Scrutando l'aurora

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SCRUTANDO L’AURORA (Un cristianesimo per domani)

Riflessioni di don MARCELLO FARINA

Parrocchia di Canova (Trento)


IL CRISTIANESIMO STA PER MORIRE? Canova, 18 novembre 2005

1° incontro

(Uno sguardo sulla «crisi» del Cristianesimo) 1. Mi piace iniziare con le parole che Jean Delumeau, lo storico francese di «Scrutando l’aurora» (Un Cristianesimo per domani)1, che ci farà da guida in questo ciclo di riflessioni, mette in bocca a mons. Favreau: «Per la Chiesa non basta più “sistemare”, bisogna “traslocare”. In altre parole diventa necessario abitare diversamente un mondo diventato diverso… Non c‟è fedeltà se non nel coraggio delle evoluzioni» (Ivi, p. 5). Il cambiamento in atto nella storia degli uomini e delle donne nella storia del mondo, che riguarda i molteplici ambiti della loro esperienza e della loro cultura, riguarda da vicino anche la religione e in particolare il Cristianesimo, paradossalmente il più coinvolto, da molto tempo peraltro, nel processo di secolarizzazione che tocca soprattutto i luoghi della sua diffusione sul nostro pianeta. Vorrei, allora, proporre un itinerario in due tappe tra di loro complementari: da una parte analizzare i dati più «eclatanti», anche se incompleti, della crisi «qualitativa» del Cristianesimo, così come essa si avverte soprattutto nei «luoghi» del Cristianesimo tradizionali, cioè in Europa in particolare, e dall’altra affrontare il tema, più impegnativo, della crisi dell’identità cristiana nell’era del pluralismo religioso, cioè della crisi «qualitativa», se così si può dire, dell’annuncio cristiano nel mondo di oggi. 2.

«I cristiani sono dei dinosauri, una specie in via di estinzione?»

Jean Delumeau ci ricorda, fin dall’inizio, che la domanda sulla fine del Cristianesimo non è nuova, nella letteratura che la riguarda. Dal 1893 al 1980 si potevano contare più di 250 titoli sullo stesso argomento. Ma è soprattutto nell’ultimo decennio che le domande sono diventate insistenti: «Dobbiamo credere al futuro del Cristianesimo?» si chiedeva un giornalista francese nel novembre del 1999; e il mese dopo il periodico cattolico «La Croix» si chiedeva a sua volta: «I cristiani hanno un futuro?» e più avanti, Bruno Chenu, sulla stessa 1

J. DELUMEAU, Scrutando l‟aurora, Ed. Messaggero, Padova, 2003.

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rivista: «Il Cristianesimo ha fatto il suo tempo?» A sua volta un gesuita belga si chiedeva: «Gli ultimi dei Moicani? I cattolici in Belgio!» Tutti questi interrogativi nascono dai dati forniti dalla sociologia religiosa. Sondaggi e statistiche non dicono tutto, per fortuna, sul vissuto religioso dei nostri contemporanei occidentali, tuttavia non si possono trascurare. Le luci d’allarme, almeno in Europa, sono al rosso. «Nel 1996 il 76 per cento dei belgi francofoni intervistati dal settimanale cattolico “Dimanche”, ha riconosciuto che la Chiesa romana attraversa una crisi; il 57 per cento riteneva che “stava morendo”. In una decina d‟anni (1990-2000) il numero dei cattolici tedeschi che versavano parte delle tasse alla loro Chiesa è diminuito di un milione, e quello dei protestanti di due milioni. Secondo uno studio del novembre 1998, il 42 per cento dei britannici e il 49 per cento degli olandesi si dichiara senza religione; così pure, secondo un sondaggio del giugno 2000, il 42 per cento dei francesi (nel 1981 erano soltanto il 26 per cento). Se si considera solo la fascia d‟età 20-35 anni, la proporzione dei “senza religione” in Francia supera il 50 per cento. In tutta l‟Europa sono i giovani a dirsi in maggior numero senza religione. Nella Repubblica ceca un'inchiesta del 1999 ha fissato al 43,2 per cento la proporzione dei “credenti”, al 48,5 per cento quella dei “non credenti” e all'8,3 per cento quella degli “atei” (Ivi, p. 9). La testimonianza di Delumeau continua poi, sottolineando lo scarto crescente tra la religione vissuta e quella proposta dalle istituzioni religiose. E continua: «È dunque chiaro che in Europa l‟audience del Cristianesimo è in calo. Nel gennaio 1999 alla domanda posta in un sondaggio dell‟IFOP (Institut Français de l‟Opinion Publique - Istituto francese dell'opinione pubblica): “Quali persone vorreste avessero un ruolo più importante nel futuro?” fra le dieci categorie proposte soltanto il 4 per cento degli interrogati scelsero “le autorità religiose e spirituali”, percentuale che scendeva al 2 per cento per quelli al di sotto dei 35 anni. Un altro sondaggio, stavolta della SOFRES (Société Française d'Enquête par Sondage - Società francese di indagini demoscopiche), pubblicato nel novembre 1999 ed effettuato tra giovani dai 15 ai 24 anni, dava la religione all‟ultimo posto tra dodici valori (famiglia, amicizia, lavoro, amore, studi, religione, ecc.) da classificare in ordine di importanza; il 10 per cento la giudicava “molto importante”, il 20 per cento “abbastanza importante” e il 36 per cento “per niente importante”. Ecco ancora, sempre, per la Francia, un sondaggio preoccupante pubblicato in “La Croix” del 23 ottobre 2001: alla domanda: “Ritenete che la Bibbia sia un „libro sorpassato‟?” il 54 per cento ha risposto “sì”, percentuale che saliva al 59 per cento nella fascia 35-49 anni e al 61 per cento in quella 25-34 anni... con una bella rimonta, per fortuna, nella fascia 18-24 anni. Un ultimo son3


daggio (promosso da “Le Pèlerin”), che citerò qui per non allungare una lista già abbastanza convincente: “La domenica per voi ha un significato religioso?” il 70 per cento ha risposto “no”. I dati sin qui esposti spiegano l‟allarme dei responsabili religiosi, specialmente cattolici. Il documento della curia romana che formulava l‟ordine del giorno del Sinodo per l'Europa tenutosi a Roma nell‟ottobre 1999 affermava: “La supremazia culturale del marxismo è stata sostituita da quella di un pluralismo indifferenziato e fondamentalmente scettico o nichilista. [...] È grande il rischio di una progressiva, e radicale scristianizzazione del continente [...], al punto di formulare l‟ipotesi di una sorta di apostasia del continente”. Durante quello stesso Sinodo, il cardinal Poupard deplorò “l‟agnosticismo intellettuale, l‟amnesia culturale, l‟afasia religiosa” degli europei. “Se nulla cambia, siamo in un vicolo cieco”, scriveva nel 1999 il vescovo di Clermont-Ferrand, monsignor Hippolyte Simon, in un libro molto acuto: Vers une France païenne (Verso una Francia pagana). Con metafora motoristica egli constatava dei “guasti di trasmissione” cristiana tra genitori e figli. Riteneva che le ultime testimonianze di una civiltà cristiana - la cura dei luoghi di culto, il calendario religioso, il rispetto consolidato della domenica - non erano altro che una sorta di “debito” nei confronti di un Cristianesimo del quale ben presto nessuno avrebbe più capito il significato. A meno di un soprassalto, concludeva monsignor Simon, “saremo presto all'insuccesso”. Un simile contesto spiega l'accento posto da Giovanni Paolo II sull‟urgenza di una “nuova evangelizzazione”. Sorge allora il problema di sapere se ci troviamo di fronte a una secolarizzazione accelerata o a una vera scristianizzazione. Il card. Danneels da parte sua parla di una “deforestazione della memoria cristiana”» (Ivi, pp. 11-12). È certo ormai – nota Delumeau – che, soprattutto in Europa, il Cristianesimo non è tanto questione di eredità, quanto di scelta. Ormai esso è, o sta per diventare, minoritario. Inoltre c’è la tentazione di mettere alla berlina il Cristianesimo, attraverso una cultura del disprezzo. Nella sua storia si scelgono le pagine nere, gli errori, i silenzi, i crimini commessi in nome della croce, mentre si passano sotto silenzio gli apporti positivi alla civilizzazione dell’Europa, che fu immenso. Il «genio» del Cristianesimo, per dirla con Chateaubriand, non ha dato il suo apporto decisivo alla promozione del soggetto umano e la permanenza della generosità che esso ha indotto lungo i secoli e continua a suscitare? È forse un caso se, su scala mondiale, è in terra cristiana che sono nate la scienza moderna, la formulazione dei diritti dell’uomo e, persino, il movimento di liberazione delle donne? In ogni caso una certezza ormai si impone: la modernità e la modernizzazione mettono in discussione il Cristianesimo che abbiamo conosciuto nei secoli precedenti. 4


3.

La crisi dell’identità cristiana nell’era del pluralismo religioso1

Abbiamo potuto cogliere dai dati presentati le espressioni esteriori della crisi del Cristianesimo, soprattutto in Occidente. Ma ci rendiamo quotidianamente conto che la crisi principale ha a che fare con Dio e con suo Figlio Gesù Cristo. Questa è una crisi per il Cristianesimo, per le chiese e per i singoli credenti da molti punti di vista. La crisi è «crisi di Dio»: un gran numero di persone ha smesso di credere in Dio e le Chiese non sono più capaci di risolvere questa crisi, cioè a comunicare la buona novella di Dio. Si tratta di un «disincanto» diffuso, rispetto ad un discorso che è stato (ed è) troppo sicuro di sé e di una promessa non mantenuta: che cosa si è avverato di quanto annunciato con forza e sicurezza dalle Chiese cristiane? Comunque tre sembrano i fattori principali che fanno vacillare la credibilità della religione cristiana. a) In primo luogo il contrasto tra la freschezza inalterata del messaggio evangelico e le pesantezze dell’istituzione ecclesiastica. «Non è un fatto nuovo ma, soprattutto nell’ambito della Chiesa cattolica, tale scarto è avvertito con un’intensità tanto maggiore in quanto il Vaticano II aveva fatto sperare in un reale rinnovamento nel governo della Chiesa. b) In secondo luogo, di fronte alle drammatiche urgenze del mondo contemporaneo sotto il segno di una mondializzazione asociale e di una minaccia crescente che incombe sul futuro stesso della specie umana, il messaggio cristiano sembra registrare quella rottura tra il dire e il fare che è il destino più comune di tutte le ideologie, religiose e non religiose. c) Infine, tutte le Chiese devono affrontare la sfida di un pluralismo religioso praticamente insormontabile. Per parecchi aspetti, ciò costituisce per il pensiero cristiano una sfida più temibile dell’ateismo o dell’indifferenza religiosa, giacché pone direttamente in discussione la nostra comprensione dell’identità cristiana nella sua pretesa di unicità e di universalità» (C. Geffré, op. cit. p. 25). È a partire da quest’ultimo punto che qui vale la pena di riflettere su tre argomenti in particolare: la nuova scena del religioso, il paradigma del pluralismo religioso come svolta teologica e la nuova intelligenza dell’identità cristiana.

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C. GEFFRÉ, La crisi dell‟identità cristiana nell‟era del pluralismo religioso, in Concilium, n. 3/2005, pp. 23-38.

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a) La nuova scena del religioso. Occorre prendere atto che soprattutto in Occidente si assiste alla proliferazione di nuovi movimenti religiosi, il cui successo si pone in stretto legame con la mondializzazione. Il loro tratto fondamentale è la tendenza al sincretismo, come accade a quella «nebulosa misticoesoterica» che è la New Age. La profonda mancanza di cultura dei nostri contemporanei favorisce un bricolage spesso sorprendente; le credenze diventano fluide così da poter coesistere o anche fondersi a dispetto della loro incompatibilità. Si è tentati di riprendere la felice formula della sociologa britannica Grace Davie: believing without belonging (credere senza appartenere). «Il successo di tale pluralità di correnti sincretiste d‟ispirazione neopagana, soprattutto nell‟Europa occidentale e nel Québec, coincide con la perdita di credibilità se non del messaggio evangelico, almeno delle chiese ufficiali. Di fronte alle delusioni di una modernità sotto il segno della secolarizzazione e di una razionalità puramente tecnica, si manifesta un‟aspirazione confusa a ritrovare oltre tutte le frammentazioni un‟unità primordiale tra l‟uomo, l‟universo e Dio. Anche se ciò proviene da una profonda ignoranza della tradizione cristiana, soprattutto mistica, occorre riconoscere che il Cristianesimo più diffuso risponde male alle aspirazioni dei nostri contemporanei che sono alla ricerca di una sorta di nuovo incanto del mondo, dell‟uomo e di Dio. Soprattutto nella sua tradizione latina, è lecito chiedersi se il Cristianesimo non abbia contribuito, in una specie di rivalità mimetica con una ragione sempre più trionfante, a un certo asservimento della dimensione misterica del cosmo, dell‟uomo e di Dio» (Ivi, p. 26). Dal canto loro, poi, le religioni non-cristiane vengono conosciute sempre meglio, mentre si acquista una coscienza assai più viva della relatività storica del Cristianesimo. Sondaggi recenti mostrano che solo il 4 per cento dei giovani in Inghilterra, in Germania e in Francia ritiene che «la verità si trova in una sola religione». Nello stesso tempo va anche tenuto presente che questo relativismo generalizzato ha come inevitabile contropartita il riaffiorare del fondamentalismo e del fanatismo. b) Il pluralismo religioso, a sua volta, provoca un nuovo paradigma nella riflessione teologica. È entrata in crisi la coscienza che molti cristiani avevano del privilegio unico del Cristianesimo tra le religioni del mondo; detto in altre parole, l’assolutezza della verità cristiana. A questo fine sarebbe auspicabile distinguere la rivelazione come evento e la rivelazione come messaggio. «Secondo la fede della Chiesa, è certo che il Verbo fatto carne l‟ultima comunicazione di Dio agli uomini; ma la rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, di cui Gesù è il testimone, è una rivelazione limitata che non pretende di esaurire la pienezza di verità che è in Dio. Altrimenti significherebbe non prendere sul serio la piena umanità di Gesù e cedere a una certa forma di doce6


tismo. Non è il Verbo nella sua eternità ma il Verbo nella sua contingenza storica quello testimoniato dal Nuovo Testamento. Ricorrendo alla distinzione tra qualitativo e quantitativo, si potrebbe dire che la rivelazione testimoniata da Gesù è incomparabile per il fatto stesso della prossimità della sua coscienza con il Padre; ma, dal punto di vista quantitativo, il messaggio di Gesù è indubbiamente la Parola di Dio allo stato di un discorso umano contingente. D‟altra parte è Gesù stesso a invitarci a valorizzare il carattere escatologico della verità che il Padre gli ha affidata: “Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16, 13)». (Ivi, p. 30). Solo la verità che coincide con il mistero di Dio è una verità assoluta. Ma la Chiesa cattolica crede a questo pluralismo o, piuttosto, non occorre ammettere che il magistero romano ha orrore di esso, tanto che viene interpretato come una ideologia che dispera di ogni verità e conduce al relativismo? (non è questa la teologia del documento Dominicus Jesus del 6 agosto del 2000?). E l’urgenza della missione? È sempre più necessario mantenere la distanza tra la Chiesa terrena e il regno di Dio! «La missione della Chiesa non ha perso nulla della sua urgenza, anche se la teologia contemporanea non stabilisce più un legame stretto tra l‟appartenenza alla Chiesa e la grazia della salvezza in Gesù Cristo. Allorché la missione non è più polarizzata sulla conversione ad ogni costo dell‟altro non cristiano, come se la sua salvezza eterna dipendesse esclusivamente dal suo mutamento di religione, essa conserva tutto il suo senso come manifestazione dell‟amore di Dio, come incarnazione del Vangelo nel tempo, come testimonianza resa al regno di Dio che avviene ogniqualvolta i valori evangelici sono onorati. Ciò è particolarmente vero quando gli operai della missione si trovano messi a confronto con una grande religione come l'islam o l'induismo. In realtà la presenza silenziosa tramite la preghiera, la pratica delle beatitudini, il dialogo sincero con i membri di un‟altra tradizione religiosa assicurano la missione della Chiesa come sacramento del regno che viene. La missione permanente della Chiesa non significa l‟estensione quantitativa della Chiesa come se essa fosse al servizio di se stessa. Significa invece, in dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, manifestare e promuovere il regno di Dio che ha cominciato a inaugurarsi sin dal primo istante della creazione e che non cessa di avvenire sui sentieri della storia, ben al di là delle Chiese che gli esseri umani vedono» (Ivi, p. 34). c) Una nuova intelligenza dell’identità cristiana. Credo che ormai diventi chiaro che il mistero di Cristo trascende la religione cristiana, anche se essa è la religione della sua rivelazione ultima. Occorre andare al di là di Gerusalemme e Atene, al di là della tradizione ebraica e greca, che sono state lo stru7


mento della comunicazione del Vangelo. Il Cristianesimo è nato superando il dualismo tra ebreo e greco; non può avvenire che il nuovo modo di vivere il Vangelo non nasca dal superamento di ciò che è occidentale e non-occidentale? Non è forse pensabile che proprio il contratto tra Vangelo e culture non occidentali possa portare con sé una trasformazione e una chiarificazione che non esclude entrambe? I giudei-cristiani, all’inizio della storia del Cristianesimo, hanno pur continuato a frequentare la sinagoga…! Anche oggi si tratterebbe di tener unite le due parole di Gesù: «“Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”, e: “Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi”. Se vi è rottura e novità, essa si riassume nell‟evento stesso di Gesù Cristo che coincide con l'avvento del regno di Dio e con ciò che esso comporta come novità nella relazione a Dio e all‟altro. Così il rapporto della Chiesa nascente con l'ebraismo ha un valore paradigmatico per il rapporto attuale del Cristianesimo con le altre religioni. Come la Chiesa non integra e non prende il posto di Israele, allo stesso modo essa non integra e non sostituisce la parte di verità religiosa di cui un‟altra religione può essere portatrice. Se la storia religiosa dell‟umanità attesta che le religioni si escludono a vicenda, radicandosi in tradizioni etniche e culturali particolari, il Cristianesimo non porta necessaria- mente in sé i valori positivi di un‟altra tradizione religiosa. Se il Cristianesimo è la religione del Vangelo, se cioè si definisce più per lo spirito che per la lettera, allora non è assurdo parlare per il futuro di una duplice appartenenza nel senso di una sintesi inedita tra l‟identità definita dalla relazione con Gesù Cristo e i valori positivi di un'altra religione. Ciò significa chiaramente che l‟identità cristiana non si definisce aprioristicamente. Essa si apre al divenire ed esiste dappertutto dove lo Spirito di Gesù genera un nuovo essere individuale e collettivo. La vocazione del Vangelo è di diventare il bene di ogni uomo e di ogni donna al di là della sua razza, della sua lingua, della sua cultura, e anche della sua appartenenza religiosa» (Ivi, p. 38).

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SCRUTANDO L’AURORA (Un cristianesimo per domani)

Riflessioni di don MARCELLO FARINA

Parrocchia di Canova (Trento)


A PROPOSITO DI PECCATO ORIGINALE… Canova, 20 gennaio 2006

2° incontro

(L’enigma del male e la storia dell’uomo) 1.

Questioni introduttive (uno stato d’animo condiviso)

Mi piace iniziare questa «difficile» e «intricata» riflessione con due frasi di Paul Ricoeur, il grande pensatore francese che ha dedicato una parte notevole della sua riflessione alla questione del male e del peccato originale. Nell’opera intitolata Il conflitto delle interpretazioni egli scrive: «Il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere…». E poi: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicistica” del mito di Adamo; esso lo ha fatto cadere nella professione di una storia assurda e in speculazioni pseudo-razionali sulla trasmissione quasi biologica di una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato superato…» (cfr. anche pag. 70 di Delumeau). Il compito che si presenta davanti a ciascuno di noi, credenti o cercatori di Dio, laici o scettici nei confronti della tradizione biblica e, più avanti, teologica e filosofica, è, allora, urgente e chiede, ad un tempo, coraggio e competenza per dipanare questo intricato «topos” della storia e della cultura che ci ha accompagnato fino ad oggi. 2.

Il peccato nell’umanità: un dato di esperienza da interpretare (a partire dalla vita quotidiana…)

La colpa e il male sono nell’umanità un dato di esperienza: sono presenti sempre e dappertutto. Nel cuore del problema opaco del male, di un male di fronte al quale l’uomo si sente in parte innocente, sta un male che l’uomo compie personalmente, perché fa esperienza di un disordine dentro di sé e della incapacità di fare il bene che desidera compiere e di evitare il male che non vuole com-

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mettere (cfr. Romani, 7)*. Questa esperienza attraversa tutti i secoli dell’umanità, fino a quel grido dell’eroe di Solženicyn, Oleg, di Reparto C, quando al giardino zoologico, sulla gabbia di un macaco, legge una scritta estemporanea secondo cui «una persona malvagia ha gettato del tabacco negli occhi dell’animale. Perché?… Perché così?… Perché senza una ragione?… Perché era un malvagio senza una ragione?» (p. 550, ed. Einaudi, Torino, 1973). Di questo male degli uomini e negli uomini la rivelazione biblica parla come di un «peccato», vale a dire come di un male che non solo ricade sul colpevole e sulla società degli altri uomini, ma, in più, è rivolto contro Dio. Il peccato viene commesso di fronte a Dio e contro di lui: «Contro te, contro te solo, ho peccato» (Salmo 50, 6). Senza dubbio il peccato è, innanzitutto, una realtà costituita da atti personali. Tuttavia, esso appare come qualcosa d’altro e di più che la somma dei peccati individuali, come una forza praticamente irresistibile che attraversa la storia dell’umanità. Ha come un’esistenza che penetra tra le pieghe di essa; è una realtà inglobante che esercita un potere sulla struttura stessa della storia dell’umanità. Ogni religione si trova messa a confronto con questa esperienza: ciascuna deve cercare di renderne ragione, cosa particolarmente difficile, poiché il male e il peccato sono realtà tenebrose e opache da cui non si può trarre alcuna luce. Qui il nostro approfondimento riguarderà in particolare il male colpevole. La tradizione ebraico-cristiana, d’altra parte, rifiuta, evidentemente, a)

l’idea che il peccato possa essere opera di Dio, così come essa rifiuta anche

b)

il dualismo di due principi, quello del bene e quello del male. Nell’atto con il quale ci annuncia la salvezza in Gesù di Nazareth, essa ci rivela che il peccato è l’opera dell’uomo.

3.

La tradizione patristica: dai padri greci ad Agostino

Si tratta di un passaggio importante della storia della teologia, che ci aiuta a capire il problema fin dal suo nascere. Il primo padre della Chiesa a parlarne è Ireneo, uomo dell’Oriente, diventato, poi, vescovo di Lione. Nel suo famoso testo Contra haereses (Contro gli eretici, 178 d.C.) Ireneo afferma che il vero responsabile del peccato di Adamo è il serpente corruttore, anche lui creatura, ma creatura peccatrice. Adamo, per lui, è più vittima che colpevole, e gli uomini, dopo Adamo, sono i cittadini di un regime di cattività, di prigionia, al modo in cui un vincitore (il diavolo) tiene pri*

Rom. 7, 19: «Infatti, io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio!».

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gioniero l’esercito sconfitto (il popolo dei credenti). Questa cattività è, agli occhi di Ireneo, profondamente ingiusta, perché il demonio rapace non ha alcun diritto sull’umanità. Dio stesso prova pietà per l’uomo e non lo maledice; se lo punisce (con la sofferenza e con la morte) è perché non arrivi a disprezzare Dio e, anzi, riscopra la sua originaria libertà, mai perfetta, del resto, fin dal principio. L’obbedienza del Cristo avrebbe ricostruito la condizione originaria dell’umanità, dando a ciascuno la possibilità di riconoscere il proprio bisogno radicale di salvezza. Per Ireneo, perciò, non è tanto un «peccato», ma una «situazione» di degrado (di separazione da Dio) quella che viene redenta da Gesù di Nazareth e che accomuna tutti gli uomini. Per lui Dio permette la morte, con l’uscita dal giardino, perché il peccato non sia immortale! È invece Agostino di Ippona, colui che usa il termine di «peccato originale» per descrivere la condizione iniziale dell’uomo. Egli, commentando abbondantemente Genesi 2 e 3, riflette sul peccato di Adamo, nel quale vede il peccato allo stato puro, l’orgoglio e l’avidità dell’essere umano in rivolta. C’è, nel peccato di orgoglio, tutta la grandezza negativa della libertà, creata per aderire a Dio. Agostino insiste molto anche sulle conseguenza negative di questo peccato nell’umanità stessa, con la sua dottrina della concupiscenza e della cupidigia che si potrebbe definire come il disordine del desiderio fondamentale dell’uomo, e ciò in tutti gli ambiti. L’argomento di Agostino è estremamente semplice: la Chiesa battezza per la remissione dei peccati, tutto il Nuovo Testamento lo attesta; e se battezza anche i bambini, che non hanno potuto commettere alcun peccato personale, allora vuol dire che essa lo fa a causa del «peccato originale», cioè di uno stato, di una situazione in cui ciascuno, volente o nolente, si trova, che comporta, da una parte, una rottura della relazione di grazia con Dio e, dall’altra, un degrado dell’essere umano rispetto a ciò che egli dovrebbe essere, uno squilibrio, una sorta di maleficio interiore, che ogni essere umano ratifica peccando a sua volta. I concilii locali successivi, di Cartagine del 418 (presente Agostino) e di Orange del 529 confermeranno la dottrina agostiniana. Nel Medioevo si scontreranno due tendenze: quella di Anselmo e Tommaso d’Aquino che interpreteranno il peccato originale come l’assenza della giustizia originaria del momento della creazione, e quella di Pietro Lombardo, che definirà il peccato come squilibrio dell’egoismo, dell’orgoglio e della concupiscenza. A costui si riferirà Lutero, per affermare che il battesimo cancella sì il peccato, ma non la concupiscenza come «peccato» essa stessa. Il Concilio di Trento, dal canto suo, seguirà una via più prudente, affermando che il vero peccato è «la morte dell’anima», cioè il toglierle il rapporto con la vita di Dio, con la sua grazia, secondo le scelte proprie di ciascuno. 4


4.

Le difficoltà della coscienza moderna

La coscienza dei tempi moderni ha reagito contestando, da una parte l’interpretazione del racconto della Genesi, come se si trattasse di una storia verificabile (empirica) che dovrebbe essere collegata in una maniera o nell’altra al processo di ominizzazione e rifiutando, dall’altra, l’affermazione che questa caduta originale sia la causa pura e semplice di tutti i mali dentro l’esperienza di vita dell’umanità. Oggi si riconosce finalmente che il racconto della Genesi è «un mito», nel senso positivo del termine, vale a dire una storia narrata per dare un insegnamento di fede inesprimibile in altri termini. C’è sempre di più in un racconto di questo genere, che nelle razionalizzazioni che se ne possono fare. Nel nostro tempo, almeno da parte delle persone più pensose e avvertite (non, ad es., per gli estensori del Catechismo della Chiesa cattolica del 1993) il rapporto del nostro peccato con quello di Adamo viene compreso in modo nuovo e, certamente, più vicino ad un’esegesi approfondita e seria. Possiamo fare nostre, ad esempio, le domande del teologo J. Moingt: «Il nostro peccato è da attribuire ad Adamo, oppure il peccato di Adamo va attribuito all’uomo? Sta tutto qui. In altri termini: il trattato del peccato originale racconta un accidente della storia e quanto ne è risultato, e cioè una fatalità piuttosto che una storia, visto che l’insieme degli uomini, eccetto uno, non vi svolgerebbero alcun ruolo, se non quello della vittima innocente? Oppure racconta veramente la nostra storia, la storia di noi tutti, quella della libertà umana?» Di fatto, non è forse proprio quest’ultima storia, quella che ci racconta la Scrittura? L’intento fondamentale dei racconti della creazione e della caduta (Genesi 1-3) ha l’obiettivo di sottolineare il «bene originale» della creazione in quanto questa esce dalle mani di Dio, un bene più originale del «male originale» (P. Ricoeur), che è proprio dell’uomo. La libertà dell’uomo, con un peccato scaturito dall’orgoglio di voler diventare Dio con le proprie forze, ha distrutto l’armonia della creazione originale e ha introdotto una serie di rotture: rottura con la natura; rottura tra l’uomo e la donna; rottura all’interno dell’essere umano stesso; rottura con Dio. Questa responsabilità è universale, e per questo motivo essa comincia con gli inizi dell’umanità. San Paolo farà riferimento a questa responsabilità «originale» al momento di proporre il suo grande parallelo antinomico tra Adamo e Cristo (Rom. 5, 12). Nello stesso senso, l’esegeta P. Grelot scrive: «In queste condizioni, il peccato di Adamo diventa, tutto insieme, la figura del dramma umano nella sua generalità e nella rappresentazione simbolica dell’evento originario che ne ha costituito il punto di partenza».

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Il Vaticano II dice, a sua volta: «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio […]. Quel che ci viene manifestato in questo modo dalla rivelazione divina, concorda con la stessa esperienza (Gaudium et Spes 13)». 5.

Una “possibile” riflessione sul «senso» profondo del racconto della Genesi

Vale la pena, da ultimo, di cercare di cogliere il «senso» più autentico del racconto biblico a partire dalla sensibilità e dalle conoscenze dell’uomo e della donna di oggi, con un linguaggio che si sforzi di interpretare uno dei passaggi più drammatici e significativi della storia dell’umanità. In un bellissimo articolo contenuto nella rivista Concilium (Il peccato originale: un codice di fallibilità, 1/2004, ed. Queriniana) il teologo Hermann Häring si chiede qual è il significato del racconto di Genesi, ai capitoli 2 e 3 (i due racconti della creazione dell’uomo) e struttura la sua interpretazione in tre «passaggi» significativi: a) «Esistere significa scegliere». Il testo della Genesi, infatti, non si preoccupa né del traviamento, né del peccato e nemmeno della colpa e del castigo. Viene, invece, raccontata un’esperienza umana di fondo che ci è di sfida e dalla quale non possiamo sottrarci. Si tratta, infatti, del problema della costrizione a scegliere e a organizzare la nostra vita in base alla propria responsabilità. Non possiamo mai avere tutto; la nostra vita è posta nelle nostre mani e non vale ricorrere indiscriminatamente alla volontà di Dio. Decidere significa anche rinunciare, confrontarsi con le alternative, costringersi a scegliere. Ripensando al peccato originale Sören Kierkegaard vedeva in Adamo la figura attuale dell’essere uomo. Nel giardino della felicità tra i molti alberi c’è appunto un unico albero «della conoscenza del bene e del male», cioè del compimento che suggerisce la soddisfazione di tutti i desideri. Ma l’idea di un paradiso in cui si soddisfino tutti i desideri si elimina da se stessa, poiché è nella natura delle cose che la ricerca umana della felicità imponga da sempre di intraprendere un viaggio faticoso e pericoloso. Scrive Hermann Häring: «Esistere significa avere a che fare sempre anche con le scelte, i limiti e i pericoli. Ci attrae l’illusione che la felicità perfetta, la comprensione esauriente della realtà e una vita totalmente sicura siano a portata di mano qui e adesso. Ma proprio tale illusione, il peggior pericolo di ogni esistenza umana, cozza contro inevitabili ed essenziali esperienze quali la coercizione a scegliere, l’angoscia per la separazione, la fatica e il lavoro, i conflitti 6


tra gli uomini e i rischi della sessualità, la sofferenza, i dolori e la morte. È oramai assodato che l’iniziazione a queste esperienze fondamentali del vivere umano – questa che costituisce la saggezza essenziale – si riscontra in ogni religione. Per cui, non appena tale saggezza sfuma sullo sfondo, faremo bene a richiamarla alla memoria riportandola in primo piano». La Bibbia, con il racconto del peccato originale, non ha fatto altro che recepire quelle esperienze di fondo, traducibili nel fatto che anche nell’esistenza ben ordinata rimane un insopprimibile resto del caos: il paradiso hic et nunc non è possibile! Deve pagare questo prezzo chi vuole rallegrarsi di questo mondo e diventare felice in esso; chi vuole partecipare al lavoro per la riconciliazione dell’umanità. Si tratta della disponibilità ad accettare i limiti di questo mondo e ad agire dentro di essi. b) Non ci si può sottrarre alla «libertà». Di fronte al serpente che semina sfiducia e che instilla nella coppia dei “progenitori” la propria immaginazione («Diventerete come Dio») («Si aprirebbero i vostri occhi…»; «Non morirete affatto»), Adamo e Eva sono chiamati a uscire allo scoperto, a esercitare la loro libertà «soggettiva», ad assumere le loro responsabilità, come a dire che ogni atteggiamento di adesione ingenua a Dio deve essere accantonato. L’uomo (ogni uomo) sta ora davanti a Dio come chi si pone domande e prende decisioni in proposito. Certo, le domande si moltiplicano anche per noi e riguardano Dio stesso: gli si possono imputare le limitazioni del paradiso terrestre? O, in modo più chiaro, è egli forse interessato a mantenere piccolo l’uomo? Come si conciliano tra di loro la volontà di Dio e la libertà umana? c) La storia umana si rivela come storia di perdizione e di distruzione. L’uscita dal paradiso terrestre porta con sé fin dall’inizio il concetto-simbolo di «caduta», intesa come «disumanità», «malvagità», come «storie sciagurate», a partire dal racconto del fratricidio (Gen. 4), fino al racconto del diluvio universale (Gen. 6). La malvagità investe come una valanga non solo il mondo, ma anche i rapporti e la convivenza umani. In altri termini, come si diceva sopra, la storia umana si rivela come storia di perdizione e di distruzione. Si tratta della potenza del male che investe dal di dentro tutta la storia dell’uomo nel corso del tempo. Come dirà Paolo nella Lettera ai Romani Cristo immetterà nella storia dell’umanità un «contro-movimento», per cui Adamo (e il suo peccato) sarà insieme confermato e contraddetto, in vista di una pienezza, che sarà compiuta quando Cristo stesso consegnerà al Padre l’intera storia umana e «Dio sarà tutto in tutti». È molto bello quello che scrive a questo proposito Carlo Molari: «Accettare la condizione temporale da parte delle donne e degli uomini significa impara7


re a portare il male proprio e degli altri per poter raggiungere insieme quella pienezza di vita che, prefigurata nella profezia della Genesi, in Cristo è stata concretamente presentata, ma solo al termine del processo può avere completa attuazione» (su Esodo, n. 1, 2001, pp. 9-14). E Theilard de Chardin chiama tutto questo «l’angosciante sforzo verso la luce e la coscienza». Dal punto di vista pratico la consapevolezza della necessità del male e della sua provvisorietà si traduce nell’impegno redentivo. Portare il male del mondo è la possibilità offerta alle creature di essere parte attiva del processo salvifico. Mentre ogni resistenza e ogni pigrizia dell’umanità diventa impedimento al cammino della vita, ogni scelta positiva si traduce in una nuova opportunità di crescita, rende possibile un’irruzione di quella perfezione divina, che può essere accolta solo a piccoli frammenti, in forma quindi incompiuta e imperfetta, ma con tensione continua a quella pienezza di cui la potenza creatrice suscita nostalgia ovunque venga accolta. 6.

Conclusione precaria, sempre aperta…

Siamo in cammino verso il paradiso terrestre. Nella Genesi non è descritta una perfezione già acquisita, bensì un traguardo da raggiungere. E anche la teologia (almeno quella più avveduta) sta modificando radicalmente il modo di considerare tutto il problema della “storia primitiva” dell’umanità e dell’origine del male. Si fa sempre più strada l’idea che occorra abbandonare una concezione statica degli inizi, che vede Dio creatore come colui che ha portato a compimento la sua creazione, lasciandola poi in balia del suo deterioramento, della sofferenza e della morte. In un orizzonte alternativo, dinamico ed evolutivo, la perfezione sta al termine del processo, come risultato di una progressiva accoglienza dell’azione creatrice, attraverso la quale Dio conduce l’umanità alla sua forma compiuta. Scrive il teologo Th. Rey-Mermet: «No, l’umanità non è nata in paradiso terrestre. Quel cielo di felicità e di divina amicizia descritta da Genesi 3 è il modello della creazione: non è passato, ma futuro; non è dietro, ma davanti a noi. È il disegno di Dio per la fine dei tempi. È posto all’inizio della Bibbia perché si comincia sempre per definire il modello. Ma, nell’esecuzione, l’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti, ma con umili abbozzi amorosamente perfezionati da Dio secondo le leggi di un lento sviluppo. Questa è proprio la verità storica: “L’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti”. Ma la Genesi ha annunciato sotto forma di una magnifica parabola sia il futuro che Dio ha concepito per essa, sia il difficile cammino che essa dovrà percorrere prima di giungere al traguardo» (in Delumeau, Scrutando l’aurora, p. 81). 8


ALLEGATO N. 1

Il Catechismo della Chiesa cattolica, e «il peccato originale» Nel Catechismo della chiesa cattolica (CCC) sono presentate, come dati di fede tradizionale, le opinioni correnti della neoscolastica circa lo stato primitivo dell'uomo: “La Chiesa interpretando autenticamente il simbolismo biblico alla luce del Nuovo Testamento e della Tradizione, insegna che i nostri progenitori, Adamo ed Eva, sono stati costituiti in uno stato “di santità e di giustizia originali” (Concilio di Trento DS 1511). La grazia della santità originale era una “partecipazione alla vita divina” (LG 2)” (CCC n. 375). La “giustizia originale” era costituita da una triplice armonia: “l'armonia interiore della persona umana, l'armonia tra l'uomo e la donna, infine l'armonia tra la prima coppia e tutta la creazione” (n. 376). In tale condizione, “l'uomo era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell'affermazione di sé contro gli imperativi della ragione” (CCC n. 377). In questa condizione, “finché fosse rimasto nell'intimità divina, l'uomo non avrebbe dovuto né morire, né soffrire” (n. 376) (3). Il cambiamento sarebbe avvenuto per il peccato commesso all'inizio della storia umana: “Per il peccato dei nostri progenitori andrà perduta tutta l'armonia della giustizia originale che Dio, nel suo disegno aveva previsto per l'uomo” (n. 379). Le prove per sostenere una simile posizione sono due citazioni della Genesi, una per la morte: “...ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (2, 17); “...finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai” (3,19); e una per la sofferenza: “moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli” (3,16). Ora i biblisti interpretano queste affermazioni non come la descrizione di un cambiamento avvenuto nella struttura della persona umana, in seguito al peccato, bensì come indicazione delle conseguenze immediate delle eventuali scelte negative che sarebbero state compiute. Nella Genesi non è descritta una perfezione già acquisita, bensì un traguardo da raggiungere. Anche la teologia ha modificato radicalmente il modo di considerare tutto il problema. Nell'orizzonte dinamico ed evolutivo, la perfezione sta al termine del processo come risultato di una progressiva accoglienza dell'azione creatrice, attraverso la quale Dio conduce l'umanità alla sua forma compiuta. BIBLIOGRAFIA EZZENZIALE

PAUL RICOEUR: Il male, Morcelliana, Brescia, 1993. AA. VV.: Il peccato originale: un condice di fallibilità, Concilium, 1/2004. AA. VV.: L’ombra di Dio: stare dentro, oltre il male, Esodo, 1/2001. JEAN DELUMEAU: Scrutando l’aurora, Un cristianesimo per domani, Ed. Messaggero, Padova, 2003. AA. VV.: Il diavolo e l’Occidente, Morcelliana, Brescia, 2005.

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SCRUTANDO L’AURORA (Un cristianesimo per domani)

Riflessioni di don MARCELLO FARINA

Parrocchia di Canova (Trento)


ECUMENISMO E DIALOGO INTERRELIGIOSO Canova, 17 febbraio 2006

3° incontro

Quale dialogo tra cristiani e con le altre religioni?

1.

Una situazione di «chiusura»

Per chi tra di noi ha potuto vivere l’atmosfera, che si era creata intorno al Concilio Vaticano II, intorno al tema del dialogo tra le chiese (ecumenismo) e del rapporto tra le religioni non-cristiane (dialogo interreligioso), è triste e carico di rammarico il fatto di dover costatare che essa, quell’atmosfera,è profondamente mutata e che proprio il dialogo coltivato allora segna oggi il passo e addirittura «boccheggia» rispetto alle speranze nate con il Concilio. I due documenti del Vaticano II, la Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e la Nostra aetate avevano lanciato un ponte verso nuovi orizzonti, in un contesto positivo di ricerca della pace, cui anche le religioni avrebbero potuto dare il loro grande contributo. In questi ultimi anni, invece, il ripiegarsi identitario delle singole religioni (e comunità) e il neofondamentalismo ricorrente si sono rafforzate sia nelle diverse confessioni cristiane, sia nelle altre grandi religioni del pianeta. Le divergenze e addirittura le fratture sono grandi all’interno del Consiglio ecumenico delle chiese (il KEK), che raccoglie ben 342 denominazioni cristiane; e, sul fronte delle religioni non-cristiane, si è radicalizzata in questi ultimi anni la distanza e la freddezza, piuttosto che la vicinanza e il bisogno di comprensione. Il pericolo, mai sopito, di nuove guerre di religione, scambiate come scontro tra civiltà, è sempre in agguato. Sul «fronte» poi, della Chiesa cattolica, i due documenti pubblicati dalla Congregazione romana per la dottrina della fede, la Dichiarazione Dominus Jesus e il testo ufficioso Nota sull’espressione: “Chiese sorelle”, hanno provocato, alla fine del 2000, un autentico choc, in particolare il secondo, perché rifiuta di dare alle Chiese protestanti e ortodosse lo statuto di «Chiese sorelle». Un grande ecumenista, il padre Jean-Marie Roger Tillard, morto di recente, parlò allora di «ritorno al punto di partenza» e il settimanale cattolico «La Croix» scrisse, con la firma di Michel Kubler, che «il testo di Roma (la “Nota”) suggerisce un‟identità tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica e fa derivare da quest‟ultima ogni verità che le altre possono occultare. Questa rilettura avrà delle conseguenze rovinose sul piano ecumenico… L‟assolutismo che si chiude in se stesso può 2


fare più male di una giusta relativizzazione che permette di aprirsi all‟altro» (6 settembre 2000). 2.

Resistenze e «progressi» dell’ecumenismo

Essi provengono da molte parti contemporaneamente. Ma, essendo il cattolicesimo la stella maggiore della costellazione cristiana, spetta soprattutto ad esso il compito di prendere le iniziative più importanti. Il che porta con sé un primo, grande problema: per entrare in una «concertazione virtuosa» con le altre Chiese cristiane è necessario che la Chiesa di Roma abbia stabilito prima al proprio interno degli spazi di dialogo e abbia modificato le proprie strutture in modo da creare dei veri scambi con i propri fedeli. Detto in altre parole: che essa accetti e istituisca prima una pluralità cattolica, per realizzare, poi, una pluralità cristiana, pluralità che passa, ad esempio, attraverso una maggiore collegialità al livello superiore della gerarchia e una più larga autonomia delle Chiese locali, con la corrispondente riduzione dei poteri della curia romana. Il dialogo ecumenico inciampa prima di tutto e soprattutto sul centralismo romano e l’enorme potere del Papa, il “parroco del mondo”, come si dice talvolta, che non è riequilibrato da nessun contrappeso. Scrive Jean Delumeau, lo storico che ci guida nella nostra ricerca di quest’anno: «Non è un caso se, da diverse parti e a diversi livelli, si manifesta nella stessa Chiesa cattolica la richiesta che si prenda coscienza della diversità locale e del sentimento della base. Un parroco scrive nella rubrica di opinioni del quotidiano cattolico francese: “La Chiesa cattolica sempre più „imbustata‟ nelle sue cerchie gerarchiche, spoglia il semplice credente o il sacerdote di base delle sue iniziative, proprio nel momento in cui, nella città profana, il cittadino di base è sommerso da iniziative e interventi diversi”. Nello stesso giornale Gaston Piétri, sacerdote di Ajaccio, afferma che ciò che manca alla chiesa romana sono i “gradini intermedi”. E precisa: “Bisognerebbe essere insensati per immaginare, per esempio, che delle commissioni episcopali lavorino in materia di morale familiare e politica, senza il concorso di esperti qualificati. Questi ultimi d'altra parte sono soprattutto dei laici. Ma il loro statuto è, come si dice nella società civile, quello di „consulenti‟. Per questo del resto la loro firma non compare. Non si può ignorare che dei credenti autentici, che devono confrontarsi essi stessi con tali problemi nella loro vita concreta, potrebbero disporre in questi ambiti precisi di quel „senso soprannaturale della fede‟ (Lumen Gentium, n. 12) che permetterebbe loro di dire una parola sensata e illuminante per quanti cercano delle vere tracce del Vangelo nei nostri dibattiti di società» (in Scrutando l‟aurora, pp. 121-122).

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Dal canto suo il gruppo di ricerca spirituale «Paroles» ha pubblicato nel 2000 un documento intitolato «Cinque proposte per la Chiesa cattolica», dove si legge: «La Chiesa cattolica è percepita più come un‟istituzione piramidale che come una comunità di fratelli e di sorelle corresponsabili dell‟annuncio del Vangelo. La tendenza a moltiplicare le dichiarazioni di “verità intangibili” riduce la responsabilità della coscienza personale e impedisce il proseguimento di ricerche necessarie per la traduzione e l‟inculturazione del messaggio cristiano. L‟eccessivo fissarsi sull‟autorità pontificia e il centralismo romano in ogni campo rendono difficile il dialogo con la diversità delle culture e ostacolano dei reali progressi ecumenici. Chiediamo ai responsabili di modificare la pratica attuale dell'autorità nella Chiesa. Che la concertazione abbia la meglio, in particolare prendendo in considerazione le raccomandazioni fatte dai Sinodi e riconoscendo una maggiore responsabilità alle Conferenze episcopali. Che venga incoraggiata la creazione di comunità diverse, collegate tra loro, simili a quelle descritte dagli Atti degli apostoli, che condividono i beni, le ricchezze, il mutuo aiuto e la preghiera» (in La Croix, 9 maggio 2000). Nell’ottobre del 1999, durante la celebrazione del Sinodo per l’Europa, in Vaticano, il cardinal Martini ha gettato un sasso nello stagno, lanciando l’idea (accolta con freddezza) di un nuovo Concilio ecumenico, «per permettere – così egli si esprimeva – di sciogliere taluni nodi disciplinari e dottrinali,…che periodicamente riappaiono come punti caldi sul cammino delle Chiese». E citava: la carenza drammatica di ministri ordinati; il posto della donna nella società e nella Chiesa; la partecipazione dei laici ad alcune “responsabilità ministeriali”; la sessualità, la disciplina del matrimonio, la pratica penitenziale, la speranza ecumenica, ecc. ecc. Gli faceva eco, nello stesso Sinodo, l’ex superiore generale dei Domenicani, il padre Timothy Racliffe, che affermò: «Nella nostra società ogni esigenza di assoluto può apparire come totalitaria. Non possiamo rispondere a questa paura affermando con forza ancora maggiore l‟autorità della Chiesa. La Chiesa avrà autorità solo se noi condividiamo il cammino delle persone»1. Xavier de Chalendar, che si firma “sacerdote di Parigi”, e che ha un grande seguito in tutta la Francia, afferma da parte sua, a proposito delle prese di posizione del card. Martini: «L‟autorità clericale è ancora troppo forte. Qua e là dei laici si scoraggiano, senza un riconoscimento e uno statuto abbastanza chiaro. Alcune donne hanno la sensazione di essere escluse a un certo livello di responsabilità. Come non auspicare delle innovazioni radicali, dei rinnovamenti importanti?» (in La Croix, 9 maggio 2000). 1

Si può ricordare: cfr. citazione 1.

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Se fosse da riassumere in poche parole le rivendicazioni che donne e uomini attenti alle esigenze di rinnovamento della Chiesa di Roma propongono, esse potrebbero essere le seguenti: l’autolimitazione del potere papale, la diminuzione di quello della Curia romana, la valorizzazione della collegialità e, più generalmente, dell’autonomia delle Chiese regionali e locali, oltre, naturalmente, la valorizzazione della dignità battesimale dei credenti, tutti “sacerdoti, re e profeti” nella comunità cristiana1. La Chiesa cattolica non può “rilanciare” il movimento ecumenico se non continuando la rivoluzione interna cominciata con il Vaticano II. Scrive Enzo Bianchi, della comunità di Bose: «Il futuro non è l‟unità dei cristiani nell‟uniformità. L‟unità si farà tra “Chiese sorelle”. Roma non è la chiesamadre, giacché il Cristianesimo è nato a Gerusalemme. C‟è una grammatica della diversità che è necessario imparare nella Chiesa cattolica, cominciando dalle comunità locali» (in Scrutando l‟aurora, pp. 127). Non è pensabile, perciò, che l’ecumenismo si realizzi con il ritorno alla Chiesa romana. Esso può passare soltanto attraverso la relativizzazione delle istituzioni ecclesiali che sono fatte per i fedeli e non viceversa. Una cosa è il futuro delle Chiese e un’altra cosa è il futuro del Cristianesimo. Si tratta di utopie? Forse. Ma ci vogliono delle utopie per avanzare. In ogni caso è assurdo che persone che hanno lo stesso credo religioso e lo stesso battesimo continuino a dare spettacolo di divisione e non prendano sul serio il comandamento del loro fondatore: «Che siano una cosa sola» (Giovanni 17, 11). 3.

«Resistenze» e «progressi» del dialogo interreligioso

Dall’ecumenismo al dialogo interreligioso il passaggio è naturale. Essi, infatti, passano entrambi attraverso una “regionalizzazione” della Chiesa, come afferma il padre Bruno Chenu, e il riconoscimento della diversità. Postulano uno stesso atteggiamento di apertura all’altro e il rispetto di culture a lungo ritenute ostili, estranee e inferiori. Le Chiese non sono tutto, per le forme che l’istanza religiosa dell’umanità riesce a coltivare. La semplice obiettività ci porta a riconoscere che il Vaticano II e, poi, molti gesti simbolici di Giovanni XXIII, di Paolo VI, e di Giovanni Paolo II hanno fortemente contribuito sia a favorire il riavvicinamento tra i cristiani, sia a introdurre stima e rispetto tra il Cristianesimo e le altre religioni del mondo, a cominciare dall’Ebraismo e dall’Islamismo (come ad Assisi 2002). Si è avviato così un movimento che bisogna salutare positivamente sperando che si amplifichi2. 1 2

Si può ricordare: cfr. citazione 2. Si può ricordare citazione 3

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D’altra parte è qui che nasce la domanda cruciale: fino a che punto può arrivare quello che con Sédar Senghor, il grande presidente del Senegal di qualche decennio fa, si potrebbe chiamare il «meticciato religioso»? I cristiani possono rinunciare a credere nell’incarnazione di Dio fatto uomo e a vedere Gesù non un profeta come Mosè e Maometto, o un saggio come Buddha o come Confucio, ma come la seconda persona della Trinità e il Salvatore, venuto a condividere la nostra condizione umana per donarle la divinizzazione finale, cioè «la salvezza»? Non si vede, del resto, come fondere in un unico sincretismo l’affermazione dell’immortalità personale propria delle “religioni del Libro” (e anche del Taoismo) e la credenza alla fusione, al termine delle reincarnazioni, delle identità individuali nella pace indistinta del nirvana, immenso oceano che raccoglie tutte le gocce d’acqua umane. Allo stato attuale delle cose non c’è incompatibilità tra queste concezioni dell’uomo e della divinità? «In questo dialogo – scrive Delumeau – innanzitutto è opportuno eliminare i falsi problemi che creano inutili incomprensioni. Ho già insistito sulla nozione, inaccettabile oggi, della colpa ereditaria a lungo legata alla dottrina del peccato originale. Non solo l‟islam e il giudaismo rifiutano questa concezione, ma anche l‟insieme delle religioni dell‟Asia. Ecco un pomo di discordia che bisogna eliminare per il sollievo di tutti. Lo stesso dicasi per le affermazioni riguardanti l‟inferno, con le quali i missionari occidentali hanno a lungo messo paura ai “pagani” che volevano evangelizzare. Chi può credere oggi, anche tra i cristiani, che Dio ha creato un “Auschwitz eterno”? Faccio mie le seguenti espressioni di J. Moingt: “Perché pensare a una morte che si prolungherebbe con supplizi e fiamme, e immaginare inoltre che Dio avrebbe piacere perché i suoi nemici bruciano? Essi entrano nella morte definitiva, nel nulla. Sono „cancellati dal libro della Vita‟, come afferma la Scrittura” e come già pensava sant‟Ireneo» (Scrutando l‟aurora, p. 143). Così bisognerebbe non usare più in forma peggiorativa la parola «pagano», come se fosse sinonimo di «non-credente». Si deve curare anche il linguaggio, perché anch’esso diventi rispettoso, non più erede di un certo esclusivismo e orgoglio. La prima evidenza, in questo dialogo è che bisogna guardare con occhi positivi le credenze degli altri. La costituzione conciliare Nostra aetate, citata precedentemente, contiene questa affermazione ormai famosa: «La Chiesa cattolica non rigetta nulla di quanto è vero e sincero nelle altre religioni. Essa considera con rispetto sincero quelle maniere di agire e di vivere, quelle regole e quelle dottrine che, per quanto siano molto diverse in molti punti da quanto essa stessa professa e propone, tuttavia apportano spesso un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». 6


«Un documento pubblicato nel 1984 dal Segretariato romano per i non cristiani commentava il testo precedente in questo modo: Secondo i Padri conciliari nelle tradizioni non cristiane c‟è del “vero e del buono”, “elementi preziosi, religiosi e umani”, “tradizioni contemplative”, “semi di verità e di grazia”, “un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini. Secondo le affermazioni conciliari più esplicite tutti questi valori sono riuniti nelle grandi tradizioni religiose dell‟umanità. Esse meritano dunque attenzione e stima da parte dei cristiani. Il loro patrimonio spirituale è un invito efficace al dialogo, non solo sui punti di convergenza, ma anche su quelli di divergenza. Siamo dunque lontani, grazie a Dio, dalla formula perentoria presente per lungi secoli in numerosi catechismi: “fuori della Chiesa non c’è salvezza”, che destinava all‟inferno tutti i non cristiani e che era stata certo temperata con il “battesimo di desiderio” attribuito (senza chiedere il loro parere) a tutti i “pagani” di buona volontà. Ma si può fare un passo avanti nella valutazione positiva delle altre religioni? E può esserci dialogo, si chiede a ragione Claude Geffré, se non c‟è “uguaglianza tra gli interlocutori”? I cristiani devono pensare che le religioni diverse dalla loro costituiscano soltanto delle “pietre d‟attesa” della verità totale che solo il Cristianesimo possederebbe? Devono vedere in quest‟ultimo il “compimento” indispensabile della ricerca religiosa dell‟umanità? Oppure, al contrario, ogni religione non costituisce una strada di salvezza? Lo Spirito non soffia in ciascuna di esse?» (Ivi, p. 146) 4. In un documento pubblicato nel 1989 dalla Conferenza episcopale cattolica dell’India si leggeva che «la pluralità delle religioni è una conseguenza della creazione stessa e della grazia infinita di Dio… Di questo pluralismo non si deve, dunque, in alcun modo dispiacersi, ma riconoscere che esso è un dono divino». In questa prospettiva la storia della salvezza e della rivelazione non si riassume nella sola tradizione giudeo-cristiana, essa coincide con quella del mondo. Bisogna supporre una universalità della rivelazione divina attraverso tutte le tradizioni religiose, una parola di Dio presente altrove rispetto ai nostri libri sacri, una complementarietà delle scritture. I cristiani dell’Europa e dell’America devono, ad esempio, imparare a familiarizzarsi con il «Cristo antenato» dell’Africa e il «Cristo via» dell’Asia. Lo Spirito di Dio si offre a tutti in un modo che solo egli conosce. Dio soltanto salva, ma attraverso i diversi canali che sono le religioni: «Dio è assoluto; nessuna religione lo è». «Ma una domanda importante si pone allora ai cristiani: possono rinunciare a dare un significato privilegiato a Gesù? Possono non vedere più in lui il 7


Salvatore universale di tutta l‟umanità? Certamente no. Il dialogo tra le religioni non deve portare a un abbandono dell'identità. Altrimenti, perché dirsi e rimanere cristiani? La domanda tuttavia è legittima, e si potrebbe rispondervi così: soltanto il Figlio di Dio si è fatto uomo, ma la sua incarnazione è redentrice per tutti. Lo spirito di Cristo è attivo in tutte le religioni, anche se la paternità di Dio ha acquistato nella vita e attraverso il messaggio di Gesù la sua profondità totale. Gesù è stato ed è l‟unico Salvatore e l‟opera di salvezza è stata pienamente compiuta da lui. Le altre religioni sono nondimeno delle realizzazioni particolari di un disegno divino globale. La storia religiosa ha visto apparire diverse figure salvatrici. Tuttavia in Gesù Dio “è diventato Dio degli uomini in maniera perfettamente umana». La Chiesa di Cristo è dunque il segno visibile – il “sacramento” – della presenza del Regno di Dio tra gli uomini, ma si può essere membri di questo regno senza far parte della Chiesa» (Ivi, p. 150). È in questo contesto che assume nuova luce il rapporto tra «dialogo» e «annuncio», tra rispetto e comunicazione reciproche e sforzo per espandere la fede dei singoli popoli. Il documento cattolico Dialogo e annuncio così si esprime: «In un approccio di dialogo i cristiani come non dovrebbero provare la speranza e il desiderio di condividere con altri la loro gioia di conoscere e di seguire Gesù Cristo, Signore e Salvatore? Qui siamo nel cuore del mistero dell‟amore. Nella misura in cui la Chiesa e i cristiani hanno un amore profondo per il Signore Gesù, il desiderio di condividerlo con altri è allora motivato non solamente dalla loro obbedienza al comandamento del Signore, ma anche da questo stesso amore. Che i credenti delle altre religioni abbiano anch‟essi un desiderio sincero di far condividere la loro fede, è naturale e non può sorprendere. Ogni dialogo implica la reciprocità e mira a bandire la paura e l‟aggressività» (Ivi, p. 151). Certo è, d’altra parte, che a favorire tale rapporto è sempre importante ricordare che è indispensabile l’aiuto concreto, reciproco nell’amore e nella misericordia nei confronti dei bisognosi, dei poveri, degli affamati. La grandiosa scena del giudizio finale raccontata da Matteo 25 non menziona differenze tra dottrine religiose, tra catechismi, ma chiede «solamente» amore per gli altri, il dono di sé per un’umanità piena. Tutto questo per i cristiani è una sfida quotidiana, tenendo conto che questo tempo, all’inizio del terzo millennio, porta con sé due enormi fenomeni tra di loro perfino contraddittori: la proliferazione del religioso da una parte e la radicalizzazione della secolarizzazione dall’altra. Mantenere «lucidità», come chiede Jean Delumeau nel cap. 10 del suo bel libro che ci accompagna nella nostra ricerca, è un compito difficile, ma autenticamente necessario.

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NOTE

 Nell’ottobre 1999 il cardinal König, recentemente scomparso, per molti anni arcivescovo di Vienna e uno dei grandi artefici del Vaticano II, continuando nella linea del cardinale Martini dichiarò: «Il grande problema della decentralizzazione della Chiesa cattolica rimane aperto. Il governo è troppo centralizzato a Roma. Il burocratismo è eccessivo. Bisogna esaminare con chiarezza e serenità quale dev‟essere la situazione della Chiesa universale oggi. L‟autorità suprema del Papa non viene messa assolutamente in dubbio. Essa è riconosciuta dovunque. Ma il Vaticano deve dare fiducia ai vescovi e il potere dev‟essere decentrato a livello di conferenze nazionali, regionali e intercontinentali. Questa era la situazione della Chiesa primitiva. Bisogna ritrovare l‟equilibrio tra unità e molteplicità. Basterebbe che i presidenti delle Conferenze episcopali si riunissero regolarmente, e non soltanto per dare consigli al Papa. Dovrebbero pure avere il diritto di partecipare alla presa di decisioni». Il cardinale Danneels si unisce al punto di vista di Martini. Nel maggio 2001 ha dichiarato a «Le Monde»: «Se le altre Chiese cristiane hanno paura del primato del papa, nello stesso tempo aspirano anche a trovare un modello di unità. Pur rispettando questo primato di Roma, come fare vivere un “decentramento” verso le nostre Chiese locali, per esempio, nella nomina dei vescovi, nelle relazioni tra la curia romana e le Conferenze episcopali? Gli strumenti di questa collegialità non sono ancora messi a punto». Nel momento di lasciare la diocesi di Nanterre nel 2002 monsignor Favreau da parte sua ha ripreso la proposta di un nuovo concilio fatta dal cardinal Martini. Si scopre inoltre lo stesso senso di frustrazione in teologi che non sono marginali nella Chiesa cattolica. Il gesuita Avery Dulles, molto rispettoso nei confronti di Roma e adesso cardinale, aveva scritto già nel 1975: «Capita talvolta che il magistero pubblichi dei decreti senza aver sufficientemente consultato i teologi. Malgrado tutti gli sforzi tentati per imporre l‟adesione a queste dichiarazioni facendo appello all‟autorità del magistero, questi decreti finiscono per mettere in imbarazzo la Chiesa. Qualche anno dopo è necessario correggerli o sconfessarli e, alla fine, la fiducia dei fedeli nel magistero si sente scossa».  Prendiamo un esempio: perché entrare in conflitto con le chiese anglicane e le chiese protestanti sull'accesso delle donne al sacerdozio? «Io sento in me la vocazione di essere sacerdote»: questa frase è di Teresa di Lisieux, e Claude Langlois ha dimostrato in modo convincente che questo desiderio era stato centrale nella spiritualità della giovane carmelitana. Edith Stein, come Teresa di Lisieux «dottore della chiesa», rivendicava l'accesso delle donne al sacerdozio. Padre Geffré scrive a ragione: «Non si mette in dubbio il messaggio della croce se ci si interroga sul sacerdozio femminile». So bene che su questo problema il quale, ne sono convinto, non ha nulla a che vedere con la fede, la sensibilità di molti cattolici e ortodossi non è la stessa di quella dei nostri fratelli separati. Essa deve certo essere rispettata. Ma perché farne un punto di conflitto tra cristiani di obbedienze diverse? Accettiamo la diversità là dove il credo non è in discussione.

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 Certo esso si scontra con ostacoli immensi. Da una parte, ogni religione ha i propri fanatici. Dall'altra parte l’islam finora non ha ancora attuato quella «riforma» che gli permetta di reinterpretare i suoi testi «sacri» alla luce del mondo moderno. Ogni culto cristiano è vietato in Arabia Saudita e nel Qatar, e il reato di apostasia vi è punito con la pena di morte. Il 28 ottobre 2001 diciassette cristiani furono massacrati in una chiesa del Pakistan. Mi limito a questo esempio, ma l’elenco delle vittime è molto più lungo. Tuttavia, in senso inverso, la conoscenza dell’altro, del lontano e dello straniero/estraneo si arricchisce e la coscienza del pluralismo si sviluppa. Nel 1970 è nata a Kyoto la Conferenza mondiale delle religioni per la pace, purtroppo poco conosciuta in Occidente. Essa tiene ogni cinque anni delle assemblee che raggruppano i rappresentanti di almeno sette grandi religioni del mondo. L'obiettivo è «di valorizzare le risorse proprie di ogni tradizione religiosa per rilanciare la ricerca della pace, la salvaguardia della natura e del creato, la tolleranza e la lotta contro i fanatismi religiosi».  Nel loro libro decisamente ottimista M. Albert, J. Boissonnat e M. Camdessus propongono, come «utopia dalla realizzazione da verificare», che possano essere formati insieme dei maestri in religione: «Il nostro suggerimento è di creare alcuni centri in cui delle persone che si stanno preparando al sacerdozio, al rabbinato, all'imanato vengano a passare almeno sei mesi, vivendo nello stesso luogo, iniziandosi assieme alla religione degli altri e imparando gli uni dagli altri chi il senso dell'adorazione dell'islam, chi la lettura del testo comune della Bibbia a partire dall'incomparabile tradizione ebraica, chi la lettura dei testi sacri meditata alla luce degli apporti più sicuri delle scienze e della critica contemporanea e delle attese della società. Tutto ciò, naturalmente, fuori da ogni spirito di sincretismo, ma nel rispetto reciproco e nella condivisione di tutte le feste e le gioie». Andiamo ancora più oltre. Al di là degli scambi fraterni, al di là delle somiglianze evidenti tra i monachesimi di diverse religioni, ci possono essere delle credenze comuni? Si possono stabilire degli accostamenti teologici tra le une e le altre? Sembra di sì, almeno per quanto riguarda la dottrina della Trinità. Infatti i novantanove nomi che il Corano attribuisce ad Allah possono essere raggruppati sotto tre titoli: Dio creatore onnipotente e sovrano dell'universo; Dio misericordioso e clemente; Dio intimamente presente a ciascuno di noi. Quanto a Brahman, l’Assoluto dell’induismo, è concepito da questa religione come colui che è insieme Essere, Coscienza e Beatitudine. Si tratta forse, in questa teologia orientale, di una formulazione vicina a quella proposta sia da sant’Agostino che da san Tommaso, che definivano il Padre come Essere, il Figlio come Coscienza e lo Spirito come Amore?

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SCRUTANDO L’AURORA (Un cristianesimo per domani)

Riflessioni di don MARCELLO FARINA

Parrocchia di Canova (Trento)


TRA RINASCITA DEL «SACRO» E SECOLARIZZAZIONE Canova, 17 marzo 2006

4° incontro

Inquietudini e speranze dei cercatori di Dio

1. Il nostro cammino di quest’anno si è tutto incentrato su un tema, quello di «un cristianesimo per domani», che non è stato facile, e non lo è anche oggi, da immaginare e da descrivere. Abbiamo camminato insieme più sulla convinzione, presentata nel primo incontro, che «per la Chiesa di oggi non basta più “sistemare”, bisogna, invece, “traslocare”, e che per i credenti e i cercatori di Dio diventi necessario abitare diversamente un mondo diventato diverso» (J. Delumeau, op. cit., pag. 5). Solo un’attenzione condivisa e appassionata al mutamento in atto può permettere loro di continuare ad annunciare il Vangelo in un mondo profondamente segnato da fenomeni che sembrano radicalizzare la contraddizione della nostra storia quotidiana, tesa tra forme di uniformità e rivendicazioni particolaristiche, tra la ricerca continuata dei diritti di tutti e la violazione sfrontata della dignità di tante donne e di tanti uomini di oggi. «Anche le grandi Chiese cristiane si trovano di fronte a due movimenti che scuotono il loro statuto storico e il loro funzionamento tradizionale: da una parte, una proliferazione del religioso sia nei gruppi evangelici e carismatici, sia in una ricerca personale, talvolta del tipo “fai da te” che attinge dal fondo religioso planetario; dall’altra parte, una secolarizzazione della società ogni giorno più evidente. Questi due movimenti sono di significato opposto. Tuttavia spesso uniscono i loro effetti per destabilizzare gli apparati ecclesiali e accrescervi il posto dei laici, e specialmente delle donne, cortocircuitando le strutture ecclesiastiche» (J. Delumeau, op. cit., pag. 153). 2.

Il ritorno del «sacro» dentro il Cristianesimo

Il fenomeno è davvero molto esteso e anche molto variegato, sia dal punto di vista culturale (che cos’è sacro? che cos’è religioso? che cos’è l’oggetto della fede?), sia dal punto di vista storico, del nostro tempo. Da questo punto di vista «la revanche de Dieu» (la rivincita di Dio), pur con tutta la sua ambiguità (quale Dio, in effetti ritorna?) è un dato di fatto, difficilmente smentibile. Qui, però, vorrei prestare attenzione a quello che sta avvenendo all’interno del Cristianesimo a partire dalla seconda metà del XX secolo: l’emergere prima 2


delle chiese evangeliche, poi del pentecostalismo all’interno di esse e, infine, dei movimenti carismatici protestanti e cattolici. Le Chiese “evangeliche”, ad esempio, cercano di essere devote, ortodosse e di fare proseliti, unendo insieme il rigore morale e la “rettitudine” dottrinale (molto vicina al fondamentalismo). Esse stanno avendo un enorme successo in America Latina, negli Stati Uniti e nella Corea del Sud, in Africa; ma anche l’Europa non ne è immune, se è vero che il 30% dei protestanti francesi appartiene alla corrente evangelica. Nei Paesi in via di sviluppo l’evangelismo ha successo in particolare presso popolazioni destabilizzate geograficamente e socialmente. Esso crea delle reti di mutuo aiuto e di socialità a base religiosa. I pentecostali, a loro volta, esprimono la loro fede con una grande sensibilità emotiva ed effervescente, assicurando di aver rivissuto la Pentecoste e di aver ricevuto il battesimo dello spirito. Proclamano: «Gesù salva, Gesù battezza, Gesù guarisce, Gesù ritorna». Infine – la terza “sorpresa” – è data dallo sbocciare del «Rinnovamento carismatico» sulla spinta delle esperienze protestanti, all’interno anche della Chiesa cattolica, diffuso in tutte le parti del globo (sono circa 70 milioni i cattolici “carismatici”). «Due conclusioni almeno possono essere tratte da questi dati. La prima senza dubbio è questa: il posto sempre maggiore che la nostra civiltà concede ai valori profani suscita, per contraccolpo e su scala mondiale, una rivalutazione della preghiera che si manifesta nelle effervescenze carismatiche (e perfino nei comportamenti di quanti si confezionano una religione personale partendo da elementi eterogenei). La seconda conclusione mette in evidenza il bisogno, in un mondo sempre più anonimo e monotono, di una religione calorosa che si esprima nell’effusione, nella spontaneità, nella gioia e nella festa, all'opposto delle cerimonie insieme ripetitive e austere delle chiese cristiane tradizionali. In queste liturgie nuove i fedeli provano un sentimento di liberazione personale mediante la partecipazione a gruppi fusionali che li sostengono, li rivelano a se stessi e permettono loro di aprirsi davanti agli altri» (Ivi, pag. 156). «Più globalmente, i movimenti evangelici e carismatici degli inizi resero evidenti e pubbliche nel corso del XX secolo le domande religiose non soddisfatte dalle chiese classiche e che rimangono presenti: riavvicinamento tra cristiani, culti non ripetitivi, calorosi e gioiosi, annuncio semplice della fede, strutture comunitarie di prossimità, presa di parola dei fedeli nel corso delle liturgie, valorizzazione della donna. Ma negli ultimi anni abbiamo assistito a una deviazione, almeno parziale, dalle intenzioni e direzioni iniziali. La volontà di far conoscere e affermare il 3


battesimo mediante lo Spirito, il fervore “di conversione” e il timore di una dissoluzione dell’identità cristiana nella società circostante talvolta si sono trasformati in atteggiamenti fondamentalisti e aggressivi. “Nascere di nuovo” significa spesso, per gli evangelici d’oltreoceano, promuovere una lettura letterale della Bibbia e, inoltre, una mobilitazione contro la chiesa cattolica accusata di “adorare idoli”, in particolare Maria; e la reazione allora è, specialmente in Brasile, la veemenza di preti con il colletto romano diventati come delle “pop star”, che riuniscono a loro volta immensi uditori tuonando contro “le sette”. Il rock evangelico e quello cattolico si fanno così concorrenza attraverso trasmissioni a forte impatto e con cd venduti a milioni di copie» (Ivi, pag. 158). È chiaro che tutto ciò non è senza inquietudini, dentro il mondo dei credenti e dei cercatori di Dio. Scrive Delumeau: «La tensione verso la prossima e definitiva venuta di Cristo non rischia di essere delusa come lo furono, nel corso dei secoli, altre attese simili della parusia? La tentazione che ne deriva di ripiegarsi fuori dal mondo non può staccare i cristiani del necessario investirsi nei problemi della società? La tendenza al fondamentalismo, l’accento posto sulle “guarigioni”, il profetismo e l’irrazionale sono compatibili con una fede illuminata e paziente che tiene conto con lucidità sia dei progressi dell’esegesi che delle difficoltà concrete e necessariamente ricorrenti della condizione umana? E il troppo forte arruolamento in gruppi fusionali non può soffocare la libertà del credente? Esiste infatti la trappola di guru-seduttori, della manipolazione mentale e di comunità troppo soffocanti nel loro abbraccio. A ciò bisogna poi aggiungere, almeno fuori dalla Chiesa cattolica, il pericolo di polverizzazione rappresentato dal moltiplicarsi di gruppi “senza denominazione” la cui durata peraltro è talvolta molto breve. Infine non fa parte della natura dei movimenti “ispirati” di esaurirsi una volta passato il fervore iniziale? Sono tutti interrogativi che invitano a riflettere sul dopo-carismatismo. Un rovesciamento di tendenza per ora non è immaginabile» (Ivi, p. 159-160). 3.

La secolarizzazione

Come si sa, la secolarizzazione ha costituito una delle dinamiche della civiltà occidentale. Nello stesso tempo va ricordato che l’autonomia del profano e del religioso non va scambiata per «secolarismo» o per «laicismo», come sta invece avvenendo dentro la Chiesa cattolica in alcuni suoi livelli anche alti, che confondono secolarizzazione con secolarismo, dimenticando che il Concilio Vaticano II aveva accettato di far posto alla nozione di «autonomia delle realtà terrene». La secolarizzazione – afferma Daniele Hervieu-Leger – non è la perdita della religione nel mondo moderno: è l’insieme dei processi di risistemazione del credere». 4


E Jean Delumeau spiega: «Conoscendo bene, avendola studiata a fondo, la mentalità di “cittadella assediata” – sottotitolo del mio libro La peur en Occident (La paura in Occidente) – che dominò la chiesa latina al momento della Riforma protestante, auspico con forza che non vi si ricada. In questo la mia diagnosi coincide con quella dell’attuale presidente dei vescovi francesi. Monsignor Ricard consiglia infatti di non cadere nel “complesso della cittadella assediata la quale debba di continuo lanciare frecce contro un mondo ostile”. È questo il momento o mai di ricordarci che il cristianesimo è una religione dell’incarnazione. L’affermazione che Dio si è fatto uomo costituisce uno dei suoi messaggi più importanti. Da qui l’urgenza di un’inculturazione che permetta di inserire questo messaggio nel cuore del mondo moderno e la necessità di trovare il linguaggio adatto per presentarlo ai nostri contemporanei. Claude Geffré afferma: “Il cristianesimo rimarrà vivo solo se saprà reinterpretare i suoi testi e adattarli alle nuove situazioni e alla nuova esperienza storica che stiamo vivendo”. A questo prezzo si apriranno le porte del futuro. Infatti nel passato non è mai esistita una civiltà dello stesso tipo della nostra. Da ciò - ed è normale - un difficile ma necessario adattamento» (Ivi, pagg. 162-163). Poi ancora egli annota: «Tuttavia è necessario misurare bene, in compenso, una conseguenza importante del progresso della secolarizzazione: un magistero della chiesa non può più proclamare la norma come faceva una volta. Le persone “sono pronte ad ascoltare, ma non vogliono che si dia loro degli ordini”. Chiedono di essere associate alle decisioni etiche che le riguardano e che esse dovranno vivere nel quotidiano. Bisogna dunque abbandonare i discorsi egemonici “che pretendono di dire alle persone ciò che devono pensare e come devono comportarsi”. Giacché i fatti sono lì e sono testardi, come osserva ancora M. Gauchet: “Spesso i fedeli non sanno che farsene di quanto può raccontare l’autorità e, anche se sono nel cuore dell’istituzione, non per questo obbediscono”. Un buon osservatore della realtà polacca, lui stesso cattolico polacco, afferma: “Più le raccomandazioni della chiesa sono costrittive, come nell’ambito dei costumi e dei comportamenti, più decisamente vengono respinte dai fedeli”. Si pensi infatti come sono vissute dagli stessi cattolici le proibizioni riguardanti la contraccezione, la fecondazione in vitro, il rifiuto dell’eucaristia ai divorziati risposati, ecc.; e come è stata accolta la richiesta del papa agli avvocati di non difendere le cause di divorzio. Secondo un sondaggio realizzato subito dopo, l’87,5 per cento degli italiani dichiararono di non essere d’accordo con questo invito. Non si tratta forse di una contraddizione evidente? Infatti l’obiezione di coscienza, per definizione stessa, non può essere imposta dall’esterno. Eccoci nel cuore del dibattito odierno tra religione e società».

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Occorre ridurre il fossato tra la società moderna (e post-moderna) e la fede cristiana. E lo si può fare accettando le acquisizioni più importanti della civiltà: la responsabilità individuale e l’autonomia della coscienza di ciascuno; la partecipazione degli interessati alle decisioni, specialmente etiche, che li riguardano e, dunque, la creazione nella Chiesa di spazi di dialogo, di strutture di controllo sui poteri ecclesiastici e di regolazioni che permettono il rinnovo di autorità. Si tratta di una comunità più dialogica e più rispettosa del carisma di tutti. 4.

Un Dio tolto dall’isolamento, che libera e perdona

C’è una domanda che potremmo rivolgerci alla fine di questo itinerario spirituale: perché ostinarci a proporre (e a proporci) la «scelta cristiana» nella nostra vita? Che cosa essa vuol dire per i nostri contemporanei? In che cosa è sempre di attualità? La duplice risposta è che il Cristianesimo ha apportato in maniera inedita e decisiva a) una nuova immagine di Dio e b) ha istituito dei nuovi rapporti tra Dio e l’uomo. Nella sua straordinaria opera Dio, un itinerario (Dieu, un itineraire) Regis Debray sottolinea con forza che Gesù di Nazareth ha «deterritorializzato» la religione. Egli scrive: «Un divino senza terra, questo non si era mai visto». E prosegue: «Il Dio di Gesù non è più un Dio etnico. Quello del popolo ebreo, l’Unico, escludeva. Questo permette di includere». Egli è l’«Uno per tutti»; noi per lui possiamo tutti essere eletti, senza considerazione di razza, di sesso, di fortuna. È Dio tolto da «un’enclave», sradicato da una terra singolare; Gesù ha «mondializzato» Dio. «Tutte le nazioni sono ammesse alla sua tavola». Il popolo eletto diventa l’intera umanità. Scrive Delumeau: «Questo sradicamento fecondo è stato accompagnato da una liberazione dalla schiavitù dei riti, cioè dei 248 comandamenti e delle 365 proibizioni della legge ebraica. Secondo i vangeli Gesù ha insistito a più riprese sulla necessità di non essere schiavi della minuziosità dei riti e sull’ipocrisia che la loro osservanza può nascondere. Egli guarisce in un giorno di sabato e proclama che quest’ultimo è fatto per l’uomo e non viceversa. Quando i suoi discepoli, affamati, raccolgono delle spighe in un giorno di sabato, Gesù li giustifica davanti ai farisei. Prende ancora la loro difesa quando, prima di un pasto, non hanno compiuto le abluzioni previste dalla “tradizione”. Infine l’episodio dei mercanti cacciati dal tempio, che farà scattare il suo arresto. Gesù ha chiaramente privilegiato la santità sul sacro, lo spirito sulla legge, la retta intenzione sul rigore della lettera. Il messaggio rimane valido pure oggi, 6


anche se alcuni ritorni al ritualismo si sono verificati nella storia cristiana. Il cristianesimo nascente affermò veramente la sua personalità e la sua fedeltà al maestro quando, dopo la partenza di Gesù, “gli apostoli e gli anziani” riuniti a Gerusalemme nel 49, decisero di non sottomettere i pagani convertiti alle prescrizioni della legge giudaica, specialmente alla circoncisione» (Ivi, pag. 178). Così si può legittimamente assicurare che Gesù di Nazareth ha dato un nuovo statuto alla libertà umana. «Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi», scrive Paolo ai Galati (5, 1.13). E ha affermato sempre la dignità di ogni essere umano, la sua eguaglianza e la chiamata allo stesso destino della divinizzazione ultima. Gesù ci ha poi parlato di Dio come di una padre. È una familiarità di cui non si conosce esempio nella storia dell’umanità prima delle lettere di Paolo (Romani 8, 15; Galati 4, 6) e del Vangelo di Marco (14, 36). Scrive Debray: «Al Dio duro degli eserciti, che si vendica e punisce succede uno dolce che perdona e disarma: Jahvè grida; Gesù sorride» del sorriso di Dio. Nella sua carne Dio si è incarnato: l’Onnipotente non ha fatto finta di essere, ma è stato pienamente uomo e ha condiviso la nostra condizione: gioie e pene, speranze, sofferenze e morte. «Dio piange in una culla – ha scritto Lutero –. Ha succhiato il seno di sua madre ed è stato adagiato nella mangiatoia: ecco l’articolo principale della nostra religione». Egli dunque è nostro compagno di strada; meglio, come abbiamo detto più sopra, egli è il fratello di tutti gli esseri umani, e noi grazie a lui siamo diventati «figli di Dio» (Gv 1, 12). La promozione dell’umanità è avvenuta grazie all’incarnazione. Dio, secondo il Cristianesimo, non è ai margini in rapporto a noi. È presente fra noi, in particolare nei nostri fratelli che soffrono. Mistero, certo. Ma mistero portatore di un’immensa speranza; mistero che ha rivoluzionato l’immagine di Dio e che, in una certa maniera, ha suscitato l’affermazione moderna della «morte di Dio» (Ivi, p. 18). E poi «l’ultima novità» cristiana, la più paradossale di tutte, ma che dà significato a tutte le altre: la proclamazione della risurrezione di Gesù che è stato «rialzato» tra i morti. «Mai nessuna religione aveva affermato una cosa simile. Infatti, questa volta non si tratta di una divinità che muore in autunno per risuscitare in primavera, ma del Figlio di Dio strappato definitivamente dal soggiorno dei morti. Noi possiamo rifiutare di credere a questa “follia” - come la chiamava san Paolo -, ma è giocoforza constatare che essa non era mai stata proposta prima nella storia dell’umanità e che non è la base di nessuna religione. In questo c’è proprio un’irriducibile originalità cristiana che, dall’esterno, può sembrare “scandalo” e “stoltezza”. Paolo, tra gli altri, ne ha assicurato con forza il carattere para7


dossale e perfino provocatorio, spiegando: colui che è stato ignominiosamente crocifisso è risuscitato dai morti. Egli scrive: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 23-25). (Ivi, pagg. 182-183). «Il Cristianesimo crede che ciascuno di noi troverà la piena espansione della propria personalità nella luce del sole divino. E afferma anche che il legame non è interrotto tra i defunti e i vivi; ciò che viene detto dall’espressione “comunione dei santi”, secondo la quale i vivi rimangono uniti ai morti attraverso la preghiera. Certo non possiamo più immaginare il paradiso cristiano come una volta. Il quale peraltro era molto bello, contrariamente a una convinzione diffusa. Aveva accumulato in una sontuosa somma i temi più seducenti: giardino sempre verdeggiante con fiori eterni, città celeste con mura e porte di pietre preziose, angeli musicanti, assunzione e incoronazione di Maria nell’aldilà, ecc. Oggi sappiamo bene che tali immagini erano soltanto dei modi di dire. Inoltre tutte le scene paradisiache erano localizzate nell’empireo, ultima sfera celeste che inglobava il cosmo di Aristotele e di Tolomeo. Ma Galileo, Keplero e Newton avevano distrutto quell’edificio astronomico così ben costruito; e da allora il paradiso non ebbe più un luogo. Ma Gesù non l’aveva situato né descritto. Il “Regno dei cieli” secondo lui era una situazione di pace e di concordia, il riunirsi felice e definitivo presso Dio di quanti hanno amato il proprio prossimo» (Ivi, pag. 186). A questa speranza anche noi ci affidiamo, camminando nel «già» e «nonancora», verso quella pienezza in cui «Dio sarà tutto di tutti».

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