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Introduzione generale
Non è semplicemente una moda quella di tornare allo «stato nascente», al momento aurorale, alla freschezza dell‟inizio di una vita, di un‟esperienza, di un progetto, di una storia. Si accompagna anche il desiderio di poterne cogliere l‟originalità, la purezza e l‟integrità, non “inquinate”, per così dire, dai tanti compromessi che la storia chiede continuamente a tutti coloro che la abitano, al di là delle disposizioni d‟animo di ciascuno. Anche la ricerca sulle origini del Cristianesimo e della storia della Chiesa risponde a questa istanza, condivisa da tante donne e tanti uomini nel corso dei secoli passati e diventa “urgente” anche ai nostri giorni, in un‟epoca in cui sia il Cristianesimo sia le Chiese sono coinvolti in un grande movimento, culturale e istituzionale, di revisione, di critica, e anche di contestazione, di cui non è certo possibile coglierne interamente gli esiti. Non sono, infatti, retoriche le domande che tanti credenti e cercatori di Dio, accanto a gente pensosa di ogni sensibilità, continuano a porsi: Dove va il Cristianesimo? Dove vanno le Chiese cristiane? Che ne è della Chiesa cattolica nel nostro tempo? Le domande incalzano, così come le risposte, che sono molte, se si osserva l‟enorme quantità di pubblicazioni, di libri, di analisi prodotte in questi ultimi anni. Così si ritorna a interrogarsi, come si è fatto tante altre volte nella storia, sul momento d‟inizio, sui primi secoli del Cristianesimo e dell‟istituzione-Chiesa, con il desiderio e la speranza che da lì nascano ispirazioni, atteggiamenti, sensibilità, “modelli”, “risorse” spirituali e materiali (soluzioni) e il conseguente coraggio per far fronte ai problemi di oggi.
Se i nostri sono tempi turbolenti, non lo erano anche i primi secoli? Se il nostro disorientamento è grande, come ha saputo la prima comunità cristiana confrontarsi con un mondo di differenti culture e offrire ad esso una testimonianza profondamente umana, portatrice di nuove energie e valori? Affrontare la questione in tutta la sua importanza e vastità significa introdursi in una ricerca che si presenta molto complicata, non riducibile a schemi prefabbricati, semplificatori, come è, ad esempio, quello che ci presenta una comunità primitiva tutta compatta, unita, pacificata, senza tensione alcuna, o già tutta perfetta nelle dottrine e nei comportamenti. Anche quando ci si avvicina al Cristianesimo e alla comunità cristiana dei primi secoli sono più i problemi aperti che le certezze. Il momento della loro nascita è, come capita per ogni individuo e per ogni società, una tappa di adattamento, di discernimento, di confronto e, insieme, di scoperta della propria originalità, della novità di cui si è portatori. Si può persino dire che ci sono differenti modelli di Cristianesimo primitivo (Gerusalemme, Atene, Roma), con cui le comunità cristiane antiche sono costrette a confrontarsi, per modellare in unità il volto dell‟istituzione dei seguaci di Gesù di Nazareth. Ed è per questo che esiste una letteratura storiografica sconfinata e multiforme su questi argomenti.
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Uno sguardo d‟insieme preliminare
Dal punto di vista della storia delle religioni il Cristianesimo, come l‟Ebraismo, come l‟Islam, è una religione „positiva‟, cioè rivelata. La religione cristiana nasce dal tronco di quella ebraica, per opera di Gesù di Nazareth, nella Palestina ormai greco-romana, verso l‟anno 30 della nostra era. Per quanto oggi molti studiosi discutano se Gesù volesse veramente fondare una nuova religione e istituire per questo la Chiesa e per quanto altri pongano in termini rinnovati il problema del rapporto tra giudaismo e cristianesimo (tra antico e nuovo Testamento), quest‟ultimo resta una religione „fondata‟ e il suo fondatore è Gesù di Nazareth. È con la comparsa di Gesù, non con la nascita della Chiesa, che ha inizio la nascita del cristianesimo antico. Ma noi come conosciamo la figura e la predicazione di Gesù? E quale Gesù è realmente alle origini del Cristianesimo? Le domande sono cruciali, anche perché Gesù non ha scritto nulla. Ciò che di lui conosciamo lo dobbiamo ai suoi seguaci, a coloro cioè che in seguito all‟esperienza della risurrezione hanno visto in lui il Messia e il Figlio di Dio. Sono gli evangelisti, il giudeo Paolo di Tarso, altri discepoli che con i loro scritti hanno “ammaestrato” la prima comunità cristiana, cui lo storico deve, naturalmente, aggiungere ogni testimonianza, canonica o apocrifa, letteraria o archeologica, religiosa o profana, che possa gettar luce sulle origini del Cristianesimo. A queste testimonianza va aggiunta anche la riflessione, più teologica che storica, dei cosiddetti Padri della Chiesa dei primi secoli della storia della Chiesa. I primi quattro secoli, in effetti, costituiscono il periodo delle origini della religione cristiana e della formazione della Chiesa „cattolica‟ in un contesto prima sostanzialmente ostile (l‟impero romano) e poi, con la “svolta costantiniana”, dopo il 313, sostanzialmente favorevole al diffondersi del Cristianesimo dentro la compagine imperiale. Si tratta, evidentemente, della libertà di annuncio della nuova religione, alleata ormai al potere, perché il processo di “istituzionalizzazione” e di “cattolicizzazione” del Cristianesimo si era gia compiuto alla fine del II secolo d.C., in seguito al distacco definitivo dalla tradizione giudaica, alla lotta vittoriosa contro le scuole gnostiche e l‟accettazione dell‟impero romano come ambito storico per la diffusione del Vangelo (la Lettera a Diogneto ne è la testimonianza più grande e splendida!).
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La Palestina al tempo di Gesù
Vale la pena di riconoscere fin da ora che per una corretta ricostruzione storica delle origini cristiane è necessario anzitutto conoscere qual era la situazione politica, sociale e religiosa della Palestina al tempo di Gesù. Sul piano politico-amministrativo la Palestina al tempo di Gesù era divisa. E la regione principale del paese, la Giudea, era ormai sotto il controllo diretto dei Romani. Alla morte di Erode, nel 4 a.C., Augusto aveva voluto dividere il territorio palestinese fra i tre figli del re: Archelao aveva ricevuto la Giudea, l‟Idumea e la Samaria; Antipa la Galilea e la Perea; Filippo la Batanea, l‟Auranitide, la Traconitide e la Gaulanitide. Ma nel 6 d.C., alla morte di Archelao, accogliendo una richiesta che gli era stata fatta dagli stessi Giudei, Augusto aveva ridotto la Giudea, l‟Idumea e la Samaria a provincia romana, affidandola a un prefetto (non a un procuratore, come dice Tacito), alle dipendenze del governatore della Siria. Anche sul piano sociale e religioso la Palestina era divisa. Socialmente il territorio era dominato dalla locale aristocrazia, formata da tre gruppi: i rappresentanti delle più potenti famiglie sacerdotali, gli “anziani”, cioè i membri delle più ricche e influenti famiglie patrizie del paese, e i più eminenti dottori della legge; gli Scribi, che studiavano e insegnavano la Torah. Questi tre gruppi costituivano il Sinedrio, cioè l‟organo di governo e il supremo Tribunale della comunità ebraica (di cui i Romani e lo stesso Erode ne avevano ridimensionato il potere). Vicini a questa aristocrazia erano gli Erodiani, cioè i sostenitori della dinastia di Erode, e poi i ceti medi e popolari, cioè piccoli commercianti, artigiani, contadini, accompagnati da una gran massa di poveri e di diseredati, donne e uomini di una religiosità semplice e genuina, fatta di abbandono fiducioso in Dio e di speranze messianiche di liberazione nazionale. Religiosamente, poi, il mondo giudaico è tutt‟altro che omogeneo. Nelle sue opere (la Guerra giudaica e le Antichità giudaiche) Giuseppe Flavio, storico dell‟epoca, indica “quattro scuole”, quattro „filosofie‟ nelle quali secondo lui si divideva il giudaismo del suo tempo: i sadducei, che costituiscono la parte più tradizionalista e conservatrice della religione giudaica, l‟espressione dell‟aristocrazia sacerdotale e laica che gravita attorno al tempio di Gerusalemme; i farisei, espressione dei ceti medi e popolari, sostenitori del primato della legge sul tempio, una legge che deve saper interpretare i nuovi bisogni religiosi del popolo attraverso la fedeltà alla tradizione dei padri; gli esseni, oggi identificati dalla stragrande maggioranza degli studiosi (ma senza assoluta certezza) con la comunità di Qumran sul Mar Morto (con i loro documenti scoperti nel 1947), separati polemicamente dal giudaismo ufficiale, soggetti a una rigida regola di vita comune; e i seguaci di Giuda il Galileo, che si distinguono per l‟amore appassionato della libertà che li spingono a ribellarsi al dominio straniero, quindi ai romani in particolare e si confondono con il partito dei sicari e degli zeloti (anche se questi ultimi sembrano distinguersi per una visione più spirituale, in nome della fedeltà assoluta alla legge mosaica). Ma ai dati di Giuseppe Flavio bisogna fare, oggi, almeno due integrazioni: quella che si riferisce alla comunità di Qumran, la cui scoperta si è rivelata di importanza straordinaria per una migliore comprensione del cristianesimo delle origini. «In questi scritti della setta si ritrovano infatti tutta una serie di concezioni ed espressioni che gettano luce notevole sulla predicazione di Gesù e la comunità primitiva. Il modo di interpretare la Scrittura, le forme dell‟attesa messianica, l‟uso di titoli „cristologici‟, il genere letterario della beatitudine, l‟idea di una “nuova alleanza”, aspetti dell‟organizzazione comunitaria della setta sono tutti elementi che hanno paralleli evidenti nei testi cristiani delle origini e permettono di ricollocare molte idee e frasi del Nuovo Testamento nel loro ambiente giudaico originario» (G. JOSSA, Il Cristianesimo antico, Carrocci, 2006, p. 19). 3
E quella che si può chiamare la comunità dei giudei ellenizzati, cioè donne e uomini di lingua greca e di cultura ellenistica, ormai diffusi in tutto l‟impero romano e anche a Gerusalemme. È in questa situazione composita che compaiono in Palestina Giovanni Battista e Gesù di Nazareth. Ci si può chiedere se sia possibile individuare qualche avvenimento che abbia costituito l‟occasione particolare per quell‟evento. Gli storici ci hanno provato più volte, ma senza successo. La situazione era certo ricca di fermenti e l‟attesa messianica era vivissima, ma Tacito afferma nelle Storie che sotto Tiberio in Palestina regnava la calma, mentre l‟insurrezione di Giuda il Galileo era passata da circa vent‟anni e la guerra contro i Romani era ancora lontana. L‟interpretazione “politica” di Gesù, che vuole avvicinare la sia figura a quella dei sicari e degli zeloti (H.S. Reimarus, R. Eisler, S.G.F. Brandon) è allora priva di fondamento. Le motivazioni di Giovanni Battista e di Gesù sono eminentemente spirituali e la loro vocazione è squisitamente religiosa. E dopo il battesimo di Gesù al Giordano ad opera del Battista, la figura di Gesù di Nazareth prende il sopravvento nella narrazione dei vangeli. Ma come si presentava e che cosa realmente faceva Gesù? Da tutti i testi una cosa appare certa: Gesù non è stato né un maestro che abbia insegnato nelle scuole, né un monaco che abbia vissuto in comunità, né un asceta che si sia ritirato nel deserto. In altre parole egli non è stato né uno scriba, né un esseno, né un battista, ma un predicatore itinerante che girava per la Palestina portando il suo messaggio religioso particolare. Egli è apparso in quella regione nelle vesti e con l‟atteggiamento, ai giudei ben noti, di un „nabi‟, di un profeta, cioè di un uomo ispirato e posseduto da Dio e per questo anche “guaritore ed esorcista”, un „taumaturgo‟. La sua predicazione annunciava la venuta imminente del Regno di Dio per tutti gli uomini, non solo per Israele. E Regno di Dio significa la “salvezza” di Dio, non il suo giudizio, ma il disegno di giustizia, di libertà, di pace per le donne e gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, già presente nella storia e operante attraverso lo stesso Gesù di Nazareth. Anzi, i destinatari di questo “bell‟annuncio” erano i “poveri”, i “peccatori”, rispetto ai ricchi e ai giusti. Tutti i valori e le situazioni sociali apparivano così capovolti e l‟idea di legge che si era venuta imponendo nella tradizione giudaica, soprattutto con l‟insegnamento farisaico, era radicalmente messa in crisi. Due domande urgono a questo punto: a) La prima, particolarmente presente nell‟esegesi neotestamentaria dell‟ultimo secolo, riguarda il problema se Gesù abbia preteso di essere il Messia d‟Israele che i Giudici attendevano da secoli. I Vangeli sembrano attestare che nel primo periodo della sua predicazione Gesù non si è presentato come il Messia. L‟identità della sua persona era in secondo piano rispetto all‟annuncio del Regno. Ma a partire da un certo momento, che l‟evangelista Marco identifica nell‟episodio della confessione di Pietro (Marco 8, 27-33), Gesù stesso afferma il suo carattere messianico. b) La seconda domanda, che è come la conseguenza della sua predicazione messianica di liberatore, in nome di Dio, del suo popolo, riguarda il problema di chi ha messo a morte Gesù di Nazareth: il Sinedrio o Pilato, gli ebrei o i romani? E il motivo della condanna è solo politico (Gesù per Pilato era un sedizioso) o anche religioso (Gesù era per il Sinedrio un pericoloso sovvertitore dei valori religiosi e morali della tradizione)? I testi evangelici non lasciano dubbi sul fatto che a condannare Gesù è stato il governatore romano e che la motivazione della condanna è stata politica, ma è il Sinedrio che lo ha fatto arrestare e lo ha consegnato al prefetto con una ragione politica e religiosa insieme.
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La comunità primitiva di Gerusalemme 4
Il periodo che va dal 30 d.C. (la data probabile della morte di Gesù di Nazareth) e il 49 d.C. (la data probabile del cosiddetto Concilio di Gerusalemme) è il più oscuro di tutta la storia del Cristianesimo antico. Nessuna fonte ci informa direttamente di quegli anni. a) Le Lettere di Paolo, che sono gli scritti più antichi del Nuovo Testamento risalgono tutte agli anni Cinquanta e contengono pochissimi riferimenti agli anni precedenti. b) I Vangeli, scritti alquanto più tardi, si chiudono con i racconti pasquali del 30. c) Gli Atti degli Apostoli si dedicano più a una ricostruzione teologica che storica e i primi capitoli di essi sono, in proposito, meno attendibili che il loro prosieguo. Eppure è proprio da Paolo e dagli Atti e dai Vangeli che noi dobbiamo trarre il materiale per tentare di ricostruire le vicende di quegli anni. C‟è subito da dire che la morte di Gesù ha costituito certamente per i discepoli una cocente delusione e ha provocato un grande smarrimento: «Noi speravamo…», ci dice Luca (24, 21). L‟idea del Messia sofferente era troppo estranea alla mentalità giudaica del tempo, per poter essere fatta subito propria dalla comunità primitiva e la morte da maledetto sulla croce era troppo scandalosa per non costituire per essa una insuperabile pietra di inciampo. «Ma poi è avvenuto qualcosa che ha cambiato completamente la situazione. Subito dopo la Pasqua i discepoli di Gesù sono stati protagonisti di eventi straordinari, quelli che le fonti chiamano le apparizioni di Gesù e gli studiosi definiscono le esperienze pasquali. Lo storico naturalmente non può dire che cosa realmente sia avvenuto. Può soltanto constatare che da queste apparizioni, che i testi descrivono non come esperienze psicologiche o come visioni soggettive ma come fatti oggettivi, i discepoli hanno tratto la convinzione che qualcosa di straordinario era avvenuto nella persona di Gesù e che questo qualcosa essi lo hanno espresso con l‟idea della risurrezione. La formulazione più antica dell‟esperienza che i discepoli hanno fatto con le apparizioni di Gesù è infatti quella, trasmessa da Paolo e da Luca, secondo cui Dio “lo ha risuscitato dai morti”. E con questo essi vogliono dire non che Gesù è tornato a vivere, ma che Gesù è passato da una forma di esistenza a un‟altra diversa e cioè, come dice la tradizione, dall‟esistenza “nella carne” a quella “nello spirito”» (G. JOSSA, op. cit., p. 32). La risurrezione ha, però, significato per i discepoli qualcosa di più. In base ad essa, infatti, Gesù è riconosciuto come quel Figlio dell‟uomo, al quale nella sua predicazione egli aveva fatto più volte un‟allusione abbastanza misteriosa, usando le parole del profeta Daniele (7, 14). Inoltre, e soprattutto, attraverso la risurrezione quel Gesù che aveva ricevuto il potere e la gloria, era ora presente e operante con la sua sovranità nella comunità dei discepoli. Questo è l‟inizio vero e proprio di quella che i teologi avrebbero chiamato in seguito la cristologia. Con la risurrezione Gesù viene dunque riconosciuto dai discepoli Signore e Messia e per un tempo abbastanza lungo la comunità primitiva ha sperato che questo Signore e Messia sarebbe tornato presto nella gloria. Tenuti insieme da questa fede e da questa speranza i discepoli si riuniscono di nuovo a Gerusalemme e danno vita a quell‟embrione di Chiesa che è la comunità primitiva, sulla quale secondo la tradizione riportata da Luca, nel giorno di Pentecoste, a inaugurare gli ultimi tempi (l‟era escatologica), è disceso lo Spirito Santo con i suoi doni straordinari. Questo è l‟atto “ufficiale” di nascita della “comunità di Dio” (ekklesía toú Theoú), l‟assemblea dei credenti in Cristo che si considera erede dell‟assemblea del popolo di Dio. I caratteri essenziali di questa comunità sono descritti da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli Apostoli in termini fortemente idealizzati: «Erano assidui nell‟ascoltare l‟insegnamento degli apostoli e nell‟unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a 5
tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (Atti 2, 42-47). «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un‟anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l‟importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti 4, 32.35). La prima comunità cristiana è, allora, una comunità giudaica, unita nella fede del Signore Gesù, della quale si entra a far parte con la cerimonia del battesimo nel nome di Gesù (Atti 2, 38) e che ha il momento culminante della sua vita nella ripetizione della cena del Signore. Questa comunità, caratterizzata soprattutto da una grande solidarietà, ha i suoi leaders negli Apostoli, cioè nei Dodici (a rappresentare l‟intero popolo di Israele), accanto ai quali si pongono quasi subito anche i Sette, incaricati del servizio alle mense e anche predicatori e missionari. Con loro gli Atti nominano anche i “presbìteri”, cioè gli anziani, una figura che sembra potersi ricollegare a quella degli “anziani” del giudaismo. Un ruolo particolare poi, accanto a Pietro e Giovanni, che Paolo considera le “colonne” della Chiesa primitiva, assume Giacomo, il “fratello del Signore”, che dopo il Concilio di Gerusalemme diventerà il capo effettivo di quella comunità. Quanto alla vita di questa comunità, si può dire che essa, esteriormente, non è troppo diversa dalle altre “sette” giudaiche di cui si è parlato sopra: i discepoli osservano la legge mosaica e frequentano il tempio di Gerusalemme. Ma in realtà la loro diversità è grande: essi non sperano più nella restaurazione della monarchia davidica, non partecipano più ai sogni politici e teocratici del popolo d‟Israele. La strada del Messia, ormai, non passa per loro per la sovranità e la gloria, ma per l‟obbedienza e la croce. Essi non affidano le loro speranze all‟osservanza scrupolosa della legge di Mosè, così che nemmeno il „partito di Giacomo‟ non riuscirà mai ad imporre la concezione farisaica della legge. Va poi tenuto presente che la comunità cristiana primitiva non è composta soltanto da giudei palestinesi di lingua aramaica, ma anche di giudei di lingua e cultura greca. Sono i cosiddetti “ellenisti” che hanno il loro leader in Stefano. È costui che provoca uno scontro durissimo con le autorità giudaiche di Gerusalemme, con un discorso che è una vera e propria requisitoria di tutta la storia d‟Israele (Atti 7, 2-53), che sfocia poi in una vera e propria persecuzione contro la Chiesa da parte del Sinedrio. Ed è qui che si compie una svolta decisiva della comunità cristiana primitiva: la persecuzione, secondo il racconto di Luca negli Atti, tocca solo gli “ellenisti”, non gli Apostoli; sono essi che ora leggono la predicazione di Gesù come la messa in crisi radicale delle istituzioni giudaiche e che quindi sono costretti a fuggire da Gerusalemme e, giunti ad Antiochia, compiono il passo decisivo, annunciando il vangelo anche ai semplici pagani. In questo modo la predicazione cristiana già comincia a staccarsi dalla sua matrice giudaica e tende ad acquistare una dimensione universale. Ad Antiochia i discepoli di Gesù si chiamano per la prima volta “cristiani”. La persecuzione ha compiuto il suo primo grande effetto: ha liberato la Chiesa dal pericolo di diventare una setta.
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BIBLIOGRAFIA MINIMA
H. KÜNG, Cristianesimo, 1999, Rizzoli. K. BIHLMEYER - H. TUECHLE, Storia della Chiesa, vol. 1°, 200314, Ed. Morcelliana. A. DESTRO - M. PESCE, Antropologia delle origini cristiane, 2008, Ed. Laterza. G. IOSSA, Il cristianesimo antico, 2006, Ed. Carocci. Annali di Storia dell‟esegesi (23/1/2006), Dal II al VI secolo. Sviluppi e trasformazioni del Cristianesimo, Ed. EDB, Bologna. D. DEVOTI - G. FILORAMO, I primi cristiani, Ed. SEI, Torino.
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2°
incontro
Canova, 15 febbraio 2008 don Marcello Farina
Lo sviluppo del Cristianesimo teologia e prassi della comunità cristiana del II e III secolo d.C. 1)
La prima diffusione del Cristianesimo
„Nato in Palestina sul tronco della religione giudaica, e dunque appartenente al ceppo delle religioni orientali, già nella seconda metà del primo secolo il Cristianesimo non è più un fenomeno esclusivamente orientale e giudaico‟ (G. Iossa, Il Cristianesimo antico, p. 47). La prima comunità cristiana – la Chiesa delle origini – nasce dalla fede post-paquale, che riconosce che Gesù di Nazareth non può essere “ricondotto” e interpretato all‟interno della storia del suo popolo di provenienza. Essa, come si è già visto, ha cominciato a staccarsi dalla sua matrice giudaica ed è ormai, come Paolo di Tarso non si era mai stancato di affermare nella sua predicazione e nelle sue lettere, Chiesa di giudei e pagani. Anzi, con le decisioni del Concilio di Gerusalemme (49 d.C.) e la caduta della città santa nella guerra giudaica contro i Romani (68-70 d.C.), essa sarebbe diventata sempre più Ecclesia ex gentibus, quelle genti che popolavano l‟impero romano-ellenistico. Se noi seguiamo il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli, che è l‟unica fonte che possediamo per questo periodo cruciale, ci ritroviamo all‟interno di un discorso molto semplice e lineare. Nato in Palestina, e quindi giudaico nella sua origine, il Cristianesimo si diffonde nel mondo romano e attraverso le città greche giunge alla capitale dell‟Impero. Gerusalemme - Atene - Roma: questo è il cammino, guidato da Dio, della predicazione cristiana. È idealmente in questo viaggio dell‟annuncio cristiano della seconda metà del primo secolo che si costituisce, attraverso i testimoni della risurrezione del Signore, la Chiesa, come popolo peregrinante verso il Regno di Dio. È in questo cammino che la composizione nella Chiesa si struttura e si modifica a seconda delle necessità. Si potrebbe dire: non a partire da schemi prefabbricati, che potessero essere ricondotti a Gesù di Nazareth. «La sua predicazione era tutta orientata a
interpellare il suo popolo per conquistarlo al proprio messaggio», non per istituire una Chiesa. Per i primi cristiani Gesù è il fondamento, la ragione del loro ritrovarsi insieme, non il fondatore della comunità cristiana in un atto esterno e giuridico, addirittura corredato di un magistero, di un sacerdozio, dei sacramenti, di un corpo di dottrine. Purtroppo questa operazione di “ricondurre Gesù nel tempio”, tradendo i connotati essenziali della sua esistenza profetica vissuta nella più aperta “profanità” (laicità) è ancora presente nella storia del Cristianesimo e delle Chiese. Invece l‟assetto istituzionale della Chiesa è e deve rimanere opera delle mani degli uomini e delle donne nel corso della storia, soggetta, come ogni realtà umana, ai processi evolutivi di ogni “strutturazione” sociale, che sia conforme allo stile di vita di Gesù e al suo insegnamento, tanto più che l‟evangelo è forza critico-creatrice di conversione anche strutturale. Il “cammino-fondazione” della Chiesa primitiva, secondo Luca, è caratterizzato dall‟iniziativa di Paolo. È Paolo che cerca prima le comunità giudaiche e predica nelle loro sinagoghe. Ma il mondo giudaico nel complesso lo respinge ed egli si rivolge allora a quello pagano, presso il quale riscuote un ben diverso successo. La Chiesa dunque diventa greca e raggiunge Roma. In realtà lo schema lucano è fin troppo semplice. La componente giudaica ha continuato ad essere presente con un ruolo molto forte nel primo e nel secondo secolo. Ed è esistito anche un giudeo-cristianesimo che, dentro e fuori dell‟impero, ha continuato a sostenere la necessità della legge. A Gerusalemme, soprattutto dopo la partenza di Pietro, il cosiddetto “partito di Giacomo” esprime proprio questa tendenza, così da dare alla chiesa palestinese una fisionomia tipicamente giudaica. E dopo la guerra contro Roma comunità giudeo-cristiane, legate quindi ancora all‟osservanza della legge, continueranno a vivere in Siria e in Asia minore, anche se ormai ai margini della “grande Chiesa”. Addirittura l‟impronta giudaica e la lingua aramaica vengono usate da gruppi di cristiani in oriente, fuori dall‟impero romano, secondo una tradizione collegata ai nomi di Tommaso e di Addai, di cui restano tracce in cronache locali (La Cronaca di Addai e La Cronaca di Arbela). Per il resto è vero che, come racconta Luca, la diffusione del Cristianesimo, ad opera soprattutto di Paolo, ha seguito le grandi vie di comunicazione che percorrevano l‟impero romano per mare e per terra. Siria, Cilicia, Asia minore, Grecia e infine Italia sono state le aree fondamentali dell‟azione di Paolo nei suoi continui viaggi missionari. Antiochia è stata il centro di irradiazione del Cristianesimo in questo periodo e poi Efeso, Smirne, Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto, Roma. È da queste città che provengono infatti le manifestazioni più significative del pensiero e della letteratura cristiani di questo periodo: ad Antiochia devono quasi certamente la loro origine la Didachè e l‟Ascensione di Isaia e lì è stato vescovo per alcuni anni Ignazio all‟inizio del secondo secolo; ad Efeso è sicuramente legata la tradizione giovannea che si esprime nell‟Apocalisse e nel quarto Vangelo e che sarà ripresa da Giustino e dai quartodecimani, cioè da coloro che celebravano la Pasqua sempre al 14 di Nìsan, cioè nel giorno della pasqua ebraica. Smirne avrà come vescovo per più di cinquant‟anni Policarpo, così da diventare uno dei maggiori centri di irradiazione del Cristianesimo nel secondo secolo e Roma porta con sé le tracce profonde della presenza di Pietro e Paolo
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e poi di Clemente, “vescovo” alla fine del primo secolo, punto di riferimento per le comunità cristiane dell‟epoca. Attraverso il racconto lucano dell‟attività missionaria di Paolo veniamo a conoscere anche le modalità della diffusione della nuova religione. Lo si è già accennato sopra: prima Paolo si rivolge alle comunità giudaiche, cercandone il luogo di riunione; poi, respinto da esse, egli si rivolge ai pagani (ai “gentili”). Ma anche costoro a volte protestano contro l‟attività missionaria di Paolo. Essi sembrano temere soprattutto per i loro interessi economici, strettamente legati alle forme di culto locali. È curioso poi il fatto che se le autorità locali, di fronte alle varie denunce contro Paolo, si mostrano poco propense ad accogliere quelle di parte giudaica, sono molto più sensibili invece nei confronti di quelle dei pagani, pur riservando in genere all‟apostolo, che è cittadino romano, una certa considerazione.
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Le prime comunità cristiane nel mondo pagano
Ma come vivono e come sono organizzate le prime comunità cristiane, le prime „chiese‟? A dir il vero non ne sappiamo molto. La documentazione è scarsa e non sempre sicura. Le lettere di Paolo di Tarso sono scritti occasionali e toccano solo alcuni aspetti della vita della comunità; gli Atti degli Apostoli hanno i „limiti‟ ricordati più volte sopra. Altri scritti sono ormai della fine del primo secolo (gli scritti „giovannei‟, ecc.). Il primo dato significativo è che le prime chiese nascono tutte in ambito cittadino e tendono ad assumere un aspetto greco-romano, a parte le frange consistenti di giudeo-cristianesimo in Siria e Palestina già ricordate sopra. Nelle grandi città dell‟Asia e della Grecia sono ormai sorte delle comunità che sono molto lontane dalle speranze messianiche e dalla tradizione legalistica della religione giudaica e che tendono a organizzarsi e a strutturarsi in forma autonoma secondo il modello o delle sinagoghe ellenistiche o di altre associazioni di culto. Sono in primo luogo le chiese che Paolo ha fondato, che portano con sé la sedimentazione della sua predicazione o, comunque, i problemi sollevati da essa: il conseguimento della salvezza mediante la fede e la libertà dei pagani dalla legge giudaica (mosaica); il valore salvifico della croce di Cristo e la speranza della risurrezione dai morti; la struttura carismatica della Chiesa di Cristo e il carattere cultuale della cena del Signore. Ma in Asia minore, accanto ad esse, ci sono anche le chiese cui si è diretta la predicazione successiva dell‟apostolo Giovanni. Le conosciamo per esempio dalle sette Lettere con cui si rivolge ad esse l‟autore dell‟Apocalisse: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Queste chiese „giovannee‟ esprimono in effetti una tradizione diversa, non priva di tensioni e di contrasti con quella paolina, proprio perché maggiormente segnata dalla eredità giudaica (soprattutto dalla eredità „apocalittica‟, che poi darà luogo a quella che viene definita dagli studiosi la “teologia Asiatica”, di Papia, di Giustino, di Ireneo). In realtà, anche queste comunità sono centrate sulla venerazione cultuale del Cristo morto e risorto come Salvatore e Signore dei credenti e sono fornite di regole di vita, di cerimonie e di strutture organizzative proprie, così da apparire come associazioni religiose di stampo ellenistico.
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Per quanto, poi, sia estremamente difficile determinare con qualche precisione la composizione sociale delle prime comunità cristiane, sembra che i ceti maggiormente contattati siano quelli degli artigiani, dei commercianti, degli stranieri (militari soprattutto) portati nelle varie città dell‟impero romano dalla fortuna. Questi fedeli si riuniscono nelle case private, messe a disposizione dai membri più agiati della comunità per la preghiera, per le letture e per quelli che fin dall‟inizio appaiono come i due riti principali della vita comunitaria: l’eucaristia e il battesimo. Intorno ad essi gravita l‟intera vita religiosa comunitaria. „Anche se i particolari sono stati sempre oggetto di discussione tra gli studiosi, l‟origine e la natura della eucaristia sembrano abbastanza chiare. L‟eucaristia, nei primi tempi definita ancora spesso fractio panis (Atti 2, 42; 20, 7), è il ricordo attualizzante dell‟ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. L‟identificazione fatta da Gesù durante quella cena del pane e del vino con il suo corpo e il suo sangue dati in sacrificio per gli uomini e l‟invito a ripetere il rito in memoria di lui (1 Cor, 11, 23-25: «Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, rese grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me”» sono stati infatti ripresi dai discepoli e interpretati come l‟attualizzazione della salvezza data nella morte e risurrezione di Gesù. Come dice Paolo, l‟eucaristia è il sacramento della memoria e della comunicazione della salvezza. «Ogni volta che mangiate questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor. 11, 26). È il rito di partecipazione alla vita divina e di unione dei fedeli tra loro (1 Cor. 10, 16-17: «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione con il corpo di Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane»). Questa eucaristia, legata, come ho detto, al ricordo dell‟ultima cena di Gesù con i suoi, ha luogo nei primi tempi, nelle case private, il primo giorno della settimana (il «giorno del Signore»), ancora nella cornice di un comune banchetto (l‟agape) e si svolge in un atmosfera di esultanza escatologica per il ritorno imminente del Signore (maranathà). Gli inconvenienti frequentemente verificatisi nella celebrazione di questo banchetto e denunciati vigorosamente da Paolo nella 1 Lettera ai Corinzi provocano però abbastanza rapidamente il distacco dall‟agape del rito sacramentale vero e proprio. Mentre il venir meno dell‟entusiasmo escatologico determina una progressiva concentrazione della celebrazione sugli aspetti più schiettamente rituali e sacramentali di comunicazione della vita divina‟ (G. Iossa, op. cit., pp. 55-56). Più difficile è indicare l‟origine del rito del battesimo. Durante la sua vita non sembra che Gesù abbia battezzato. Se lo ha fatto, come vuole indicare il vangelo di Giovanni, lo ha fatto all‟inizio della sua attività, quando ancora collaborava con Giovanni Battista. E quello era un semplice rito di penitenza. „Il comando di impartire il battesimo (che una maggiore affinità può forse avere col battesimo impartito ai proseliti con la circoncisione) viene posto in realtà dai Vangeli sulla bocca del Cristo risorto (Mc. 16, 16; Mt. 28, 19). E il rito ha un carattere eminentemente cristologico (la formula trinitaria di Matteo 28, 19 costituisce uno sviluppo della tradizione) e squisitamente sacramentale. Secondo Luca, alla fine del 4
discorso di Pentecoste, ai giudei che chiedono che cosa devono fare Pietro risponde: «Pentitevi e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per ottenere il perdono dei vostri peccati; e riceverete il dono dello Spirito Santo» (Atti 2, 38). La comunità crede dunque che nel battesimo si realizzi in maniera efficace la comunicazione della salvezza operata dalla morte e risurrezione di Gesù. esso attua infatti la remissione dei peccati e comunica il dono dello Spirito. Somministrato per adesso soltanto agli adulti in seguito alla conversione, mediante una immersione in «acqua viva» (Didachè 7, 1; ma l‟immersione ha ceduto rapidamente il passo a una più semplice aspersione) che simboleggia sepoltura e rinascita, il battesimo introduce i credenti alla vita nuova inaugurata dalla morte e risurrezione di Gesù. È perciò il rito fondamentale della iniziazione cristiana, l‟ingresso nella comunità dei salvati da Cristo (Rom. 6, 3-4: «O non sapete che tutti quelli che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo nella morte perché, come Cristo fu risuscitato dai morti per la gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova») (G. Iossa, op. cit., pp. 56-57). A questi due riti (segni-sacramenti) si aggiungono progressivamente altre celebrazioni che lentamente sostituiscono quelle della tradizione giudaica. La celebrazione della domenica, innanzitutto che si aggiunge prima e si sostituisce poi al sabato, e che non è più la celebrazione del riposo di Dio e della creazione, ma il ricordo del giorno del Signore („dies dominica‟ - Kyriakè heméra), memoria della risurrezione e attesa della parusia. E la celebrazione della Pasqua che, più ancora della domenica, non è soltanto più il ricordo della uscita degli Ebrei dall‟Egitto e della liberazione dalla schiavitù del peccato, ma la celebrazione della morte e risurrezione del Signore, vero agnello pasquale che con il suo sacrificio spirituale ha sostituito e abrogato il sacrificio materiale degli agnelli del tempio (1 Corinti 5, 7; Giovanni 19, 36). A questi riti, e a quello della Pasqua in particolare si legano i digiuni, anch‟essi accolti dalla tradizione giudaica, ma assunti a sottolineare la nuova vita spirituale introdotta dalla morte e risurrezione di Gesù di Nazareth. Quanto alla vita e alla organizzazione delle comunità, colpisce anzitutto la solidarietà dei suoi membri. Non solo Luca mette in evidenza, come abbiamo visto, questi atteggiamenti, enfatizzandoli anche un poco, ma anche Paolo e perfino alcuni autori pagani come Plinio il Giovane e Luciano di Samosàta, che restano colpiti e impressionati da quegli atteggiamenti. Tutto questo comporta ovviamente l‟emergere sempre più evidente di una organizzazione adeguata. Ed è anche questo un problema estremamente difficile. Si è già ricordato come, nei primi tempi della comunità delle origini, l‟autorità risiedesse nelle mani dei Dodici (si veda l‟elezione di Mattia narrata dagli Atti); poi accanto ai dodici si pongono i Sette, con funzioni non soltanto di assistenza, ma anche di missione ed evangelizzazione; e poi Giacomo, che dopo la partenza di Pietro, diventa il capo effettivo della comunità di Gerusalemme. E al Concilio di Gerusalemme, insieme agli apostoli, un ruolo significativo lo hanno “i presbiteri” (Atti 15, 2.4.6. 22-23). „Questa pluralità di funzioni ecclesiastiche si ritrova egualmente nelle comunità ellenistiche. In un primo tempo è probabile che nella vita delle comunità un ruolo assai significativo fosse svolto dagli apostoli e dai predicatori itineranti e che nella stessa comunità largo spazio fosse riservato ai detentori di doni straordinari dello Spirito. L‟immagine di Chiesa della 1 Lettera ai Corinzi di Paolo comprende infatti 5
apostoli, profeti e dottori (1 Cor. 12, 28-29), che saranno stati prevalentemente predicatori itineranti, e accenna alla presenza all‟interno della comunità dei più svariati doni dello Spirito (guarigioni, profezia, glossolalia, ecc.). Ma piano piano l‟entusiasmo cede il passo all‟organizzazione. Ai profeti e ai predicatori itineranti si aggiungono «presbiteri» e «vescovi» sedentari. E gradatamente, ma non senza contrasti (ad Antiochia per esempio la Didachè e l‟Ascensione di Isaia sembrano testimoniare tensioni anche forti tra i persistenti gruppi profetici e questa più definita “gerarchia” ecclesiastica), il governo della comunità locale è assunto da un collegio di questi presbiteri, all‟interno del quale, con sviluppi diversi da città a città, emerge la figura di un vescovo monarchico. Se le cosiddette Lettere pastorali (1 e 2 a Timoteo, a Tito) attribuite a Paolo, ma in realtà risalenti agli ultimi anni del primo secolo, già evidenziano uno sviluppo significativo della organizzazione ecclesiastica, con il loro riferimento a «vescovi» e «presbiteri» (ancora non distinti chiaramente tra loro), le lettere di Ignazio di Antiochia (circa del 110 d.C.) mostrano infatti che in Siria e in Asia minore già alla fine del primo secolo esiste la figura di un vescovo che governa la chiesa, mentre a Roma e in altre località dell‟impero si mantiene più a lungo una forma di governo collegiale‟ (G. Iossa, op. cit., pp. 58-59).
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La formazione del Nuovo Testamento
Ma qual è la regola per la fede e la vita di queste comunità? Come si sa, i primi discepoli di Gesù non hanno messo subito per iscritto la storia e l‟insegnamento del loro maestro. Essi affermano però che Gesù di Nazareth è il messia di Israele, nel quale si è realizzata l‟attesa secolare del popolo ebraico, così che anche la Scrittura che essi conoscono e a cui continuano a fare riferimento (il Vecchio Testamento) ha trovato il suo compimento nella predicazione e nella vita stessa di Gesù (il Nuovo Testamento). È per questo che gli stessi discepoli si spingono a raccontare le vicende della vita di Gesù fin nei minimi particolari (soprattutto della sua passione), anche per difendere quella memoria dalle accuse dei loro connazionali. E a questo primo racconto della passione che è il più antico, si sono aggiunti poi progressivamente altri testi, come la raccolta di parole (i Loghia) di Gesù e le prime narrazioni di episodi della sua vita (parabole del regno, controversie con i farisei, storie di miracoli, discorso escatologico, ecc.) che poi entreranno a far parte del testo dei Vangeli. Nella loro stesura definitiva i testi più antichi che noi oggi possediamo sono le lettere di Paolo. Tredici lettere si presentano come paoline, ma non sono tutte di Paolo. Di esse, oggi, soltanto sette vengono attribuite da quasi tutti gli studiosi all‟apostolo di Tarso (la 1a lettera ai Tessalonicesi, la lettera ai Filippesi, la lettera ai Galati, le due lettere ai Corinzi, la lettera ai Romani e la lettera a Filemone). Queste sette lettere costituiscono il primo nucleo di quello che sarà il Nuovo Testamento. E al termine di un processo assai complesso di formazione letteraria, che va dalla predicazione orale dei primi discepoli, fino alla redazione di vere e proprie opere unitarie, a questo nucleo iniziale si aggiungono i quattro Vangeli (nell‟ordine: Marco, Luca, Matteo e Giovanni).
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Come si presentano questi Vangeli dal punto di vista di una storia del pensiero e della letteratura cristiani? Va subito detto che essi non possono essere considerati come vite di Gesù o comunque come opere di storia. L’intenzione dei Vangeli è eminentemente teologica. Essi vogliono testimoniare e confessare la fede della comunità in Gesù di Nazareth messia e figlio di Dio. Non quindi la figura di Gesù come è apparsa agli abitanti della Palestina durante la sua vicenda terrena („secondo la carne‟), ma la figura di Gesù come è stata compresa dai discepoli nella fede dopo la risurrezione („secondo lo Spirito‟). È la fede post-pasquale che „informa‟ i Vangeli, così che in seguito si è posto il problema del rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede! (a partire dall‟Illuminismo). Non è qui il caso di affrontare la grande questione della natura e dei rapporti tra questi vangeli. I primi tre presentano somiglianze così grandi, da poter essere stampati su tre colonne parallele per abbracciarli con un solo sguardo (sinossi, onde il nome di Sinottici). Probabilmente il Vangelo più antico è quello di Marco, scritto poco prima del 70 d.C., perché sembra non conoscere la distruzione di Gerusalemme. Egli stesso sembra a sua volta debitore a una fonte Q (Quelle, dal tedesco), più antica di Marco stesso. Poi vengono Luca e Matteo. Il quarto Vangelo ha invece un carattere profondamente diverso, scritto alla fine del primo secolo. Studi recenti hanno mostrato in maniera inequivocabile l‟origine squisitamente giudaica di molte idee del vangelo di Giovanni (a cominciare dalla famosa concezione del Logos), che si propone come la testimonianza della fede nella persona e nell‟opera di Gesù, così come veniva colta nella comunità. Le altre opere sono le lettere paoline discusse o non autentiche (2a Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, 1 a e 2 a Timoteo, a Tito), le cosiddette “Lettere Cattoliche” (1 a e 2 a Pietro, Giacomo, Giuda, 1 a, 2 a, 3 a Giovanni), la Lettere agli Ebrei e, soprattutto, gli Atti degli Apostoli e l‟Apocalisse di Giovanni. „Gli Atti degli Apostoli sono fondamentali per la nostra conoscenza del cristianesimo antico perché, pur non potendo essere considerati neppur essi una fonte storiografica in senso stretto (la loro intenzione è pur sempre principalmente teologica), non soltanto ci danno l‟immagine della Chiesa di Luca (negli anni Ottanta), ma ci forniscono anche una serie di dati preziosissimi sulla comunità primitiva di Gerusalemme e la predicazione missionaria di Paolo. Pur con tutti i limiti che caratterizzano, come ho detto, la loro documentazione, è soltanto in base agli Atti degli Apostoli che possiamo tentare infatti di ricostruire le vicende principali della comunità primitiva e i momenti più significativi della missione paolina: gli ellenisti e Paolo; Pietro e Cornelio; la comunità di Antiochia; il concilio di Gerusalemme, nella prima parte; i viaggi di Paolo; i conflitti con giudei e pagani; il processo di Paolo; l‟arrivo a Roma, nella seconda. L‟Apocalisse riveste anch‟essa una grande importanza per la storia della Chiesa antica perché è l‟unico testo del Nuovo Testamento che riprenda quella tradizione apocalittica giudaica (rappresentata nell‟Antico Testamento dal libro di Daniele, a cui l‟Apocalisse si ispira direttamente) che si caratterizza per la sua concezione drammatica della storia, vista come teatro dello scontro perenne tra i giusti e i peccatori, immagine di quello celeste tra Dio e Satana, di cui un aspetto particolarmente significativo è il conflitto dei credenti col potere politico, considerato uno strumento di Satana. È nell‟Apocalisse, scritta con ogni probabilità subito dopo la “persecuzione” di 7
Domiziano, e più in particolare nei capitoli 13 e 17, che appare infatti la famosa immagine (ripresa proprio da Daniele) delle due bestie (il potere politico e il potere religioso) che perseguitano i «santi», col misterioso riferimento al numero 666 (o 616) per quella che sale dal mare: una immagine dell‟impero romano ben diversa da quella paolina della Lettera ai Romani, che ha alimentato in tutti i tempi l‟opposizione religiosa dei cristiani al potere politico e dato via libera alla fantasia per trovare il significato nascosto di quel numero‟ (G. Iossa, op. cit., pp. 67-68).
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ALLEGATI Mi sembra bello qui riprodurre due importanti testi del Cristianesimo delle origini, citati nella riflessione qui riportata: la Didachè e le Lettere di Ignazio di Antiochia.
a)
DIDACHÈ
Il battesimo Quanto al battesimo, battezzate in questo modo: dopo aver premesso tutte queste cose, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nell‟acqua viva. Se non hai acqua viva, immergi (il battezzando) in altra acqua; se non puoi nella fredda, immergilo nella calda. Se non avessi abbastanza né dell‟una né dell‟altra, versa tre volte sul capo dell‟acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Prima del battesimo digiunino il battezzante e il battezzando e anche altri se lo possono; al battezzando però, ordina che digiuni un giorno o due prima. (Didachè, 7, 1-4) L’Eucarestia Ogni domenica, giorno del Signore, radunati insieme, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque abbia qualche lite con il suo compagno non si unisca a voi prima che entrambi si siano riconciliati, affinché non sia profanato il vostro sacrificio. Queste infatti sono le parole del Signore: «In ogni luogo e in ogni tempo mi sia offerto un sacrificio puro; poiché io sono un gran re – dice il Signore – e il mio nome è mirabile fra le genti». (Didachè, 14, 1-3)
b)
IGNAZIO D’ANTIOCHIA
Il vescovo e i fedeli Questi documenti di Ignazio che presentiamo sono tutti centrati sulla figura del vescovo, che con la scomparsa degli apostoli, da semplice capo del consiglio degli anziani o presbiteri, diviene la figura principale delle chiese locali, ereditando tutte le prerogative e i poteri degli apostoli. La Chiesa, in tal modo, da apostolica diventa episcopale e sempre più tende ad assumere l‟aspetto di una istituzione organizzata secondo la tipica figura piramidale: troviamo così alla sommità il vescovo, quindi il consiglio dei presbiteri (= sacerdoti) e quello dei diaconi, infine la vasta comunità dei fedeli. La nota dominante di questi brani è così l‟armonia (v. anche le metafore e il vocabolario tipicamente musicali) che tutti i componenti della Chiesa deve tenere uniti nell‟amore reciproco.
Perciò è vostro dovere essere d‟accordo con il pensiero del vostro vescovo, cosa che del resto voi fate. Infatti il vostro venerabile collegio sacerdotale, degno di Dio, è accordato al vescovo come le corde alla cetra; così nell‟accordo dei vostri sentimenti e nell‟armonia della vostra carità voi cantate Gesù Cristo. E ciascuno di voi partecipi a questo coro, affinché nell‟armonia del vostro accordo, prendendo il tono di Dio nell‟unità, cantiate ad una voce per mezzo del Cristo (un inno) al Padre, ed egli vi ascolti e vi riconosca dalle vostre buone opere come le membra del suo Figlio. È quindi utile per voi essere in una inseparabile unità, per partecipare costantemente a Dio. (Ignazio, Lettera agli Efesini, 4) Così, poiché nelle persone che ho sopra nominato ho veduto ed amato nella fede tutta la vostra comunità, vi raccomando, procurate di fare ogni cosa in una divina concordia, sotto la guida del vescovo, che tiene il posto di Dio, dei presbiteri, che tengono il posto del senato degli apostoli, e dei diaconi, che mi sono così cari e ai quali è stato affidato il servizio di Gesù Cristo, il quale prima dei secoli era presso il Padre e si è manifestato alla fine. Tutti dunque regolate la vostra condotta su quella di Dio, rispettatevi l‟un l‟altro, e nessuno guardi il suo prossimo con gli occhi della carne, ma amatevi sempre l‟un l‟altro in Gesù Cristo. Non vi sia mai tra voi nulla che possa dividervi, ma unitevi al vescovo e a coloro che sono a voi preposti, a immagine e lezione di incorruttibilità. (Ignazio, Lettera ai Magnesii, 6) 9
3°
incontro
Canova, 14 marzo 2008 don Marcello Farina
Il conflitto tra l’Impero e la comunità cristiana 1)
I primi conflitti con l’autorità politica
La storia della prima comunità cristiana non è soltanto una storia «ab intra», a partire da sé stessa e dal suo “difficile” sviluppo, ma è anche una storia «ab extra», condizionata dal mondo esterno, cioè dalla situazione storica concreta in cui il vangelo viene annunciato: da una politica particolare (l’impero romano), da una cultura particolare (l’ellenismo), da un’eredità di credenze e tradizioni (il giudaismo). Non esiste un Cristianesimo senza storia e una Chiesa che non si sia “formata” a partire, oltre che dall’annuncio evangelico, anche dalle condizioni storiche di un determinato periodo della vicenda delle donne e degli uomini sulla terra. Uno dei primi problemi della Chiesa «ab extra» diventa perciò quello dell’assunzione, da parte dei cristiani, di un atteggiamento più preciso nei confronti dell’autorità politica. Se nei primi decenni della vita della Chiesa era diffusa l’idea di una «parusìa» imminente, l’allontanarsi dell’idea della fine metteva necessariamente i cristiani di fronte al problema con la politica romana. Su questo terreno i discepoli di Gesù avevano in effetti una indicazione fondamentale del maestro: il famoso «Date a Cesare…», cioè la risposta che Gesù aveva dato ai suoi avversari sulla questione del tributo. Si trattava del tributum capitis, la tassa personale (testatico) che dopo la riduzione della Giudea a provincia romana nel 6 d.C. ogni abitante della regione doveva pagare all’imperatore in segno di sottomissione. Pagandola si poteva passare per collaborazionisti dei romani, snobbandola si poteva apparire come sovversivi alla stregua di Giuda il Galileo. Il problema era religioso e politico insieme. In gioco c’era, infatti, la “signoria di Dio”, cioè la possibilità che accanto a Dio ci fossero dei “padroni” mortali. Per
questo vengono mandati a Gesù i farisei e gli erodiani, che erano i gelosi custodi dei doveri religiosi e politici. Ma qual è il senso esatto della risposta di Gesù? Di solito la si spiega come una distinzione di principio tra politica e religione, tra Stato e Chiesa, una sorta di affermazione di “neutralità”: a Cesare le cose di Cesare, a Dio le cose di Dio. In realtà questa spiegazione non è del tutto errata, ma nemmeno del tutto esatta. Gesù non è interessato a risolvere la questione di principio dei rapporti tra politica e religione o dei doveri del credente rispetto al potere, ma la questione concreta del pagamento del tributo. Per questo egli dice: «Quel che è di Cesare datelo (pure) a Cesare, e (= ma) quel che è di Dio datelo a Dio». Il tributo lo si dia pure a Cesare, purché vengano rispettati i diritti di Dio. E i diritti di Dio riguardano l’uomo e il suo destino di salvezza. È questo il passaggio fondamentale: tributi e imposte spettano a Cesare, ma l’uomo appartiene soltanto a Dio. Onore quindi a Cesare in quanto Cesare, ma venerazione soltanto a Dio. Questa non è semplice “neutralità”, ma il rifiuto drastico della teocrazia giudaica e romana, e più precisamente una recisa «secolarizzazione» dell’autorità politica e una altrettanto recisa «spiritualizzazione» della signoria di Dio. Il potere dell’imperatore non ha alcun carattere sacro e, nello stesso tempo, la venuta del Regno di Dio non porta con sé il dover prendere le armi contro i “padroni” romani da parte dei Giudei. Questa affermazione resterà a base di tutto il successivo pensiero cristiano sul potere politico, anche se già con Paolo di Tarso, riceverà ulteriori e importanti sviluppi. In lui, infatti, sono visibili due atteggiamenti apparentemente contraddittori nei confronti del potere imperiale romano, che esprimono in realtà il carattere paradossale della nuova religione: da un lato c’è l’affermazione della lealtà dei cristiani nei confronti del potere politico: «Ogni persona si sottometta alle autorità superiori…» (Romani 13, 1-7 e 1 Pietro 2, 13-17 di chiara intonazione paolina). Per Paolo bisogna obbedire, anzi “sottomettersi” alle autorità, perché tutte le autorità che esistono sono ordinate da Dio, cioè fanno parte di un “ordine” voluto da Dio. Chiaramente il suo intento è quello di trovare un fondamento “teologico” al potere politico, per contrastare una possibile “deriva anarchica” dei cristiani; dall’altra c’è l’affermazione che la libertà del cristiano non gli è data dalla partecipazione alla vita politica, dalla sua cittadinanza terrena, ma dall’appartenenza al Cristo Signore e quindi dalla sua cittadinanza celeste. È l’affermazione di Filippesi 3, 20: «La nostra cittadinanza è però nei cieli…». Tutte le successive forme di «obiezione di coscienza» dei cristiani nei confronti dell’impero romano trovano qui il loro vero fondamento. Quell’affermazione è allora fondamentale per capire i motivi profondi delle persecuzioni imperiali contro i cristiani, a cominciare da quelle di Nerone e di Domiziano. C’è subito da dire che nei primi trent’anni di storia del Cristianesimo non ci sono ostilità da parte del potere imperiale. La persecuzione scoppia improvvisamente con Nerone nel 64 d.C., il quale, come racconta Tacito (XV libro degli Annali) fece condannare a morte un gran numero di cristiani, accusandoli di essere gli autori dell’incendio di Roma. Lo stesso narra Svetonio nella Vita di Nerone. Ma perché proprio loro? Certo non erano responsabili dell’incendio, come fa chiaramente intendere Tacito nella sua opera. Tuttavia egli annota che i cristiani erano odiati per i crimini che si attribuivano loro e, in particolare, per l’odio per il genere 2
umano, cioè il loro tentativo di isolarsi dalla società imperiale, il loro estraniarsi dalla vita pubblica. Più difficile è l’interpretazione della persecuzione di Domiziano del 95 d.C. Probabilmente, più che contro i cristiani, egli la scatenò contro tutti gli oppositori del regime imperiale, coinvolgendovi anche alcuni cristiani, tra cui Flavia Domitilla, donna influente a corte e la sua famiglia. A partire, poi, dall’inizio del secondo secolo dopo Cristo sembra delinearsi una prima forma di reazione organica del pensiero pagano nei confronti del Cristianesimo. Non ci sono soltanto le accuse infamanti di un’opinione pubblica rozza e poco informata che stravolge i dati della fede cristiana (i rapporti “edipici” e le cene “tiestee”), ma le voci degli uomini più rappresentativi dell’epoca a levarsi contro i cristiani. Le critiche di questi autori contro la nuova religione sono sostanzialmente di due tipi: a) quelle di carattere filosofico religioso e b) di carattere religioso-sociale. Le prime sono sollevate da Epitteto, Luciano di Samosàta e dal medico-filosofo Galeno. Tutti e tre questi autori criticano i cristiani per il loro atteggiamento nei confronti della morte: per Epitteto l’atteggiamento dei cristiani di fronte alla mortemartirio è dettato dall’incoscienza (come per i bambini e i pazzi); per Luciano di Samosàta “questi sciagurati credono di essere immortali, perciò disprezzano la morte e le vanno incontro volentieri”; per Galeno, che pure apprezza la vita morale dei cristiani, la critica trova giustificazione per il fatto che essi più che sulla ragione fondano le loro scelte sulla credulità, non sulla saggezza. Le seconde sono, invece, sollevate da Plinio il Giovane, da Tacito e da Svetonio. Plinio il Giovane, governatore in Bitinia, scrive a Traiano nel 112 per chiedergli come deve comportarsi di fronte al numero crescente di denunce che gli vengono presentate nei confronti dei cristiani. Non avendo mai preso parte a un processo contro di loro, egli non sa per quale reato e con quale pena debbano essere puniti. Ma si dice sicuro che con un’accorta politica il contagio possa essere fermato. Tacito, lo abbiamo già notato, è convinto che il coinvolgimento dei cristiani nell’incendio di Roma è solo strumentale, tuttavia ritiene che essi siano meritevoli di una punizione esemplare. Svetonio, più semplicemente, ricorda che Nerone ha mandato al supplizio i cristiani. Ma quali sono i loro giudizi sui cristiani? Tutti e tre giudicano il Cristianesimo «superstizione» (“superstitionem pravam, immodicam”: Plinio; “exitiabilis superstitio”: Tacito; “genus hominum superstitionis novae ac maleficae”: Svetonio). Per loro il Cristianesimo è una religione straniera, e per di più orientale, che ha il carattere eccessivo, fanatico di tutte le religioni orientali. I cristiani rivelano una mancanza di ragionevolezza e di moderazione, una forma di ostinazione, di fanatismo; essi addirittura mostrano odio nei confronti di tutto il resto della popolazione, forse si dedicano anche ad arti magiche e la loro tradizione è del tutto infondata, senza radici. Se queste sono state le accuse infamanti sia da parte “filosofico-religiosa” che da parte “religioso-sociale”, resta però da analizzare quale sia stato il fondamento giuridi-
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co delle persecuzioni, cioè il “che cosa” abbia reso “illecito” il Cristianesimo. Ci sono in questo contesto tre interpretazioni, con tre ipotesi: a) l’esistenza di una Legge speciale che proibiva l’esercizio della religione cristiana, un generale «non licet esse christianos», come ricorda Tertulliano, che parla di un «istitutum neronianum» contro i cristiani; b) l’ordinamento penale generale romano, che puniva crimini e reati comuni, di cui erano accusati gli stessi cristiani, processati e condannati per questo e non perché cristiani; c) l’esistenza di un potere di coercizione dei governatori romani per tenere a bada le province. Non quindi una legge, né speciale, né ordinaria, ma misure amministrative per mantenere l’ordine pubblico, messo in pericolo dal rifiuto dei cristiani di riconoscere la religio romana e la majestas imperiale. Probabilmente una risposta è possibile tenendo conto di tutte e tre le ipotesi presentate. «I cristiani erano oggetto senza dubbio di una forte animosità da parte della opinione pubblica romana. Il loro allontanamento dalla tradizione dei padri, il loro disprezzo degli dèi romani e il loro rifiuto del culto imperiale apparivano infatti come un’apostasia della res publica e non poteva quindi essere tollerata. Con questi atteggiamenti i cristiani si mostravano infatti, come dice Tertulliano, “nemici dello Stato” (“hostes rei publicae”). Abbandono del mos maiorum, rifiuto degli dèi nazionali e disprezzo dell’autorità imperiale erano quindi colpe implicite nell’essere cristiani, in qualche modo dunque flagitia cohaerentia nomini (come dice Plinio), dei quali l’opinione pubblica reclamava la condanna» (G. Iossa, op. cit., p. 86).
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La «difesa» dei cristiani
I cristiani conoscono dunque negli anni di Traiano e Adriano (98-138) e ancora in quelli di Antonino Pio (138-161) un periodo di gravi difficoltà, anche se la repressione più dura si avrà al tempo di Marco Aurelio (161-181). Essi, tuttavia, sentono ormai il bisogno di confrontarsi con la civiltà romanoellenistica, cercando di difendersi dalle accuse più gravi che vengono loro mosse e fornendo un’esposizione sintetica del proprio modo di vivere e delle proprie convinzioni. È da qui che nasce la Letteratura apologetica greca e latina, a partire dal periodo detto comunemente dei Padri apostolici. Ciò che informa queste opere è la preoccupazione di natura liturgica, morale e disciplinare, che ci permette di conoscere lo sviluppo del pensiero cristiano in quest’epoca. I primi testi di notevole interesse sono: «La Didachè, scritta probabilmente verso la fine del primo secolo, fornisce per esempio notizie preziose sulle prime celebrazioni liturgiche (sull’eucaristia in particolare) delle comunità siro-palestinesi, sulla ispirazione squisitamente giudaica della loro vita morale (le cosiddette “due vie” di comportamento umano e su taluni aspetti singolari della loro organizzazione interna (la presenza perdurante di profeti itineranti). La 1 Lettera di Clemente ai Corinzi, scritta dal “vescovo” di Roma subito dopo la “persecuzione” di Domiziano per ricondurre la comunità di Corinto alla “pace” (eiréne) e alla “concordia” (homónoia), è testimonianza significativa di un primo 4
emergere della chiesa di Roma tra le chiese dell’epoca e di una prima penetrazione di elementi stoici nel pensiero cristiano. Le lettere di Ignazio, scritte dal vescovo di Antiochia durante il viaggio che lo potava a Roma per subirvi il martirio, ci fanno conoscere la presenza nelle chiese dell’Asia minore (e forse anche in quella di Antiochia) di cristiani che negano la passione e risurrezione di Cristo (i cosiddetti “doceti”) e ci rivelano una struttura gerarchica di queste chiese che è già costituita di vescovi, presbìteri e diaconi. La Lettera di Barnaba, probabilmente dell’epoca di Adriano (130 circa) e secondo alcuni (ma è tutt’altro che certo) di origine alessandrina, è il primo tentativo di definire l’identità del Cristianesimo attraverso una interpretazione polemica del giudaismo che è una decisa presa di distanza dalle sue istituzioni e dalla sua interpretazione. E il Pastore di Erma, scritto a Roma probabilmente sotto Antonino Pio, ha un notevole interesse sia perché testimonia una ripresa di modelli apocalittici della tradizione giudaica, prima di quella del movimento montanista negli anni Settanta, sia perché contiene un invito pressante alla comunità di Roma perché faccia una seconda (e ultima) penitenza, dopo quella del battesimo. Ma nel complesso quella dei Padri apostolici è una letteratura minore, senza alcuna pretesa culturale e senza alcuna preoccupazione letteraria» (Ivi, p. 90). Con i Padri apologisti, poi, la situazione muta radicalmente. Costoro, cristiani di una discreta formazione culturale, non si rivolgono più soltanto ai fratelli nella fede per ammonire, esortare, istruire, ma si confrontano con il mondo pagano, sia per difendere i cristiani dalle accuse più pericolose, sia per esporre gli aspetti principali della nuova religione. E gli apologisti perseguono naturalmente questo duplice scopo in maniera diversa, secondo la diversa formazione e la diversa sensibilità di ciascuno. In generale si può dire che i padri greci (Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo) sono più attenti agli aspetti culturali del confronto, mentre gli scrittori latini sono molto più sensibili agli aspetti politici e giuridici della questione cristiana. Non è necessario qui, per la nostra ricerca, ricordare le singole figure dei diversi apologisti in maniera approfondita, ma segnalare, invece, alcuni aspetti caratteristici della loro riflessione. Per esempio l’Apologia di Aristide non è altro che una lunga polemica contro la divinizzazione degli elementi della natura e contro le credenze politeiste dei pagani. I cristiani diventano per lui un “terzo popolo” tra greci e giudei. Ben altra tempra ha Giustino, il palestinese che arriva al Cristianesimo dopo un lungo itinerario intellettuale tra stoici, peripatetici, pitagorici e platonici. Il Cristianesimo è per lui il compimento della filosofia greca, il punto di arrivo di una lunga storia dell’umanità. Esso partecipa in maniera eminente al «Logos» ed è perciò una religione squisitamente razionale. Ma proprio un suo discepolo, Taziano nel suo Discorso ai greci, condanna senza riserve il mondo filosofico classico, dichiarando che in esso tutto gronda di immoralità e contraddizione. Una cosa, però, va sottolineata: ormai il dialogo è incominciato da parte dei cristiani con la cultura dell’epoca, così da preparare quel grande fenomeno che sarà poi l’inculturazione del Cristianesimo attraverso la Patristica classica. Ma, oltre al contatto col mondo ellenistico greco-romano, il Cristianesimo deve fare i conti nel secondo secolo ancora con due grandi problemi: il giudaismo e lo gnosticismo. 5
Con il giudaismo, da cui era nato, come abbiamo già visto, il Cristianesimo non aveva ancora fatto definitivamente i conti, anzi si può ben dire che per tutto il secondo secolo la storia della Chiesa appare dominata dal problema del Giudaismo e della Scrittura. E tuttavia il problema più grosso non è costituito da quei cristiani che restano fedeli alle tradizioni e alle prescrizioni giudaiche, ma da quei cristiani che contestano in maniera radicale il giudaismo. Un preannuncio di questa posizione è dato dalla Lettera di Barnaba, redatta verso il 130 d.C., dove per la prima volta il Cristianesimo cerca di definire la propria identità attraverso una valutazione complessiva della religione giudaica, che è in realtà una quasi totale condanna. L’autore, che forse viene da Alessandria d’Egitto, non attribuisce alcun valore alle istituzioni dell’Antico Testamento, che vanno interpretate in maniera allegorica. Solo il diavolo può aver spinto i Giudei a interpretare in senso letterale le prescrizioni della Legge. Ma è Marcione colui che porta alle estreme conseguenze l’antagonismo contro il giudaismo e il Vecchio Testamento. Combattuto vivacemente in Asia da Papia di Geropoli e da Policarpo di Smirne, Marcione giunge a Roma verso il 140 d.C. ed entra nella comunità cristiana locale, beneficandola con una ingentissima somma (Tertulliano parla di 200.000 sesterzi). Ma quattro anni dopo fu espulso dalla comunità di Roma e così egli fondò una sua chiesa separata, che si contrappose a quella “ortodossa”. L’interpretazione del pensiero di Marcione non è facile. Le sue opere sono andate quasi totalmente distrutte, coinvolte con quelle degli gnostici, nella condanna della Chiesa ufficiale. «L’idea centrale del pensiero di Marcione sembra essere comunque quella del contrasto insanabile tra la legge di Mosè, che esige la giustizia, e il vangelo di Gesù che proclama la grazia, tra i libri che costituiscono la Scrittura dei giudei e quelli che dovrebbero costituire la Scrittura dei cristiani, anzi tra il Dio stesso dei giudei, creatore e giusto, e il Dio dei cristiani, salvatore e buono. Per questo egli aveva raccolto in un suo libro perduto tutte le Antitesi che si possono ravvisare tra la legge giudaica e il vangelo cristiano. Il dio dei giudei non è infatti per Marcione il Dio supremo, di bontà e misericordia, ma un dio inferiore, artefice (demiurgo) di questo mondo materiale e malvagio e dispensatore della Legge severa e crudele. Il vero Dio è rimasto sconosciuto fino alla venuta di Cristo. Questi è infatti il Salvatore mandato dal Dio buono che ne rivela finalmente la vera natura e libera definitivamente dalla Legge. Anch’egli è totalmente estraneo a questo mondo materiale. Venendo infatti nel mondo, egli è venuto in una realtà “straniera”. E anche quando si è manifestato agli uomini non ha fatto sue le realtà mondane. Il corpo di Cristo, la sua “incarnazione”, è infatti soltanto apparente. E la sua morte in croce, voluta dal creatore ma assolutamente non prevista dall’Antico Testamento, non fa che ribadire la condanna del mondo. Sono queste le affermazioni principali di Marcione, che ne caratterizzano in maniera essenziale il pensiero teologico; ma accanto ad esse vi sono affermazioni altrettanto decise e significative sul piano morale, che non hanno mancato di esercitare un loro fascino. Da queste premesse sulla origine del mondo e sulla natura della realtà materiale, da questa rivolta radicale contro la creazione, deriva infatti l’esigenza marcionita di una rigorosa continenza, ascesi sessuale, che neghi totalmente le opere del mondo e della carne.
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Ora l’unico autore che per Marcione ha compreso veramente questo contrasto insanabile tra legge giudaica e vangelo cristiano è stato Paolo. Sono i testi dell’apostolo (in particolare quelli dove con più forza è affermata la novità del vangelo rispetto alla Legge, e quindi non le più deboli Lettere pastorali a Timoteo e a Tito) che devono costituire perciò il nucleo essenziale della Scrittura cristiana. Ad essi possono essere aggiunti solo pochi altri testi (per esempio il Vangelo di Luca, che più degli altri, nel distanziarsi dal giudaismo, rivela un carattere “paolino”; anch’esso però opportunamente corretto sulla base dell’insegnamento genuino di Paolo)» (ivi, p. 98). Insieme a Marcione e alla sua lotta senza quartiere contro il Giudaismo, l’altro grande problema del Cristianesimo del secondo secolo fu il confronto con lo Gnosticismo (la Gnosi). Alcuni lo ritengono un fenomeno interno al Cristianesimo, un’eresia cristiana (A. von Harnack), altri un fenomeno della storia delle religioni, nato probabilmente in Oriente già prima di Cristo e diffusosi poi in Occidente penetrando anche nel Cristianesimo. Fino al 1945 gli studiosi conoscevano lo gnosticismo quasi esclusivamente dalle notizie e dagli estratti contenuti nelle confutazioni dei Padri della Chiesa Ireneo di Lione e Ippolito di Roma e dei cosiddetti “eresiologi”, come Tertulliano, Clemente, Epifanio, ecc. ecc. Ma nel 1945 fu scoperta a Nag Hammadi nell’Alto Egitto un’intera biblioteca gnostica (53 volumi) in lingua copta che dette la possibilità di conoscere lo gnosticismo in maniera più diretta. In realtà la loro interpretazione confermò ampiamente le notizie già contenute nelle opere di Ireneo (Adversus Haereses) e di Ippolito (Refutatio omnium haeresium). Questi testi, pubblicati tra il 1972 e il 1977, portano in italiano il titolo di Apocrifi del Nuovo Testamento e sono a tutt’oggi oggetto di un’indagine difficile e complicata. «Tratti essenziali della Gnosi, al di là delle numerosissime differenze fra le varie correnti (fra loro divergenti in vario modo), sono i seguenti. a) L’oggetto specifico della “conoscenza” gnostica è Dio e le cose ultimative concernenti la salvezza dell’uomo. Un testo basilare spiega, in modo riassuntivo, che la Gnosi riguarda: 1) chi eravamo e che cosa siamo divenuti, 2) dove eravamo e dove fummo gettati, 3) dove desideriamo andare e da dove siamo stati riscattati, 4) che cos’è la nascita e che cos’è la rinascita. b) Nell’esperienza dello Gnostico la tristezza e l’angoscia emergono come fondamentali, perché rivelano un impatto con il negativo e la conseguente presa di coscienza di una radicale scissione fra bene e male, e rivelano, altresì, la nostra vera identità, che consiste nell’appartenenza al bene originario: se l’uomo soffre il male, vuol dire che appartiene al bene. Dunque, l’uomo proviene da un altro mondo, e ad esso deve fare ritorno. Questo mondo è il nostro “esilio” e l’altro mondo è la nostra “patria”. In uno dei più significativi documenti gnostici si legge: “Chi ha conosciuto il mondo, ha trovato un cadavere; e il mondo non è degno di chi ha trovato un cadavere”. Lo Gnostico deve prendere coscienza di sé, e, conosciuto sé, attraverso sé, potrà ritornare alla patria originaria. In questo “ritorno” giova un ruolo essenziale il Salvatore (Cristo), che è uno degli “eoni” divini (cfr. sotto, i punti d-e). c) Gli Gnostici dividono gli uomini in tre categorie: 1) pneumatici, 2) psichici e 3) ilici. Nei primi predomina lo Spirito (Pneuma), nei secondi l’anima (psyché) e nei terzi la materia (hyle). Questi ultimi sono destinati alla morte, i primi alla salvezza,
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mentre i secondi hanno la possibilità di salvezza, se seguiranno le indicazioni dei primi, ossia degli eletti che sono in possesso della “Gnosi”. d) Questo mondo, che è male, non è stato fatto da Dio, ma da un Demiurgo malvagio. J. Doresse (uno degli studiosi contemporanei più competenti in materia) ritiene che l’essenza dello Gnosticismo sia espressa nelle seguenti parole di Plotino in maniera perfetta: gli Gnostici “sostengono che il Demiurgo di questo mondo è cattivo e che il cosmo è cattivo”. Si spiega, così, il fatto che il Dio del Vecchio Testamento, creatore di questo mondo, venisse identificato con questo “Demiurgo cattivo”, e che venisse contrapposto al Dio benigno del Vangelo, che ha invece mandato il Cristo salvatore; Cristo è un’entità divina, la quale è venuta sulla terra rivestita di un corpo solo apparente. (È un’idea questa che, come i veri Cristiani tosto rilevarono, vanificava la passione, la morte e la risurrezione di Cristo, e comportava molte e gravi conseguenze derivanti per necessità logica da queste premesse). L’interpretazione allegorica dei testi sacri permetteva agli Gnostici di piegarli a tutte le loro esigenze e di farli combaciare con le loro dottrine. e) Il sistema gnostico si complica particolarmente là dove tenta di spiegare la derivazione di tutta la realtà intelligibile dall’unità primordiale attraverso una serie di “eoni” (entità eterne) che emanano a coppie (Cristo sarebbe, secondo alcuni, l’ultimo eone), e la derivazione stessa dell’uomo. A questo riguardo, il pensiero gnostico risulta ulteriormente complicato dall’intervento di narrazioni mitologiche e fantastiche di vario genere e di varia genesi. f) La dottrina gnostica si presenta come dottrina segreta, rivelata da Cristo a pochi discepoli, ed è rivolta specie ai ceti colti e raffinati, e, quindi, ha carattere aristocratico, in antitesi con l’autentico spirito evangelico. I Vangeli gnostici si presentano, appunto, come i documenti di questa “rivelazione segreta”. Fra i sostenitori di dottrine gnostiche ricordiamo: Carpocrate e il figlio Epifane, Basilide e il figlio Isidoro, e, soprattutto, Valentino, che ebbe molti seguaci. I Padri trovarono (e a giusta ragione) nelle dottrine gnostiche un ginepraio di dottrine eretiche. Ma le loro insistenti polemiche dimostrano la forte presa sugli animi che il movimento dovette avere nell’antichità. In effetti, in quell’età che vedeva un mondo spirituale perire e un altro sorgere, e che proprio per questo fu un’età dominata dall’angoscia, gli Gnostici davano (forse più di altre dottrine filosofiche) un senso a questa angoscia, e, quindi, erano in sintonia con un certo modo di sentire che era proprio di quei tempi. In uno dei documenti scoperti a Nag Hammadi si legge: “L’ignoranza del Padre aveva causato angoscia e terrore. L’angoscia si era fatta densa come nebbia, in modo che nessuno potesse vedere…”. La materialità stessa e la corporeità, come sappiamo da altra fonte, costituivano per essi esperienza di “terrore, dolore, mancanza di via d’uscita”. Ma il messaggio gnostico, per quanto potesse rispondere a precise istanze di quell’epoca, si rivelò fragile e senza futuro» (G. Reale, Il pensiero occidentale, vol. 1°, La Scuola, BS, pp. 310-311). È con il diffondersi della letteratura apocrifa che di per sé non vuol dire né eretica, né falsa, ma semplicemente non-canonica, cioè non scelta dalla tradizione delle Chiese, che si impone la raccolta di un corpus di testi da considerarsi normativi. Più che la decisione della gerarchia ecclesiastica, sono i testi stessi, che appaiono testimoni scelti di quella tradizione, che si impongono progressivamente alla fede della Chiesa. Alla fine del secondo secolo due testimonianze si impongono: l’elenco di Ireneo di 8
Lione (180-190) e un testo frammentario scoperto nel 1740 alla Biblioteca Ambrosiana passato sotto il nome di Frammento Muratoriano (in G. Iossa, op. cit., pp. 109-110).
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APPENDICE I
I cristiani nel mondo Di tutta la letteratura apologetica questa «Lettera a Diogneto» è certamente uno dei passi più brillanti e letterariamente di maggior pregio. Rappresenta una esposizione sintetica, ma estremamente vibrante della visione del mondo dei cristiani; è una voce singola, però riflette ed esprime in modo esemplare il modo comune dei cristiani di allora di porsi di fronte alla vita. Con questo scritto il cristianesimo nascente ha raggiunto ormai una matura consapevolezza di sé e si può mostrare al mondo con un preciso volto ed una sicura collocazione. Non è più una piccola setta giudaica o uno dei tanti culti più o meno orientaleggianti che invadono l’impero romano, affascinando per un attimo gli spiriti del tempo, ma si presenta come una religione universale, che richiede un’adesione ed un impegno totale da parte di chi la vuole abbracciare. Poiché i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese, né per la lingua, né per le fogge del vestire. Non abitano infatti città loro proprie, non si servono di un linguaggio particolare, il loro tipo di vita non ha nulla di singolare. Non è all’immaginazione o alla riflessione di spiriti irrequieti che la loro dottrina deve la sua scoperta; non si fanno, come tanti altri, i campioni di una dottrina umana. Abitano in città greche e barbare, come a ciascuno è toccato in sorte; si conformano agli usi locali nella foggia del vestire, nel cibo e nel modo di vivere, pur mostrando le leggi straordinarie e veramente paradossali della loro repubblica (spirituale). Risiedono ciascuno nella sua propria patria, ma come stranieri domiciliati; partecipano di tutti i loro doveri di cittadini e sopportano tutto come stranieri. Ogni terra straniera è una patria per loro e ogni patria è una terra straniera. Si sposano come tutti ed hanno figli, ma non abbandonano i loro neonati. Hanno comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite e il loro tenore di vita sopravanza in perfezione le leggi stesse. Amano tutti gli uomini e tutti li perseguitano. Non li si conosce e li si condanna; li si mette a morte e per questo stesso guadagnano la vita. Sono poveri e fanno ricchi molti; mancano di tutto e sovrabbondano in ogni cosa. Li si disprezzi e in questo disprezzo trovano la loro gloria; li si calunnia e (proprio per questo) sono resi giusti. Li si insulta ed essi benedicono. Li si oltraggia ed essi onorano. Pur facendo solo del bene, sono puniti come dei malfattori; puniti, gioiscono come se nascessero alla vita. I Giudei fanno loro guerra come a gente straniera; sono perseguitati dai Greci e quelli che li detestano non sanno dire il motivo del loro odio. Per dirla in una parola, ciò che l’anima è nel corpo i cristiani lo sono nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo come i cristiani nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo e tuttavia non è del corpo, come i cristiani abitano nel mondo ma non sono del mondo. Invisibile, l’anima è tenuta prigioniera in un corpo visibile: così i cristiani lo si vede bene che sono nel mondo, ma il culto che rendono a Dio rimane invisibile. La carne detesta l’anima e le fa guerra, senza averne ricevuto torto alcuno, ma solo perché le impedisce di godere dei piaceri: allo stesso modo il mondo detesta i cristiani, che non gli fanno torto alcuno, per il fatto che si oppongono ai suoi piaceri. L’anima ama questa carne che la detesta, e le sue membra, come i cristiani amano quelli che li detestano. L’anima è racchiusa nel corpo: è tuttavia lei che mantiene il corpo; i cristiani sono come detenuti nella prigione del mondo: sono tuttavia loro che mantengono il mondo. Immortale, l’anima abita una tenda mortale: così i cristiani dimorano come stranieri nel corruttibile in attesa dell’incorruttibilità celeste. L’anima diventa migliore, mortificandosi con la fame e con la sete: perseguitati, i cristiani di giorno in giorno si moltiplicano sempre più. Così nobile è il posto che Dio ha assegnato loro, che non è permesso loro di disertare (lett. abbandonarlo).
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4°
incontro
Canova, 18 aprile 2008 don Marcello Farina
La vita dei cristiani nel terzo secolo dopo Cristo 1)
L’«eredità» del secondo secolo dopo Cristo
Il secondo secolo di vita della comunità cristiana si chiudeva in un’atmosfera ancora altamente conflittuale, sia dal punto di vista “politico” che “dottrinale”. La persecuzione di Marco Aurelio (dal 165 al 180 d.C.), l’imperatore saggio e filosofo, portò con sé la morte a Roma di Giustino e dei suoi compagni, il martirio di Policarpo di Smirne, e di altri vescovi dell’Asia, il massacro dei martiri di Lione e la condanna di quelli di Scilli, presso Cartagine. La reazione dei cristiani a questa persecuzione fu duplice: si intensificarono, di nuovo, gli scritti apologetici, per convincere le autorità dell’assoluta lealtà dei cristiani nei confronti del potere imperiale (l’Apologia di Melitone di Sardi, la Supplica di Atenagora di Atene e la anonima Lettera a Diogneto, già citata) e, insieme, emersero nuove forme di spiritualità, che in un modo o nell’altro appaiono segnate dal difficile momento che attraversano i rapporti dei cristiani con il mondo e con l’impero. Sono, in particolare, gli Atti dei martiri a spiegare la spiritualità del martirio, vissuto come evento di salvezza, un dono di grazia, una liturgia sacra. Nascono movimenti nuovi, come quello degli “encratiti”, che predica la “riserva escatologica” nei confronti di questo mondo, arrivando a coltivare uno stile di vita di fuga dal mondo e di disprezzo per il corpo (encratiti = “continenti”), o come quello dei “montanisti” - da Montano, il profeta frigio che insieme a due donne, Priscilla e Massimilla, presenta una “nuova profezia” della fine imminente del mondo e invita i suoi seguaci a riunirsi in un luogo particolare (la valle di Pepuza) nell’attesa di questa fine. Ma al di là dell’elemento escatologico, il montanismo si presentava come una protesta spirituale nei confronti di una Chiesa che veniva progressivamente istituziona-
lizzandosi e sembrava troppo incline ad assumere atteggiamenti di “compromesso” con il mondo. Dal punto di vista più strettamente dottrinale lo scontro con i cristiani è tenuto vivo da un intellettuale pagano, Celso, di cui non si conosce pressoché nulla, ma che ha dedicato un intero libro alla polemica contro i cristiani: la Vera dottrina (Alethès logos). Il suo approccio è davvero sconcertante: «giudei e cristiani sono paragonabili a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana o a rane… o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso…». L’incarnazione, la figura di Cristo (un povero ignorante, «nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata… scacciata dal marito, di professione carpentiere, con comprovato adulterio…), i discepoli, ancora peggiori di lui (uomini screditati, pubblicani e marinai dei più miserabili) stanno a testimoniare la negatività del Cristianesimo, i cui seguaci appaiono come un gruppo di sudditi senza alcuna dignità culturale e che si sottraggono ai loro doveri civici, mettendosi contro l’impero.
2)
Ireneo di Lione
Tra la fine del secondo secolo e gli inizi del terzo, si assiste a uno sforzo poderoso da parte della Chiesa di darsi un assetto dottrinale e organizzativo più definito contro tutte le forze centrifughe e disgregatrici della sua unità. Ne fa fede la discussione sulla Pasqua cristiana, che sostituisce completamente la pasqua giudaica; la lotta contro i montanisti, che fa comprendere la necessità di riunire assemblee, sinodi di Chiese vicine, per discutere apertamente (un momento di grande importanza per i successivi sviluppi “conciliari” della organizzazione ecclesiastica); e lo scontro con gli gnostici, con la creazione di un pensiero che portasse con sé la “cattolicizzazione” della Chiesa. L’uomo decisivo, in questi ultimi decenni del secondo secolo, è Ireneo di Lione con la sua opera in cinque libri Adversus haereses. Asiatico, di Smirne, egli arriva in Gallia dopo il 167 d.C. e assiste al massacro dei martiri di Lione. È Ireneo che ingaggia una battaglia senza quartiere contro gli gnostici, elaborando nel contempo quegli elementi teologici di carattere “istituzionale” (tradizione ecclesiastica, canone neotestamentario, poteri episcopali, primato romano) che costituiranno la base più solida della Chiesa cattolica. La teologia di Ireneo costituisce già per tutto questo il primo grande tentativo di sistemazione organica del pensiero cristiano. Per lui sono soprattutto i vescovi che custodiscono e garantiscono il deposito della dottrina, perché sono i vescovi che con la successione apostolica ne hanno ereditato il dono, il carisma, della verità. Ed è la prassi romana che da tutti i fedeli va comunque seguita, perché la Chiesa di Roma possiede un’antichità che rispetto alle altre è resa particolarmente eminente dalla sua provenienza da Pietro e Paolo (Ireneo offre qui indiscutibilmente la prima vera base teologica per le pretese di Roma a una giurisdizione sulle altre Chiese!). L’organizzazione ecclesiastica, e più in particolare la gerarchia ecclesiastica, conosce in effetti in questo periodo uno sviluppo decisivo: nelle Chiese si impone ormai definitivamente l’episcopato monarchico; i rapporti tra vescovi diventano sempre più frequenti e intensi; 2
si afferma l’esigenza di riunioni periodiche tra vescovi (e Chiese) vicini; il vescovo di Roma comincia ad esercitare nei fatti la sua autorità (per la sua potentior principalitas). Il primo fatto che ce lo testimonia è proprio la data della Pasqua, che papa Vittore, nel 190, stabilisce per tutti alla prima domenica dopo il 14 di Nisan (la pasqua ebraica), eliminando la pratica dei cosiddetti “quartodecimani”. L’iniziativa di Ireneo porta con sé, inoltre, altre grandi conseguenze, sia dottrinali che disciplinari, che possono essere riassunte in questo modo: Si consuma alla fine del secondo secolo la rottura definitiva col giudaismo, con uno strascico in cui è possibile individuare le radici teologiche dell’antisemitismo (sono interessanti le pagine del citato testo di G. Iossa, Il cristianesimo antico, pp. 137-143). La Traditio apostolica, attribuita ad Ippolito di Roma, all’inizio del terzo secolo, si dedica a rafforzare le strutture cultuali e organizzative della comunità cristiana: il catecumenato (con l’attenzione alle qualità morali del candidato al battesimo, alla sua formazione dottrinale, che deve durare un triennio; si migliora la liturgia del battesimo, accogliendo sia bambini che adulti); la celebrazione eucaristica (di cui si accentua l’aspetto sacrificale, così che il prete diventa “sacerdote” e si predispongono formulari eucaristici non ancora rigidi!). Cominciano a farsi importanti i dibattiti di argomento cristologico e trinitario (si sente cioè la necessità di definire con maggior precisione la natura di Cristo e il suo rapporto con Dio), con la diffusione di teorie “monarchiane” che professavano o “l’adozionismo” (Gesù viene adottato come figlio di Dio con il suo battesimo) o il “modalismo” (Dio Padre e il Figlio sono solo “modi”, forme della divinità). È questo anche il tempo di grandi figure di teologi, sia in Occidente – Ippolito romano e Tertulliano –, sia in Oriente – Clemente Alessandrino e Origene (anche per costoro si può vedere G. Iossa, op. cit., pp. 153-167). -
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La vita dei cristiani nella prima metà del terzo secolo
Non abbiamo, in verità, molte fonti. Però possiamo coglierne alcuni aspetti significativi. I cristiani non vivono né in ghetti, né in catacombe, eppure nella loro esistenza c’è qualcosa di “separato”. Partecipano alla vita delle città in cui abitano; eppure appaiono ancora per molti aspetti come “stranieri”. Ma in che cosa consiste questo carattere straordinario dell’esistenza cristiana? Possiamo cominciare dalla vita familiare e sessuale. Agli inizi del terzo secolo non c’è ancora una forma cristiana del matrimonio, i cristiani seguono i riti e le formule di quella romana, nella quale hanno eliminato gli eventuali riferimenti idolatrici. La celebrazione del matrimonio riceve tuttavia una sanzione religiosa particolare davanti alla comunità, con la benedizione del vescovo e le preghiere dei fedeli. Ma la “novità” è nel modo di concepire la vita familiare e sessuale. L’elemento caratterizzante è l’unità indissolubile di sessualità, procreazione e matrimonio. I rapporti sessuali sono finalizzati esclusivamente alla riproduzione e sono leciti solo all’interno del matrimonio.
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Il valore autonomo della sessualità non è quindi riconosciuto e anche l’aspetto affettivo dell’unione non viene particolarmente sottolineato. Matrimonio e famiglia hanno un carattere fortemente istituzionalizzato. «Nel suo scritto Ad uxorem Tertulliano ha parole molto belle sulla comunione di vita dei due coniugi, ma l’accento è posto decisamente sul comune assolvimento dei doveri religiosi: “Come potrò mai descrivere la felicità di quel matrimonio che la Chiesa ratifica, l’ostia eucaristica rafforza, la benedizione sigilla, gli angeli annunciano in cielo, il Padre approva? Anche sulla terra infatti i figli non si sposano senza il consenso paterno. Quale giogo è mai quello di due fedeli uniti in un’unica speranza, in un solo desiderio, in un unico rispetto, in un’unica servitù! Sono fratelli e collaboratori allo stesso tempo, nessuna differenza tra carne e spirito, ma veramente sono due in una sola carne. Dove la carne è una sola, uno solo è anche lo spirito: pregano insieme, insieme si inginocchiano, insieme digiunano, si ammaestrano l’un l’altro, si esortano l’un l’altro, l’un l’altro si confortano. Uguali nella Chiesa di Dio, uguali nel convito di Dio, uguali nelle persecuzioni, uguali nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno reca fastidio all’altro. Visitano liberamente i malati, danno sostentamento ai poveri. Le elemosine non procurano conflitti, le sacre funzioni non comportano scrupoli, le incombenze quotidiane non conoscono impedimenti; la croce non la si fa di nascosto, il saluto non causa trepidazione, la benedizione non la si deve fare in silenzio. Tra di loro risuonano salmi ed inni, fanno a gara a chi celebra meglio il Signore” (ad. ux. 8, 6-8; trad. Magazzù)» (G. Iossa, op. cit., p. 170). Questa è anche la ragione della profonda diffidenza verso il matrimonio con un pagano, perché esso mette in pericolo la stessa fede personale. Il matrimonio è dunque un’istituzione naturale cui la fede comunica una dignità particolare. Ma accanto e sopra il matrimonio i cristiani hanno posto la verginità; ed è questo che ha colpito particolarmente i pagani, abituati a una considerazione del tutto diversa della vita sessuale. Essa appare come “continenza per il regno dei cieli” in un mondo che rivela la provvisorietà di tutte le istituzioni umane, tra cui lo stesso matrimonio, considerato spesso come conseguenza del peccato originale, inteso a sua volta come peccato sessuale! Nelle relazioni familiari, poi, che comprendono non soltanto i rapporti tra marito e moglie, genitori e figli, ma anche quelli tra padroni e servi, i cristiani hanno condiviso interamente la concezione patriarcale della società antica, che abbiamo già visto accettata da loro anche nei rapporti con le autorità politiche. Non hanno contestato né l’autorità del marito sulla moglie, né quella del padrone sullo schiavo. L’invito più costante è alla “sottomissione”. Le mogli devono essere sottomesse ai mariti, gli schiavi ai padroni. E questo modello è rimasto sostanzialmente inalterato nei secoli successivi. La condizione della donna del tempo è stata fatta propria dai cristiani e la schiavitù non è stata messa in discussione. Certo, da un altro lato questi rapporti, anche se ribaditi, vengono, per così dire, “trasformati” e non soltanto per l’affermazione decisa dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio (Galati 3, 28: “Non c’è più giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è uomo né donna”), ma anche perché appaiono fondati non tanto nella Legge, ma “in Cristo” (Colossesi 3, 18: “Don-
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ne, siate sottomesse ai vostri mariti… nel Signore”; Efesini 6, 5: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni… come al Signore”). «Le donne non sono ammesse al sacerdozio e dopo i primi tempi anche l’attività profetica, di ammaestramento, è riservata sempre più esclusivamente agli uomini, salvo il diverso orientamento dei primi montanisti; ma prestano servizio come “diaconesse”. Ed esistono “ordini” di vedove e di vergini che svolgono compiti di carattere religioso. In una Chiesa che nei primi due secoli della sua vita si recluta ancora largamente dagli strati più bassi della società, gli schiavi hanno avuto d’altra parte un ruolo assai notevole, non soltanto testimoniando in maniera esemplare la loro fede, fino al martirio (Blandina negli Atti dei martiri di Lione, Felicita nella Passio Perpetuae), ma anche assumendo le funzioni più elevate nella comunità, sino all’episcopato. Uno schiavo era Callisto, giunto, a detta di Ippolito, all’episcopato dopo una vita estremamente avventurosa. La comunità cristiana non mette dunque in discussione le istituzioni della società civile ma le svuota dall’interno, vivendole nel suo seno in maniera nuova. È un modello alternativo concreto di comunità, anche se i princìpi su cui si basa la società civile non vengono in alcun modo contestati» (G. Iossa, op. cit., p. 172). Gli scrittori cristiani e pagani concordano ancora nel mettere in risalto la moralità particolare dei singoli credenti e i loro legami profondi che sussistono all’interno della comunità. Professioni immorali come quelle dei lenoni, delle prostitute, degli attori, degli esattori, degli aurighi, dei gladiatori, degli astrologi e dei maghi sono ritenute incompatibili con la fede cristiana. Più problematica è la posizione degli insegnanti e dei militari, che hanno obblighi nei confronti dell’istituzione pubblica; la loro professione viene sconsigliata. «Il quadro però non è sempre così roseo. Abbiamo già visto sopra che dalla fine del secondo secolo la Chiesa di Roma sembra essere entrata in un vistoso processo di secolarizzazione. Ippolito avrà certamente esagerato accusando Callisto di favorire l’adulterio e l’aborto. Ma, riammettendo gli adulteri pentiti nella Chiesa, consentendo ai preti di sposarsi dopo la consacrazione e riconoscendo valide le unioni delle donne senatorie con i liberti, il vescovo di Roma prendeva atto evidentemente di una situazione morale della comunità nella quale si era molto attenuato il rigore primitivo. Di fronte al costante allargamento della sua base sociale, la Chiesa non poteva pretendere di rimanere quella comunità di santi che voleva Ippolito. Piuttosto essa era veramente quel campo di grano nel quale cresce anche la zizzania, quell’arca di Noè dove sono animali puri e impuri, di cui parlavano le Scritture. E una situazione analoga doveva esserci anche a Cartagine. Certo Tertulliano è, come ho detto, un rigorista e un intransigente. E non soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando diventa montanista, ma già prima. Su certi problemi, ad esempio proprio sulla valutazione del matrimonio e della verginità, non c’è in lui un grande cambiamento dall’Ad uxorem al De exhortatione castitatis al De monogamia. Non è quindi sui suoi parametri che dobbiamo misurare la situazione morale della comunità cristiana. Ma la sua intransigenza è comunque il segno evidente che la moralità della sua chiesa non aveva più quel carattere eroico che egli avrebbe desiderato. Se egli scrive sulle uniche nozze, sulla eleganza delle donne e sulla fuga nella persecuzione, è perché i vedovi spesso si risposavano, le donne curavano la loro bellezza, nelle persecuzioni molti fuggivano. Persino il rischio dell’idolatria non sempre veniva evitato. E i pastori, come a Roma, evidentemente chiudevano un occhio» (G. Iossa, op. cit., p. 173). 5
In questo contesto vale la pena di riferire anche il dibattito sulla disciplina penitenziale nella Chiesa antica. Come si è già visto la Chiesa, quale “comunità di santi”, esigeva dai suoi membri un alto tenore di vita morale. «Il sigillo battesimale, già in vista del prossimo atteso ritorno del Signore, doveva essere conservato “sacro e inviolabile” (II Clem. 6, 9; 8, 6). Ne seguiva una grande severità verso i peccatori, anche se solo alcuni vescovi isolati della fine del 2° secolo punivano nel loro rigorismo con l’esclusione perpetua dalla Chiesa i cosiddetti peccati capitali (peccata capitalia, mortalia), cioè soprattutto l’idolatria, ossia la negazione della fede (idolatria), l’assassinio e la lussuria (adulterium e fornicatio). Anche i rei di peccati gravi erano ammessi fin da principio a fare penitenza e, dopo che l’avevano fatta, si concedevano loro il perdono e la riammissione alla Chiesa. Mentre verso il 140 il “Pastore” di Erma predicava ai Romani (cfr. § 38, B 1) la penitenza ecclesiastica come ultimo mezzo di grazia concesso per il tempo presente, finché non è completato l’edificio della Chiesa, Ireneo di Lione e Clemente di Alessandria consideravano senza restrizioni la penitenza come secondo mezzo di salvezza, dopo il battesimo. Secondo ogni apparenza, Tertulliano nel suo scritto premontanista “De poenitentia” ammette il perdono della Chiesa, almeno sul letto di morte. L’intercessione di martiri e confessori o il rilascio di una lettera di pace (libellus pacis) per un rinnegato che si pentiva, accelerava in generale l’assoluzione e la riassunzione nella Chiesa. Del resto, data la tradizione lacunosa e poco chiara, non si può seguire con certezza l’evoluzione della disciplina penitenziale fino al 3° secolo; a quanto pare non fu dappertutto uniforme, ma si ebbero diversità e oscillazioni locali e provinciali. Così nell’Africa, dove si sentiva forte l’influsso montanista (cfr. § 34, 2) si procedeva con maggior rigore che a Roma (Cipr. Ep. 55, 21). Lo stesso Cipriano di Cartagine si adattò un po’ alla volta a usare maggiore clemenza. Non si può dimostrare che martiri e confessori laici avessero il diritto di dare per conto proprio la pace ai peccatori e di condonare la penitenza. La loro voce aveva certamente un peso notevole, ma per quanto riguarda la loro intercessione, essa doveva venire regolarmente ratificata dal vescovo. Nel corso del 3° secolo l’influsso del rigorismo si fece sentire più volte. Papa Callisto (217-220) fu accusato dal suo rivale all’episcopato, il dotto presbitero Ippolito, che si eresse perfino ad antipapa, di lassismo, perché avrebbe rimesso i peccati a tutti (senza penitenza). Nello stesso tempo Tertulliano, dopo la sua adesione ai montanisti, nello scritto “De pudicitia”, esagerò tanto il rigore da escludere il peccato d’impudicizia dalla possibilità di remissione. Probabilmente fu lui a introdurre per primo anche il concetto del peccato non remissibile come pure la triade dei peccati capitali. Mancando una tradizione ben definita, scoppiarono a distanza di una generazione nuovi torbidi provocati dal problema della riammissione degli apostati. I sinodi di Roma sotto papa Cornelio (251-53) e di Cartagine decisero di ammetterli non solo in caso di pericolo di morte, ma anche per principio, dopo averli sottoposti a una penitenza di lunga durata. Ma più tardi il presbitero Novaziano, che in un primo tempo si era pronunziato solo in favore del mantenimento della antiqua severitas contro un’ammissione affretta-
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ta degli apostati, in seguito alla mancata sua elezione a pontefice, passò all’opposizione più accanita contro papa Cornelio e la prassi penitenziale da lui praticata. Nello stesso tempo a Cartagine Cipriano, che si regolava in modo simile a Cornelio, ebbe da lottare contro tendenze lassiste tra i confessori e il clero (scisma di Felicissimo). Anche Origene in Oriente (De oratione c. 28, verso il 233-34) si mostrò propenso a concedere una volta tanto il perdono agli apostati, sebbene in un primo tempo fosse stato più severo (C. Celsum III, 50, scritto verso il 248). Nella Spagna, nel sinodo di Elvira, verso il 306, venne ancora punito con l’esclusione perpetua dalla Chiesa un numero considerevole (18-19) di gravi delitti. La concessione della penitenza ufficiale regolata dalla Chiesa e l’obbligo della confessione di limitavano ai peccati capitali sopra accennati, la cui cerchia peraltro poteva essere allargata, come effettivamente venne anche ampliata in modo speciale nel 4° secolo (sinodo di Elvira, Paciano, Ambrogio). Gli altri peccati meno gravi venivano perdonati più di frequente e per la loro remissione si consideravano sufficienti anche altri rimedi liberamente scelti, in particolare l’elemosina, il digiuno e la preghiera. Il compito di amministrare la penitenza spettava ai vescovi, che nelle maggiori città d’Oriente, a quanto pare dal 3° secolo in poi, si facevano coadiuvare da appositi sacerdoti penitenzieri. Inoltre nell’Oriente, specialmente nell’Asia Minore, ma neppure qui dappertutto, i penitenti, al fine di essere gradatamente riammessi in seno alla Chiesa, venivano divisi in più classi o stazioni, che ebbero uno sviluppo nel corso del 3° e 4° secolo» (in Bihlmayer - Tuchle, Storia della Chiesa, vol. 1°, Morcelliana, Brescia, pp. 155-159). Va infine sottolineato, in questo paragrafo dedicato alla vita cristiana nel terzo secolo, che la Chiesa ormai era entrata in possesso di propri edifici di culto (ad esempio a Dura Europo, nell’odierno Iraq!). E compaiono anche i primi cimiteri cristiani (il più antico sono le “catacombe” di Callisto, sulla via Appia). Fanno la loro apparizione i primi esempi di arte cristiana, con immagini prese dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
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Costantino e il Concilio di Nicea del 325
Nella seconda metà del terzo secolo la storia della Chiesa antica è attraversata da due tragiche persecuzioni: una all’inizio, quella di Decio del 250, proseguita poi dall’imperatore Valeriano suo successore nel 257-58, che mirava all’annientamento della Chiesa (si vuole l’eliminazione della religione cristiana nei suoi elementi istituzionali e organizzativi!) e una alla fine del secolo e all’inizio del quarto, che venne addirittura chiamata la “grande persecuzione”, i cui effetti furono devastanti non solo per il numero dei martiri, ma anche per la constatazione della fragilità e la defezione di moltissimi cristiani. A questa persecuzione pose fine il successore di Diocleziano, Galerio, che nel 311 emanò un editto con cui non soltanto decideva di concluderla, ma riconosceva ai cristiani il diritto di esistere.
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Il suo editto fu, perciò, un documento di importanza storica eccezionale, che apriva la strada all’editto di Milano del 313 di Costantino. È la “svolta costantiniana”, l’inizio cioè di un rapporto nuovo tra l’impero e la Chiesa, con cui può ritenersi sostanzialmente conclusa la storia del cristianesimo antico. «La svolta di Costantino comporta anche, e soprattutto, un profondo cambiamento nelle modalità dei rapporti tra l’imperatore e la Chiesa, quello che fa appunto definire il periodo come “età costantiniana”. Convinto non soltanto che il cristianesimo sia un potente fattore di ordine e di stabilità, ma anche di essere investito di una precisa missione nei suoi confronti, sicuro quindi di doversi preoccupare delle sorti della religione cristiana non soltanto per il bene dell’impero ma anche per quello della Chiesa, Costantino interviene nelle sue vicende interne con tutto il peso della propria autorità. Non è ancora il cesaropapismo come si affermerà nei secoli successivi e neppure soltanto l’uso della religione come instrumentum regni. Costantino ha la precisa consapevolezza che, in quanto cristiano investito di responsabilità imperiali, egli ha un compito da svolgere nei confronti della Chiesa. Secondo il suo biografo, questo compito egli lo avrebbe anzi espresso e definito con una formula precisa: quella dell’epíscopos ton ektós. L’imperatore sarebbe una sorta di “vescovo di quelli di fuori” o, come altri preferiscono tradurre, “per gli affari esterni”. Dovrebbe cioè preoccuparsi di tutte quelle persone, o di tutte quelle materie, che cadono fuori della organizzazione ecclesiastica in senso stretto, soggetta al potere dei vescovi. Si può discutere dell’attendibilità di questa notizia. E soprattutto si può dubitare che quella formula sia qualcosa di più di una immagine, di un paradosso, dell’imperatore. Si esprime anche in essa, comunque, la convinzione di Costantino che all’imperatore cristiano, in quanto supremo reggitore di uno Stato che ha nella religione cristiana il suo carattere più rilevante, spetta il compito di vigilare costantemente sul buon andamento delle cose ecclesiastiche» (G. Iossa, op. cit., p. 200). Questo nuovo rapporto tra l’imperatore e la Chiesa, che è la caratteristica più notevole della “età costantiniana”, appare chiaramente in due momenti della storia di questo periodo: nella controversia con i “donatisti” (dal nome del prete Donato, africano) che contestavano la validità dei sacramenti impartiti da coloro che si erano macchiati di apostasia nella persecuzione – i lapsi –, cui Costantino ordinò nel 317 di restituire alla Chiesa tutti gli edifici di culto in loro possesso e, poi, nella vicenda legata al Concilio di Nicea del 325. «Questo Concilio fu convocato principalmente per risolvere il grave problema dottrinale costituito dalla concezione che in materia trinitaria era venuto sostenendo il prete alessandrino Ario. Questi infatti, insistendo sul carattere assolutamente unico del Padre e radicalizzando la posizione subordizionista che era stata dell’apologetica, e in parte anche di Origene, affermava che, essendo Dio necessariamente ingenerato, perché immutabile, il Figlio da lui generato non può essere che creato e non può quindi essere Dio. E faceva appello per questo all’Antico Testamento (in modo particolare al passo di Proverbi 8, 22, dove la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato all’inizio del suo operare”). Il Logos “non è eterno come il Padre […] perché è dal Padre che ha ricevuto la vita”. La posizione di Ario fu subito respinta dal vescovo di Alessandria, Alessandro, e condannata da un Concilio di vescovi egiziani. Ma la controversia, tipicamente ales8
sandrina nella sua origine, non rimase confinata ad Alessandria. Si diffuse invece in tutto l’Oriente, fino all’Asia minore. E dovunque creò tensioni e polemiche assai aspre. Fu così che Costantino pensò di convocare un Concilio che, per il carattere assunto dall’impero e per la piega presa dalla controversia, fosse veramente “ecumenico”, universale, cioè tale da coinvolgere l’intera Chiesa cristiana. E lo riunì a Nicea, presso Nicomedia, nel 325: il primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa. La decisione del Concilio non fu facile. Pur provenendo in prevalenza dall’Oriente, i vescovi esprimevano tendenze teologiche notevolmente diverse. E la riflessione dottrinale non era abbastanza matura per giungere a una definizione rigorosa. Il Concilio dovette perciò prendere la strada della mediazione. Ma, pur essendo diviso al suo interno (dove vari vescovi appoggiavano Ario) e partendo da una formula di compromesso (la professione di fede presentata da Eusebio di Cesarea), il Concilio aggiunse a questa formula delle precisazioni decisive, affermando che il Figlio è “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre (homooúsios to patrí)”. Una formula ancora insufficiente, perché si preoccupava di ribadire soltanto la divinità del Figlio, e non anche la distinzione delle persone, e che solo con i Padri cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa) sarebbe stata completata e precisata in maniera più rigorosa; ma che comunque rappresentò la base per tutte le riflessioni successive sul tema della Trinità. Homooúsios in particolare era un’espressione non biblica, ma dottrinale, che a molti per di più non piaceva perché usata a suo tempo in maniera ambigua già da Paolo di Samosata. Ma proprio per questo la scelta dell’espressione era un atto coraggioso, che suonava come la legittimazione definitiva dello sforzo teologico della Chiesa per esprimere nel linguaggio del tempo le verità della fede. Più di quella donatista, la controversia ariana era essenzialmente dottrinale. Ma l’idea di un’assise ecumenica era stata di Costantino. E motivi politici si introdussero rapidamente nella controversia. Le divisioni religiose diventarono spesso divisioni politiche. In realtà il Concilio di Nicea, convocato e aperto dallo stesso imperatore, la cui presenza continuò a farsi sentire per tutti i lavori del Concilio, e conclusosi con una soluzione della controversia ariana che lasciava aperti moltissimi problemi, segnò l’inizio di una serie di conflitti nei quali l’aspetto religioso sarebbe divenuto materia e strumento di lotte politiche, abbandonando il principio della separazione di religione e politica, Chiesa e Stato, che pure era stato tra gli effetti più importanti della rivoluzione cristiana» (G. Iossa, op. cit., pp. 202-203).
BIBLIOGRAFIA MINIMA
G. IOSSA, Il cristianesimo antico, Ed. Carocci, 2006. K. BIHLMEYER - H. TUECHLE, Storia della Chiesa, 1° vol., Ed. Morcelliana. A. DESTRO - M. PESCE, Antropologia delle origini cristiane, Ed. Laterza, 2008. C. OSIEK - M.Y. MAC DONALD, Il ruolo delle donne nel cristianesimo delle origini, Ed. Paoline, 2007.
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