, proponente il valore della persona umana. A Firenze, invece, e lo si è già visto, operava Giorgio La Pira e il suo supplemento Principii. In quei tragici anni di guerra, tra il 1942 e il 1943 si formò nel mondo cattolico più avveduto una mentalità, una sensibilità, che avrebbe dovuto preparare la comunità italiana alla comprensione dei mutamenti radicali ormai in atto nella cultura e nella società. Si studiò la dottrina sociale della Chiesa e, tramite l‟ICAS (Istituto cattolico attività sociali, nato nel 1925), si diffuse una febbrile attività di ricerca, da cui sarebbe nata la Democrazia cristiana, come lo strumento politico dei cattolici italiani. Non esiste per la DC un atto di nascita così chiaro come si è visto per il PPI: l‟appello “a tutti gli uomini liberi e forti” di don Sturzo nel 1919 non fu ripetuto in quei giorni difficili tra il 1942 e il 1943. A Roma, in casa di Giuseppe Spataro, un vecchio popolare, il 19 marzo 1943, fu divulgato tra i numerosi presenti un documento intitolato Linee di ricostruzione, che conteneva il programma ideale della DC, steso da De Gasperi, con la collaborazione dello stesso Spataro e di Gronchi. Il programma era rivolto a «quei cattolici che, appartenendo alla corrente democratico-cristiana, possano ricollegarsi all‟esempio di quei popolari che per la libertà politica si batterono sino all‟ultimo e, benché travolti, alla causa di essa tennero fede a prezzo di sofferenze e di proscrizione dalla vita civile». Il 23 ottobre del 1943 la Democrazia cristiana si dotava di un organo di stampa ufficiale, Il Popolo; altre riviste clandestine diffondevano contemporaneamente le idee del nuovo partito come La Punta per i giovani e Il Segno, edito da un gruppo di professionisti che avevano deciso di aderire alla DC. Intanto prendeva vigore la riflessione su quello che avrebbe potuto rappresentare, nel periodo post-fascista, il ruolo dei cattolici nella società italiana. „Ci si potrà qui chiedere come mai il ricostituito partito dei cattolici avesse preso il nome di Democrazia cristiana. Scriverà in seguito De Gasperi: «La liberazione dal fascismo appariva ancora molto remota e nessun partito, vecchio o nuovo, si era ancora costituito, quando nel Comitato


centrale antifascista sorse l‟idea di chiamarsi Democrazie unite: democrazia liberale, democrazia socialista e... che cosa potevamo essere noi, se non la democrazia cristiana?». Queste parole di De Gasperi che aprono l‟opuscolo Tradizione e «ideologia» della DC, uscito a firma di Demofilo nel febbraio 1944, parrebbe risolvere la questione, ma in realtà non fu così. Antonio Segni da Sassari, Clemente Piscitelli dalla Campania, Natale Loiacono da Bari e molti altri, soprattutto nel Meridione, avrebbero voluto fosse ripreso il vecchio nome di Partito popolare, che rievocava una feconda esperienza e secondo loro una proposta ancora valida nelle sue linee fondamentali e nei suoi principii. Semmai era la proposta di Democrazia cristiana che suscitava riserve anche in chi respingeva il ritorno alla antica denominazione. Segni scriveva da Sassari: «Il nome di democrazia cristiana risveglia vecchi ricordi murrini; di popolari è chiaro che non può né vuol parlarsi. Cristiani sociali? Ma sa di... ostrogoto. La questione dei nomi ha un‟importanza relativa, certo, ma sempre importante. Ripeto: obiezioni fattemi qui», cioè in Sardegna. Ora è chiaro che De Gasperi, pur nella preoccupazione di salvaguardare la decisione democratica sul nome da dare al partito, era orientato favorevolmente per la dizione Democrazia cristiana. Lo mostrano accanto alla affermazione citata, i titoli dati ai primi abbozzi di programma Linee di ricostruzione e Idee ricostruttive della DC, anzi possiamo aggiungere che essa era condivisa pure dai coautori dei due documenti. Inizialmente però egli non faceva riferimento tanto al movimento democratico cristiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, quanto invece ad una interpretazione cristiana della democrazia, che si confrontasse con quella interpretata dai liberali e dai socialisti. Negli scritti successivi però egli si rifarà al concetto di democrazia cristiana quale era stato ampiamente illustrato dal Toniolo ed anche a «quel movimento di idee e di fatti, sorto alla fine del secolo XIX che in Italia si chiamò prevalentemente democratico cristiano, mentre altrove, specie nei paesi austriaci, si disse cristiano sociale» (Il Popolo clandestino del 12 dicembre 1943), anche se occorre ricordare che nella tradizione storiografica cattolica si era soliti distinguere tra d.c. murriani e d.c. tonioliani, questi ultimi più moderati e soprattutto sottomessi alla gerarchia. Più esplicito nel riferimento e più convinto nell‟approvazione della denominazione scelta e confermata successivamente dagli altri amici, fu nel gennaio 1944 don Luigi Sturzo, che pure nel 1919 l‟aveva tenacemente respinta. «Mi sembra – scriveva a Spataro da New York – che il nome del Partito popolare è scomparso spontaneamente e che il nome originale di Democrazia cristiana che era l‟ideale dei nostri anni giovanili al tempo di Leone XIII è tornato in uso. Il programma pubblicato già nel 1900 [veramente si trattava di un lapsus di Sturzo perché era comparso nei giornali nel 1899] con l‟ardito motto Noi vogliamo ripetuto dodici volte, è stato conservato intatto, fertilizzato [sic] dalla Democrazia, cioè governo del popolo escludendo il dominio di una classe o di un partito o di una cricca Cristiana perché afferma i valori morali e i princìpi cristiani sui quali si deve basare ogni sana politica nazionale e internazionale». Per Sturzo, dunque, la nuova denominazione doveva significare rigetto del classismo marxista e del totalitarismo fascista e contemporaneamente un ritorno al programma di Torino dei giovani democratici cristiani, socialmente e politicamente molto avanzato per allora e valido ancora per la ripresa della vita democratica” (AA.VV., Storia della Democrazia cristiana, pp. 41-42). È soprattutto Alcide De Gasperi (1881-1954), l‟uomo che, sia per l‟esperienza passata nel Partito popolare, sia per l‟acuta capacità di cogliere «l’urgenza» della situazione, riuscì a fare da tramite nel difficile passaggio sia culturale che generazionale. Già nel 1943 egli aveva offerto ai cattolici che si preparavano ad entrare in politica due originali riferimenti: La parola dei democratici cristiani e Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, dove il politico trentino elaborava il progetto di una collaborazione costruttiva con tutte le forze della Resistenza, da lui considerata l‟autentico elemento unificatore per «l‟ora presente». Egli scriveva nel 1944: «Così alla vigilia della costruzione del nuovo Stato noi ci volgiamo pieni di fede al popolo italiano, con il proposito non di governarlo, ma di servirlo in spirito di giustizia e di carità, nel senso più profondo e più fraterno inculcatoci, anche recentemente, da un‟augusta parola...» (in Tradizione e «ideologia» della democrazia cristiana).


Proprio Alcide De Gasperi, nel giugno del 1944, fu acclamato segretario del partito, in un momento storico particolare: il 4 giugno le truppe alleate erano entrate in Roma. Nel frattempo, accanto al tentativo di organizzare il partito dei cattolici, quel mondo si dedicò ad una febbrile attività di aggregazione della società civile davvero impressionante. Rimandando più avanti questa analisi, qui si vuole ricordare soprattutto il ritorno dei cattolici all‟attività sindacale. Il 3 giugno 1944 viene firmato il Patto di Roma, cioè il patto dell‟unità sindacale, che tutti i rappresentanti delle diverse correnti operaie, comunista, socialista, democratico-cristiana, riconoscono come lo strumento più efficace per l‟immane opera di ricostruzione del Paese. Rinasce così la CGIL, la Confederazione generale italiana del lavoro, indipendente dai partiti politici, per promuovere unitariamente il movimento sindacale in Italia. Nell‟attuare l‟unità, i rappresentanti sindacali cattolici, sostenuti da De Gasperi, nonostante le perplessità e le riserve di alcuni ambienti ecclesiastici, erano guidati non solo dalla opportunità e dalla bontà della causa, ma anche da altre ragioni, come quella, ad esempio, di «penetrare in mezzo a masse, specialmente operaie, nelle quali più profondamente si erano radicate le concezioni marxiste per convincerle che nella dottrina e nell‟azione sociale dei cattolici esse trovavano presidio meno illusorio e più aderente ai loro reali interesse». Ciò permetteva, d‟altra parte, anche alla DC di avere un‟influenza e un collegamento, sia pure limitato, con tutto il movimento sindacale, leaderizzato del resto dai comunisti. C‟è qui da ricordare che tale unità sarebbe entrata in crisi molto presto, già nel 1946, quando più acute si fecero le differenze riguardanti le rivendicazioni sindacali da sottoporre alla Confindustria e al governo, nei confronti delle quali la componente democristiana sosteneva che bisognava tener conto della «situazione inflazionistica» dell‟economia italiana e quindi si dovevano moderare le richieste. Ciò provocò la frattura, in concomitanza anche con altre cause esterne, soprattutto di natura politica, sia internazionale, come il rincrudirsi della guerra fredda tra russi e americani, sia nazionali, come «la scissione di palazzo Barberini» con l‟uscita del PSDI dal PSI (9 gennaio 1947) e la decisione di De Gasperi di chiudere con l‟esperienza dei governi espressione del CLN (Comitato di liberazione nazionale), escludendo così il PCI e il PSI dalla direzione del Paese (12 maggio 1947: 4° governo De Gasperi). Il Congresso di Firenze della CGIL (giugno ‟47) al quale i comunisti inviarono il 57% dei delegati, contro il 23% dei socialisti e il 14% dei democristiani, manifestò chiaramente questa situazione. Non è qui il luogo di ripresentare la storia delle successive scissioni che, fra l‟ottobre del 1948 e il marzo del 1950, portarono attraverso successivi distacchi e riunioni alla costituzione della LCGIL, della FIL (socialdemocratica) e, infine, della CISL e della UIL. Anche in questo caso fatti di ordine internazionale cooperarono alla frattura: la schiacciante vittoria della DC alle elezioni del 18 aprile 1948, l‟attentato a Togliatti del 14 luglio successivo e il drammatico sciopero generale che ne seguì e, infine, lo stesso piano Marshall con gli aiuti americani all‟Italia. Nel 1950 i sindacati si aggregarono nella CGIL, nella CISL e nella UIL, cui andava aggiunta la CISNAL, espressione delle forze nazionalistiche di destra. D‟altra parte, «ad impedire un assorbimento dei cattolici da parte della CGIL ed una compenetrazione di idee marxiste, durante un convegno organizzato dall‟Istituto Cattolico di Attività Sociali vennero fondate il 28 agosto dello stesso anno le Associazioni Cristiane dei lavoratori italiani (ACLI). Esse dovevano essere “l‟espressione della corrente cristiana” in campo sindacale e rispondevano del resto ad una esigenza già espressa nella Quadragesimo anno, secondo la quale, accanto ai sindacati, dovevano poter esistere organizzazioni che ne curassero la parte morale e spirituale. In realtà l‟attività delle ACLI abbracciava un campo vastissimo: formazione religiosa, istruzione professionale, assistenza sociale attraverso i patronati, attività ricreativa (circoli, bar, cinema, ecc.). E a tutti i livelli nazionale, regionale, provinciale, parrocchiale, aziendale esse erano garantite dalla presenza di un sacerdote quale assistente ecclesiastico in modo da costituire un vero retroterra non solo ideologico, ma anche organizzativo, sul quale fondare la consistenza della corrente sindacale cristiana e dal quale eventualmente prendere le mosse per


creare una nuova forza sindacale qualora in seno alla CGIL si fosse scatenata un‟offensiva socialcomunista contro gli iscritti di ispirazione cristiana» (S. Tramontin, Sinistra cattolica, cit., p. 111). 2.

Un mondo cattolico compatto (o quasi): gerarchia ecclesiastica, azione cattolica e partito, una «triplice rotaia» nazionale

È un tema immenso quello che viene qui introdotto, senza alcuna pretesa di completezza, che mette in evidenza l‟intersecarsi strettissimo dei rapporti all‟interno del mondo cattolico italiano, con al vertice la gerarchia ecclesiastica (vaticana e nazionale), con il suo braccio esecutivo costituito dall‟Azione cattolica, diffusa capillarmente sul territorio, e con la rappresentanza politica della Democrazia cristiana, a sua volta debitrice quanto al personale e alla propaganda all‟Azione cattolica e non raramente selezionata nei suoi uomini (o donne) dalla stessa gerarchia ecclesiastica. Un mondo cattolico monolitico (o quasi), una vera macchina di potere, coinvolgente istituzione ecclesiastica e laicato, diocesi e parrocchie e circoli di Azione cattolica e sedi del partito, legati insieme dagli stessi ideali e dagli stessi interessi, in una profonda commistione tra fede e politica, tra testimonianza cristiana e potere, senza dubbi, senza precauzioni evangeliche, senza alcuna «riserva escatologica», con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti! a) Quanto alla gerarchia ecclesiastica si può ben dire che il suo intervento nella vita politica italiana fu realmente pesante e massiccio. All‟inizio, paradossalmente, per rendere difficile la nascita della DC: essa, infatti, nacque fra l‟aperto distacco della curia romana e il dissenso di chi sperava in soluzioni di tipo autoritario, che garantissero fedeltà ai «princìpi cristiani». È certo che, a differenza del Partito popolare, la DC venne guardata inizialmente con apprensione e diffidenza (si pensi alle difficoltà incontrate da De Gasperi nel difendere la sovranità dello Stato moderno e laico nei confronti dello stesso Pio XII) e solo gradatamente venne riconosciuta come partito cristiano. Abbandonata infatti rapidamente l‟ipotesi di un pluralismo di movimenti politici di ispirazione cristiana, respinta decisamente la «mano tesa» avanzata da Togliatti in un discorso pronunciato a Roma nel luglio del 1944, che il padre Lombardi sulla «Civiltà cattolica» definì «mano tesa minacciosa», condannato nel luglio del 1944 il partito dei Cattolici Comunisti, restava solo alla DC il compito di attuare una visione cristiana della società. Questo monopolio, se assicurava al partito il prezioso appoggio delle parrocchie, riserva inesauribile di voti, era pagato con il frequente intervento della gerarchia nelle scelte anche strettamente politiche della DC. (Si può ricordare qui, come acme di questa situazione, l‟«operazione Sturzo» del 1952, con le pressioni vaticane per una lista unica in funzione anticomunista in occasione delle elezioni amministrative di Roma, favorite soprattutto da Luigi Gedda, capo dei «baschi verdi» – i Comitati civici – che già avevano operato nel 1948, fallita in extremis per le condizioni precise poste dal sacerdote siciliano, cioè in definitiva per il suo cauto temporeggiare). E il discorso non si limitava al campo propriamente politico, ma anche culturale, con la proibizione di leggere Maritain (Umanesimo integrale), con la censura a Teilhard de Chardin, a don Mazzolari, a don Milani, allo stesso Giorgio La Pira, a don Saltini di Nomadelfia, a padre Turoldo, a Nazareno Fabretti, Diego Fabbri e molti altri. È in questo contesto di chiusura e conformismo cattolico che don Primo Mazzolari pubblica su Adesso, fondato dopo il 1948, la seguente, splendida perorazione: «Il cristiano può avere (tutte) le indegnità; ma se rifiuta il duro di adesso tradisce il Vangelo, se se ne appropria l‟utile, tradisce il Vangelo. L‟adesso è la Croce che va portata se uno vuol tener dietro a Cristo. Dio può attendere: l‟uomo no. Può darsi che egli abbia soltanto questo momento di suo, da cui dipende la sua salvezza o il suo perdimento.


Tra i cristiani, sia al governo che negli altri campi, in politica o in religione, sono troppi i prudenti. Rischiamo di morire di prudenza in un mondo che non vuole e non può più attendere. La carità dev‟essere paziente per ciò che ci riguarda, impaziente per ciò che riguarda il prossimo. Adesso, non domani. Adesso è un atto di coraggio. Un uomo d‟onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi adesso traditi. Non tradire quegli impegni era per loro espressione, sia pur rischiosa, di un Cristianesimo profondamente vissuto» (S. Tramontin, Sinistra cattolica, cit., p. 176). Compaiono, nello scritto di Mazzolari, già chiari i problemi tanto dibattuti in quegli anni, soprattutto legati alla ricerca di un corretto rapporto tra religione e politica. Scrive Pietro Scoppola: «Abbiamo visto negli anni della rinascita della democrazia tutte le forze cattoliche, da quelle per natura loro chiamate ad operare sul terreno politico a quelle invece istituzionalmente orientate verso un‟azione di formazione o di apostolato religioso, schierarsi in prima linea sul fronte della politica, impegnarsi a fondo nelle competizioni elettorali; e con le organizzazioni cattoliche è stato il clero stesso a impegnarsi in favore del partito dei cattolici e contro i suoi avversari. Esigenza certo imposta dall‟asprezza della lotta, dalla forza degli avversari, dall‟incalcolabile importanza dei valori in gioco, ma che ha comportato pure, necessariamente, dei grossi costi. Innanzi tutto per la religione stessa e per la Chiesa: la religiosità del popolo italiano, se è consentita l‟espressione, si è politicizzata, la religione e la Chiesa si sono in qualche modo legate a un partito e sono entrate con tutto il peso della loro influenza nella competizione politica ed elettorale. Il peso dell‟apparato organizzativo necessario alle competizioni elettorali ha mortificato e talvolta sacrificato lo spirito: l‟esigenza dell‟unità nel momento della lotta e in considerazione del pericolo ha frenato ogni tentativo di revisione di metodi e di idee, ogni ripensamento critico della funzione delle organizzazioni cattoliche. Ancor più questa politicizzazione ha nociuto alla maturazione culturale dei cattolici italiani. La cultura non si adatta a distorsioni strumentali, non tollera l‟irreggimentazione organizzativa, si intisichisce e muore quando non le sia lasciato lo spazio necessario e una sostanziale libertà. E non si può dire che le organizzazioni cattoliche, da quelle che agiscono sul piano politico a quelle che agiscono sul piano religioso, abbiano, almeno nel primo decennio del dopoguerra, favorito una libera espansione di cultura, abbiano contribuito nel loro ambito a formare strumenti di espressione culturale; tutto quanto in questo campo si è fatto ha risposto assai più alle esigenze propagandistiche dei singoli movimenti che a quelle profonde ed essenziali dell‟arricchimento culturale dei cattolici italiani. Infine, il necessario allineamento di tutti i cattolici sullo stesso fronte, se ha dato indubbiamente forza al partito e ha contribuito potentemente al suo successo, ha ostacolato d‟altra parte la sua qualificazione precisa in ordine ai maggiori problemi del Paese, obbligandolo a mediare fra le aspirazioni contrastanti di un elettorato vastissimo ed indeterminato. In una situazione così complessa e difficile il grande merito di De Gasperi è stato quello di aver resistito, sostenuto in ciò da altre forze politiche, alla spinta fortissima del mondo cattolico verso la formazione di un indiscriminato fronte anticomunista e aver cercato, attraverso la formula del centrismo, di dare il massimo contenuto politico ad una lotta che rischiava ogni giorno di trasformarsi in guerra di religione» (P. Scoppola, op. cit., pp. 191-192). b) Quanto all‟Azione cattolica abbiamo già potuto cogliere, nelle riflessioni precedenti, il suo ruolo crescente, a partire dal pontificato di Benedetto XV (1914-1922) e soprattutto durante il periodo fascista, per il mondo cattolico italiano. Lo stesso Pio XII (1939-1958) l‟aveva difesa all‟inizio del suo pontificato, in un periodo di rinnovato sforzo di “fascistizzazione” della società italiana. Ora, subito dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, venne organizzato un


convegno per preparare l‟A.C. ai «nuovi gravissimi compiti» e per «esaminare le prospettive di apostolato per il prossimo domani». La struttura di massa, che essa aveva conservato fin dagli anni del fascismo, le consentiva ormai di aprire nuove prospettive, confermando il proprio immediato ruolo di formazione della mentalità popolare. Il rilancio dell‟A.C., subito dopo la liberazione di Roma, fu guidato con discrezione da Monsignor Montini, allora stretto collaboratore di Pio XII alla Segreteria di Stato. Aspetto centrale della riorganizzazione fu la scelta di dar vita, a lato dell‟Azione Cattolica, a molteplici associazioni specializzate, che fossero in grado di aiutare gli aderenti di A.C. ad affrontare con maggior competenza i vari aspetti della società pluralista. Nacquero le Unioni professionali (per citarne alcune: U.G.C.I., giuristi cattolici; U.C.I.D., imprenditori dirigenti; U.C.S.I., stampa cattolica; U.C.A.I., artisti cattolici; U.C.I.I.M., insegnanti medi; A.I.M.C., maestri cattolici; A.C.E.C., esercenti cinema; ecc. ecc.) e molte altre iniziative come il C.I.F. (Centro italiano femminile), l‟A.S.C.I. (Scouts) e l‟A.G.I. (Guide), la G.S. (Gioventù studentesca) e la G.I.O.C. (Gioventù operaia). L‟A.C. aveva quasi due milioni di iscritti nel 1943, che divennero 3 milioni e mezzo verso la fine degli anni Quaranta. Si capisce allora perché dopo il 1944 essa divenne anche l‟ambito preferenziale di sostegno e di raccolta per il partito della Democrazia cristiana. Soprattutto a livello locale, il passaggio delle forze avveniva con naturalezza, anche per l‟abitudine monolitica incrementata nel ventennio fascista. Lo sforzo educativo degli anni precedenti si chiudeva quindi con il compimento anche della dimensione pubblica e la ricostruzione del Paese poteva contare su una generazione di militanti di indubbia statura e coerenza morale, anche se non tutti di sofisticata cultura. D‟altra parte, come scrive Guido Formigoni nel suo prezioso libro L’Azione cattolica italiana (Ancora, 1988, pp. 83-84): „l‟atteggiamento cattolico di fronte alla democrazia era comunque tutt‟altro che scontato e unanime, affacciandosi al dopoguerra. Ciò in primo luogo dal punto di vista teorico, dato che le acquisizioni di Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1944 – che giungevano ad affermare la superiorità morale del regime democratico sulle altre forme di governo – erano molto recenti, e andavano ancora maturate e approfondite. Ma anche dal punto di vista del progetto concreto maturato nell‟ambito delle gerarchie ecclesiali nei confronti della situazione italiana, gli appelli di Pio XII all‟azione erano impregiudicati. Essi ispiravano in larghe fasce della cattolicità italiana posizioni antimoderne e confessionaliste, sospettose nei confronti della democrazia e del pluralismo, per i rischi che essi avrebbero presentato per i valori cristiani, sottoposti alla concorrenza di altre proposte in un contesto indifferente. Inoltre appariva chiaro che l‟antagonista più consistente del disegno di ricristianizzazione della società era in quella fase il mondo comunista, temuto fortemente sotto il profilo ideologico, ancorché poco conosciuto direttamente sul piano concreto. Oltre ad ambienti importanti della curia romana, e ai gesuiti della prestigiosa Civiltà cattolica, vari settori nell‟A.C. stessa si muovevano in quest‟ottica: vanno ricordati la Gioventù di Gedda, poi guidata da Carlo Carretto, gli Uomini, che con il 1946 passarono sotto la direzione di Gedda stesso, in parte i rami femminili. La loro prima preoccupazione era quindi garantire a una forza organizzata come l‟associazione ufficiale del laicato cattolico uno spazio di diretta influenza nella fase della Ricostruzione, soprattutto tramite la proposta di un „ordine sociale cristiano‟ i cui punti forti erano quelli tradizionali intorno al ruolo della Chiesa, della famiglia, dei valori morali. Buona parte del nuovo sforzo formativo popolare intrapreso fra guerra e dopoguerra dall‟A.C. si orientò infatti verso la diffusione di idee „sociali‟, su cui esisteva un solido retroterra, anche magisteriale. Tale disegno spesso metteva invece complessivamente in secondo piano una matura scelta politica, fino a quando non fu condotto, dall‟approfondimento della radicale spaccatura apertasi sulla scena del Paese, a immedesimarsi con la DC in un unico fronte cattolico”. Nella sua compattezza, comunque, il mondo cattolico offriva un punto di riferimento in un tempo di grave incertezza per l‟avvenire e di drammatica situazione del presente.


Per quel che riguarda ancora l‟Azione Cattolica va ricordato che il primo presidente fu Vittorino Veronese (fino al 1952), per il quale l‟impegno dell‟associazione doveva essere quello di promuovere la formazione spirituale di nuclei omogenei di laici, da impegnarsi poi in campo sociale e politico per la conservazione e la difesa dell‟assetto democratico dello Stato. L‟A.C. chiedeva il mantenimento del Concordato, gli effetti civili del matrimonio religioso, l‟indissolubilità del matrimonio, la libertà della scuola cattolica; e per la politica il dovere civico del voto e l‟unità politica dei cattolici. Poi, dal 1952, presidente dell‟A.C. fu Luigi Gedda (1901-2000) che promosse ulteriormente la mobilitazione politica dei cattolici, accentuando le tendenze al centralismo organizzativo e all‟attivismo, in concordanza con gli orientamenti del Vaticano, portando la stessa A.C. ad essere quasi l‟organizzazione subordinata dei Comitati civici da lui fondati per la promozione politica della DC, piuttosto che lo strumento di formazione spirituale e religiosa del laicato cattolico. Ciò avrebbe portato, poco dopo, all‟esplosione di contrasti interni, come quelli che si concluderanno con l‟estromissione dalla presidenza della Gioventù italiana di A.C. di Carlo Carretto nel 1952 e di Mario V. Rossi nel 1954 («i giorni dell‟onnipotenza», li avrebbe chiamati proprio il Rossi), contrasti determinati, rispettivamente, dal rifiuto dell‟alleanza di centro-destra per il Comune di Roma (l’«operazione Sturzo») e dall‟insistenza con la quale si perseguiva l‟impegno politico, invece di quello formativo. Parallele all‟A.C. erano, poi, le altre associazioni cattoliche, cui si è fatto un breve accenno appena sopra. Vale la pena qui solo di ricordare le ACLI per il mondo del lavoro (come si è riferito precedentemente); la Coldiretti per il mondo rurale (con il Club 3P: provare, produrre, progredire; la Federconsorzi e la Federmutue. Si ricordi che nel 1963 essa coinvolgeva 1.885.540 famiglie, con più di 8 milioni di associati, di cui l‟82% votava DC); la C.C.I. (Confederazione cooperativa italiana) erede del movimento cooperativo (con 1.800.000 soci e 8.500 imprese, con l‟Italcasse, attraverso cui la DC sosteneva l‟attività economica dei ceti medi e l‟Iccrea per altri finanziamenti). Non va dimenticato il ruolo delle «donne cattoliche», coinvolte nell‟A.C., nella Gioventù femminile, nel CIF, che poi confluivano nel Movimento femminile democristiano, organo di scarso peso dentro il partito almeno se si guarda alla sua rappresentanza politica nel corso del tempo. Negli anni ‟50 circa 7 milioni di donne votavano DC. Anche nel settore scolastico la presenza cattolica si sviluppò a diversi livelli in forma articolata, con la rete delle scuole confessionali, con le associazioni di maestri (l‟AIMC nel 1946) e professori (UCIIM, 1944). Più difficile fu la penetrazione nell‟Università, soprattutto fra gli insegnanti. Per gli studenti la FUCI (nata nel 1896) svolse invece un ruolo molto importante. Per l‟assistenza nascono le POA (Pontificia opera di assistenza), l‟ODA (per le assistenti sociali), l‟Onarmo (per la pastorale del lavoro) e le varie Pie Unioni... Per la stampa si diffondono 120 settimanali diocesani (con scarso senso critico e di autonomia), la Famiglia cristiana (nata nel 1931), la stampa devozionale. Per la RAI la DC dà l‟indirizzo politico, l‟IRI la gestione economica. Non vanno dimenticate le grandi manifestazioni religiose: l‟Anno santo 1950, la Madonna Pellegrina, padre Lombardi e «la crociata della bontà». Nel 1958 nasce la Conferenza episcopale italiana (la CEI); nel 1959 si ribadisce la scomunica a chi vota comunista (voluta nel 1949 da Pio XII); nel 1960 si lotta contro l‟apertura a sinistra ipotizzata da Aldo Moro (il card. Ottaviani chiama quei cattolici «comunistelli da sagristia»). Ma ormai si andava verso il Concilio e con esso verso una nuova stagione culturale e politica sia per la Chiesa che per la società civile e politica italiana. 3.

Il ruolo innovatore del Concilio Vaticano II

È senz‟altro decisivo sotto molti profili in una storia dei cattolici italiani e del loro contributo all‟Italia rifarsi a quell‟evento centrale che fu il Concilio Vaticano II (1962-1965). Esso segnò infatti una cesura rilevante anche nella storia del cattolicesimo italiano, che giungeva a questo


appuntamento con un‟esperienza quasi secolare di stretto legame con l‟istituzione ecclesiastica e, quindi, di una certa dipendenza (anche nell‟ambito sociale e politico) dalla gerarchia ecclesiastica. Da un punto di vista immediato, il mondo cattolico italiano giungeva all‟appuntamento conciliare in una condizione di ambivalenza: a) nell‟ambito più strettamente «religioso», l‟Azione cattolica aveva raggiunto il suo apogeo organizzativo proprio alla fine degli anni Cinquanta (anche se molti dubitavano della spontaneità di tutte le numerosissime adesioni) con quasi quattro milioni di iscritti, ma i segnali di tensione interna e le difficoltà pastorali diventavano inquietanti, senza, peraltro, che ci fosse il coraggio da parte del gruppo dirigente di A.C. di fare una riflessione approfondita di essi; b) nell‟ambito più ampiamente «politico», il partito della DC usciva da una situazione di grave disagio interno, corrispondente al tentativo, da una parte, di coinvolgere il PSI nella maggioranza di governo (l‟ipotesi del «centro-sinistra») e, dall‟altra, di bloccare qualsiasi apertura a sinistra della vita politica italiana, tentativo quest‟ultimo, che avrebbe portato il presidente della Repubblica di allora, Giovanni Gronchi, a dare a Fernando Tambroni l‟in-carico di formare il nuovo governo nel giugno del 1960, con il sostegno esterno annunciato del MSI. C‟è qui da ricordare che il 18 maggio 1960 sull‟Osservatore Romano era comparso un articolo intitolato «Punti fermi», in cui si dichiarava inammissibile la collaborazione tra i cattolici e i «movimenti che adottano e seguono l‟ideologia marxista e le sue applicazioni». Ma il «nuovo» papa Giovanni XXIII (1958-1963) non aveva manifestato particolare interessamento né per l‟associazione «religiosa» dei cattolici, limitandosi a ribadire in pubblico una serie di concezioni abbastanza tradizionali, anche se collegate alla richiesta di uno stile di serenità e discrezione, né per «il partito» dei cattolici, volendosi «tenere distinto dalle commistioni di carattere politico, di qualunque genere e gradazione» (Giornale dell’anima, p. 326). Proprio nel campo della politica i riflessi immediati di questo clima si avvertirono subito in Italia. È in questo clima che si matura e si realizza la svolta a sinistra. «Certamente in questo nuovo indirizzo politico influirono diversi fattori: la debolezza parlamentare della coalizione di centro, che dopo il 1958 raccoglieva solo il 51,8% dei voti, l‟insanabile divisione sulla linea economica da seguire, la speranza di allargare l‟area democratica, distaccando i socialisti dai comunisti, la convinzione della necessità di più audaci riforme sociali, il cambiamento che si era verificato nella politica internazionale (morte di Stalin nel 1953; ascesa di Kruscev, segretario del partito nel 1955; l‟elezione di Kennedy nel novembre del 1960)» (G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Studium, Roma, 1977, p. 81). Giovanni XXIII, dal canto suo, voleva distinguere con maggior chiarezza la Chiesa da tutte le forze politiche, e nello stesso tempo sentiva l‟impulso irresistibile di andare incontro a tutti, specie ai diseredati, nutriva fiducia nell‟uomo, era alieno da quel complesso di stato d‟assedio che aveva tormentato i pontificati di Pio IX, di Pio X e, in parte, di Pio XII. È ben vero che nella Pacem in terris dell‟aprile del 1963, egli ribadiva che l‟ultimo giudizio della praticabilità della collaborazione tra forze diverse spettava sempre alla gerarchia, ma ormai l‟apertura era compiuta e gli uomini più preparati della DC di quel momento ne colsero tutto il significato positivo. «Aldo Moro, nel discorso del 27 gennaio 1962 al congresso DC di Napoli, chiariva in modo ineccepibile i motivi e il fine dell‟autonomia politica dei cattolici. La DC, osservava Moro, traeva la sua ispirazione dai princìpi cristiani, ma questi andavano attuati sul piano concreto, storico, nella misura e nei modi che le circostanze rendono necessari e, ovviamente, con una certa gradualità. Questo implicava la collaborazione di partiti di ispirazione diversa (le famose “convergenze parallele”) e tale alleanza non significava per nulla un tradimento dell‟ispirazione originaria, dato che si trattava solo di un‟intesa operativa su problemi concreti, tattici, immediati. A chi spettava decidere se era necessaria o opportuna quella collaborazione sul piano politico? Al laicato cattolico» (G. Martina, op. cit., pp. 83-84).


Sul piano religioso-politico si realizzava per la prima volta in Italia quanto era accaduto da tempo in Belgio fin dall‟immediato dopoguerra, con la collaborazione tra cattolici e socialisti o, se vogliamo risalire ancora più indietro, quanto era accaduto, sempre in Belgio, fin dal 1830 con la collaborazione tra cattolici e liberali, forza politica allora progressista che si potrebbe in modo generico chiamare di «sinistra». Quella collaborazione, respinta con fermezza in Italia nel 1922 da Pio XI, che bloccò così una delle poche vie d‟uscita dal vicolo cieco che portava al fascismo (un possibile governo cattolici-socialisti presieduto da Filippo Meda), si attuava ora nel nostro Paese. Era il superamento ufficiale e definitivo – per quanto possa esserci qualcosa di definitivo nella storia – dello «storico steccato» che De Gasperi aveva tanto deprecato. La gerarchia non si opponeva più alla collaborazione con forze politiche ispirate a ideologie diverse. Era riconosciuta, almeno di fatto, l‟autonomia dei cattolici sul piano temporale. Molto più rilevante, ovviamente, per la storia della Chiesa universale e per la storia della Chiesa italiana fu la «celebrazione» del Concilio Vaticano II, che pose fine dell‟epoca posttridentina e aprì un nuovo corso nella storia della Chiesa, che non rifiutava il passato, ma lo integrava e lo perfezionava, adattandolo alla continua evoluzione dell‟umanità. Esso segnava di fatto nuovi indirizzi dogmatici, disciplinari, pastorali. Non potendo qui, ovviamente, seguire i dati più significativi del Concilio, si può almeno ricordare che: - emerge una nuova concezione della rivelazione, che è sempre vitale, personale, storica (i «segni dei tempi»); - emerge una nuova concezione della Chiesa (popolo di Dio, tutta ministeriale, povera e solidale, «esperta di umanità»); - emerge una nuova fiducia nell’uomo (il rispetto per la libertà di coscienza, l‟autonomia del temporale, un rinnovato rapporto Chiesa-mondo). Per la nostra ricerca sono soprattutto due i documenti significativi, che possiamo appena citare: l‟Apostolicam actuositatem sull‟apostolato dei laici e la Gaudium et Spes, per il rinnovato rapporto Chiesa-mondo anche nel campo politico (cfr. nn. 36, 63, 67, 73, 74, 75, 76). Cambiava un mondo, quello ecclesiale, ma anche quello civile e politico. Cambiava una cultura, quella dell‟ossequio, della sottomissione, dell‟obbedienza supina alle direttive centralistiche. Si faceva strada sempre di più il processo di laicizzazione della società italiana, con l‟estendersi del fenomeno della secolarizzazione ormai ininvertibile. Il Concilio aveva dato ai cattolici una traccia per dialogare con questo «nuovo» mondo. Per i cattolici la sfida era ormai aperta... ma con quali esiti? Il nostro tempo cerca ancora una risposta!

I cattolici trentini nel secondo dopoguerra (1943-1965) Abbiamo riferito nel quarto contributo della piccola storia del movimento cattolico italiano, le vicende più significative della nostra terra trentina nel periodo della guerra, fino alla occupazione tedesca del 1943-1945 e la costituzione dell‟Alpenvorland di Franz Hofer, il «commissario supremo» del regime nazista in regione. Al momento della liberazione, nell‟aprile del 1945, con la ripresa degli spazi e della dinamica democratica, che avevano come protagonista a livello nazionale lo stesso Alcide De Gasperi, i cattolici trentini «svilupparono da subito l‟enorme potenziale di consenso e di operatività che, seppur congelato, era stato tenuto vivo nel loro capillare associazionismo lungo tutto il ventennio fascista» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 304). Il 7 maggio del 1945, nella sede dell‟AUCT (Associazione universitaria cattolica trentina) venne fondata la Democrazia Cristiana e nello stesso


tempo si riorganizzarono i vari partiti storici, che con i cattolici avevano fatto parte del CLN (Comitato di liberazione nazionale) trentino. La DC si dette un giornale, «Il Popolo Trentino» (poi l’Adige), diretto da Flaminio Piccoli il quale, con altri «giovani» democristiani, con alcuni vecchi «popolari» e poche donne, diventò il leader del nuovo cattolicesimo associativo e politico del Trentino. Accompagnarono questi uomini e queste donne alcuni sacerdoti come don Oreste Rauzi, don Giuseppe Lona, don Vittorio Pisoni, don Alfonso Cesconi; in posizione più defilata rimase don Giulio Delugan, il direttore di «Vita Tren-tina». Al di là delle grandi vittorie elettorali della DC nel 1946 per la Costituente e per il Referendum Costituzionale (la DC ebbe 3 rappresentanti su 4 nella Costituente e l‟85% dei votanti per la Repubblica!) e nel 1948 (la DC ottenne nel collegio di Trento il 71,91% dei voti), i cattolici trentini avviarono in tempi rapidissimi una enorme massa di iniziative sia nel campo strettamente ecclesiale, sia in quello sociale e politico e «con la forza dei numeri, con gli strumenti del consenso popolare, essi si introdussero e “occuparono” le istituzioni in maniera ancora più sistematica e capillare che nell‟epoca di Celestino Endrici» (ivi, p. 305). Anche dopo la seconda guerra, infatti, entrò in azione quel sistema a «tripla rotaia», come l‟aveva chiamato Alcide De Gasperi all‟inizio del Novecento, costituito dall‟Azione cattolica, dal Partito e dalle opere economico-sociali (il sistema cooperativo), che aveva per decenni – pur con le difficoltà denunciate del periodo fascista – guidato il Trentino. La differenza, se mai, andava riscontrata nel fatto che molte iniziative non nascevano più in loco, ma erano indicate direttamente dal centro nazionale, sia ecclesiastico che politico. Il centralismo partitico e dell‟A.C. si faceva sentire con forza anche nella periferia dell‟Italia repubblicana. Anche in Trentino «il serbatoio di alimentazione tanto delle iniziative pastorali come di quelle sociali e politiche del mondo cattolico era l‟Azione Cattolica» (ivi, p. 306). Durante il periodo fascista, come si è visto, essa era stata il fulcro (unico, in realtà) di tutte le attività, che il mondo cattolico poteva espletare, senza trovare troppi intoppi da parte del regime. Anzi l‟A.C., anche come possibile «resistenza» ad esso, era perfino aumentata numericamente e si era diffusa in tutti i paesi della diocesi, soprattutto nella sua parte italiana. «All‟indomani della guerra essa fu immediatamente operativa e il suo ruolo lungo tutti gli anni Cinquanta fu assolutamente centrale, sostenuta in ciò dalla Santa Sede e dal vescovo de Ferrari, che ne aveva fatto da subito una delle priorità dichiarate della sua azione pastorale» (ivi, p. 306). Nel 1945 i tesserati nei quattro «rami» classici di Uomini, Donne, Gioventù Maschile e Gioventù Femminile erano 48.767 unità; nel 1957 erano ormai 63.254, il che voleva dire più di un decimo di tutti i battezzati della diocesi (compresa la parte altoatesina) e più del 25% della popolazione femminile giovane e adulta della parte italiana della diocesi. «Negli anni ‟50 l‟A.C. fu movimento e istituzione, vertice e base, nodo che raccordava l‟ecclesiale e il sociale, l‟ideologia e la politica, la propaganda e la devozione. Non da ultimo essa provvedeva anche al rastrellamento delle risorse economiche» (ivi, p. 306). I presidenti laici, di nomina vescovile, furono rispettivamente Tullio Calliari (dal 1946 al 1952), Flaminio Piccoli (dal 1952 al 1957) e Lino Vettori (dal 1957...). Delegato vescovile invece, dal 1946 al 1961, fu mons. Alfonso Cesconi che fu, con i presidenti diocesani, il punto di riferimento dell‟associazione. Si deve pensare che, soprattutto in periferia, nei piccoli paesi, l‟A.C. era «tutto»: le sue donne e i suoi uomini avevano le principali responsabilità della comunità locale, erano i favoriti alle cariche pubbliche, venivano reclutati in ogni occasione per la propaganda, mettendo al margine coloro che avevano altri intendimenti, altra sensibilità civile e politica. (Era davvero un confronto impari tra «noi» e «gli altri»). Tutto il decennio degli anni Cinquanta è segnato in Trentino da una sorta di spirito di «onnipotenza», che il mondo cattolico esprime attraverso la sua «occupazione» della vita sociale e politica. Certo, non mancano contrasti anche forti, ma essi sono tutti interni a quel mondo, come nel caso, divenuto famoso, dello scontro tra l‟Azione cattolica centrale, guidata da Luigi Gedda, e la giunta diocesana trentina guidata da mons. Cesconi e da Flaminio Piccoli. Questi ultimi, nel 1954,


avevano accusato la potentissima centrale nazionale dell‟A.C. di voler rafforzare ad oltranza i Comitati civici nati nel 1948 per dar forza all‟azione politica dei cattolici e, addirittura, di guardare con «scetticismo verso il regime democratico», con simpatie aperte verso la destra. Cesconi e Piccoli vennero momentaneamente espulsi dall‟A.C. e ci volle la paziente opera del vescovo de Ferrari per riconciliare le parti in contrasto. Dal canto suo l‟Azione cattolica trentina visse gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, fino al Concilio Vaticano II, in un contesto di attività diffusa e frenetica. La presidenza diocesana promoveva la sua attività attraverso una serie di «Segretariati»: quello per l’attività religiosa, per la formazione spirituale; quello per la famiglia, per la difesa dell‟istituto famigliare; quello per lo spettacolo, con la COFAS, l‟ufficio cinema, il cineforum; quello per la stampa, per sostenere la stampa cattolica: l‟Adige, Vita Trentina, l‟Avve-nire d‟Italia. Si promossero «Campagne», «Crociate», «Basi missionarie», come quelle per la moralità, per il «Gran ritorno» di socialisti e comunisti alla Chiesa e a Dio; si moltiplicarono «Gare di dottrina», «Scuole di apostolato»... Sorsero, a fianco dell‟A.C., molte associazioni professionali: la FUCI per gli universitari cattolici, l‟AIMC per i maestri, l‟UCIIM per gli insegnanti medi e quelle per i giuristi cattolici, per gli imprenditori e i dirigenti cattolici, per gli artisti cattolici... Nacque in questi anni la Scuola di preparazione sociale per la formazione morale, ideologica e tecnica degli amministratori locali. Come nel resto d‟Italia anche in Trentino alla fine della guerra furono fondate le ACLI, si diffuse la Coldiretti, si promosse la CISL. Tutto, poi, convergeva, nei momenti «topici« delle scadenze elettorali, a dare il proprio contributo all‟«unità politica dei cattolici» nel partito della DC: un‟enorme macchina, insieme religiosa, sociale, politica, compatta, decisa, uniforme, senza grandi tentennamenti e senza significativi dissensi. A tutto questo diventava funzionale anche la formazione del clero, numerosissimo dopo la guerra, e degli alunni del Collegio Arcivescovile, che «doveva fornire» il personale qualificato per dare continuità al progetto cattolico in diocesi e in provincia di Trento. Per questo è interessante quanto scrive don Severino Vareschi: «Tutto questo impegno della Chiesa trentina rimaneva essenzialmente entro un‟ottica tradizionale e di cristianità, che, se pur si sapeva e si dichiarava minacciata dalla modernità e dall‟incipiente benessere, rimaneva l‟unica forma accreditata in loco di presenza della Chiesa nel mondo. Erano pochi i sacerdoti e laici trentini che negli anni Cinquanta, senza lasciarsi abbagliare dallo straordinario volume di realizzazioni che il cattolicesimo locale esibiva, sapevano guardare avanti o coltivavano, come don Giulio Delugan, gli spunti teologico-pastorali che venivano elaborati oltralpe in Germania e in Francia. Le riflessioni di un Romano Guardini e di un Jacques Maritain erano cose da circoli quasi “esoterici” o da singoli personaggi, come don Onorio Spada, don Livio Botteri, don Mario Bebber, don Diego Zorzi e qualche altro della nuova leva di docenti del seminario teologico che si erano formati al Collegio Germanico di Roma» (S. Vareschi, op. cit., p. 312). Con l‟inizio degli anni Sessanta la situazione andò complicandosi anche in Trentino. Urgeva ormai il tema della modernizzazione, che portava con sé la necessità di aperture non solo sociali ed economiche, ma anche culturali. Divenne spinosa la questione dell‟Alto Adige, con i «fuochi» del 1961 e la richiesta urgente di un nuovo statuto di autonomia. Venne fondato a Trento l‟Istituto superiore di scienze sociali per volontà di Bruno Kessler, nuovo presidente della Giunta Provinciale. Il mondo cattolico si trovò di fronte anche le novità che venivano dal fronte ecclesiastico: nel 1961 la Santa Sede nominò mons. Giuseppe Gargitter amministratore apostolico della diocesi di Trento a causa della malattia di Carlo de Ferrari. Fu un fulmine a ciel sereno, che spiazzò l‟establishment clericale e politico locale, portando alla ribalta uomini «nuovi» come don Bruno Vielmetti e don Iginio Rogger, «vicari» di mons. Gargitter. In realtà finiva un‟epoca e per il Trentino finiva anche un modo di fare Chiesa, di fare politica, di agire secondo schemi consolidati e


ritenuti indeformabili. Costò caro quell‟evento al mondo cattolico trentino e a tutt‟oggi certe ferite causate da quel momento cruciale non sono state ancora rimarginate. È in questo contesto che si apre, per la Chiesa universale, il Concilio Vaticano II (1962-65), che per Trento significò anche la nomina del nuovo vescovo nella persona di Alessandro Maria Gottardi (1912-2001). Proprio il Concilio Vaticano II, cui il vescovo di Trento partecipò con grande entusiasmo e con attenta sensibilità pastorale, doveva diventare il punto di riferimento fondamentale per una nuova epoca del movimento cattolico trentino e per la sua «gloriosa» storia. Una cosa è certa: per chi ha vissuto intensamente quegli anni, con animo libero e con spirito attento, non può essere facile assistere al tentativo in atto di stendere un velo di oblio e di dimenticanza sul grandioso tentativo messo in atto dal Concilio di dare un nuovo slancio al dialogo costruttivo tra fede e storia, tra Chiesa e mondo, tra cultura dell‟uomo e la Parola sempre nuova di Dio.

Canova, 17 aprile 2009


OPERE GENERALI 1. O.G. VECCHIO, D. SARESELLA, P. TRIONFINI: Storia dell’Italia contemporanea. Dalla crisi del Fascismo alla crisi della Repubblica, Monduzzi, Bologna, 1999. 2. S. LANARO: Storia del’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Padova, 1992. 3. P. SCOPPOLA: La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna, 1992. 4. C. VALLAURI: Alle radici della politica italiana. La formazione delle oligarchie. Le origini della crisi, Gangemi, Roma, 1996. OPERE sul «mondo cattolico» in Italia 1. A.C. JEMOLO: Chiesa e Stato in Italia, dalla unificazione ai nostri giorni, Ed. PBE. 2. S. TRAMONTIN: Un secolo di storia della Chiesa: da Leone XIII al Vaticano II, Studium (2 voll.). 3. S. TRAMONTIN: Carità o giustizia? Idee ed esperienze dei cattolici sociali italiani dell’800, Ed. Marietti, Torino. 4. S. TRAMONTIN: Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Ed. Marietti, Torino. 5. P. BELLU: I cattolici alle urne, Ed. Della Torre. 6. F. MALGERI: La Chiesa e la guerra (1940-45), Ed. Studium. 7. F. MALGERI: Luigi Sturzo, Ed. Paoline. 8. P. SCOPPOLA: Dal Neoguelfismo alla D.C., Ed. Studium. 9. MARIO BELLARDINELLI: Movimento cattolico e questione comunale dopo l’unità, Ed. Studium. 10. F. FONZI: I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Ed. Studium. 11. G. FORMIGONI: L’azione cattolica italiana, Ed. Ancora. 12. G. MARTINA: La Chiesa in Italia negli ultimi 30 anni (1945-1975), Ed. Studium. 13. G. MARTINA: La Chiesa nell’età del Totalitarismo, Ed. Morcelliana. 14. M. GUASCO: Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Ed. EDB. 15. S. MAGISTER: Chiesa extraparlamentare, L‟Ancora del Mediterraneo. 16. M. GUASCO: Il Modernismo in Italia, Ed. Paoline. 17. L. BEDESCHI: L’antimodernismo in Italia, Ed. Paoline. 18. A. D‟ANGELO: De Gasperi, le Destre e «L’operazione Sturzo», Ed. Studium. 19. GABRIELE DE ROSA: La crisi dello stato liberale in Italia, Ed. Studium. 20. E. ARNOULX - DE PIREY: De Gasperi, il volto cristiano della politica, Ed. Paoline.


MARCELLO FARINA

Breve storia del movimento cattolico in Italia dall’Ottocento al Concilio Vaticano II

Parrocchia s. Pio X - Canova (Trento)


CATTOLICI E FASCISMO CAPITOLO IV

(1922-1943)

1.

La breve e tormentata storia del Partito Popolare italiano

Il 1919, come si è potuto cogliere nella precedente conversazione, ha rappresentato per il movimento cattolico italiano un punto di arrivo fondamentale. L‟appello ai «liberi e forti» di don Luigi Sturzo, lanciato il 18 gennaio di quell‟anno, che coinvolgeva non solo i cattolici, ma «tutti» gli uomini «liberi e forti» appunto, era il risultato di un cammino lungo e a tratti estenuante di mediazioni, di rivendicazioni, di fraintendimenti perfino, che riconosceva al movimento cattolico il diritto di operare in piena libertà e in propria responsabilità, fuori di ogni tutela ecclesiastica e vaticana. Ciò era stato reso possibile, come si è visto, anche dal diverso clima spirituale e politico che si era diffuso con l‟elezione al papato di Benedetto XV (1914-1922), certamente più aperto e positivo del suo predecessore Pio X a riconoscere la dignità e la responsabilità dei laici nella vita pubblica. «Libertà» e «democrazia» diventarono ormai le parole chiave del partito di cattolici, alieno dal confessionalismo e aperto al pluralismo, ispirato dalle idealità cristiane, ma attento a non prendere la religione come elemento di differenziazione politica. Per Sturzo la presenza pubblica dei credenti doveva diventare un presidio del bene comune e un ostacolo alla pretesa dello Stato di monopolizzare lo spazio pubblico. Le prime uscite pubbliche del Partito Popolare italiano (PPI), come si è già ricordato, furono positive: nelle elezioni politiche del 1919, a suffragio universale maschile, essi ottennero il 20,5% dei voti validi e 100 deputati, e in quelle del 1921 essi ottennero 107 deputati, diventando così una forza politica seconda per rappresentanza solo ai socialisti di Turati. Tuttavia, nel 1922, dopo aver posto il veto per un ritorno al potere del vecchio Giolitti, proprio il Partito Popolare, che aveva avuto dalla Corona (Vittorio Emanuele III) l‟incarico di formare il nuovo governo con Filippo Meda, si rifiutò, consegnando di fatto il potere al luogotenente del Giolitti, Luigi Facta, un uomo «incolore di modesta levatura politica» che, anche per questa grave mancanza di responsabilità politica dei popolari, avrebbe di fatto consegnato il governo a Mussolini nell‟ottobre del 1922. Ma un altro fatto importante interessò il PPI e tutto il mondo cattolico all‟inizio del 1922: la morte di Benedetto XV (il 22 gennaio) e l‟elezione del nuovo Papa, Achille Ratti, arcivescovo di Milano, che assunse il nome di Pio XI (1922-1939). Quale sarebbe stato l‟indirizzo del nuovo Pontefice? E, soprattutto, per la nostra storia del movimento cattolico in Italia, quale atteggiamento avrebbe assunto nei confronto del PPI e degli altri organismi cattolici (sindacato, leghe, cooperazione, casse rurali, ecc. ecc.)? Ufficialmente – ha scritto Stefano Jacini nella sua «Storia del Partito Popolare italiano» – nulla mutò, né poteva mutare con il nuovo pontificato. Pio XI rimase, non meno del suo predecessore, estraneo alle questioni interne della politica italiana e continuò a considerare i popolari come un partito aconfessionale, pur mantenendo con alcuni di essi amichevoli relazioni. «Tuttavia, la formazione del nuovo Pontefice era, non dimentichiamolo, tipicamente lombarda e conservatrice. Come lombardo egli aveva nella sua giovinezza assistito al doloroso conflitto fra intransigenti e cattolici liberali milanesi, e doveva perciò desiderare sopra ogni cosa una conciliazione, sul terreno politico giuridico, con lo Stato italiano; un riannodarsi diretto di rapporti, al quale l‟esistenza di un partito autonomo, composto di cattolici, poteva sì, 2


in certe circostanze, giovare, ma per avventura anche nuocere. Come conservatore, non riusciva a nascondere una certa diffidenza verso la Democrazia Cristiana, della quale il Partito Popolare era in certo qual modo la concretizzazione politica. A tali predisposizioni, si aggiunga un orrore, quasi diremmo fisico, verso il bolscevismo, di cui il Nunzio Ratti aveva vissuto personalmente la minaccia incombente su Varsavia, e quindi la istintiva simpatia verso quelle forze, quali si fossero, che al bolscevismo più energicamente ed efficacemente sembrassero contrapporsi. Tutto ciò, certo più oscuramente sentito di quanto non siamo venuti esponendo, basta a spiegare, nel primo periodo del pontificato di Pio XI, come egli abbia prestato l‟orecchio a quelle correnti, che nel sorgente astro fascista scorgevano soprattutto la sconfitta del liberalismo tradizionale; come abbia appoggiato, in seno alla Chiesa, gli elementi non ostili al regime dittatoriale che si andava elaborando e, in seno ai popolari, la piccola frazione ad esso meno avversa. Di qui un mutamento non già nelle relazioni, ma nella tonalità delle relazioni fra il partito e la suprema autorità ecclesiastica; mutamento che, agli inizi quasi impercettibile, doveva rivelarsi all‟ora del crollo; quando, se alcuni membri perseguitati poterono sperimentare individualmente il beneficio di una augusta protezione, il partito come tale fu lasciato lottare da solo in una condizione di quasi umiliante abbandono» (P. Scoppola, Dal Neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Studium, p. 162-163). Come si può pensare, questo nuovo clima dei rapporti tra Santa Sede e il PPI (e il movimento cattolico nel suo complesso) fu abilmente sfruttato da Benito Mussolini, che all‟inizio accettò la collaborazione al suo governo di alcuni popolari (al momento della «fiducia», il 16 novembre 1922, votarono a favore anche De Gasperi e Gronchi) e, poi, puntò decisamente alla liquidazione del partito stesso, tentando di mostrare all‟opinione pubblica e alla Santa Sede l‟inutilità di un partito di cattolici, attraverso una politica (quella che avrebbe condotto ai Patti Lateranensi del 1929) di favori alla Chiesa, nettamente in contrasto con le origini antireligiose e anticlericali del fascismo. Nel 1923 Mussolini passò dalle dichiarazioni in parlamento, in cui manifestava stima e favore nei confronti della Chiesa cattolica, al proposito di rendere obbligatoria l‟istruzione religiosa nella scuola pubblica (è il tempo della Riforma Gentile del sistema scolastico italiano, 27 aprile 1923), al salvataggio del Banco di Roma, notoriamente legato agli ambienti cattolici, in un crescendo di iniziative chiaramente volto ad ottenere migliori rapporti con il Vaticano e il mondo cattolico in generale. L‟abile politica di Mussolini contribuì non poco alla crisi del PPI. (Dietro pressioni del Vaticano, nel luglio del 1923 Luigi Sturzo lasciò la segreteria del PPI, come voleva il duce). Più vive si fecero in molti ambienti cattolici le simpatie al fascismo, inteso come forza capace di restaurare i valori religiosi, messi in crisi dai socialisti, dai radicali, dai comunisti, dagli stessi liberali alla Giolitti... Un ex popolare, l‟on. Corneggia, creò addirittura un movimento, l‟Unione Nazionale, che si proponeva di raccogliere i cattolici filofascisti. I popolari, con Luigi Sturzo, reagirono al Congresso di Torino (giugno 1923), proponendo una tenace difesa delle libertà democratiche, accompagnata da un disegno di ampie riforme sociali, soprattutto nel mondo contadino (contro il latifondo...). In quell‟occasione alcuni deputati, rappresentanti dell‟ala sinistra del partito (Piccioni, Gronchi, Ferrari, Miglioli...) si pronunciarono decisamente contro ogni forma di collaborazione con la destra e con il centro moderato liberale, prospettando l‟opportunità di una collaborazione con i socialisti, pur nella consapevolezza dei limiti che ad essa occorreva porre. Del resto, già l‟anno prima, 1922, Sturzo aveva avuto diversi colloqui con Turati, Treves, Modigliani, Matteotti, nel tentativo di arrivare a un possibile dialogo politico, che si arenò, in realtà, su questioni di interesse religioso e sul problema della «libertà» della scuola. I socialisti, a loro volta, stavano uscendo da una grave crisi politica, che aveva comportato la scissione del partito con la nascita a Livorno del Partito Comunista d’Italia nel 1921 e la fondazione del Partito Socialista Unitario al posto del PSI.

3


Come si è già accennato, dopo il Congresso di Torino, Mussolini organizzò una dura campagna contro don Sturzo, «nemico» dichiarato del fascismo, ottenendo le sue dimissioni da segretario del PPI, che fu retto da un triumvirato formato da Gronchi, Spataro e Rodinò. Gravi scissioni verso destra si verificarono nel Partito Popolare in occasione della famigerata Legge Acerbo (la nuova legge elettorale del 13 novembre 1923), che stabiliva che la lista di maggioranza anche relativa che avesse raggiunto almeno il 25% dei voti avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi alla Camera. Alcuni deputati popolari, favorevoli alla legge Acerbo, furono espulsi dal partito, cui seguirono altre defezioni, tra cui quelle di Grosoli, Crispoldi, Cantucci. Alle elezioni dell‟aprile del 1924, svoltesi in un clima di violenze e intimidazioni contro tutti gli oppositori, ma soprattutto contro popolari, socialisti e comunisti, i fascisti e i loro alleati ottennero il 64,9% dei voti e 374 seggi su 508; ai popolari andò il 9%, con 40 deputati, ai socialisti unitari (Turati ecc.) il 5,9%, ai socialisti massimalisti il 5%, e ai comunisti il 3,7% (con Antonio Gramsci). Il Parlamento era ormai un docile strumento nelle mani del partito di governo, il quale era nelle migliori condizioni per usare della maggioranza dell‟aula per vanificare le stesse istituzioni pubbliche e imporre la propria visione totalitaria dello Stato. Inutile fu la coraggiosa denuncia delle violenze di quei giorni da parte di Giacomo Matteotti, segretario politico del Partito Socialista Unitario. Il 10 giugno 1924 egli venne rapito e quindi assassinato da sicari fascisti, convinti di interpretare la volontà di Mussolini. Per un attimo, dopo il giugno 1924, PPI e PSU parvero poter formare un fronte compatto sia morale che politico, per offrire alla Corona, fortemente impressionata dal delitto Matteotti, la base per un‟alternativa al governo fascista. Ma a sconfessare una possibile alleanza con i socialisti si erano mossi l‟Osservatore Romano e la Civiltà Cattolica, oltre che lo stesso papa Pio XI che, in un discorso alla FUCI (9 settembre 1924) aveva avanzato molte riserve sull‟opportunità che essa venisse conclusa. (Si parlò di «proposta ignominiosa»!). Poi il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 alla Camera (il «discorso del bivacco»), nel quale egli si addossò tutta la responsabilità delle violenze fasciste, fece cadere ogni residua speranza di un rovesciamento del governo e rappresentò, come è noto, l‟avvio del vero e proprio «regime fascista». Vi fu ancora, nel giugno 1925, il congresso di Roma nel quale furono riaffermate da Alcide De Gasperi, nuovo segretario del partito, le ragioni ideali del popolarismo. Ma poi, sotto la crescente pressione delle persecuzioni governative, le file del partito furono scompaginate e disperse, finché i deputati popolari insieme con quelli degli altri partiti furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare e tutti i partiti antifascisti disciolti con decreto del novembre 1926. (Sono le famigerate leggi «fascistissime» che trasformano lo Stato in “regime”!).

2.

I Cattolici e il fascismo

Si è potuto finora accennare solo con piccole note al progressivo imporsi nel nostro Paese del regime fascista. Nato come movimento (I fasci di combattimento, a Milano) nel 1919, diventato partito (il Partito Nazionale Fascista) nel 1921, esso diventa regime, cioè occupa tutti i gangli vitali dello Stato tra il 1924 e il 1926, con l‟introduzione delle leggi «fascistissime», che comprendevano la modifica dello Statuto del 1848, che rafforzava il potere del «capo del governo» e lo rendeva responsabile solo davanti al re, mettendo nelle sue mani anche tutta l‟attività parlamentare, sancivano l‟abolizione dei sindacati, dei partiti, delle cariche amministrative elettive (Province e Comuni), e istituivano la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN, nel 1923) e l‟Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo (OVRA, 1926). 4


Se poi si vuole almeno accennare alle ragioni profonde dell‟ascesa al potere del fascismo, si deve tenere presente, come scrive Federico Chabod (in L’Italia contemporanea, 19181948, PBE, p. 66), che per essa giocò un insieme assai complesso d‟interessi e di passioni: «Interessi di classe molto precisi, da parte dei grandi proprietari terrieri che vogliono spezzare la resistenza dei braccianti, e da parte degli industriali. Interessi che si mescolano a passioni e sentimenti: il patriottismo ferito, la paura di una rivoluzione dopo il settembre 1920 (l‟occupazione delle fabbriche), il timore del disordine e dell‟anarchia: motivi questi sentiti anche da coloro che non avrebbero molto da perdere da un cambiamento della struttura sociale». A ciò si può aggiungere, sempre secondo Federico Chabod, che «ben pochi fra gli uomini di governo – l‟esempio di Giolitti è tipico – si rendono conto di essere alla vigilia di un‟avventura estremamente pericolosa, nella quale l‟Italia sarà trascinata per vent‟anni fino alla catastrofe» (ivi, p. 67). D‟altra parte «il fascismo non era una forza politica vecchio stile. I suoi princìpi – ammesso che ne avesse – non avevano nulla in comune con quelli che finora avevano regolato il giuoco politico. La legalità degli atti non lo preoccupava: la libertà, la salvaguardia del Parlamento, tutti i vecchi princìpi dello Stato liberale gli erano estranei. Poteva parlarne per semplici motivi di opportunità, di tattica, in realtà se ne beffava». Ci furono anche compiacenze militari e di corte (la regina Margherita). Per quel che riguarda, poi, la nostra ricerca, lo Stato fascista tende a porsi confusamente come stato ideologico, che riconosce un ruolo importante alla religione tradizionale (e di conseguenza alla Chiesa cattolica) per potenziare, per così dire, tutti i «valori nazionali». Certo, è una posizione che non risponde alle esigenze più profonde della coscienza religiosa, ma che consente un «occasionale» incontro fra lo Stato e la Chiesa sul terreno di uno scambio reciproco di vantaggi. Lo Stato fascista chiede alla Chiesa l‟avallo del suo prestigio morale e, come contropartita, assicurerà alla Chiesa protezione e favori. Scrive Scoppola: «Il rapporto fra lo Stato e la Chiesa torna ad essere, assai più che nei primi decenni del secolo, un rapporto di vertici; non passa più, cioè, attraverso la coscienza dei cattolici, non è più condizionato dalla loro capacità di interpretare sul piano politico e civile esigenze di carattere religioso: non è più necessaria ormai alcuna mediazione. I cattolici sono risospinti in qualche modo, come tutti i cittadini del resto, in quella posizione di minore età dalla quale erano faticosamente usciti attraverso decenni di esperienze e di lotte. È chiaro che in questa situazione, venuto meno ogni spazio per un partito di cattolici, la loro azione tornerà a muoversi ancora una volta nel campo strettamente religioso. E qui, su questo terreno, essa tenderà al compito sempre essenziale, in ogni regime politico, di formazione e di espansione religiosa» (P. Scoppola, op. cit., p. 172). I cattolici, in effetti, ripiegheranno sistematicamente, negli anni successivi, dalle posizioni politiche e sociali su posizioni esclusivamente religiose. Alla fine del Partito Popolare (1926) seguì la crisi dell‟organizzazione sindacale dei cattolici (CIL), che cessa di esistere il 3 aprile 1926, dopo la legge sull‟ordinamento corporativo (il «Patto di Palazzo Vidoni» del 1925, che riconosceva solo ai sindacati fascisti la rappresentanza dei lavoratori). A guidare e a indirizzare i cattolici provvederà l‟Istituto cattolico di attività sociali (l‟ICAS), creato nel 1925 nel quadro di una vasta riforma dell‟Azione cattolica. Sorte analoga toccò al movimento delle Casse rurali e delle Banche popolari, che tanta parte, come si è visto, avevano avuto nella seconda sezione dell‟Opera dei Congressi, insieme con le Cooperative. L‟azione dei cattolici restava dunque confinata nel campo strettamente religioso e pur lì guardata con sospetto dal regime invadente. È in questo momento che Pio XI avvertì la necessità di dare all‟Azione cattolica (sciolta l‟Unione popolare) una organizzazione più salda e accentrata, come unica rimasta delle attività dei cattolici italiani. Essa fu allora divisa in quattro distinte associazioni: Federazione italiana uomini cattolici, Società della gioventù cattolica italiana, Federazione universitaria cattolica italiana e l‟Unione femminile cattolica italia5


na. Al centro lavorava la Giunta centrale d’Azione cattolica e, in periferia, le varie Giunte diocesane e parrocchiali. «È su questa nuova base organizzativa che i cattolici svolgeranno negli anni del fascismo la loro azione; in queste associazioni si formeranno le nuove generazioni. Ogni timido accenno di sconfinamento sul piano politico e sociale, che non sia pura e semplice lode dei meriti del regine, sarà l‟occasione di contrasti e di incidenti talvolta clamorosi. Questa è appunto la condizione alla quale l‟Azione cattolica, unica delle tante associazioni esistenti prima del fascismo, è tollerata dal regime totalitario: che essa sul piano politico non intralci in alcun modo l‟azione del fascismo, che anzi lo fiancheggi e sostenga con la sua opera di formazione morale. Nel 1931, come vedremo, a scatenare una violenta campagna contro l‟Azione cattolica sarà sufficiente l‟accusa che alcuni, nelle associazioni cattoliche, “dinanzi al fascismo assumono arie e aspetti di censori e sembrano voler muovere vento di fronda”, come scriverà il 19 marzo il “Lavoro fascista”. I cattolici che, fuori delle associazioni, assumevano precise posizioni politiche contro il regime erano obbligati alla clandestinità o all‟esilio. Si tratta per lo più di ex popolari: tra i più noti Sturzo, De Gasperi, Donati e Ferrari. Nei loro scritti la denuncia del contrasto insanabile di principio tra la Chiesa cattolica e il fascismo è esplicita e precisa, e altrettanto chiara la denuncia dell‟equivoco su cui si fonda la collaborazione pratica che si è tuttavia stabilita tra la Chiesa ed il regime» (P. Scoppola, op. cit., p. 174). È in questo clima che avviene la Conciliazione tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Come si sa, i Patti Lateranensi dell‟11 febbraio 1929 sono composti di tre documenti: il Trattato, il Concordato e la Convenzione finanziaria. Il Trattato, proclamando la piena sovranità della Santa Sede nello Stato della Città del Vaticano, garantiva la completa indipendenza del Pontefice nell‟esercizio delle sue funzioni e scioglieva la questione romana, riconoscendo con esso la Santa Sede il Regno d‟Italia con Roma capitale. Questa sovranità era in realtà ristretta nei confini del piccolo territorio non occupato dalle truppe italiane nel 1870, avendo la Santa Sede rinunciato da prima alla Villa Pamphili e alla zona di collegamento con essa inclusa nei primi progetti e poi, alla vigilia dell‟accordo, all‟oratorio di San Pietro, e anche perché Mussolini aveva ricevuto ripetuti inviti a non cedere neppure un metro dello Stato italiano che non fosse stato già praticamente occupato dal Papa. Dove invece la Santa Sede si mostrò meno arrendevole e dove cercò anzi di ottenere il massimo fu nel Concordato. Le discussioni si erano svolte soprattutto intorno a quattro punti: il riconoscimento del cattolicesimo come religione dello Stato (anche se l‟affermazione esplicita fu poi inserita nel Trattato per rendere più evidente lo spirito con cui quest‟ultimo era stato stipulato e ci si accontentò soltanto di un richiamo nel Concordato: ma numerose furono in esso le applicazioni di quel principio), l‟estensione dell‟appoggio che lo Stato si impegnava a dare alla Chiesa, le garanzie per l‟educazione della gioventù, la nuova disciplina del matrimonio. E anche se le proposte massime avanzate dalla Santa Sede soprattutto in questi due ultimi settori (e che comprendevano tra l‟altro l‟adempimento collettivo del precetto festivo da parte degli alunni delle scuole statali e gli esercizi spirituali durante la settimana santa per quattro giorni per lo spazio di almeno un‟ora e l‟impegno a non permettere mai il matrimonio civile dei sacerdoti) furono accantonate, tuttavia il Concordato risultò, come ebbe ad osservare personalmente il Papa, «se non il migliore di quanti se ne possono fare, certo fra i migliori [naturalmente dal punto di vista della Santa Sede] di quelli che si son sin qui fatti». Proprio Pio XI così commentava: «[...] ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi tanto più brutti e deformi». 6


A sua volta la Convenzione finanziaria fissava un contributo che il governo italiano avrebbe dato alla Santa Sede in sostituzione di quello che a quest‟ultima sarebbe spettato secondo la Legge delle Guarentigie del 1871 e che il Papa aveva sempre rifiutato, manifestando anche in quel modo la sua protesta contro la legge. Alla fine delle trattative si giunse a fissare la cifra in 750 milioni in contanti e un miliardo in titoli di Stato: meno della metà, a conti fatti, di quello che la Santa Sede avrebbe dovuto riscuotere, anche se rappresentava pur sempre una bella cifra. La pace religiosa era quindi giuridicamente realizzata l‟11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l‟Italia e con piena soddisfazione dei due contraenti: la Santa Sede era riuscita ad ottenere il riconoscimento della piena sovranità del Papa attraverso una pattuizione bilaterale e una cospicua dotazione economica, perché come aveva osservato il Pacelli «una sovranità costretta a tendere la mano non è una sovranità dignitosa», e soprattutto una regolamentazione dei rapporti Stato-Chiesa tra le più favorevoli possibili; lo Stato italiano, o per meglio dire il fascismo, che dai Patti Lateranensi aveva certamente ottenuto un solido consolidamento interno, in modo particolare nei confronti di quei cattolici che da una parte consideravano assolutamente necessaria anche la sistemazione giuridica della questione romana e dall‟altra erano stati finora piuttosto tiepidi nei riguardi del regime, e un notevole aumento di prestigio all‟estero. Lo stesso Alcide De Gasperi, ultimo segretario politico del Partito Popolare, nascosto per sfuggire alle persecuzioni fasciste e mendicante un posto di lavoro e un pezzo di pane, aveva con realismo scritto ad un amico: „La conclusione è, vista oggi in Italia, un successo del regime; ma vista nella storia del mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana. Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, se fosse stato Papa, anche don Sturzo. Come figli della Chiesa dobbiamo gioire‟. C‟era però in tutto questo qualcosa di paradossale. La Chiesa aveva infatti ottenuto il riconoscimento della propria autonoma sovranità proprio nel momento in cui si faceva più esasperata l‟affermazione dell‟eticità dello Stato, di derivazione hegeliana, che il fascismo aveva fatto propria. C‟era quindi dietro l‟accordo del 1929 una contraddizione ideologica che il reciproco interesse dei due contraenti poteva appena velare, ma non cancellare. E le polemiche seguite alla Conciliazione la renderanno evidente. Non erano mancate però neppure al momento della stipulazione degli accordi le riserve da parte di alcuni ambienti cattolici. E non sembra storicamente esatta la valutazione fatta a trent‟anni di distanza da padre Bevilacqua sul «grande gelo che invase gli spiriti» e sul fatto che «la grande maggioranza dei cattolici non riusciva a rendersi ragione come la Chiesa avesse potuto venire a patti con una forza dimostratasi anticristiana in sé, nei fini come nei mezzi», c‟erano pur stati dei gruppi e delle personalità cattoliche e anche uomini oscuri (noi stessi abbiamo pubblicato le note di un povero parroco di campagna in proposito) che avevano elevato le loro proteste o avanzato le loro riserve. Queste ultime erano state particolarmente vive tra gli uomini del disciolto Partito Popolare. Sturzo, Donati, Ferrari dall‟esilio, cui erano stati costretti dal fascismo, avevano fatto sentire le loro voci; ma dobbiamo osservare che le loro riflessioni più mature in proposito sono successive di qualche anno, quando la valutazione risultava più facile. Le più notevoli sono le pagine di Sturzo nell‟opera Chiesa e Stato, edita nel 1937. In essa vengono messi in risalto gli equivoci dei contrapposti e inconciliabili obiettivi dei due contraenti: da parte fascista l‟inserimento strumentale della Chiesa in una concezione etico-sociale dello Stato; da parte della Chiesa la confessionalizzazione dello Stato per garantire la sua presenza nella vita italiana. Lo stesso De Gasperi, del resto, se aveva visto l‟aspetto positivo della Conciliazione e realisticamente riconosciuto «il valore oggettivo della politica mussoliniana», aveva scritto pure ad un suo amico sacerdote trentino che «il pericolo era piuttosto nella politica concordataria» per «la compromissione» che ne sarebbe potuto derivare alla Chiesa da un‟alleanza reale o anche soltanto apparente con un regime totalitario. 7


Della reazione di gruppi fu particolarmente significativa quella dei cattolici milanesi che, esprimendo al loro arcivescovo il dissenso sulla Conciliazione, avevano scritto: „No, né il Papa né l‟Italia, possono benedire il fascismo perché tra i metodi del sistema fascista e la legge d‟amore del Vangelo l‟abisso è incolmabile‟. Resta però il fatto – e i «prospetti sistematici sulla pubblica sicurezza dal lato politico nelle province del Regno» lo confermano – che vi fu dal 1929 in poi un progressivo orientarsi del clero e degli ambienti cattolici – anche di quelli precedentemente ostili o indifferenti – verso il regime. In effetti, i motivi del conflitto, nonostante i Patti Lateranensi, non vennero meno fra Stato fascista e mondo cattolico. Già precedentemente l‟Azione cattolica era stata presa di mira dalle squadre fasciste: nel 1923 durante la discussione della legge Acerbo; nel 1924, dopo il delitto Matteotti; nel 1925, dopo l‟attentato di Zaniboni a Mussolini. Ma dopo il 1929 il clima si surriscaldò violentemente, quando la presidenza della Gioventù cattolica emanò una circolare in cui si parlava di costituire delle Sezioni professionali e la presidenza centrale, a sua volta, ne produsse un‟altra per costituire un Segretariato operaio. I fascisti reagirono subito. In un articolo del 19 marzo del 1931, apparso sul Lavoro fascista, si dichiarava che con queste iniziative «si straripava oltre gli argini per inondare il campo dell‟ordinamento sociale del fascismo». «Ponendo successivamente in relazione tutto ciò “con il grande scalpore che si sta facendo intorno al quarantesimo anniversario della Rerum Novarum”, si riconosceva innegabile “il tentativo di un grande schieramento di forze cattoliche contro il regime”. E perfino la sua concomitanza con l‟annuncio che il tema della Settimana sociale di quell‟anno sarebbe stato La dottrina cristiana nell’esercizio della professione contribuì a deteriorare la situazione. “I falsi ingenui – ebbe a scrivere il citato giornale fascista – i collitorti, gli organizzatori di sacrestia, le pinzocchere antifasciste ricordino che il fascismo ha ripulito una volta l‟Italia a suon di legnate. Se un supplemento di cura è necessario sulle pieghevoli schiene, non saremo certamente noi a farci pregare e ad attendere troppo per venire indotti in tentazione”. Al Lavoro fascista tennero dietro Gioventù fascista e La Tribuna e il 19 aprile lo stesso segretario nazionale del partito, Giovanni Giuriati, ebbe a parlare di “grossa manovra” delle forze cattoliche contro il fascismo, invitandole a rientrare nei ranghi nello spirito del Concordato. La polemica non finì lì. I giornali riportarono “false relazioni” – come ebbe a dichiarare l‟arcivescovo di Taranto che vi aveva presenziato – sull‟assemblea generale dell‟Azione cattolica del 16-17 maggio, fomentando l‟odio dei fascisti, furono sospesi i programmati incontri della FUCI, e un‟ondata di violenza si scatenò contro le associazioni cattoliche. Gli ultimi giorni di maggio Venezia, Torino, Milano, Pavia, Ravenna, Trento, Verona, Vicenza, Padova, Bologna, Imola, Asti, Savona, Bari, Barletta e molte altre grandi e piccole città e sperduti paesini videro sopraffazioni, spesso sanguinose, devastazioni, che giunsero fino a sacrileghe profanazioni, fra le grida di abbasso e di morte, canzoni blasfeme e oscene» (S. Tramontin, Sinistra cattolica..., op. cit., pp. 92-93). La Santa Sede sospese, in segno di protesta, il Congresso Eucaristico nazionale di Roma e altre manifestazioni religiose pubbliche. Ma il regime, negli ultimi giorni del maggio 1931, chiuse più di 10.000 associazioni giovanili di Azione cattolica, con quasi un milione di iscritti, distruggendo le sedi e malmenando gli aderenti. Un mese dopo, il 5 luglio, Pio XI reagì con l‟enciclica Non abbiamo bisogno, in cui vigorosamente respingeva ogni accusa di intrigo da parte dell‟Azione cattolica e dichiarava di dubitare fortemente «che gli atteggiamenti prima benevoli e benefici» del regime verso la Chiesa fossero veramente sinceri. Solo, più avanti, il 2 settembre dello stesso anno, si arrivò ad un compromesso attraverso il quale veniva esclusa ogni finalità politica o sindacale delle organizzazioni cattoliche. Poi, scrive P. Scoppola, «all‟accordo e alla pacificazione raggiunta seguirono lunghi anni di rapporti amichevoli: gli anni delle benedizioni alle bandiere dei reparti in partenza per la 8


guerra di Etiopia – un intervento il cui principio ispiratore di guerra di conquista motivata dall‟esigenza dello “spazio vitale” era stato tuttavia respinto dall‟“Osservatore romano” – dei discorsi di cattolici responsabili, di esponenti del clero e talvolta di vescovi, in cui si inneggiava alle aquile romane che avrebbero aperto la via alla Croce di Cristo. Ancor più intimo l‟accordo in occasione della guerra di Spagna, intesa e propagandata da molta parte del clero come una vera crociata delle forze del bene contro l‟anticristo nel quadro di quel dilemma, che tanto giovò al fascismo, fra Roma o Mosca. Sono gli anni il cui ricordo, ha osservato con amarezza Arturo Carlo Jemolo, è più sconsolato per i cattolici antifascisti, gli anni in cui, nell‟incoscienza dei più, si andava preparando materialmente e moralmente la tragica avventura della partecipazione italiana alla guerra hitleriana. Ma proprio alla vigilia della guerra, l‟accordo tuttavia fu nuovamente e più gravemente scosso dall‟applicazione in Italia, sull‟esempio della Germania, dell‟assurda e anticristiana legislazione razziale: qui ogni coscienza sensibile e permeata dai valori del Cristianesimo non poteva avere dubbi, non vi erano distinzioni possibili; e in effetti, rispondendo ad un sentimento già diffuso nel mondo cattolico, i princìpi del razzismo furono chiaramente condannati dal Pontefice. Il contrasto fra il nazismo e la Chiesa in Germania aveva dato occasione alla nota enciclica del 14 marzo 1937 sulle condizioni della Chiesa cattolica in Germania, Mit brennender Sorge: con l‟avvicinamento dell‟Italia alla Germania nazista e con l‟introduzione in Italia della legislazione razziale anche l‟intesa della Chiesa con il fascismo entrò definitivamente in crisi» (P. Scoppola, op. cit., p. 186-187). Se poi, alla fine, si potesse fare un bilancio su antifascismo e filofascismo cattolico in Italia, si dovrebbe distinguere: Riguardo al primo, si sviluppò un tipo di antifascismo filosofico e teologico, che nasceva dalla considerazione che il regime si ispirava a una concezione di vita estranea al Cattolicesimo ed era solo opportunisticamente favorevole alla religione. A sostenerlo fu la «Civiltà cattolica» e la Rivista di filosofia neoscolastica, di padre Gemelli, che in altri tempi aveva incondizionatamente appoggiato il regime. Accanto ad esso ci fu anche un‟opposizione, nata soprattutto tra le file dell‟Azione cattolica, fondata su un‟intuizione, anche se confusa, del valore religioso della libertà, del primato della persona umana nei confronti dello Stato, derivante in gran parte da letture di filosofi e pensatori cattolici francesi. Fu soprattutto nell‟ambiente della FUCI, guidata da Igino Righetti e da mons. Giovanni Battista Montini, e dei Laureati cattolici, movimento organizzato proprio in quegli anni, che tali tendenze si manifestarono: velatamente in pubblicazioni e congressi, più palesemente in riunioni ristrette e incontri personali. Assommò in un certo modo le due componenti il periodico «Principii», che il professore di diritto romano all‟Università di Firenze, Giorgio La Pira, aveva fondato nel 1939, come supplemento della rivista di spiritualità «Vita cristiana» dei Domenicani di quella città e che, riportando brani dei Padri e Dottori della Chiesa, intendeva con facili riferimenti renderli protesta contro quanto fascismo e nazionalsocialismo avevano creato di opprimente ed inumano in Italia ed in Europa. Accanto a queste tendenze, piuttosto minoritarie però, continuarono anche in quegli anni le manifestazioni filofasciste di cattolici, laici ed ecclesiastici, occasionate da eventi di politica economica quali la battaglia del grano, che vide più volte riuniti vescovi e sacerdoti attorno al duce a Roma e altrove, o la guerra italo-abissina del 1935 che, se diede occasione a qualche riserva da parte cattolica riguardo al principio della guerra di conquista, fu pure giustificata da altri con la teoria degli spazi vitali (che riecheggiava quella mussoliniana del posto al sole) e contribuì al nascere di una certa retorica cattolico-imperiale che vedeva le armi italiane spezzare le catene della barbarie e aprire la strada alla croce di Cristo (anche se l‟Etiopia era

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l‟unico paese cristiano del continente africano), unendo così (ed era pur questo un tema caro alla propaganda fascista) fede cattolica e civiltà romana. Ancor più larghi furono poi i consensi a favore dell‟intervento italiano in Spagna in appoggio del franchismo. Molti vi videro una crociata in difesa della civiltà cristiana contro la barbarie bolscevica, anche se talvolta si distinse la causa spagnola da quella fascista o nazionalsocialista, che sembravano ivi ugualmente impegnate. E ciò nonostante il riserbo ufficiale della Santa Sede che solo verso la fine del 1938 aveva riconosciuto il governo franchista. I rapporti tra lo Stato fascista e la Chiesa si incrinarono invece molto più profondamente a partire dalla primavera del 1938. L‟occupazione dell‟Austria da parte nazista, che aveva fatto cadere la prospettiva di un‟alleanza tra Stati cattolici (Italia, Spagna, Austria, Ungheria), non solo in funzione anticomunista, ma pure antinazista, l‟alleanza sempre più stretta con la Germania che ne era seguita, anche per il prevalere in seno al fascismo di tendenze estremiste, avevano già contribuito a rompere quel clima quasi cordiale prima esistente. Ma fu soprattutto l‟adozione della dottrina e della politica razziale, in parte imitata e in parte subìta dal nazionalsocialismo, con la seguente legislazione antisemita che il 17 novembre di quell‟anno portò a dichiarare non trascrivibili, e perciò privi di effetto civile, i matrimoni fra ariani ed ebrei, a portare la Chiesa e i cattolici italiani a distaccarsi progressivamente dal regime.

I cattolici trentini e il fascismo (1922-1943)

1.

Nell’Italia dell’Azione cattolica

L‟aggregazione del Trentino all‟Italia, dopo la prima guerra mondiale, portò con sé, nell‟immediato, la necessità di adattare leggi e organizzazioni alla nuova realtà sia politica e civile che religiosa. Come fu introdotta la legislazione italiana in tutti i campi dell‟amministrazione, così si trattò di confrontarsi con la vita e l‟organizzazione della Chiesa italiana per la diocesi e per il movimento cattolico trentino. In questo senso finiva davvero un‟epoca: quella di un mondo cattolico autonomo e a suo modo originale nel suo sviluppo e nella sua operatività in territorio austriaco, lontano da quella ostilità e da quella contrapposizione che erano state le caratteristiche del movimento cattolico italiano durante tutto l‟Ottocento e nei primi due decenni del Novecento. Come scrive Severino Vareschi, «in tutti i settori si poneva ora in Trentino il compito di raccordarsi con le omologhe o analoghe realtà italiane» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 287). Il fatto è che nel frattempo proprio il movimento cattolico italiano aveva subìto una profonda trasformazione, nel senso che già con Benedetto XV (1914-22) esso venne collegato all‟Azione cattolica, che diventava così il punto di riferimento non solo per gli aspetti dottrinali e formativi dei cattolici, ma anche per l‟organizzazione ecclesiale e associativa di essi. In pratica, con la costituzione, già nel 1915, della Giunta direttiva di Azione cattolica, si creava il nuovo organismo di coordinamento (dall‟alto) di tutte le iniziative cattoliche, escluso, per il momento, il sindacato (la CIL) e la Federazione delle cooperative. Il nuovo papa, Achille Ratti - Pio XI (1922-39), perfezionò questi sviluppi e diede all‟Azione cattolica compiti ancora più chiari, «per la riconquista religiosa della società, per la difesa dei princìpi religiosi e morali, per lo sviluppo di una sana e benefica azione sociale, sotto la guida della gerarchia ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti (è l‟abbandono 10


del PPI al suo destino! - n.d.r.), nell‟intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società» (ivi, p. 288). Questo fu in tutto e per tutto anche il programma di Endrici e del movimento cattolico trentino. La strada era già tracciata, come si è visto; si trattava ora di adattarla alla nuova situazione italiana. Tra il 1919 e il 1925 ci fu in Trentino un‟intensissima attività per sviluppare le varie branche dell‟Azione cattolica. Furono soprattutto l‟Unione donne e la Gioventù femminile di Azione cattolica a promuovere varie realizzazioni come l‟Opera per la protezione della giovane, la Casa famiglia, oltre che impegnarsi per la diffusione della stampa cattolica, per l‟appoggio alla neocostituita Università Cattolica del Sacro Cuore (1922), o per opporsi alla proposta di legge del divorzio, con la raccolta in Trentino di più di 70.000 firme contro di essa (1919). Più laboriosa fu la fondazione dell‟Unione uomini cattolici, anche se va tenuto presente che in Trentino esisteva a partire dal 1919 la Federazione delle associazioni dei Padri di famiglia, con circa 40.000 iscritti nel 1920. Nel 1925 si contavano in Trentino un centinaio di sezioni dell‟Unione uomini di A.C. (Azione cattolica). Proprio un anno prima, nel 1924, era nata la «Giunta diocesana di Azione cattolica», che prendeva il posto di quel Comitato diocesano di Azione cattolica, che aveva diretto l‟attività dei cattolici trentini a partire dal 1898. Don Guido de Gentili fu chiamato ancora una volta a presiedere il nuovo organismo.

2.

Cattolici e fascismo

Il primo fascismo trentino fu quello, movimentista e battagliero, di Alfredo Degasperi, breve come una meteora, cui fece seguito, nel 1921, la fondazione a Trento di una sezione dei Fasci di combattimento, ad opera di Achille Starace nel 1921 e poi, l‟anno dopo, della Federazione provinciale fascista della Venezia Tridentina. A dir il vero l‟impatto con il mondo trentino in generale non fu entusiasmante, e non lo sarebbe stato anche nei due decenni successivi. I fascisti rimproverarono all‟inizio ai trentini uno spirito di chiusura localistica, legata alla difesa delle loro istituzioni autonomistiche secolari, oltre che lo scarso impegno nell‟opera di italianizzazione dell‟Alto Adige (anche Endrici fu accusato in proposito su vari fronti). In seguito il rapporto, tranne rari momenti di esaltazione (il Concordato, la guerra d‟Etiopia), si sarebbe sviluppato sui binari di una convivenza senza eccessi, più dettata dalla necessità della sopravvivenza che non dalla acquiescenza ideologica. Lo testimonia anche il fatto che il movimento fascista trentino sarà sempre in qualche modo «commissariato», cioè guidato da elementi provenienti da altre regioni italiane. Quanto al mondo cattolico si può ben dire che in generale i suoi primi “umori” nei confronti del fascismo furono guardinghi, ma non immediatamente negativi. Lo stesso vescovo Endrici, reduce dall‟«esilio» ad Heiligenkreuz (dal 1916 al 1918), cui l‟aveva confinato l‟amministrazione militare austriaca, aveva accolto con sollievo il mutamento politico e l‟ingresso del Trentino nella compagine italiana (che portava con sé anche la fine della tutela «gioseffina» asburgica), senza preclusioni anche nei confronti della progressiva presa del potere dei fascisti. (Occorre tener conto, fra il resto, che il Partito popolare italiano, con lo stesso Alcide De Gasperi era parte integrante del primo governo Mussolini tra il 1922-23!). I primi «screzi» gravi iniziarono nel 1924, quando il neonato giornale fascista Il Brennero cominciò ad attaccare De Gasperi e il giornale da lui diretto Il Nuovo Trentino, interprete del mondo cattolico. (Nel 1926, in seguito alla costante opera di denigrazione nei suoi confronti, De Gasperi si sarebbe dimesso da direttore, lasciando il posto a don Giulio Delugan, ed

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era l‟inizio, questo, della sua definitiva uscita di scena dalla vita della comunità trentina, fino a guerra inoltrata). Poi ci furono le elezioni del 6 aprile 1924, che, caso unico in Italia, videro la lista fascista solo terza con 22.244 voti, dopo il Deutscher Verband con 33.115 e i Popolari con 25.788 voti. La rabbia fascista per quella “sconfitta” cominciò a manifestarsi più pesantemente (dopo il delitto Matteotti), tanto che la Giunta diocesana di Azione cattolica, da poco istituita, decise di iscrivere la Federazione dei consorzi cooperativi all‟ICAS (Istituto cattolico di attività sociali), istituito dall‟Azione cattolica centrale. Lo stesso vescovo Endrici, anche in seguito alla fondazione dell‟Opera Nazionale Balilla (1926), intervenne ripetutamente a raccomandare al clero la cura e la diffusione dell‟Azione cattolica, soprattutto per rivendicare alla Chiesa il diritto-dovere di occuparsi dell‟educazione della gioventù. Ma la tempesta si scatenò subito dopo. «In seguito all‟attentato a Mussolini a Bologna il 31 ottobre, nella notte dall‟1 al 2 novembre 1926, squadristi assalirono anche a Trento la sede della Giunta diocesana di Azione cattolica, devastarono la tipografia del Comitato diocesano e una serie di circoli, oratori e reparti di Esploratori, occuparono il SAIT e la Federazione dei consorzi cooperativi e altre società economiche. Il presidente del Comitato diocesano, de Gentili, venne deportato per qualche settimana nel convento benedettino di Gries, presso Bolzano, e al suo rientro si vide costretto a dare le dimissioni dalla sua carica e ritirarsi in seminario, di cui successivamente fu rettore. In quel modo uscì totalmente dalla scena pubblica colui che era stato il personaggio più significativo del movimento cattolico trentino degli ultimi tre decenni. Al vertice della Giunta diocesana di Azione cattolica salì don Oreste Rauzi. Endrici si attivò prontamente a denunciare presso il prefetto della Provincia – e il 23 novembre presso lo stesso capo del governo Mussolini – le violenze subìte, stigmatizzando in particolare il fatto che le autorità locali, col pretesto di sottrarre agli squadristi le opere cattoliche, le avessero poste sotto sequestro e commissariate. Tra febbraio e marzo dell‟anno seguente, con manovre varie vennero imposte alle stesse nuove direzioni che ne sancivano l‟espropriazione. In febbraio la Banca Cattolica venne fusa forzosamente con la Banca Cooperativa, a formare la Banca del Trentino e dell‟Alto Adige (fallita nel 1933). In dicembre e nella primavera successiva le aggressioni riguardarono De Gasperi che venne messo a sua volta definitivamente fuori gioco» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, pp. 292-293). Di colpo tutta l‟organizzazione cattolica era andata in frantumi. Si decise di ricominciare con il giornale Vita Trentina, nata il 23 dicembre 1926, dopo la chiusura de Il Nuovo Trentino. Con la guida (dal 1927) di don Giulio Delugan, l‟organo di stampa diocesano sarebbe diventato la vera voce critica del regime negli anni successivi. Ma si può dire che quella fu anche l‟occasione in cui il regime fascista stesso si rese conto del peso e della pericolosità di un‟opposizione, quella cattolica, che, senza gesti clamorosi, agiva attraverso l‟Azione cattolica, le parrocchie, gli oratori, tanto da far dire al prefetto di Trento, Marcello Vaccari, che «il vescovo è persona di dubbia fede politica» e che «sarebbe opportuna una decisa Vostra azione, o Duce...», riferendosi direttamente a Mussolini, «onde la Santa Sede comprenda finalmente e provveda alla situazione ecclesiastica del Trentino». Piena e cordiale fu invece l‟adesione del vescovo Endrici alla «Conciliazione» dell‟11 febbraio 1929. Egli addirittura invitò tutti i cattolici a festeggiare l‟evento come un guadagno obiettivo. Le uniche voci discordanti, perplesse, del mondo cattolico furono quelle di De Gasperi e di Delugan. E alle elezioni successive, del 24 marzo 1929, Endrici sollecitò la partecipazione al voto allo scopo di garantire, con un ampio appoggio cattolico, la formazione di un‟assemblea legislativa che ratificasse i Patti Lateranensi del febbraio. Certo, dopo la devastazione del 1926, c‟era stata una ripresa: l‟Azione cattolica era cresciuta di numero (circa 40.000 iscritti ai quattro «rami» nel 1930: uomini, donne, gioventù maschile e femminile); erano cresciuti anche gli abbonati a Vita Trentina (circa 5.300) e ad altri giornali cattolici. 12


«Ma nel 1931 il regime si lasciò andare a una nuova prova di forza. Per ordine di Mussolini, il 30 maggio 1931, a un mese di distanza da una serie di manifestazioni diocesane per il quarantesimo dell‟enciclica Rerum Novarum, vennero dichiarati sciolti anche in Trentino 139 circoli maschili e 221 femminili, oltre all‟associazione degli studenti medi Juventus, l‟AUCT (Associazione Universitaria Cattolica Trentina) maschile e la FUCI femminile. Vennero inoltre chiusi 86 oratori con 27 teatri. Nei primi giorni di giugno avvennero sporadiche aggressioni e soprusi nei confronti di circoli e singole persone. In una lettera al Papa del 2 giugno Endrici riaffermava il “diritto inviolabile [della Chiesa] di educare cristianamente la gioventù e di avviarla all‟apostolato ausiliario del clero”. Gli stessi princìpi espresse in una lettera pastorale che fece leggere in tutte le messe il 14 giugno. “Vita Trentina” e “L‟Avvenire d‟Italia”, che la pubblicarono, vennero sequestrati. Non altrettanto naturalmente il regime poté fare con il numero di “Vita Trentina” del 9 luglio che riportava l‟enciclica di Pio XI Non abbiamo bisogno e che venne stampata e diffusa in 40.000 copie» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 296). Solo nel settembre successivo si arrivò a un accordo tra la Santa Sede e il Governo italiano che restituì al mondo cattolico le sue strutture e i suoi spazi, obbligandoli però a mantenersi ancora più rigorosamente su un terreno soltanto morale e religioso, esclusa ogni proiezione sull‟economico e sul politico, come pure sul terreno sindacale e sportivo.

3.

Gli anni Trenta e la guerra

«Mentre all‟epoca della sua instaurazione violenta il regime fascista aveva costituito una minaccia per il cattolicesimo italiano nelle sue istituzioni e nei suoi valori e aveva con ciò attivato vigilanza e reazione, lungo gli anni Trenta, grazie soprattutto alla Conciliazione del 1929, affiorarono anche aspetti di convergenza tra i due mondi, complice anche il generale contesto di crisi della democrazia parlamentare del periodo. In questi anni di generale calo di sensibilità nei confronti del valore delle libertà politiche il regime intercettò ampiamente filoni tradizionali di antiliberalismo e di antisocialismo cattolico, come pure singole correnti di concezione autoritaria dello Stato. Oltre a ciò i cattolici condividevano con i fascisti, in base a una loro specifica tradizione, un‟enfasi posta sui valori di ordine e di concordia sociale, sul ruolo della famiglia, un favore per la natalità; infine salutarono favorevolmente il recupero fascista (in Italia come in Austria) della concezione corporativa del lavoro e della società. La “diversità” cattolica era destinata a ricuperare smalto nel momento in cui il regime avesse spinto il concetto di nazione fino alla negazione di qualsiasi altro valore, oppure la sua inveterata propensione al monopolio culturale e sociale a punti chiaramente lesivi della dignità della persona umana come le leggi razziali o la soppressione delle libertà personali o la guerra, come sarebbe accaduto alla fine degli anni Trenta anche in Trentino. In ogni caso quegli anni furono un‟epoca di pressoché incontrastato predominio della cultura e delle organizzazioni fasciste nella vita pubblica. Verso la metà degli anni Trenta si registrò anche in Trentino il massimo avvicinamento tra Chiesa e regime. Ogni anno l‟anniversario della marcia su Roma veniva celebrato con una messa in Duomo officiata dal preposito del capitolo. Nell‟autunno del 1935 ebbe luogo la raccolta dell‟oro, dell‟argento e del ferro “per la patria” e l‟arciprete di Santa Maria Maggiore, don Luigi Degasperi, consegnò al federale il suo orologio d‟oro con due tabacchiere d‟argento. Anche l‟arcivescovo Endrici fece la sua offerta e il 18 del mese benedisse al castello del Buonconsiglio le fedi di acciaio che sostituivano quelle d‟oro donate alla patria, le quali erano collocate in elmetti deposti sull‟altare. Il 5 maggio 1936 si celebrò anche nel duomo di Trento un solenne Te Deum di ringraziamento per la vittoria delle armi italiane in Etiopia e per la proclamazione dell‟impero d‟Africa. La messa venne officiata da monsignor Raffaele Cazzanelli, frate francescano trentino, missionario di 13


recente consacrato vescovo. Il prelato non si astenne da toni smaccatamente militaristi e parlò del “lungimirante genio del nostro Duce, l‟uomo ammirato, invidiato e temuto dal mondo intero”» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 297). Sono questi anni in cui cresce ancora l‟Azione cattolica e si moltiplicano le attività religiose in diocesi, anche se, come ricorderà più avanti Alcide De Gasperi, la formazione sociale e ancor più quella politica erano cadute in totale abbandono in quel periodo. Un lampo di luce fu la nomina a vescovo coadiutore con diritto di successione di Enrico Montalbetti, prelato lombardo (1935-1938), che, però, restò a Trento solo tre anni, per concludere poi la sua vita di vescovo a Reggio Calabria, ucciso da un bombardamento nel 1943. Nel primo anno di guerra, nell‟ottobre del 1940, moriva Celestino Endrici, dopo 36 anni di episcopato. Nell‟aprile del 1941 veniva nominato vescovo di Trento Carlo de Ferrari, allora vescovo di Carpi, presentato come «prelato di sentimenti fascisti e patriottici». E i primi atti del nuovo vescovo lo dimostrarono, suscitando una penosa impressione in persone e ambienti che erano state vicine ad Endrici. Per il resto de Ferrari aveva un tratto amabile, il suo pensiero era concreto, le osservazioni argute e l‟eloquio ricco di spirito. Puntava tutto sulla parrocchia e sull‟Azione cattolica per un rinnovamento della pastorale diocesana. Ma la guerra portava con sé lutti, privazioni materiali, bombardamenti e per il Trentino, dopo l‟8 settembre 1943, anche l‟occupazione nazista, che costrinsero il vescovo e la Chiesa trentina a occuparsi della pura sopravvivenza e di un minimo di funzionalità dell‟organizzazione ecclesiastica, nonché a cercare di alleviare le sofferenze della popolazione. Il «commissario supremo» dell‟Alpenvorland (così si chiamava il territorio occupato dai nazisti: Bolzano, Trento e Belluno) Franz Hofer si trovò di fronte un mondo cattolico attento a non provocare ritorsioni e impegnato per la sicurezza delle popolazioni e per la pace sociale. Alcuni religiosi (don Narciso Sordo, padre Costantino Amort e altri due confratelli francescani del convento di Cavalese) pagarono con la vita l‟aiuto prestato a gruppi di partigiani. Anche la stampa (Vita Trentina) fu imbavagliata, prima nel 1941 e poi nel 1944 e solo nel luglio del 1945 il settimanale cattolico poté riprendere le pubblicazioni sotto la direzione di un ritrovato don Giulio Delugan. E con «il ritorno in vita» del settimanale diocesano, anche le altre attività del movimento cattolico trentino avrebbero ripreso a fiorire, in un nuovo contesto, contrassegnato da una straordinaria volontà di «ricostruire» persone e strutture pubbliche.

Canova, 20 marzo 2009

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