Gaudium et spes concilio vaticano 2

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Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 2 «SEGNI DEI TEMPI» E VANGELO (LA STORIA DELL’UOMO INTERROGA LA PAROLA) 1.

La «modernità» della Gaudium et Spes

C’è una «parola-spia» nella «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», che è il titolo che il Concilio Vaticano II ha dato a quel documento che noi chiamiamo ormai «Gaudium et Spes» dalle prime parole che lo introducono. Questa parola-spia è l’aggettivo «pastorale», usato qui significativamente per indicare un atteggiamento, una presa d’atto, una constatazione: cioè il fatto che la vita attuale degli uomini e delle donne non può essere compresa con le tradizionali categorie mentali, religiose e teologiche, della dottrina ecclesiastica ereditata dai secoli, ma ha bisogno di nuovi, appropriati strumenti di analisi e di nuovi criteri di valutazione. Già in quell’aggettivo c’è, perciò, la novità e la modernità della Gaudium et Spes: il documento si occupa di situazioni storico-contingenti e non soltanto di princìpi dottrinali immutabili. Più specificatamente esso sviluppa nella sua prima parte la sua analisi «sull’uomo, sul mondo nel quale egli si inserisce e sui suoi rapporti con queste realtà» e nella seconda parte esso «prende più strettamente in considerazione i vari aspetti della vita odierna e della società umana, specialmente le questioni e i problemi che in materia [matrimonio e famiglia, cultura, vita economico-sociale, ordinamento politico, impegno a favore della pace e cooperazione internazionale], sembrano oggi più urgenti». Soprattutto nell’interpretazione della seconda parte si sottolinea che si deve tener conto «delle circostanze mutevoli cui sono intrinsecamente connesse le materie trattate». Questa è la grande novità della Gaudium et Spes: per la prima volta la Chiesa cattolica rinuncia a costruire un documento a partire dal suo deposito dottrinale, cioè dal principio di immutabilità di una verità che trascende lo spazio e il tempo, per avventurarsi a cercare i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Detto con altre parole: la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo dichiara espressamente che la Chiesa si trova e si forma proprio in mezzo al mondo. Essa non esiste prima, né fuori del mondo, quale padrona della rivelazione divina, per poi, in un secondo momento, congiungersi al mondo (una Chiesa «sopra» o «accanto» al mondo!); essa invece riceve la sua esistenza in mezzo al mondo mediante «uomini che, riuniti insieme in Cristo, sono guidati dallo Spirito santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre». Per questo la Chiesa è «realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» e i discepoli di Cristo che formano la Chiesa «hanno ricevuto [da Dio] un messaggio di salvezza da proporre a tutti gli uomini» (G.S. 1). Perciò è suo compito manifestare «la solidarietà, il rispetto e l’amore di questo popolo – dei discepoli di Cristo – nei riguardi dell’intera famiglia umana, dentro la quale esso è inserito, e di instaurare un dialogo con l’intera umanità sui problemi che l’assillano» (G.S. 3). Il mondo, qui, cioè «la famiglia umana», «l’intera umanità» viene assunto come «luogo teologico» (elemento costitutivo di interpretazione della vita della comunità cristiana), in cui i discepoli di Cristo sono convocati a formare la sua chiesa. Ribadendo il concetto di «chiesa» della Lumen Gentium, cioè della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, si sottolinea, all’inizio della Gaudium et Spes, che la Chiesa non esiste per se stessa, ma è un segno e uno strumento mediante il quale Dio chiama il genere umano e il mondo a partecipare alla sua stessa vita. È molto bello quello che la Gaudium et Spes esprime al n. 2 del suo proemio: «Per questo, il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, passa ora senza esitazione a rivolgere la sua parola non ai soli figli della Chiesa né solamente a tutti 2


coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini, desiderando di esporre loro come esso intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi suoi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, il mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del Maligno, liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento». Il cambiamento di mentalità introdotto al Concilio è davvero straordinario se si ricorda che solo 12 anni prima, nel 1953, era stata posta fine all’esperienza dei preti operai in Francia, a causa dell’eccessiva tendenza a lasciarsi interpellare «dalle situazioni e dalle necessità del giorno d’oggi». Il loro motto, infatti, era: «Presence au monde est presence a Dieu» (presenza al mondo è presenza a Dio!). Fu, poi, certamente la Gaudium et Spes a influenzare, in anticipo (4 ottobre 1965) il discorso sulla pace pronunciato da Paolo VI all’assemblea plenaria dell’ONU e, alla chiusura del Concilio, i messaggi rivolti ai governanti, agli intellettuali e agli scienziati, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli affamati e a tutti coloro che soffrono, e ai giovani. Fu ancora la Gaudium et Spes a fare da punto di riferimento alla Conferenza di Medellin del 1968, organizzata dai vescovi latino-americani. Partendo dalle parole della Gaudium et Spes, secondo cui «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, e soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (n. 1), i vescovi latino-americani concentrarono la loro attenzione nel voler scoprire come la Chiesa dovesse annunciare il messaggio con parole e azioni, nel loro specifico mondo, fatto di povertà, di oppressione e di violenza. Il documento redatto alla fine di tale incontro rappresentò l’inizio della teologia della liberazione che, secondo le parole di Gustavo Gutierrez, riteneva la solidarietà con i poveri una forma di contemplazione e di ascolto di Dio. In tale modo la presenza di Dio e il suo messaggio venivano a congiungersi e ad attuarsi nel contesto loro proprio, cioè nell’ambivalente storia umana, che, come Gesù ne ha dato testimonianza, reca con sé «i segni» dello spuntare del «regno di Dio».

2.

I «segni dei tempi» nella riflessione conciliare

I «segni dei tempi» sono stati intesi da Giovanni modi diversi:

XXIII

e dal Concilio Vaticano

II

in due

– anzitutto essi sono stati riferiti a eventi e situazioni della società occidentale contemporanea, cioè alle trasformazioni verificatesi nella società; – in secondo luogo essi sono stati riferiti al passo di Matteo 16, 3-4: «Voi sapete interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno...». Si tratta dei segni escatologici, cioè dei segni della presenza del regno di Dio in questo mondo. Va ricordato a proposito che i testi e i discorsi del papa Giovanni XXIII tendono ad associare i due significati, come se le trasformazioni della società avessero anche un significato escatologico (cioè preparassero i tempi ultimi). Quanto all’intenzione del Concilio, quando usa l’espressione «segni dei tempi», non è possibile alcuna esitazione. Il Concilio voleva riconoscere che esiste la storia, che la Chiesa sta nella storia, che i tempi di cristianità erano ormai passati e che la Chiesa doveva aprirsi alla modernità. Per secoli la Chiesa aveva condannato la modernità, nella speranza di tornare 3


un giorno alla cristianità; ormai era arrivato il tempo di riconoscere la realtà: il mondo era nuovo, diverso, «altro», ma non per questo «perduto», maledetto da Dio. D’altra parte, se prestiamo per un attimo attenzione al significato di «segno», compaiono due interpretazioni: – esso dice «allarme», avvertimento: fare segno significa richiamare l’attenzione, mostrare la presenza di una realtà non avvertita, ma importante. In questo caso, certo, era la realtà della trasformazione in atto nel mondo, che diventava anche il segno che la Chiesa aveva ormai perso il suo ruolo guida all’interno della società e occorreva prenderne atto... – esso dice «riconoscimento»: mostrare segni significa offrire elementi per un giudizio più adeguato, più preciso. In questo caso era la stessa modernità che presentava degli elementi che lo stesso papa Giovanni XXIII aveva giudicato positivamente sia nei progetti che nelle realizzazioni. In proposito la Gaudium et Spes fa un elenco delle trasformazioni della modernità. Non si tratta di una esposizione scientifica, sociologica; è l’enumerazione senza pretese degli aspetti più visibili di quelle: scienza e razionalità scientifica, sviluppo economico, trasformazione sociale, diritti umani – il tutto visto in un’ottica ottimistica che corrispondeva alla visione del mondo che predominava in Europa occidentale in quel periodo e che era tipica anche dei partiti moderati (democrazia cristiana e socialdemocrazia) al potere nei paesi da cui provenivano i vescovi più influenti al Concilio. L’interessante è notare che proprio in questi paesi le Chiese stavano perdendo potere. Ciò era dovuto per la loro incapacità di adattarsi a quella situazione di modernità «temperata»? Ciò non è da sottovalutare, come si può immediatamente percepire: l’incontro con la modernità (con il mondo) era ispirato dal Vangelo o dal desiderio di recuperare il potere perduto nella società occidentale? La Chiesa dei vescovi del Vaticano II voleva seguire il Vangelo o restituire alla Chiesa stessa il potere perduto? La cosa non è del tutto chiara. Possiamo pensare che l’intento di Giovanni XXIII era più ispirato da motivazioni evangeliche, ma non si può affermare la stessa cosa di tutti i promotori della maggioranza conciliare, anche perché bisognerebbe ammettere che almeno alcuni di loro avessero già chiara l’idea di una Chiesa di minoranza o di una Chiesa disposta a chiedere perdono per gli errori del passato. Occorre ricordare che, all’interno del Concilio «i conservatori erano convinti che tutti i problemi venivano dal mondo e che il male stava nel mondo e quindi era necessario lottare contro il mondo attuale. Essi potevano invocare come argomento il fatto che le difficoltà della Chiesa si presentavano proprio nei paesi che avevano accettato la modernità. Dove la Chiesa era rimasta fedele alla cristianità, come in Spagna o in Portogallo, quasi tutti gli abitanti erano ancora fedeli alla pratica di tutti i precetti della Chiesa cattolica. Tuttavia, il partito dominante al Concilio, che era quello dell’Europa settentrionale, riconosceva che il male stava nella Chiesa che non si era adattata. Ciò significava che la situazione del mondo moderno che provocava problemi per la Chiesa era un segnale di allarme, ed era anche un segno indicativo della rotta che doveva essere presa: entrare nei valori della modernità e collaborare con essa» (in Josè Comblin, «I segni dei tempi», in Concilium 4, 2005, p. 100). Quanto poi ai testi sui «segni dei tempi», tre sono esplicitamente della Costituzione Gaudium et Spes: i numeri 4, 11, 14; uno si trova nel Decreto Presbyterorum Ordinis (sulla vita del clero) al n. 9; uno nel Decreto Unitatis Redintegratio (sull’ecumenismo) al n. 4, e uno nel Decreto Apostolicam Actuositatem (sull’apostolato dei laici) al n. 14. Certo il testo che ha orientato tutti gli altri è quello di Gaudium et Spes 4. Scrive il Concilio: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della 4


vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, su di esso si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa. E come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà. Così mentre l’uomo tanto largamente estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo animo, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre man mano più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica, e tuttavia una grande parte degli uomini è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini sono ancora interamente analfabete. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto si affermano nuove forme di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, a causa di forze tra loro contrastanti, violentemente viene spinto in direzioni opposte; infatti permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra totale capace di annientare ogni cosa. Aumenta lo scambio delle idee, ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi. Finalmente con ogni sforzo si vuol costruire un ordine temporale più perfetto, senza che cammini, di pari passo, il progresso spirituale. Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con quelli che man mano si scoprono. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Il quale sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta» (Gaudium et Spes, n. 4). Così al n. 11: «Il popolo di Dio... cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio...». E al n. 14: «È dovere di tutto il popolo di Dio... di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio...». Nella Presbyterorum Ordinis, al n. 9 si afferma, invece: «[I presbiteri] Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici... in modo da poter insieme riconoscere i segni dei tempi...»; nella Unitatis Redintegratio, al n. 4 si invitano a loro volta «tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica...». Infine nella Apostolicam Actuositatem, al n. 14, si ricorda che «tra i segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile senso di “solidarietà” di tutti i popoli che è compito dell’apostolato dei laici promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero e autentico affetto fraterno...». Da tutte queste testimonianze emerge che il dato fondamentale dei «segni dei tempi» è il mondo, il mondo moderno, la nuova situazione del mondo, l’insieme dei fenomeni del mondo 5


attuale con le sue conquiste e i suoi problemi. I segni vengono presentati come dei dati oggettivi di un mondo, che è quello, come si è visto, dell’Europa occidentale, borghese e capitalista: senza rendersene conto il Concilio ha adottato la visione della borghesia del suo tempo e, in fondo, l’ha fatta propria. La dottrina dei segni dei tempi in concreto consiste, infatti, nell’accettare il mondo moderno, legittimando, in più, il sistema che predomina nell’Europa occidentale. Nello stesso tempo, però, due cose vanno sottolineate a vantaggio della Gaudium et Spes: – essa testimonia che il Concilio ha comunque dato inizio all’ascolto del mondo moderno e il fatto di averlo ascoltato è stato già un grande progresso. E bisogna anche precisare che la borghesia di quel tempo non era tanto feroce, tanto dominatrice, tanto ipocrita e tanto indifferente alle sofferenze del mondo come lo è la borghesia mondiale attuale; – inoltre essa ci ricorda che la Chiesa, con il Concilio, ha rinunciato al progetto di ricostituire l’antica cristianità, riconoscendo che non esistevano le condizioni per farlo, anzi assumendo, come si è visto, un atteggiamento positivo, non di condanna, nei confronti della modernità come tale. Non è poco quindi quello che il Concilio ci ha lasciato. Certo, a partire, come si è detto sopra, da un giudizio positivo sulla modernità e quindi su un mondo in pieno sviluppo. I padri conciliari (la maggioranza di essi) erano convinti che la povertà era un incidente di percorso e che lo sviluppo ne avrebbe fornito la soluzione. Questa visione della storia non permise loro di cogliere in tutta la sua valenza profetica il senso della parola evangelica espresso nell’immagine del «regno di Dio» come movimento di liberazione dal dominio nel quale esseri umani sottomettono altri esseri umani per mezzo della violenza, dell’inganno, della menzogna... L’avvento del regno di Dio, per i cristiani, è una lotta contro forze umane, contro istituzioni umane che esercitano oppressione e la luce della fede, per loro, non è il contrario dell’ignoranza, ma delle tenebre. La luce della fede non deve mostrare agli uomini quello che essi ignorano, ma quello che essi cercano di nascondere. Scrive Josè Comblin: «I segni dei tempi erano i segni della lotta della liberazione degli oppressi in quell’epoca. Dovevano mostrare dove stava Cristo e dove stavano i suoi avversari e dove si situava la lotta. Dovevano mostrare dove stavano i poveri, gli esclusi, gli oppressi e dove stava il movimento di liberazione del regno di Dio. Una piccola minoranza sapeva che doveva essere così. Ma l’immensa maggioranza non sapeva nemmeno di che si trattava. Avevano una visione esclusivamente religiosa del cristianesimo e non avevano compreso il Vangelo. Per questo, tra essi predominò una visione ottimistica, ideologica del mondo, la visione della borghesia dell’Europa occidentale. Che tutto questo serva da avvertenza per un eventuale futuro concilio. Ciò che importa per Gesù non sono i progressi scientifici o tecnologici, le trasformazioni economiche e sociali. Quello che lo preoccupa è la liberazione degli oppressi. Questo argomento è oggidì quanto mai attuale» (J. Comblin, op. cit., p. 111).

________ PICCOLA BIBLIOGRAFIA AA.VV.: Vaticano II: un futuro dimenticato? Concilium, 4/2005, Queriniana, JOSÈ COMBLIN: Prima la Chiesa, poi l’uomo, ed. Meridiana, Bari, 2002.

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Brescia.


Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 2 «SEGNI DEI TEMPI» E VANGELO (LA STORIA DELL’UOMO INTERROGA LA PAROLA) 1.

La «modernità» della Gaudium et Spes

C’è una «parola-spia» nella «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», che è il titolo che il Concilio Vaticano II ha dato a quel documento che noi chiamiamo ormai «Gaudium et Spes» dalle prime parole che lo introducono. Questa parola-spia è l’aggettivo «pastorale», usato qui significativamente per indicare un atteggiamento, una presa d’atto, una constatazione: cioè il fatto che la vita attuale degli uomini e delle donne non può essere compresa con le tradizionali categorie mentali, religiose e teologiche, della dottrina ecclesiastica ereditata dai secoli, ma ha bisogno di nuovi, appropriati strumenti di analisi e di nuovi criteri di valutazione. Già in quell’aggettivo c’è, perciò, la novità e la modernità della Gaudium et Spes: il documento si occupa di situazioni storico-contingenti e non soltanto di princìpi dottrinali immutabili. Più specificatamente esso sviluppa nella sua prima parte la sua analisi «sull’uomo, sul mondo nel quale egli si inserisce e sui suoi rapporti con queste realtà» e nella seconda parte esso «prende più strettamente in considerazione i vari aspetti della vita odierna e della società umana, specialmente le questioni e i problemi che in materia [matrimonio e famiglia, cultura, vita economico-sociale, ordinamento politico, impegno a favore della pace e cooperazione internazionale], sembrano oggi più urgenti». Soprattutto nell’interpretazione della seconda parte si sottolinea che si deve tener conto «delle circostanze mutevoli cui sono intrinsecamente connesse le materie trattate». Questa è la grande novità della Gaudium et Spes: per la prima volta la Chiesa cattolica rinuncia a costruire un documento a partire dal suo deposito dottrinale, cioè dal principio di immutabilità di una verità che trascende lo spazio e il tempo, per avventurarsi a cercare i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Detto con altre parole: la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo dichiara espressamente che la Chiesa si trova e si forma proprio in mezzo al mondo. Essa non esiste prima, né fuori del mondo, quale padrona della rivelazione divina, per poi, in un secondo momento, congiungersi al mondo (una Chiesa «sopra» o «accanto» al mondo!); essa invece riceve la sua esistenza in mezzo al mondo mediante «uomini che, riuniti insieme in Cristo, sono guidati dallo Spirito santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre». Per questo la Chiesa è «realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» e i discepoli di Cristo che formano la Chiesa «hanno ricevuto [da Dio] un messaggio di salvezza da proporre a tutti gli uomini» (G.S. 1). Perciò è suo compito manifestare «la solidarietà, il rispetto e l’amore di questo popolo – dei discepoli di Cristo – nei riguardi dell’intera famiglia umana, dentro la quale esso è inserito, e di instaurare un dialogo con l’intera umanità sui problemi che l’assillano» (G.S. 3). Il mondo, qui, cioè «la famiglia umana», «l’intera umanità» viene assunto come «luogo teologico» (elemento costitutivo di interpretazione della vita della comunità cristiana), in cui i discepoli di Cristo sono convocati a formare la sua chiesa. Ribadendo il concetto di «chiesa» della Lumen Gentium, cioè della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, si sottolinea, all’inizio della Gaudium et Spes, che la Chiesa non esiste per se stessa, ma è un segno e uno strumento mediante il quale Dio chiama il genere umano e il mondo a partecipare alla sua stessa vita. È molto bello quello che la Gaudium et Spes esprime al n. 2 del suo proemio: «Per questo, il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, passa ora senza esitazione a rivolgere la sua parola non ai soli figli della Chiesa né solamente a tutti 2


coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini, desiderando di esporre loro come esso intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi suoi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, il mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del Maligno, liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento». Il cambiamento di mentalità introdotto al Concilio è davvero straordinario se si ricorda che solo 12 anni prima, nel 1953, era stata posta fine all’esperienza dei preti operai in Francia, a causa dell’eccessiva tendenza a lasciarsi interpellare «dalle situazioni e dalle necessità del giorno d’oggi». Il loro motto, infatti, era: «Presence au monde est presence a Dieu» (presenza al mondo è presenza a Dio!). Fu, poi, certamente la Gaudium et Spes a influenzare, in anticipo (4 ottobre 1965) il discorso sulla pace pronunciato da Paolo VI all’assemblea plenaria dell’ONU e, alla chiusura del Concilio, i messaggi rivolti ai governanti, agli intellettuali e agli scienziati, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli affamati e a tutti coloro che soffrono, e ai giovani. Fu ancora la Gaudium et Spes a fare da punto di riferimento alla Conferenza di Medellin del 1968, organizzata dai vescovi latino-americani. Partendo dalle parole della Gaudium et Spes, secondo cui «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, e soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (n. 1), i vescovi latino-americani concentrarono la loro attenzione nel voler scoprire come la Chiesa dovesse annunciare il messaggio con parole e azioni, nel loro specifico mondo, fatto di povertà, di oppressione e di violenza. Il documento redatto alla fine di tale incontro rappresentò l’inizio della teologia della liberazione che, secondo le parole di Gustavo Gutierrez, riteneva la solidarietà con i poveri una forma di contemplazione e di ascolto di Dio. In tale modo la presenza di Dio e il suo messaggio venivano a congiungersi e ad attuarsi nel contesto loro proprio, cioè nell’ambivalente storia umana, che, come Gesù ne ha dato testimonianza, reca con sé «i segni» dello spuntare del «regno di Dio».

2.

I «segni dei tempi» nella riflessione conciliare

I «segni dei tempi» sono stati intesi da Giovanni modi diversi:

XXIII

e dal Concilio Vaticano

II

in due

– anzitutto essi sono stati riferiti a eventi e situazioni della società occidentale contemporanea, cioè alle trasformazioni verificatesi nella società; – in secondo luogo essi sono stati riferiti al passo di Matteo 16, 3-4: «Voi sapete interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno...». Si tratta dei segni escatologici, cioè dei segni della presenza del regno di Dio in questo mondo. Va ricordato a proposito che i testi e i discorsi del papa Giovanni XXIII tendono ad associare i due significati, come se le trasformazioni della società avessero anche un significato escatologico (cioè preparassero i tempi ultimi). Quanto all’intenzione del Concilio, quando usa l’espressione «segni dei tempi», non è possibile alcuna esitazione. Il Concilio voleva riconoscere che esiste la storia, che la Chiesa sta nella storia, che i tempi di cristianità erano ormai passati e che la Chiesa doveva aprirsi alla modernità. Per secoli la Chiesa aveva condannato la modernità, nella speranza di tornare 3


un giorno alla cristianità; ormai era arrivato il tempo di riconoscere la realtà: il mondo era nuovo, diverso, «altro», ma non per questo «perduto», maledetto da Dio. D’altra parte, se prestiamo per un attimo attenzione al significato di «segno», compaiono due interpretazioni: – esso dice «allarme», avvertimento: fare segno significa richiamare l’attenzione, mostrare la presenza di una realtà non avvertita, ma importante. In questo caso, certo, era la realtà della trasformazione in atto nel mondo, che diventava anche il segno che la Chiesa aveva ormai perso il suo ruolo guida all’interno della società e occorreva prenderne atto... – esso dice «riconoscimento»: mostrare segni significa offrire elementi per un giudizio più adeguato, più preciso. In questo caso era la stessa modernità che presentava degli elementi che lo stesso papa Giovanni XXIII aveva giudicato positivamente sia nei progetti che nelle realizzazioni. In proposito la Gaudium et Spes fa un elenco delle trasformazioni della modernità. Non si tratta di una esposizione scientifica, sociologica; è l’enumerazione senza pretese degli aspetti più visibili di quelle: scienza e razionalità scientifica, sviluppo economico, trasformazione sociale, diritti umani – il tutto visto in un’ottica ottimistica che corrispondeva alla visione del mondo che predominava in Europa occidentale in quel periodo e che era tipica anche dei partiti moderati (democrazia cristiana e socialdemocrazia) al potere nei paesi da cui provenivano i vescovi più influenti al Concilio. L’interessante è notare che proprio in questi paesi le Chiese stavano perdendo potere. Ciò era dovuto per la loro incapacità di adattarsi a quella situazione di modernità «temperata»? Ciò non è da sottovalutare, come si può immediatamente percepire: l’incontro con la modernità (con il mondo) era ispirato dal Vangelo o dal desiderio di recuperare il potere perduto nella società occidentale? La Chiesa dei vescovi del Vaticano II voleva seguire il Vangelo o restituire alla Chiesa stessa il potere perduto? La cosa non è del tutto chiara. Possiamo pensare che l’intento di Giovanni XXIII era più ispirato da motivazioni evangeliche, ma non si può affermare la stessa cosa di tutti i promotori della maggioranza conciliare, anche perché bisognerebbe ammettere che almeno alcuni di loro avessero già chiara l’idea di una Chiesa di minoranza o di una Chiesa disposta a chiedere perdono per gli errori del passato. Occorre ricordare che, all’interno del Concilio «i conservatori erano convinti che tutti i problemi venivano dal mondo e che il male stava nel mondo e quindi era necessario lottare contro il mondo attuale. Essi potevano invocare come argomento il fatto che le difficoltà della Chiesa si presentavano proprio nei paesi che avevano accettato la modernità. Dove la Chiesa era rimasta fedele alla cristianità, come in Spagna o in Portogallo, quasi tutti gli abitanti erano ancora fedeli alla pratica di tutti i precetti della Chiesa cattolica. Tuttavia, il partito dominante al Concilio, che era quello dell’Europa settentrionale, riconosceva che il male stava nella Chiesa che non si era adattata. Ciò significava che la situazione del mondo moderno che provocava problemi per la Chiesa era un segnale di allarme, ed era anche un segno indicativo della rotta che doveva essere presa: entrare nei valori della modernità e collaborare con essa» (in Josè Comblin, «I segni dei tempi», in Concilium 4, 2005, p. 100). Quanto poi ai testi sui «segni dei tempi», tre sono esplicitamente della Costituzione Gaudium et Spes: i numeri 4, 11, 14; uno si trova nel Decreto Presbyterorum Ordinis (sulla vita del clero) al n. 9; uno nel Decreto Unitatis Redintegratio (sull’ecumenismo) al n. 4, e uno nel Decreto Apostolicam Actuositatem (sull’apostolato dei laici) al n. 14. Certo il testo che ha orientato tutti gli altri è quello di Gaudium et Spes 4. Scrive il Concilio: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della 4


vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, su di esso si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa. E come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà. Così mentre l’uomo tanto largamente estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo animo, ma spesso appare più incerto di se stesso. Scopre man mano più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimervi. Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica, e tuttavia una grande parte degli uomini è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini sono ancora interamente analfabete. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto si affermano nuove forme di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, a causa di forze tra loro contrastanti, violentemente viene spinto in direzioni opposte; infatti permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra totale capace di annientare ogni cosa. Aumenta lo scambio delle idee, ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi. Finalmente con ogni sforzo si vuol costruire un ordine temporale più perfetto, senza che cammini, di pari passo, il progresso spirituale. Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con quelli che man mano si scoprono. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Il quale sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta» (Gaudium et Spes, n. 4). Così al n. 11: «Il popolo di Dio... cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio...». E al n. 14: «È dovere di tutto il popolo di Dio... di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio...». Nella Presbyterorum Ordinis, al n. 9 si afferma, invece: «[I presbiteri] Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici... in modo da poter insieme riconoscere i segni dei tempi...»; nella Unitatis Redintegratio, al n. 4 si invitano a loro volta «tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica...». Infine nella Apostolicam Actuositatem, al n. 14, si ricorda che «tra i segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile senso di “solidarietà” di tutti i popoli che è compito dell’apostolato dei laici promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero e autentico affetto fraterno...». Da tutte queste testimonianze emerge che il dato fondamentale dei «segni dei tempi» è il mondo, il mondo moderno, la nuova situazione del mondo, l’insieme dei fenomeni del mondo 5


attuale con le sue conquiste e i suoi problemi. I segni vengono presentati come dei dati oggettivi di un mondo, che è quello, come si è visto, dell’Europa occidentale, borghese e capitalista: senza rendersene conto il Concilio ha adottato la visione della borghesia del suo tempo e, in fondo, l’ha fatta propria. La dottrina dei segni dei tempi in concreto consiste, infatti, nell’accettare il mondo moderno, legittimando, in più, il sistema che predomina nell’Europa occidentale. Nello stesso tempo, però, due cose vanno sottolineate a vantaggio della Gaudium et Spes: – essa testimonia che il Concilio ha comunque dato inizio all’ascolto del mondo moderno e il fatto di averlo ascoltato è stato già un grande progresso. E bisogna anche precisare che la borghesia di quel tempo non era tanto feroce, tanto dominatrice, tanto ipocrita e tanto indifferente alle sofferenze del mondo come lo è la borghesia mondiale attuale; – inoltre essa ci ricorda che la Chiesa, con il Concilio, ha rinunciato al progetto di ricostituire l’antica cristianità, riconoscendo che non esistevano le condizioni per farlo, anzi assumendo, come si è visto, un atteggiamento positivo, non di condanna, nei confronti della modernità come tale. Non è poco quindi quello che il Concilio ci ha lasciato. Certo, a partire, come si è detto sopra, da un giudizio positivo sulla modernità e quindi su un mondo in pieno sviluppo. I padri conciliari (la maggioranza di essi) erano convinti che la povertà era un incidente di percorso e che lo sviluppo ne avrebbe fornito la soluzione. Questa visione della storia non permise loro di cogliere in tutta la sua valenza profetica il senso della parola evangelica espresso nell’immagine del «regno di Dio» come movimento di liberazione dal dominio nel quale esseri umani sottomettono altri esseri umani per mezzo della violenza, dell’inganno, della menzogna... L’avvento del regno di Dio, per i cristiani, è una lotta contro forze umane, contro istituzioni umane che esercitano oppressione e la luce della fede, per loro, non è il contrario dell’ignoranza, ma delle tenebre. La luce della fede non deve mostrare agli uomini quello che essi ignorano, ma quello che essi cercano di nascondere. Scrive Josè Comblin: «I segni dei tempi erano i segni della lotta della liberazione degli oppressi in quell’epoca. Dovevano mostrare dove stava Cristo e dove stavano i suoi avversari e dove si situava la lotta. Dovevano mostrare dove stavano i poveri, gli esclusi, gli oppressi e dove stava il movimento di liberazione del regno di Dio. Una piccola minoranza sapeva che doveva essere così. Ma l’immensa maggioranza non sapeva nemmeno di che si trattava. Avevano una visione esclusivamente religiosa del cristianesimo e non avevano compreso il Vangelo. Per questo, tra essi predominò una visione ottimistica, ideologica del mondo, la visione della borghesia dell’Europa occidentale. Che tutto questo serva da avvertenza per un eventuale futuro concilio. Ciò che importa per Gesù non sono i progressi scientifici o tecnologici, le trasformazioni economiche e sociali. Quello che lo preoccupa è la liberazione degli oppressi. Questo argomento è oggidì quanto mai attuale» (J. Comblin, op. cit., p. 111).

________ PICCOLA BIBLIOGRAFIA AA.VV.: Vaticano II: un futuro dimenticato? Concilium, 4/2005, Queriniana, JOSÈ COMBLIN: Prima la Chiesa, poi l’uomo, ed. Meridiana, Bari, 2002.

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Brescia.


Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 1 LA «GAUDIUM ET SPES»: UN DOCUMENTO RIVOLUZIONARIO? 1.

Ricostruire una «sensibilità» del passato?

È stato don Franco, l’amico parroco di Canova, di questa comunità, a proporci questo tema, incentrato sul documento conciliare forse più noto, più «famoso», cioè la costituzione «Gaudium et Spes», che secondo un pensiero corrente rappresenta «l’evento» che simbolicamente meglio esprime la novità del Concilio Vaticano II (1962-1965). A suo tempo, agli inizi degli anni Sessanta, nell’opinione pubblica ecclesiastica e non, la convocazione improvvisa e inaspettata del Concilio da parte di papa Giovanni XXIII (19581963), venne avvertita come l’intenzione di mettere fine al non-expedit che impediva alla Chiesa cattolica di farsi carico e di interagire nei confronti delle sfide della modernità. «Si trattava per il cattolicesimo di “abbattere i bastioni”, di abbattere la cittadella fortificata della istituzione ecclesiastica, che subìva il complesso dell’accerchiamento e dell’emarginazione da parte del mondo secolarizzato, pervicacemente orgoglioso di marcare la propria autonomia rispetto all’eredità cristiana dell’Occidente» (M. VERGOTTINI, Introduzione a 40 anni dalla Gaudium et Spes, ed. In dialogo, 2005, p. 6). Sotto questo profilo la Gaudium et Spes è stata recepita come il documento che più incisivamente ha inteso dare corso alla svolta del Vaticano II, provvedendo con urgenza a colmare il divario esistente tra messaggio cristiano e cultura (stile di vita) contemporanea. Sulla scia di questa opinione si può sostenere che Gaudium et Spes costituisce il documento conciliare più riuscito, proprio in quanto fin dalle battute iniziali la costituzione pastorale fa sua l’istanza di un «aggiornamento» non più rinviabile per la coscienza credente, così da inaugurare una rinnovata attenzione alla storia, all’oggi che ci è dato, al legame con gli «altri», nostri compagni nell’avventura dell’esistenza. Nello stesso tempo si potrebbe anche sostenere che, proprio a causa dei temi trattati, la Gaudium et Spes è il documento conciliare più datato, cioè quello che più lascia trasparire i condizionamenti di una determinata congiuntura storica ed ecclesiale e che, quindi, avrebbe bisogno di un continuo aggiornamento. È perfino ovvio ricordare che il tempo che ci divide dall’evento del Concilio e dalla promulgazione della Gaudium et Spes (il 4 dicembre 1965) ha portato con sé, davvero, una «rivoluzione» degli stili di vita delle donne e degli uomini che obbligano a ripensare con spirito nuovo tutta la «materia» contenuta in essa, così da condividere il fatto che oggi, per la comunità cristiana, non basta più «sistemare», bisogna «traslocare», cioè diventa necessario abitare diversamente un mondo diventato diverso. Ciò che può motivare, allora, la nostra ricognizione della Gaudium et Spes, non è tanto uno sguardo «archeologico», da scopritori di reperti del passato, quanto piuttosto il raccogliere quelle «provocazioni» straordinarie a continuare un dialogo tra Chiesa e mondo, che ne custodisca la fecondità e il dinamismo, con la libertà di spirito che la stessa costituzione conciliare ha saputo valorizzare nella sua ricerca.

2


2.

Radiografia della nostra condizione spirituale postconciliare (La rivoluzione è lontana!)

Mi sembra opportuno, allora, dedicare qualche parola alla nostra «condizione spirituale postconciliare», per cogliere da essa quanto della Gaudium et Spes vale la pena anche oggi di tenere vivo nel nostro cammino di «cercatori di Dio e dell’uomo», che è poi il filo conduttore di quel documento conciliare. E parlo di «radiografia», non di «fotografia», per dire il tentativo di illuminare gli sfondi, le genesi, le viscere, che altrimenti non si vedono, restano nell’ombra. Come scrive Elmar Salmann, benedettino tedesco, in un bellissimo libro, intitolato Passi e passaggi nel Cristianesimo, «ci sono probabilmente tante persone che hanno sperimentato il Concilio e il tempo postconciliare come liberazione e rinnovamento, quanto altre che lo hanno vissuto come sconfitta e minorazione. Ed entrambi hanno sempre ragione, ciascuno a partire dalla sua prospettiva: entrambi sono giustificati. Qui si vorrebbe chiarire un poco questa posizione di equilibrio, questa situazione contraddittoria. Rappresentiamoci allora un pastore, di Gelsenkirchen o di Genova, o un portiere comunista di Bari o di un sobborgo di Mosca negli ultimi trenta anni. Che cosa è capitato a questi uomini? Attraverso che cosa sono passati nella storia del cambiamento? Pensiamo ad un pastore che nel 1963 era parroco di 8000 “anime”, come allora si diceva in modo adeguato, attualmente esse sono ancora 3000. Quando egli arrivò, la frequenza della Chiesa si attestava intorno al 45%, ora al 12% – e di 3000. Una carriera, la sua, con il bilancio in rosso. Dunque la Chiesa è chiaramente, nonostante ogni alta lode del Concilio, che a suo modo era kairologicamente necessario, anche una negativa azienda fallimentare. Questo significa che ha perso un terzo dei suoi clienti nell’Europa occidentale e naturalmente ci si riferisce all’Europa occidentale e non all’Africa o a Ceylon. Che cosa questo possa significare per la storia dell’anima di un normale pastore medio o per la storia di un convento di suore, che ora muore nel corpo vivente, lo si può immaginare» (Ivi, pp. 26-27). È evidente nel nostro contesto culturale la perdita di ogni sicurezza ideologica (e chi ancora la manifesta lo fa per difendersi, per non sentirsi perduto), ma è ancora più grave l’insicurezza nei confronti del futuro: – nessuno sa come si svilupperà il rapporto tra individualità, autodeterminazione e società nelle forme di vita pubblica e privata (ad es.: nel matrimonio); – nessun uomo sa se e come nei rapporti plurali di società e di conoscenza un concetto di verità potrà resistere o rinnovarsi; – nessun uomo sa come potrà alla lunga definire se stesso in relazione al lavoro e al tempo libero; – nessun uomo sa come andranno le cose con l’industrializzazione e con i problemi ecologici. Tutto ciò, ovviamente, gioca un ruolo anche per i credenti e per la loro visione del mondo. In questa situazione ci sono due possibilità di comportamento da parte della Chiesa: – da un lato, ci si può ritirare su una linea fondamentalistica chiara, cioè affermare qualcosa, senza riflettere sulla genesi (l’origine), la condizionatezza storica e la relatività della propria affermazione. Ci sono ampie porzioni di Chiesa che puntano su questa strategia, cosa che è umanamente comprensibile; 3


– dall’altro, c’è un accomodamento del discorso ecclesiale proprio a ciò che è corrente, concentrando il proprio messaggio su un po’ di umanitarismo, di solidarietà, su Gesù quale amico, quale soccorritore e cose del genere – in sé per nulla false. Ma, e lo si vede subito, anche questa scelta non è priva di ambiguità. Sono questi i due fronti principali: – da una parte c’è una Chiesa «antimodernista», che nutre ancora risentimento nei confronti della modernità e della contemporaneità e, quindi, nei confronti di ciò che tutti noi per lo più a livello spirituale viviamo e dobbiamo vivere, cioè l’essere uomini, donne, contemporanei e post-moderni; – dall’altra c’è una Chiesa che entra in confidenza, anche se in modo singolarmente curioso e a volte scioccamente, con ciò che è in voga e si lega a realtà che per la decadente modernità sono già diventate quasi obsolete. Spesso la Chiesa accoglie dalla modernità proprio quelle cose che i contemporanei lasciano andare o che giudicano equivoche. Si veda ad esempio il recente pathos ecclesiastico sulla scienza. Dopo sospetti e battaglie di ritirata durate secoli, il mondo ecclesiale festeggia il progresso della scienza proprio nel momento in cui a tutti noi è divenuto chiaro quanto ambigua sia la scienza (basta vedere i risultati della «scienza economica»!). O che il Concilio accolga posizioni dell’Illuminismo – in ogni caso a un livello più basso (diritti dell’uomo, tolleranza, lingua natale, ecc.,) – nel tempo in cui l’Illuminismo (e la sua «razionalità») appare in ribasso. Si tratta di un processo totalmente bizzarro. E si capisce, allora, la difficoltà, per esempio, dei preti e la perdita della loro fisionomia, divenuti per lo più «raffinati» funzionari che non sanno come devono muoversi: da una parte incrociano il sentimento antimoderno della Chiesa e dall’altra l’adattamento a modelli della ormai decadente modernità, in disuso anche presso di essa. Davvero la situazione è profondamente complicata e difficile. È qui che nasce la domanda intrigante: quali sono le coordinate del nostro mondo? Ne cogliamo tre: soggettività, l’immagine secolarizzata del mondo, le prospettive possibili. a)

Soggettività

Scrive Elmar Salmann: «La Chiesa prova angoscia rispetto alla libertà e alla contrastante densità dell’esperienza del soggetto, cioè di fronte al progetto dell’Illuminismo. Certamente essa ha accolto qualcosa di ciò: parla oggi di diritti umani, di tolleranza, di libertà di coscienza del singolo (sebbene poi si debba sempre barcamenare, quando per esempio si tratta della sessualità). Ed essa stessa al suo interno incontra molte difficoltà con tutto ciò. Si pensi per esempio alla mancanza di divisione di poteri nella Chiesa: non sussiste alcuna separazione tra potere esecutivo, legislativo e di giurisdizione, ma è sempre la stessa istanza. Quanto in modo elementare appartiene alla consistenza fondamentale della modernità, non è in essa in generale ancora assicurato. Esige verso l’esterno democrazia e divisione dei poteri, cosa che all’interno ancora non vive neppure in modo approssimativo: una situazione precaria, come si vede. Dall’altra parte si deve naturalmente anche dire che il soggettivismo, la ricerca di libertà e di esperienza, oggi, sono forse già giunti ad un limite, che cioè la stessa modernità nella sua fase postmoderna si è spinta sino alle estreme conseguenze e si è già quasi ribaltata. Noi siamo oggi ricercatori di esperienze, vitalmente orientati senza limiti (“Luna Park collettivo”, dice Kohl, non totalmente a torto), urtiamo ad un limite della mobilità umana e di ciò che ci si può permettere a livello di autorealizzazione» (Ivi, p. 30). Si sa che la Chiesa ha difficoltà con l’ideale democratico, il quale, al momento, non sol4


tanto viene politicamente applicato, ma ci è migrato nell’anima. L’anima stessa è diventata «parlamento», con molte fazioni: noi pensiamo e sentiamo in modo multiprospettico, democratico. Essa viene raccomandata, oggi, dalla Chiesa in modo enfatico e, insieme, gli ambienti che vi fanno riferimento sono molto lontani da questa mentalità. Ancora, la Chiesa cerca di reggersi su qualcosa di sostanziale, su qualcosa che si opponga alla semplice funzionalità di persone e cose e poi continua senza ritegno a presentare un’immagine del prete (e, di conseguenza, del laico cristiano) in funzione del «servizio», cosa che risulta una falsificazione. «Sorge un’immagine totalmente oscillante tra un sublime e irremovibile tener fermo, che pur sta su piedi di argilla, e dall’altra parte nella prassi un gergo ed una frenesia, dei quali non si sa già più che cosa ne dia ragione. In mezzo a ciò ci si trova un po’ congelati, naturalmente anche più liberi di prima – ciascuno cucina la sua zuppa, cosa che è pure bello: tutto è così cucinato in modo più appetitoso, più soffice, più leggero. Nella cura delle anime i pastori cercano da una parte anche di dire che la Chiesa incentiva tutto ciò che reca gioia all’uomo, ciò che è bello ed umano, dall’altra se la prendono proprio con questo: parlano permanentemente di una “società consumistica”, sono scontrosi e aggressivi. Anche qui mancano un linguaggio ed un atteggiamento che siano abbastanza equilibrati. Non si sa dunque alla fine che cosa fare con il cristianesimo e con la modernità» (Ivi, p. 33). b)

L’immagine secolarizzata del mondo

È la cultura che ha attraversato tutto il secolo ventesimo ed è giunta fino a noi, che ci fa cogliere come sia subentrato, ad un ordine di rappresentazione di tipo gerarchico-sacramentale e a un mondo segnato da una prospettiva centrale, un mondo strutturato multiprospettico e democratico, e questo a tutti i livelli. Alcuni nomi: Proust, Mahler, Schönberg, Picasso... e poi la sociologia di Durkheim, la psicologia del profondo (Freud, Jung), il suffragio universale, la «critica» del linguaggio... In tal modo non si dà più nulla di centrale, nessun narratore, nessuna oggettività: ecco l’immagine «strutturale» del mondo: concatenamenti e libero gioco... Che cosa si può introdurre di tutto ciò nella vita della Chiesa e della teologia? «Pensiamo alla discussione sull’eucaristia: transustanziazione o transignificazione? Modello sostanziale o modello ermeneutico? Al momento sembrano ancora escludersi. Pensiamo all’intero apparato gerarchico della Chiesa con la sua forza, anche con la sua potente forza nel giusto senso della rappresentazione della doxa, della gloria. Tutto ciò ha qualcosa di impressionante nel duplice senso del termine: imponendosi in modo pesante come il piombo, provocando meraviglia e consolazione al tempo stesso. Passeremo dal modello patriarcale a quello fraterno nella Chiesa? Da una dogmatica verso una mistagogia del cristianesimo, da una morale proibente-prescrivente verso una liberante ed incoraggiante?» (Ivi, p. 37). A rendere ancora più evidente questa situazione di assenza di un alcunché di centrale, di oggettivo, ci sono anche due passaggi culturali di grande efficacia e consistenza, cui difficilmente si fa riferimento nei pubblici dibattiti: – il primo riguarda il primato del pensiero ebraico su quello cristiano: il pensiero ebraico del secolo appena trascorso significa: impossibilità di una prospettiva centrale, impossibilità di scrivere una storia di vincitori. «Si pensi ancora alla sguardo di Kafka, dal basso, dall’ottica della vittima ferita; ad Adorno e alla scuola di Francoforte, che ci mostrano come ogni affermazione assoluta della verità distrugge troppo e si rende da sé impossibile. Tutto viene visto sempre dall’altra parte. Si riflette subito, appena qualcuno afferma qualcosa in modo troppo convinto, su quali inte5


ressi egli nutra, su che cosa nasconda, contro che cosa egli sia effettivamente, che cosa in verità desideri soffocare – e quale posizione ambisce ad occupare. Pertanto non si recepisce più il lieto annuncio della Chiesa. I giovani hanno una sensibilità acuta per l’attenzione esatta del momento. L’attenzione è l’unico sacramento che oggi resta, la porta attraverso la quale ogni uomo può entrare. Essi sono, dunque, per l’assolutezza del momento e per la relatività del tutto. L’intero ha sempre torto. È sempre dispari, dice Adorno. Non possiamo più in modo veritiero esperire qualcosa di intero, di assoluto, di totale, alcun senso totale. Al contrario il discorso ecclesiale è ancora sempre determinato dall’antico modo di pensiero: l’“unico Logos”, l’“unico Cristo”, che è il vincitore (nel secolo scorso è stata introdotta la festa di Cristo Re e si parla ancora della unità politica dei cattolici oppure di una verità). Con ciò non è detto che un tale pensiero strutturale abbia ragione e che la Chiesa sia nel torto. Qui si descrive solo l’ingranaggio nel quale essa si imbatte» (Ivi, p. 38). – il secondo è il fenomeno della «riellenizzazione»: il ritorno al mito della Grecia. Infatti nel postmoderno accade una sorprendente mescolanza di razionalità, tecnica e mistica. Ciascun uomo vuole essere un mistico, vuole avere sentimenti profondi, ma vuole al contempo essere razionale, all’altezza della ragione tecnica: una straordinaria posizione di equilibrio tra irrazionalismo e razionalismo. Lo stesso si dica dell’uomo e della natura, soprattutto sotto il segno dell’ecologia: non si sopporta più l’antropocentrismo ed il centralismo storico del cristianesimo, e si vuole tornare alla natura, circondati dal verde, avere una nicchia... Lo stesso si dica dell’elemento androgino della nostra società, del narcisismo di ritorno, della vita come arrangiamento tra maschio e femmina... Vi si aggiunga, infine, un’atmosfera gnostico-orfica: il terrestre, l’archetipo, il sentimentale, l’olistico, qualcosa che oscilla tra scienze naturali ed empatia, e che unisce Est ed Ovest. Si prende un po’ di buddismo e di personalismo, un po’ di meditazione e di fede e ciò che è bello, raffinato, sottile, attraente, ci si può in esso bagnare e cullare. Certamente è difficile ottenere da tutto ciò un concetto di vita e portarlo avanti negli anni – questo è il problema. Al presente ci si muove in qualche modo tra Hermann Hesse, Karl Gustav Jung, Theilhard de Chardin e zen, e a partire da ciò ciascuno mescola la fede a modo suo.

c)

Le prospettive possibili

È qui che «potrebbe» tornare in ballo la Gaudium et Spes. Contro l’ordinario risentimento antimoderno della Chiesa, che fa male solo a se stessa e la fa essere irrilevante per gli altri, si deve scommettere sul fatto che la modernità e la postmodernità siano un kairos (un tempo opportuno) per la rivelazione di Dio e per la sua presenza. Il Medioevo non era più vicino a Dio e a Cristo della modernità. Il cristianesimo puro non si dà in nessun tempo. Nello stesso tempo la modernità (e la postmodernità) è debitrice di elementi essenziali della Riforma, delle sette, della mistica del cristianesimo (interiorità, pensiero trascendente, democrazia) e il cristianesimo a sua volta si modifica sotto la pressione e il seguito della contemporaneità. Così il tempo postmoderno rappresenta il sacro in modo nuovo, così come resta pure bisognoso di compimento e di redenzione. Occorre tener conto che gli uomini di oggi reagiscono ancora in modo anticotestamentario, pagano, ellenico, almeno per il 90% della loro vita. Il passo nell’effettività del discorso della montagna e del Nuovo Testamento è sempre davanti a loro, perciò l’elemento ebraico, pagano ed ellenico non è oggi qualcosa di inquietante, è qualcosa di normale. La terra promessa, la realizzazione del Nuovo Testamento sta ancora davanti anche per gli stessi credenti – 6


ciò è avvilente, ma è anche fonte di consolazione. Certo, un primo passo da compiere è quello di considerare il cristianesimo non più quale verità ideologica, ma come motivo invitante. Nel cristianesimo vi è molto da vedere: esso possiede una storia straordinaria, tante cose degne di amore e tanta ricchezza culturale. I misteri che gli appartengono svelano un paesaggio, nel quale per prima cosa si può a lungo spaziare. Non si deve subito e sempre credere, per una volta si può anche vedere. Che si debba subito ritenere vera la fede è una strettoia. Vi è là moltissimo da scoprire a un primo livello introduttivo al vivere: il cristianesimo come motivo della volontà, incoraggiante, che insegua la scoperta. Che sarebbe, se i misteri del cristianesimo (la Trinità, la creazione, il creato, l’incarnazione, il venerdì santo e la Pasqua, la grazia) venissero offerti e presentati in modo esistenziale, sapienziale, proprio come «motivi»? I credenti si risparmierebbero molti spasmi. Un motivo è qualcosa di più forte, non è in alcun modo indefinito, ma ha qualcosa che va verso la direzione del credere, del puntare, della scommessa, del fidarsi. I misteri diventerebbero, allora, spazi e passaggi in cui le donne e gli uomini potrebbero trovare motivi per vivere, per continuare a cercare. Si dovrebbe trovare gioia in un cristianesimo così riscoperto e allora si potrebbe attraversare il nostro tempo in modo diverso. E questo sarebbe l’atteggiamento da augurarsi: gioia nell’avventura, gioia nella molteplicità della storia del cristianesimo e delle sue forme, confessione della nostra mancanza di linguaggio e un humour che saltelli qua e là tra terra e cielo, tra antico e nuovo, tra angoscia e gioia di una continua scoperta.

3.

Conclusione

La rivisitazione della Gaudium et Spes dovrà allora tener conto di questo «mondo mutato» che ci sta davanti e in cui, contemporaneamente, siamo dentro. Sarà importante una ricostruzione storica, finalizzata a restituire le fila dell’intricato dipanarsi della sua redazione; una ripresa di carattere teologico, che punti a illustrare la novità della lezione conciliare, che sono vive fino al nostro tempo; una rilettura di taglio pastorale, tesa a mostrare quanto il documento del Concilio abbia cooperato al rinnovamento della coscienza credente. L’im-pegno è grande e, tuttavia, merita di essere compiuto da tutti coloro che non rinunciano di far riferimento al Vangelo nella loro esperienza quotidiana.

________ FONTI UTILIZZATE ELMAR SALMANN:

Passi e passaggi nel Cristianesimo, Cittadella editrice, 2009 (il testo fa da schema a tutta la riflessione). AA.VV.: 40 anni dalla Gaudium et Spes. Un’eredità da onorare, In dialogo, 2005. FRANCESCO BRANCACCIO: Antropologia di comunione, L’attualità della Gaudium et Spes, Rubbettino ed., 2006. 7


Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 3 «CHI È L’UOMO PERCHÉ TE NE CURI?» (l’antropologia della Gaudium et Spes)

1.

«Un’atmosfera aperta»

L’immagine di papa Giovanni XXIII, l’uomo che ha «voluto» il Concilio Vaticano II (1962-65) «aleggia» sul clima, sull’atmosfera che attraversa tutta la Gaudium et Spes. Quell’invito ad aprire le finestre della grande «casa», che è la Chiesa, per farvi entrare «aria nuova», lo si respira ad ogni pagina del documento conciliare, che raccoglie lo spirito della Pacem in terris (1963) e del discorso di apertura del Concilio stesso, l’11 ottobre 1962, che Giovanni XXIII dedica a tutti coloro che accettano di guardare con simpatia e speranza al futuro dell’umanità. In particolare ci sono quattro atteggiamenti-sensibilità che emergono come caratteristiche peculiari della Gaudium et Spes: l’atteggiamento dialogale, la visione positiva del mondo dell’uomo, la disponibilità all’autocritica della Chiesa stessa, che si riconosce «semper sancta», ma anche «semper meretrix», e la rivendicazione di poter operare come «voce pubblica» nell’interesse di tutti gli uomini e le donne del mondo. a) L’atteggiamento dialogale. Il dialogo è uno dei concetti fondamentali del Concilio Vaticano II e delle discussioni postconciliari. (Si vedano i nn. 3, 19, 21, 25, 40, 43, 56, 85, 90, 92). Come sarà poi indicato da papa Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (1964), si parla di dialogo nella Chiesa, con le altre Chiese e comunità ecclesiali, con le religioni non cristiane e con il mondo di oggi (con le donne e gli uomini immersi in una storia in rapidissimo mutamento). Significativi in proposito sono anche i messaggi del Concilio all’umanità: ai governanti, agli uomini di pensiero e di scienza, alle donne, agli artisti, ai poveri e agli ammalati, ai lavoratori, ai giovani, proposti alla fine dell’assemblea ecumenica. «Nulla di ciò che è umano è estraneo alla riflessione della Chiesa» – dichiara il Concilio, accettando il dialogo come «dimostrazione di solidarietà, di rispetto e di amore nei riguardi dell’intera famiglia umana» (n. 3). b) La visione positiva del mondo dell’uomo. Ciò significa che il Concilio getta uno sguardo molto realistico sugli aspetti critici del mondo moderno, ma non afferma più con toni apocalittici che tutto il mondo è male, quasi opera del maligno («profeti di sventura» chiama Giovanni XXIII coloro che annunciano sempre eventi infausti, quasi che incomba la fine del mondo!). Piuttosto esso sa riconoscere anche ciò che esiste di positivo, cioè gli sforzi di tanti di rendere «umana» la storia! c) La disponibilità all’autocritica della Chiesa stessa, come elemento necessario ad ogni dialogo. Essa non vede la colpa soltanto negli altri, ma riconosce la corresponsabilità dei cristiani nella conduzione della storia e dei suoi errori. Per il Concilio, ad esempio, l’ateismo moderno (n. 19) è in parte generato dai credenti, che «nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio e della religione» o con dottrine fallaci o per «i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale». Si potrebbe dire che questo atteggiamento dell’assise ecumenica ha anticipato coraggiosamente il «mea culpa» (il «nostra culpa») di Giovanni Paolo II. d) La Chiesa come «voce pubblica» degli interessi dell’umanità. Ciò significa che il Concilio rivendica alla comunità cristiana un ruolo pubblico, opponendosi a tutti i tentativi di limitare il campo d’interesse e d’azione a faccende meramente interne, relegandola, per così dire, in «sagrestia». 2


La Chiesa del Vaticano II non si lascia ghettizzare e ridurre a una dimensione puramente intima e personale; essa rivendica una voce pubblica, non per il proprio interesse, ma nell’interesse di tutta l’umanità. Dice infatti la Gaudium et Spes: «È l’uomo dunque, l’uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l’uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine della nostra esposizione» (n. 3). Il Concilio si interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza: «Che cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Che cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che cosa apporta l’uomo alla società, e che cosa può attendersi da essa? Che cosa ci sarà dopo questa vita?» (n. 10).

2.

Il dramma dell’uomo moderno visto dalla Gaudium et Spes (n. 8, 9, 10)

Non si tratta di una descrizione esaustiva della «fatica esistenziale» delle donne e degli uomini del ventesimo secolo, ma di una presa d’atto di ciò che rende difficile l’orientamento in un mondo soggetto a profonde trasformazioni: «L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo» (n. 4). Il Concilio prende atto di vari fattori: da una parte una ricchezza assai superiore al passato e, dall’altra parte, fame e miseria, una crescente esigenza di libertà, accanto a un asservimento sociale e fisico, una dipendenza reciproca accanto a forze in conflitto, tensioni tra razze e gruppi sociali, una crescente socializzazione non accompagnata da una crescente personalizzazione, l’erosione dei valori tradizionali, l’indifferenza religiosa, la crisi latente della famiglia, le rivendicazioni di pari opportunità da parte delle donne (n. 29 e 52) e, infine, altrettanto importante, la lacerazione interna dell’uomo, per quel suo «deposito» di male, di «peccato» che egli porta con sé. Come si può vedere, sono problemi e «drammi» che ci permettono di cogliere l’attenzione del Concilio per la storia concreta dell’umanità, un interesse non astratto, ma partecipato e «sofferto» e, sotto un certo punto di vista, «profetico», cioè anticipatore anche di eventi e situazioni che arrivano fino ai nostri giorni. In particolare la Gaudium et Spes esprime in modo coraggioso e nuovo due convinzioni: a) L’autonomia legittima delle «cose terrene» (cfr. n. 36, 41, 56, 76), affermando che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo deve scoprire, usare e ordinare» (n. 36). Da ciò deriva il riconoscimento dell’autonomia legittima della scienza, della cultura, della politica, attività affidate interamente all’intelligenza e alla responsabilità di ciascuno; – e, di conseguenza, la libertà di azione dei laici nella Chiesa, perché sono loro gli esperti in questi vari campi e sono loro che dispongono delle competenze necessarie per lavorare proficuamente in essi. b) A ciò il Concilio aggiunge la promozione dei diritti umani e la condanna di ogni forma di discriminazione (n. 21, 26, 29, 41, 59, 73, 76). Ogni donna, ogni uomo sono creati «a immagine e somiglianza» (Genesi 1, 27) di Dio e in Cristo, «nuovo Adamo», ciascuno può riconoscere la ricchezza della propria umanità e della propria dignità. La posizione storica assunta dalla Gaudium et Spes a proposito di queste due «convinzioni» appena espresse diventa un punto di riferimento fondamentale per poter affermare che anche per la Chiesa è finita la nostalgia romantica del medioevo e della sua cultura uniforme; è finita la mentalità restauratrice impostasi dopo la rivoluzione francese; è finito anche il tristemente zelante antimodernismo della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX secolo. Certo, occorre anche continuamente vigilare, anche dentro la Chiesa, perché non si torni indietro di fronte alla ricorrente tentazione di una «societas christiana» che ridìa ruolo e pre3


stigio all’istituzione e ripresenti la sua sfiducia e il suo sospetto nei confronti della realtà laica e secolarizzata. L’integralismo resta pur sempre un pericolo reale anche nel nostro tempo. Alla Chiesa è pur sempre offerto un ruolo e un compito: quello di essere lievito di libertà e di giustizia dentro il continuo e rapido fluire degli eventi. Come segno e salvaguardia della persona umana essa è chiamata a promuovere «l’uomo», da «maestra di umanità» come l’ha chiamata Paolo VI nel suo grande discorso all’ONU il 4 ottobre 1965.

3.

«L’antropologia» della Gaudium et Spes

«Tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice» (n. 12). È questa sensibilità che la Gaudium et Spes esprime in maniera così netta che ci fa dire che il documento conciliare aderisce pienamente a quella che viene chiamata la «svolta antropologica» tipica della modernità: è la visione dell’«homo faber fortunae suae», della libertà e dell’autonomia delle donne e degli uomini nella conduzione della propria vita. È la prima volta che all’interno della comunità cristiana si sviluppa una antropologia coerente e strutturata, in sintonia con molti pensieri e riflessioni tipiche del Novecento filosofico (M. Scheler, H. Bergson, M. Heidegger, S. Weil, E. Mounier, la scuola di Francoforte, J.P. Sartre, G. Marcel, ecc. ecc.). In questa nostra ricerca non ci è possibile entrare nel merito di tutte le affermazioni antropologiche della Costituzione conciliare e commentarle nel dettaglio. Mi limiterò, perciò, ad alcuni punti caratteristici, identificabili in quattro «aspetti». a) Il primo è l’acuta coscienza del dramma dell’esistenza umana. Con Blaise Pascal anche il Concilio dice che grandeur et misère dell’uomo vanno di pari passo e che la grandezza dell’uomo consiste proprio nella consapevolezza della sua miseria. Con tale visione realistica e drammatica, la Gaudium et Spes si discosta dalla visione parziale e ottimistica dell’Illuminismo, che crede nella bontà naturale dell’uomo, guastata solo dall’educazione e dai rapporti sociali (J.J. Rousseau). Scrive il Concilio: «Così l’uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando fuori “il principe di questo mondo” (cfr. Io. 12, 31), che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione e sia la profonda miseria, che gli uomini sperimentano» (n. 13). b) Il secondo aspetto è la visione unitaria dell’uomo come unione di anima e di corpo e come essere sociale e relazionale. Il Concilio difende espressamente la dignità del corpo, opponendosi a interpretazioni spiritualistiche riduttive che danno origine a forme difettose di pietà e di ascesi. Così come esso ritiene che l’uomo trascenda l’universo delle cose grazie alla sua razionalità (n. 15). Esso scrive: «Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla 4


risurrezione nell’ultimo giorno. E tuttavia, ferito dal peccato, l’uomo sperimenta le ribellioni del corpo. Perciò è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo, e che non permetta che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore. L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo: in quelle profondità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose» (n. 14). Della natura spirituale dell’uomo fa parte anche la sua libertà, richiesta dalla stessa dignità dell’uomo, che porta con sé «che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna» (n. 17). E, contemporaneamente, fa parte della sua natura anche il suo essere dialogico, in relazione con Dio e con i suoi simili, così che vengono valorizzati tutti gli atteggiamenti di apertura all’altro, compresa la sessualità, la vita di coppia, l’amicizia, la solidarietà, il rispetto tra le persone. c) Il terzo aspetto è forse quello più innovativo e nuovo per la storia della Chiesa cattolica: la questione della coscienza personale, che la Costituzione conciliare definisce «come il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (n. 16). In queste affermazioni ritroviamo il pensiero del grande teologo moderno John Henry Newman (1801-1890): «Dio e l’anima, cor ad cor loquitur, solus cum solo», ma anche la sensibilità di don Primo Mazzolari, antesignano in questo del Concilio Vaticano II. Scrive il Concilio: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito alla abitudine del peccato» (n. 16). Mi piace qui anche citare una riflessione di un testimone qualificato del Concilio, convocato allora come esperto teologo, Joseph Ratzinger, che scrive: «Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo». 5


E mi piace qui anche ricordare che la coscienza, nella sua profondità, è chiamata a rispondere, per «realizzare» se stessa, a quattro «grandi» fedeltà: a se stessi, alla «legge scritta nel cuore», alla storia presente e all’esperienza morale e culturale dell’umanità e, per i credenti, della Chiesa e la sua tradizione. d) E c’è un quarto aspetto dell’antropologia del Concilio: il suo «ancoraggio» (fondamento) cristologico. Scrive la Gaudium et Spes: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (n. 22). Pertanto Cristo non è solo la rivelazione del Padre; egli rivela anche l’uomo a se stesso. Chiunque segue Gesù di Nazareth, l’uomo dall’umanità bella, buona, beata, diventa anch’egli più uomo, una nuova creatura per il Regno di Dio, cioè per la giustizia, la libertà, la pace. Scrive il Concilio: «Il cristiano, poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il Primogenito tra molti fratelli, riceve “le primizie dello Spirito” (Rom. 8, 23), per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore. In virtù di questo Spirito, che è il “pegno della eredità” (Efes. 1, 14), tutto l’uomo viene interiormente rifatto, fino al traguardo della “redenzione del corpo” (Rom. 8, 23): “Se in voi dimora lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù da morte, Egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, a motivo del suo Spirito che abita in voi” (Rom. 8, 11). Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subìre la morte; ma associato al mistero pasquale, come si assimila alla morte di Cristo, così anche andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza. E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. Tale e così grande è il mistero dell’uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la Rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte Egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione a noi ha fatto dono della vita, perché anche noi diventando figli col Figlio possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre».

4.

Piccola conclusione

Nonostante i suoi limiti (anch’essa è un documento «datato») la Gaudium et Spes ha fornito, come si è potuto constatare, un nuovo e importante orientamento per la comunità cristiana nel suo cammino verso il XXI secolo e il terzo Millennio. Essa ha abbandonato l’atteggiamento difensivo e restauratore assunto dalla Chiesa a partire dalla rivoluzione francese. Il Concilio si è sforzato di superare, nei confronti della società, visioni ormai obsolete, che erano il risultato di specifiche condizioni storiche e ha cercato di gettare i fondamenti di una nuova inculturazione del Cristianesimo nel mondo moderno. Come scrive il cardinale Walter Kasper, «in questo senso la Costituzione ha aderito ad una realtà post-illuminista, libera e democratica, riconoscendo concretamente la legittima autonomia della cultura, i diritti umani, la libertà di coscienza e di religione. Ma non lo ha fatto tanto per adeguarsi alla situazione. I passi che ha intrapreso, non li ha compiuti per forza, dovendo accettare e approvare sviluppi che avevano già avuto luogo, ma li ha compiuti in modo indipendente a partire dai propri princìpi, mantenendo uno sguardo critico. Essa ci ha mostrato che noi cristiani non abbiamo nessun motivo di giudicare gli sviluppi moderni sol6


tanto in modo negativo, secondo un’ottica parziale e generalizzante. È bene allora seguire l’invito dell’apostolo Paolo: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1 Tess. 5, 21). Naturalmente, la Costituzione pastorale non poteva precedere il passaggio dal periodo moderno all’attuale situazione post-moderna con le suo nuove sfide e i suoi nuovi problemi. Tale sviluppo ha rimesso in discussione non solo l’eredità cristiana ma anche i grandi ideali del modernismo stesso. L’attuale periodo post-moderno ha perso il legame fra libertà e verità. Soprattutto in Occidente, ha avuto luogo un processo di sfaldamento dei valori tradizionali ed un’ampia perdita di orientamento. Il Concilio non poteva certo prevedere tutte le conseguenze della decolonizzazione e dell’emancipazione del terzo mondo. La tesi dell’indipendenza della Chiesa da una cultura concreta o da un sistema politico specifico (cfr. n. 42) avrebbe avuto in tali paesi un fortissimo impatto e avrebbe condotto all’abbandono dell’eurocentrismo tradizionale. La Costituzione pastorale ha pertanto contribuito a dare una nuova forma per così dire cattolica alla Chiesa universale; grazie ad essa, la Chiesa è diventata per la prima volta in modo concreto una Chiesa mondiale. Gli sviluppi futuri, che sono ancora impossibili da prevedere oggi, non devono diventare un viaggio fantasma nell’universo, in cui la Chiesa è come un razzo proiettato nello spazio infinito mentre non c’è più nessuno a terra ad assicurarne il controllo. È necessario saper rileggere la Costituzione pastorale Gaudium et Spes in modo nuovo, riferendosi ai princìpi che essa ha indicato o almeno suggerito; tali princìpi devono essere ulteriormente sviluppati con pazienza e con determinazione tramite un lavoro teologico approfondito, affinché possano essere applicati coraggiosamente alla nuova situazione, in modo sia costruttivo che critico. Gaudium et Spes, insieme a Dignitatis humanae e ad altri documenti, ha aperto una nuova epoca nella storia della Chiesa nel mezzo di un mondo in rapido mutamento. La Costituzione pastorale ha preparato per il Vangelo la via verso il XXI secolo ricordando e attualizzando la frase di uno dei miei preferiti padri della Chiesa, Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” (Adv. Haer. IV, 20, 7)».

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Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 4 «COSTRUIRE LA PACE» È IL PROGETTO DEI CRISTIANI E DEI CERCATORI DI DIO 1.

Dialogare con il mondo

La Gaudium et Spes, lo abbiamo ormai riconosciuto attraverso le riflessioni precedenti, resterà certamente come uno dei documenti più importanti e significativi del Concilio Vaticano II (1962-65). Ciò che la caratterizza è la disponibilità, coltivata e condivisa, a un dialogo sincero tra Chiesa e mondo, tra Cristianesimo e storia (la storia concreta dell’umanità, singola e comunitaria, personale e collettiva, istituzionale). Sentendosi «responsabili» della salvezza delle donne e degli uomini del nostro tempo, i padri conciliari hanno raccolto la preoccupazione, espressa da alcuni di loro, di cercare di comprendere «questa umanità» e i suoi problemi, la sua mentalità, le sue difficoltà, le gioie e le speranze della gente nelle loro radici più profonde e, insieme, di ripensare il messaggio cristiano, per trarre da esso le parole illuminatrici e apportatrici di «salvezza» adatte ai tempi. Lo aveva affermato Giovanni XXIII all’inizio del Concilio: «Il mondo ha bisogno di Cristo: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo... Questi problemi di acutissima gravità stanno sempre nel cuore della Chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, e il Concilio Ecumenico potrà offrire, con linguaggio chiaro, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana». E Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio (7 dicembre 1965) osservava, quasi per «narrare» l’itinerario della Gaudium et Spes: «Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi inseguirla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente, tra la Chiesa e la società profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone e atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo». E guardando in profondità, commentava: «La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un’anatéma? Poteva essere, ma non è avvenuto! L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». E alle testimonianze dei due papi del Concilio (Giovanni XXIII e Paolo VI) si potrebbe aggiungere quella di Giovanni Paolo II, giovane vescovo di Cracovia al tempo del grande Sinodo ecumenico: «Con questo documento (la Gaudium et Spes evidentemente) – scrive il Papa – i vescovi del mondo intero... intesero manifestare l’amorevole solidarietà della Chiesa verso gli uomini e le donne di questo secolo, segnato da due immani conflitti e attraversato da 2


una profonda crisi di valori spirituali e morali ereditati dalla tradizione. Non era mai accaduto, nella bimillenaria storia della Chiesa, che un Concilio ecumenico rivolgesse con così profondo coinvolgimento la sua preoccupazione pastorale alle vicende dell’umanità. Proprio da qui scaturisce l’interesse particolare che questa Costituzione ha suscitato fin dal suo primo apparire» (8 novembre 1995). Si può riconoscere, anche da queste tre importanti testimonianze, che la Gaudium et Spes mette in luce una sorta di principio di reciprocità, che lega insieme Chiesa e mondo: – c’è «qualcosa» che la Chiesa offre al mondo: «La Chiesa diffonde anche la sua luce per ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo... e crede di contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (GS 40); – e c’è «qualcosa» che il mondo offre alla Chiesa: «La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quando conveniva, il vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. (...) Allo scopo di accrescere tale scambio, oggi, soprattutto, che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti» (GS 44). Tale reciprocità può essere anche interpretata attraverso tre parole significative: tra Chiesa e mondo si riconosce l’urgenza della solidarietà, della condivisione, della compagnia.

2.

Alcuni problemi più urgenti

«Dopo aver esposto di quale dignità è insignita la persona dell’uomo e quale compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il Concilio... attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi temporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (GS 46). E «tra le numerose questioni che oggi destano la sollecitudine di tutti, queste meritano particolare menzione: il matrimonio e la famiglia, la cultura umana, la vita economico-sociale, la vita politica, la solidarietà tra le nazioni, e la pace» (Ivi). È questa la «parte seconda» della Gaudium et Spes (nn. 46-93), che va letta, interpretata, vissuta a partire da alcuni atteggiamenti significativi: – anzitutto il dovere dell’attenzione, dell’essere-dentro, del condividere la condizione umana, dell’essere solidali con la storia dell’umanità; – poi la consapevolezza dell’ambivalenza della situazione, che presenta di continuo il rischio di scambiare (o identificare) il Regno di Dio con le parziali realizzazioni rappresentate dal benessere, dal successo, da ciò che è «positivo» della storia umana (occorre una «riserva escatologica»!); – infine il ruolo preminente della Parola di Dio per ogni giudizio sulla realtà, che sappia ricondurre anche la storia umana al disegno dell’alleanza tra Dio e l’umanità. 3


Ciò che emerge con forza, comunque, da questa «parte seconda» della Gaudium et Spes è il fatto che il Concilio ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e di collegare, quindi, il traguardo escatologico a tutta «la famiglia umana», come a dire che ci si salva o ci si perde insieme, «in solido» come ci si esprimeva nel diritto. Non ci sono, per il Concilio, due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. «La storia è storia di salvezza», è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in «famiglia di Dio» (GS 40). E il traguardo è la Pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV, 28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi il mistero della vita trinitaria. Come il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «non può realizzarsi pienamente, se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24). È per questo che il «sociale», cioè la rete complessa di strutture in cui si deve considerare la vita di relazione di ogni singolo, diviene campo di impegno e di primaria responsabilità morale per ogni cristiano (e donna/uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (GS 37), durerà quanto dura la storia e in essa ciascuno è inevitabilmente inserito. Dei «problemi urgenti» citati sopra non possiamo ora che mettere in evidenza alcuni punti di vista significativi che la Gaudium et Spes ha saputo intravedere per il mondo e la cultura del suo tempo. a)

La dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione (nn. 47-52)

In un contesto di sostanziale continuità con la tradizione culturale della Chiesa sul tema della famiglia, il Concilio ribadisce che «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare», di cui coglie le caratteristiche nell’amore, nella stima e nel rispetto per la vita che legano insieme le persone. Anzi in questo ambito si può cogliere anche un tratto di novità nella Gaudium et Spes nell’identificare nell’amore tra gli sposi il fine primario del matrimonio, anche se non disgiunto dalla disponibilità loro alla procreazione. Scrive il Concilio al n. 52 della Gaudium et Spes: «La famiglia è una scuola di umanità più completa e più ricca. Perché però possa attingere la pienezza della sua vita e del suo compito, è necessaria una amorevole apertura vicendevole di animo tra i coniugi, e la consultazione reciproca ed una continua collaborazione tra i genitori nella educazione dei figli. La presenza attiva del padre giova moltissimo alla loro formazione; ma deve pure essere salvaguardata la presenza e la cura della madre nella casa, di cui abbisognano specialmente, i figli più piccoli. I figli poi, mediante la educazione, devono venire formati in modo che, giunti alla loro maturità, possano seguire con pieno senso di responsabilità la vocazione loro, compresa quella sacra; e se sceglieranno lo stato di vita coniugale, possano formare una propria famiglia nelle condizioni morali, sociali ed economiche per loro veramente favorevoli. È compito poi dei genitori o dei tutori guidare i più giovani nella formazione di una nuova famiglia con il consiglio prudente, presentato in modo che questi lo ascoltino volentieri; dovranno soprattutto evitare di obbligarli, con forme di pressione diretta o indiretta, ad un determinato stato di vita o alla scelta di una determinata persona come coniuge. In questo modo la famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa ed a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società». 4


b)

La promozione del progresso della cultura (nn. 53-62)

Scrive il Concilio: «Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» (GS 53). L’attenzione viene rivolta ai nuovi stili di vita delle donne e degli uomini del nostro tempo; ai «nuovi» modi di pensare, di agire, di impiegare il tempo libero; allo sviluppo dei rapporti tra le varie stirpi e le classi sociali, così da far intravedere una forma più universale di cultura umana, che tanto più promuove l’unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture. Il Concilio si rende conto della straordinaria forza di cambiamento che la cultura porta con sé e nello stesso tempo non se ne nasconde le difficoltà e i compiti: «In qual modo promuovere il dinamismo e l’espansione della nuova cultura senza che si perda la viva fedeltà verso il patrimonio della tradizione? Ciò è di particolare urgenza là dove la cultura che nasce dal grande sviluppo scientifico e tecnico si deve armonizzare con la cultura che, secondo le varie tradizioni, viene alimentata dagli studi classici. In qual maniera armonizzare una così rapida e crescente dispersione delle scienze particolari, con la necessità di farne la sintesi, e di mantenere nell’uomo le facoltà della contemplazione e dell’ammirazione che conducono alla sapienza? Che cosa fare affinché gli uomini di tutto il mondo siano resi partecipi dei beni della cultura, proprio quando la cultura degli specialisti diviene sempre più profonda e complessa? Come infine si deve fare per riconoscere come legittima l’autonomia che la cultura rivendica a se stessa senza cadere in un umanesimo puramente terrestre, anzi avverso alla religione? Nonostante queste antinomie, la cultura umana oggi si deve sviluppare in modo da perfezionare, con giusto ordine, la persona umana nella sua integrità e da aiutare gli uomini nell’esplicazione di quei compiti, al cui adempimento tutti, ma specialmente i cristiani, fraternamente uniti in una sola famiglia umana, sono chiamati» (GS 56).

c)

La vita economico-sociale (nn. 63-72)

Scrive il Concilio: «Anche nella vita economico-sociale sono da tenere in massimo rilievo e da promuovere la dignità ed integrale vocazione della persona umana come pure il bene dell’intera società. L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale» (GS 63). Ciò che è interessante sottolineare è il fatto che l’attività economica diventa oggetto di riflessione teologica ed etica: il cristiano è chiamato urgentemente a capire che cosa sia oggi «economia» su un doppio versante: quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica si svolge (produzione, distribuzione, finanza) e quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate e mantenute dalle dette strutture. Ci si rende conto, infatti, che nessuna forma di vita economica può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio che di Stato sovrano e, nello stesso tempo, che oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana, la globalizzazione, che per il suo aspetto positivo, porta con sé l’idea che la famiglia umana va considerata come un unico cor5


po sociale. La stessa idea tradizionale di «bene comune» deve intendersi come «bene comune del genere umano». Nel contesto dell’economia una grande attenzione viene riservata al lavoro, alle condizioni in cui esso si svolge (n. 67), ai conflitti di lavoro (n. 68) e alla partecipazione dell’individuo alla vita dell’impresa (ivi). Un paragrafo importante ricorda, poi, la destinazione dei beni della terra a tutti gli uomini: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità. Pertanto, quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della Chiesa quando hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. Considerando il fatto del numero assai elevato di coloro che sono oppressi dalla fame, il Sacro Concilio richiama urgentemente tutti, sia singoli che autorità pubbliche, affinché – memori della sentenza dei Padri: “Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non lo avrai nutrito, lo avrai ucciso” –, realmente mettano a disposizione ed impieghino utilmente i propri beni, ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi» (GS 69).

d)

La vita della comunità politica (nn. 72-76)

Scrive il Concilio che «da una coscienza più viva della dignità umana sorge, in diverse regioni del mondo, lo sforzo di instaurare un ordine politico-giuridico, nel quale siano meglio tutelati nella vita pubblica i diritti della persona, quali il diritto di liberamente riunirsi, associarsi, esprimere le proprie opinioni e professare la religione privatamente e pubblicamente» (n. 73). «La comunità politica esiste in funzione del bene comune nel quale essa trova significato e piena giustificazione e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio» (n. 74). Tutti i cittadini sono perciò chiamati a collaborare alla costruzione della comunità politica. Scrive il Concilio: «La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità. Affinché la responsabile collaborazione dei cittadini, congiunta con la coscienza del dovere, possa ottenere felici risultati nella vita politica quotidiana, si richiede un ordinamento giuridico positivo, che si organizzi una opportuna ripartizione delle funzioni e degli organi del potere, insieme ad una protezione efficace e indipendente dei diritti. I diritti delle persone, delle famiglie e dei gruppi e il loro esercizio devono essere riconosciuti, rispettati e promossi, non meno dei doveri ai quali ogni cittadino è tenuto. Tra questi ultimi non sarà inutile ricordare il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, materiali e personali, richieste dal bene comune. Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire. 6


Si guardino i cittadini dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente ad essa eccessivi vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie e dei gruppi sociali» (GS 75).

e)

La promozione della pace e della comunità dei popoli (nn. 77-93)

È l’ultimo capitolo della Gaudium et Spes ed è quello che dà l’intonazione, se così si può dire, anche ai precedenti argomenti già considerati. La costruzione del Regno di Dio (non solo della Chiesa) si può realizzare pienamente soltanto attraverso una pace vera e duratura. Non ci sono più guerre giuste, per il Concilio Vaticano II: «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città e di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato» (n. 80). Pur in mezzo a titubanze, malumori, sottili sarcasmi il Concilio scrive una delle pagine più significative (insieme a quelle di donne e uomini straordinari come Gandhi, La Pira, ecc. ecc.) sul «dovere» della pace: «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia. È il frutto dell’ordine impresso nell’umana società dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta. Poiché infatti il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma è soggetto, con il progresso del tempo, per quanto concerne le sue concrete esigenze, a continue variazioni, la pace non è stata mai qualcosa di stabilmente raggiunto, ma è un edificio da costruirsi continuamente. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita per di più dal peccato, l’acquisto della pace esige il costante dominio delle passioni di ognuno e la vigilanza della legittima autorità. Tuttavia questo non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può assicurare la semplice giustizia. La pace terrena tuttavia, che nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana dal Padre. Il Figlio incarnato infatti, principe della pace, per mezzo della sua Croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio e, ristabilendo l’unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha ucciso nella sua carne l’odio e, nella gloria della sua Risurrezione, ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini» (n. 78). Resta comunque vero che anche oggi la pace, anche nella Chiesa stessa (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica) è sempre di difficile, lenta, sofferta digestione.

3.

Alcuni pensieri conclusivi

Abbiamo percorso insieme un itinerario denso di spunti e di provocazioni salutari, come è senz’altro quello della Gaudium et Spes, attraverso la quale il Concilio Vaticano II si è fatto speranza per il mondo, sia attraverso lo scrutare «i segni dei tempi», sia ponendo davanti al mondo i grandi temi della «dignità umana» e della «costruzione della pace» come compito di credenti e donne e uomini di «buona volontà». Non tutto è stato detto e non tutto è stato detto con «parresìa» (franchezza) e «verità». Il post-Concilio, per esempio, ha visto emergere nuovi problemi e nuove questioni, che non 7


hanno trovato adeguata attenzione nemmeno nella Gaudium et Spes: la questione femminile, i problemi dell’ecologia, la relazione Nord-Sud del mondo, il significato della sofferenza umana e del dolore nel mondo... Ma il Concilio ci invita a continuare a cercare, come scrive la Gaudium et Spes al n. 91: «Ma volutamente, dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella Chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, la esposizione della dottrina dovrà essere continuata e ampliata» (n. 91). Ci sono d’altra parte alcuni «passaggi», che non possono essere cancellati o andare perduti. Ad esempio Raniero La Valle in un bel capitolo del libro Chiesa del Concilio dove sei? (AA.VV., Ed. Cittadella, 2009), dal lungo titolo Chiesa del Concilio dove sei? Dove vai? Quanto ancora da realizzare? E quanto oltre da cercare?, scrive che il Concilio non ha più ripetuto vecchie dottrine: «1) Il Concilio non ha più detto che extra Ecclesiam nulla salus, che la Chiesa visibile, la Chiesa romana, è l’unica e obbligata via di salvezza. Non aver detto questo ha legittimato l’ecumenismo, ha portato al riconoscimento delle altre Chiese, ha aperto le vie della comunione con l’Islam, con gli ebrei, con gli indù, i buddisti, gli animisti, i confuciani, i non credenti e tutte le culture del mondo. Come abbiamo visto, il Concilio non ha ribadito, come era stato richiesto di fare, che i morti senza battesimo non si possono salvare: i bambini, ma anche gli adulti. 2) Il Concilio non ha ripetuto, per negare la libertà religiosa, la formula che era molto in voga fino al Concilio secondo cui l’errore non ha diritti, ma solo la verità li ha, perciò si possono tranquillamente togliere agli uomini i diritti di libertà di coscienza, di parola, di religione perché non hanno la verità. Anche la verità è debole, ed essa non si impone che in virtù della stessa verità (Dignitatis humanae, n. 1). 3) Non ha ribadito la pura e semplice identificazione tra la Chiesa visibile e il Cristo, secondo la dottrina giunta fino alla Mystici Corporis, ma sia pure a fatica, timidamente, il Concilio si è astenuto dal dire che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, e ha detto invece che essa sussiste nella Chiesa cattolica, senza perciò esaurirsi in essa. Ciò introduce uno snodo tra Chiesa e Cristo, che evita alla Chiesa il delirio del potere che ha avuto per tutto il secondo millennio e apre lo spazio della laicità. 4) Non ha ripetuto la condanna del mondo, né ha fatto tutto l’elenco degli errori moderni, dal nudismo alla psicanalisi, all’amore non procreativo, tacciato dal cardinale Ruffini come “fetido onanismo coniugale”. Un elenco degli errori che era stato richiesto di fare dai vescovi che avevano espresso i loro desideri nei vota, cioè nelle lettere, mandate a Roma prima del Concilio. 5) Non ha spiccato la condanna contro il comunismo che dopo pochi decenni si sarebbe rivelata superflua e avrebbe messo la Chiesa in mezzo a un conflitto politico tutto umano, riducendola senza residui a Chiesa d’Occidente. Tutto questo, e molte altre cose, non ha detto e non ha fatto il Concilio e questo è forse altrettanto importante di quello che ha fatto e detto, perché ha lasciato cadere una rappresentazione della fede incomportabile per l’uomo, un’immagine di Dio foriera di angoscia, di paura e non di forza e di consolazione, e una concezione della Chiesa arcigna, esclusivista, teocratica e clerocentrica» (Ivi, pp. 85-86). Vale allora la pena di raccogliere l’invito di un grande personaggio della teologia morale italiana, Enrico Chiavacci, attento indagatore del nostro tempo. Egli scrive: «Vorrei concludere con un invito al coraggio. Il coraggio di sapere sempre andare oltre, di non prendere mai per 8


stabile e intoccabile il sistema di convivenza della famiglia umana. Il coraggio di sapere rimettere continuamente in questione i nostri modelli culturali, filosofici e anche teologici, i nostri modelli di “vita buona”. Dio Creatore e Salvatore opera nel continuo evolversi dell’universo, e opera nella storia della famiglia umana anche attraverso le nostre scelte. Il traguardo è l’ultimo giorno, e sarà il dono finale di Dio: la perfezione della convivenza nella carità. La storia è un cammino verso tale traguardo, “nell’attesa della beata speranza”: e perciò non possiamo mai fermarci sull’oggi, con il pretesto della stabilità delle istituzioni. Tutto ciò che è istituzione, fosse pure ecclesiastica, è morte se è presa come fine a se stessa. Il cristiano sa che la compiutezza del Regno – il vero bene comune dell’umanità – è sempre al di là dell’esistente. La critica dell’esistente è essenziale per ogni cristiano e per la Chiesa. È la possibilità di leggere la storia come cammino: come realizzazione, sempre insufficiente ma non per questo meno doverosa, del progetto di Dio per la famiglia umana» (in Rivista di teologia morale, n. 137, p. 35).

9


Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 3 «CHI È L’UOMO PERCHÉ TE NE CURI?» (l’antropologia della Gaudium et Spes)

1.

«Un’atmosfera aperta»

L’immagine di papa Giovanni XXIII, l’uomo che ha «voluto» il Concilio Vaticano II (1962-65) «aleggia» sul clima, sull’atmosfera che attraversa tutta la Gaudium et Spes. Quell’invito ad aprire le finestre della grande «casa», che è la Chiesa, per farvi entrare «aria nuova», lo si respira ad ogni pagina del documento conciliare, che raccoglie lo spirito della Pacem in terris (1963) e del discorso di apertura del Concilio stesso, l’11 ottobre 1962, che Giovanni XXIII dedica a tutti coloro che accettano di guardare con simpatia e speranza al futuro dell’umanità. In particolare ci sono quattro atteggiamenti-sensibilità che emergono come caratteristiche peculiari della Gaudium et Spes: l’atteggiamento dialogale, la visione positiva del mondo dell’uomo, la disponibilità all’autocritica della Chiesa stessa, che si riconosce «semper sancta», ma anche «semper meretrix», e la rivendicazione di poter operare come «voce pubblica» nell’interesse di tutti gli uomini e le donne del mondo. a) L’atteggiamento dialogale. Il dialogo è uno dei concetti fondamentali del Concilio Vaticano II e delle discussioni postconciliari. (Si vedano i nn. 3, 19, 21, 25, 40, 43, 56, 85, 90, 92). Come sarà poi indicato da papa Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (1964), si parla di dialogo nella Chiesa, con le altre Chiese e comunità ecclesiali, con le religioni non cristiane e con il mondo di oggi (con le donne e gli uomini immersi in una storia in rapidissimo mutamento). Significativi in proposito sono anche i messaggi del Concilio all’umanità: ai governanti, agli uomini di pensiero e di scienza, alle donne, agli artisti, ai poveri e agli ammalati, ai lavoratori, ai giovani, proposti alla fine dell’assemblea ecumenica. «Nulla di ciò che è umano è estraneo alla riflessione della Chiesa» – dichiara il Concilio, accettando il dialogo come «dimostrazione di solidarietà, di rispetto e di amore nei riguardi dell’intera famiglia umana» (n. 3). b) La visione positiva del mondo dell’uomo. Ciò significa che il Concilio getta uno sguardo molto realistico sugli aspetti critici del mondo moderno, ma non afferma più con toni apocalittici che tutto il mondo è male, quasi opera del maligno («profeti di sventura» chiama Giovanni XXIII coloro che annunciano sempre eventi infausti, quasi che incomba la fine del mondo!). Piuttosto esso sa riconoscere anche ciò che esiste di positivo, cioè gli sforzi di tanti di rendere «umana» la storia! c) La disponibilità all’autocritica della Chiesa stessa, come elemento necessario ad ogni dialogo. Essa non vede la colpa soltanto negli altri, ma riconosce la corresponsabilità dei cristiani nella conduzione della storia e dei suoi errori. Per il Concilio, ad esempio, l’ateismo moderno (n. 19) è in parte generato dai credenti, che «nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio e della religione» o con dottrine fallaci o per «i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale». Si potrebbe dire che questo atteggiamento dell’assise ecumenica ha anticipato coraggiosamente il «mea culpa» (il «nostra culpa») di Giovanni Paolo II. d) La Chiesa come «voce pubblica» degli interessi dell’umanità. Ciò significa che il Concilio rivendica alla comunità cristiana un ruolo pubblico, opponendosi a tutti i tentativi di limitare il campo d’interesse e d’azione a faccende meramente interne, relegandola, per così dire, in «sagrestia». 2


La Chiesa del Vaticano II non si lascia ghettizzare e ridurre a una dimensione puramente intima e personale; essa rivendica una voce pubblica, non per il proprio interesse, ma nell’interesse di tutta l’umanità. Dice infatti la Gaudium et Spes: «È l’uomo dunque, l’uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l’uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine della nostra esposizione» (n. 3). Il Concilio si interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza: «Che cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Che cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che cosa apporta l’uomo alla società, e che cosa può attendersi da essa? Che cosa ci sarà dopo questa vita?» (n. 10).

2.

Il dramma dell’uomo moderno visto dalla Gaudium et Spes (n. 8, 9, 10)

Non si tratta di una descrizione esaustiva della «fatica esistenziale» delle donne e degli uomini del ventesimo secolo, ma di una presa d’atto di ciò che rende difficile l’orientamento in un mondo soggetto a profonde trasformazioni: «L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo» (n. 4). Il Concilio prende atto di vari fattori: da una parte una ricchezza assai superiore al passato e, dall’altra parte, fame e miseria, una crescente esigenza di libertà, accanto a un asservimento sociale e fisico, una dipendenza reciproca accanto a forze in conflitto, tensioni tra razze e gruppi sociali, una crescente socializzazione non accompagnata da una crescente personalizzazione, l’erosione dei valori tradizionali, l’indifferenza religiosa, la crisi latente della famiglia, le rivendicazioni di pari opportunità da parte delle donne (n. 29 e 52) e, infine, altrettanto importante, la lacerazione interna dell’uomo, per quel suo «deposito» di male, di «peccato» che egli porta con sé. Come si può vedere, sono problemi e «drammi» che ci permettono di cogliere l’attenzione del Concilio per la storia concreta dell’umanità, un interesse non astratto, ma partecipato e «sofferto» e, sotto un certo punto di vista, «profetico», cioè anticipatore anche di eventi e situazioni che arrivano fino ai nostri giorni. In particolare la Gaudium et Spes esprime in modo coraggioso e nuovo due convinzioni: a) L’autonomia legittima delle «cose terrene» (cfr. n. 36, 41, 56, 76), affermando che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo deve scoprire, usare e ordinare» (n. 36). Da ciò deriva il riconoscimento dell’autonomia legittima della scienza, della cultura, della politica, attività affidate interamente all’intelligenza e alla responsabilità di ciascuno; – e, di conseguenza, la libertà di azione dei laici nella Chiesa, perché sono loro gli esperti in questi vari campi e sono loro che dispongono delle competenze necessarie per lavorare proficuamente in essi. b) A ciò il Concilio aggiunge la promozione dei diritti umani e la condanna di ogni forma di discriminazione (n. 21, 26, 29, 41, 59, 73, 76). Ogni donna, ogni uomo sono creati «a immagine e somiglianza» (Genesi 1, 27) di Dio e in Cristo, «nuovo Adamo», ciascuno può riconoscere la ricchezza della propria umanità e della propria dignità. La posizione storica assunta dalla Gaudium et Spes a proposito di queste due «convinzioni» appena espresse diventa un punto di riferimento fondamentale per poter affermare che anche per la Chiesa è finita la nostalgia romantica del medioevo e della sua cultura uniforme; è finita la mentalità restauratrice impostasi dopo la rivoluzione francese; è finito anche il tristemente zelante antimodernismo della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX secolo. Certo, occorre anche continuamente vigilare, anche dentro la Chiesa, perché non si torni indietro di fronte alla ricorrente tentazione di una «societas christiana» che ridìa ruolo e pre3


stigio all’istituzione e ripresenti la sua sfiducia e il suo sospetto nei confronti della realtà laica e secolarizzata. L’integralismo resta pur sempre un pericolo reale anche nel nostro tempo. Alla Chiesa è pur sempre offerto un ruolo e un compito: quello di essere lievito di libertà e di giustizia dentro il continuo e rapido fluire degli eventi. Come segno e salvaguardia della persona umana essa è chiamata a promuovere «l’uomo», da «maestra di umanità» come l’ha chiamata Paolo VI nel suo grande discorso all’ONU il 4 ottobre 1965.

3.

«L’antropologia» della Gaudium et Spes

«Tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice» (n. 12). È questa sensibilità che la Gaudium et Spes esprime in maniera così netta che ci fa dire che il documento conciliare aderisce pienamente a quella che viene chiamata la «svolta antropologica» tipica della modernità: è la visione dell’«homo faber fortunae suae», della libertà e dell’autonomia delle donne e degli uomini nella conduzione della propria vita. È la prima volta che all’interno della comunità cristiana si sviluppa una antropologia coerente e strutturata, in sintonia con molti pensieri e riflessioni tipiche del Novecento filosofico (M. Scheler, H. Bergson, M. Heidegger, S. Weil, E. Mounier, la scuola di Francoforte, J.P. Sartre, G. Marcel, ecc. ecc.). In questa nostra ricerca non ci è possibile entrare nel merito di tutte le affermazioni antropologiche della Costituzione conciliare e commentarle nel dettaglio. Mi limiterò, perciò, ad alcuni punti caratteristici, identificabili in quattro «aspetti». a) Il primo è l’acuta coscienza del dramma dell’esistenza umana. Con Blaise Pascal anche il Concilio dice che grandeur et misère dell’uomo vanno di pari passo e che la grandezza dell’uomo consiste proprio nella consapevolezza della sua miseria. Con tale visione realistica e drammatica, la Gaudium et Spes si discosta dalla visione parziale e ottimistica dell’Illuminismo, che crede nella bontà naturale dell’uomo, guastata solo dall’educazione e dai rapporti sociali (J.J. Rousseau). Scrive il Concilio: «Così l’uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando fuori “il principe di questo mondo” (cfr. Io. 12, 31), che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza. Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione e sia la profonda miseria, che gli uomini sperimentano» (n. 13). b) Il secondo aspetto è la visione unitaria dell’uomo come unione di anima e di corpo e come essere sociale e relazionale. Il Concilio difende espressamente la dignità del corpo, opponendosi a interpretazioni spiritualistiche riduttive che danno origine a forme difettose di pietà e di ascesi. Così come esso ritiene che l’uomo trascenda l’universo delle cose grazie alla sua razionalità (n. 15). Esso scrive: «Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla 4


risurrezione nell’ultimo giorno. E tuttavia, ferito dal peccato, l’uomo sperimenta le ribellioni del corpo. Perciò è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo, e che non permetta che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore. L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo: in quelle profondità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose» (n. 14). Della natura spirituale dell’uomo fa parte anche la sua libertà, richiesta dalla stessa dignità dell’uomo, che porta con sé «che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna» (n. 17). E, contemporaneamente, fa parte della sua natura anche il suo essere dialogico, in relazione con Dio e con i suoi simili, così che vengono valorizzati tutti gli atteggiamenti di apertura all’altro, compresa la sessualità, la vita di coppia, l’amicizia, la solidarietà, il rispetto tra le persone. c) Il terzo aspetto è forse quello più innovativo e nuovo per la storia della Chiesa cattolica: la questione della coscienza personale, che la Costituzione conciliare definisce «come il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (n. 16). In queste affermazioni ritroviamo il pensiero del grande teologo moderno John Henry Newman (1801-1890): «Dio e l’anima, cor ad cor loquitur, solus cum solo», ma anche la sensibilità di don Primo Mazzolari, antesignano in questo del Concilio Vaticano II. Scrive il Concilio: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito alla abitudine del peccato» (n. 16). Mi piace qui anche citare una riflessione di un testimone qualificato del Concilio, convocato allora come esperto teologo, Joseph Ratzinger, che scrive: «Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo». 5


E mi piace qui anche ricordare che la coscienza, nella sua profondità, è chiamata a rispondere, per «realizzare» se stessa, a quattro «grandi» fedeltà: a se stessi, alla «legge scritta nel cuore», alla storia presente e all’esperienza morale e culturale dell’umanità e, per i credenti, della Chiesa e la sua tradizione. d) E c’è un quarto aspetto dell’antropologia del Concilio: il suo «ancoraggio» (fondamento) cristologico. Scrive la Gaudium et Spes: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (n. 22). Pertanto Cristo non è solo la rivelazione del Padre; egli rivela anche l’uomo a se stesso. Chiunque segue Gesù di Nazareth, l’uomo dall’umanità bella, buona, beata, diventa anch’egli più uomo, una nuova creatura per il Regno di Dio, cioè per la giustizia, la libertà, la pace. Scrive il Concilio: «Il cristiano, poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il Primogenito tra molti fratelli, riceve “le primizie dello Spirito” (Rom. 8, 23), per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore. In virtù di questo Spirito, che è il “pegno della eredità” (Efes. 1, 14), tutto l’uomo viene interiormente rifatto, fino al traguardo della “redenzione del corpo” (Rom. 8, 23): “Se in voi dimora lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù da morte, Egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, a motivo del suo Spirito che abita in voi” (Rom. 8, 11). Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subìre la morte; ma associato al mistero pasquale, come si assimila alla morte di Cristo, così anche andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza. E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. Tale e così grande è il mistero dell’uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la Rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte Egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione a noi ha fatto dono della vita, perché anche noi diventando figli col Figlio possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre».

4.

Piccola conclusione

Nonostante i suoi limiti (anch’essa è un documento «datato») la Gaudium et Spes ha fornito, come si è potuto constatare, un nuovo e importante orientamento per la comunità cristiana nel suo cammino verso il XXI secolo e il terzo Millennio. Essa ha abbandonato l’atteggiamento difensivo e restauratore assunto dalla Chiesa a partire dalla rivoluzione francese. Il Concilio si è sforzato di superare, nei confronti della società, visioni ormai obsolete, che erano il risultato di specifiche condizioni storiche e ha cercato di gettare i fondamenti di una nuova inculturazione del Cristianesimo nel mondo moderno. Come scrive il cardinale Walter Kasper, «in questo senso la Costituzione ha aderito ad una realtà post-illuminista, libera e democratica, riconoscendo concretamente la legittima autonomia della cultura, i diritti umani, la libertà di coscienza e di religione. Ma non lo ha fatto tanto per adeguarsi alla situazione. I passi che ha intrapreso, non li ha compiuti per forza, dovendo accettare e approvare sviluppi che avevano già avuto luogo, ma li ha compiuti in modo indipendente a partire dai propri princìpi, mantenendo uno sguardo critico. Essa ci ha mostrato che noi cristiani non abbiamo nessun motivo di giudicare gli sviluppi moderni sol6


tanto in modo negativo, secondo un’ottica parziale e generalizzante. È bene allora seguire l’invito dell’apostolo Paolo: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1 Tess. 5, 21). Naturalmente, la Costituzione pastorale non poteva precedere il passaggio dal periodo moderno all’attuale situazione post-moderna con le suo nuove sfide e i suoi nuovi problemi. Tale sviluppo ha rimesso in discussione non solo l’eredità cristiana ma anche i grandi ideali del modernismo stesso. L’attuale periodo post-moderno ha perso il legame fra libertà e verità. Soprattutto in Occidente, ha avuto luogo un processo di sfaldamento dei valori tradizionali ed un’ampia perdita di orientamento. Il Concilio non poteva certo prevedere tutte le conseguenze della decolonizzazione e dell’emancipazione del terzo mondo. La tesi dell’indipendenza della Chiesa da una cultura concreta o da un sistema politico specifico (cfr. n. 42) avrebbe avuto in tali paesi un fortissimo impatto e avrebbe condotto all’abbandono dell’eurocentrismo tradizionale. La Costituzione pastorale ha pertanto contribuito a dare una nuova forma per così dire cattolica alla Chiesa universale; grazie ad essa, la Chiesa è diventata per la prima volta in modo concreto una Chiesa mondiale. Gli sviluppi futuri, che sono ancora impossibili da prevedere oggi, non devono diventare un viaggio fantasma nell’universo, in cui la Chiesa è come un razzo proiettato nello spazio infinito mentre non c’è più nessuno a terra ad assicurarne il controllo. È necessario saper rileggere la Costituzione pastorale Gaudium et Spes in modo nuovo, riferendosi ai princìpi che essa ha indicato o almeno suggerito; tali princìpi devono essere ulteriormente sviluppati con pazienza e con determinazione tramite un lavoro teologico approfondito, affinché possano essere applicati coraggiosamente alla nuova situazione, in modo sia costruttivo che critico. Gaudium et Spes, insieme a Dignitatis humanae e ad altri documenti, ha aperto una nuova epoca nella storia della Chiesa nel mezzo di un mondo in rapido mutamento. La Costituzione pastorale ha preparato per il Vangelo la via verso il XXI secolo ricordando e attualizzando la frase di uno dei miei preferiti padri della Chiesa, Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” (Adv. Haer. IV, 20, 7)».

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Concilio Vaticano II: Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

«Gaudium et Spes» ...e il Concilio si fece speranza per il mondo

DON MARCELLO

CANOVA – TRENTO

FARINA


 4 «COSTRUIRE LA PACE» È IL PROGETTO DEI CRISTIANI E DEI CERCATORI DI DIO 1.

Dialogare con il mondo

La Gaudium et Spes, lo abbiamo ormai riconosciuto attraverso le riflessioni precedenti, resterà certamente come uno dei documenti più importanti e significativi del Concilio Vaticano II (1962-65). Ciò che la caratterizza è la disponibilità, coltivata e condivisa, a un dialogo sincero tra Chiesa e mondo, tra Cristianesimo e storia (la storia concreta dell’umanità, singola e comunitaria, personale e collettiva, istituzionale). Sentendosi «responsabili» della salvezza delle donne e degli uomini del nostro tempo, i padri conciliari hanno raccolto la preoccupazione, espressa da alcuni di loro, di cercare di comprendere «questa umanità» e i suoi problemi, la sua mentalità, le sue difficoltà, le gioie e le speranze della gente nelle loro radici più profonde e, insieme, di ripensare il messaggio cristiano, per trarre da esso le parole illuminatrici e apportatrici di «salvezza» adatte ai tempi. Lo aveva affermato Giovanni XXIII all’inizio del Concilio: «Il mondo ha bisogno di Cristo: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo... Questi problemi di acutissima gravità stanno sempre nel cuore della Chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, e il Concilio Ecumenico potrà offrire, con linguaggio chiaro, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana». E Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio (7 dicembre 1965) osservava, quasi per «narrare» l’itinerario della Gaudium et Spes: «Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi inseguirla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente, tra la Chiesa e la società profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone e atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo». E guardando in profondità, commentava: «La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un’anatéma? Poteva essere, ma non è avvenuto! L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». E alle testimonianze dei due papi del Concilio (Giovanni XXIII e Paolo VI) si potrebbe aggiungere quella di Giovanni Paolo II, giovane vescovo di Cracovia al tempo del grande Sinodo ecumenico: «Con questo documento (la Gaudium et Spes evidentemente) – scrive il Papa – i vescovi del mondo intero... intesero manifestare l’amorevole solidarietà della Chiesa verso gli uomini e le donne di questo secolo, segnato da due immani conflitti e attraversato da 2


una profonda crisi di valori spirituali e morali ereditati dalla tradizione. Non era mai accaduto, nella bimillenaria storia della Chiesa, che un Concilio ecumenico rivolgesse con così profondo coinvolgimento la sua preoccupazione pastorale alle vicende dell’umanità. Proprio da qui scaturisce l’interesse particolare che questa Costituzione ha suscitato fin dal suo primo apparire» (8 novembre 1995). Si può riconoscere, anche da queste tre importanti testimonianze, che la Gaudium et Spes mette in luce una sorta di principio di reciprocità, che lega insieme Chiesa e mondo: – c’è «qualcosa» che la Chiesa offre al mondo: «La Chiesa diffonde anche la sua luce per ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo... e crede di contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (GS 40); – e c’è «qualcosa» che il mondo offre alla Chiesa: «La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quando conveniva, il vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. (...) Allo scopo di accrescere tale scambio, oggi, soprattutto, che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti» (GS 44). Tale reciprocità può essere anche interpretata attraverso tre parole significative: tra Chiesa e mondo si riconosce l’urgenza della solidarietà, della condivisione, della compagnia.

2.

Alcuni problemi più urgenti

«Dopo aver esposto di quale dignità è insignita la persona dell’uomo e quale compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il Concilio... attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi temporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (GS 46). E «tra le numerose questioni che oggi destano la sollecitudine di tutti, queste meritano particolare menzione: il matrimonio e la famiglia, la cultura umana, la vita economico-sociale, la vita politica, la solidarietà tra le nazioni, e la pace» (Ivi). È questa la «parte seconda» della Gaudium et Spes (nn. 46-93), che va letta, interpretata, vissuta a partire da alcuni atteggiamenti significativi: – anzitutto il dovere dell’attenzione, dell’essere-dentro, del condividere la condizione umana, dell’essere solidali con la storia dell’umanità; – poi la consapevolezza dell’ambivalenza della situazione, che presenta di continuo il rischio di scambiare (o identificare) il Regno di Dio con le parziali realizzazioni rappresentate dal benessere, dal successo, da ciò che è «positivo» della storia umana (occorre una «riserva escatologica»!); – infine il ruolo preminente della Parola di Dio per ogni giudizio sulla realtà, che sappia ricondurre anche la storia umana al disegno dell’alleanza tra Dio e l’umanità. 3


Ciò che emerge con forza, comunque, da questa «parte seconda» della Gaudium et Spes è il fatto che il Concilio ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e di collegare, quindi, il traguardo escatologico a tutta «la famiglia umana», come a dire che ci si salva o ci si perde insieme, «in solido» come ci si esprimeva nel diritto. Non ci sono, per il Concilio, due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. «La storia è storia di salvezza», è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in «famiglia di Dio» (GS 40). E il traguardo è la Pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV, 28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi il mistero della vita trinitaria. Come il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «non può realizzarsi pienamente, se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24). È per questo che il «sociale», cioè la rete complessa di strutture in cui si deve considerare la vita di relazione di ogni singolo, diviene campo di impegno e di primaria responsabilità morale per ogni cristiano (e donna/uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (GS 37), durerà quanto dura la storia e in essa ciascuno è inevitabilmente inserito. Dei «problemi urgenti» citati sopra non possiamo ora che mettere in evidenza alcuni punti di vista significativi che la Gaudium et Spes ha saputo intravedere per il mondo e la cultura del suo tempo. a)

La dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione (nn. 47-52)

In un contesto di sostanziale continuità con la tradizione culturale della Chiesa sul tema della famiglia, il Concilio ribadisce che «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare», di cui coglie le caratteristiche nell’amore, nella stima e nel rispetto per la vita che legano insieme le persone. Anzi in questo ambito si può cogliere anche un tratto di novità nella Gaudium et Spes nell’identificare nell’amore tra gli sposi il fine primario del matrimonio, anche se non disgiunto dalla disponibilità loro alla procreazione. Scrive il Concilio al n. 52 della Gaudium et Spes: «La famiglia è una scuola di umanità più completa e più ricca. Perché però possa attingere la pienezza della sua vita e del suo compito, è necessaria una amorevole apertura vicendevole di animo tra i coniugi, e la consultazione reciproca ed una continua collaborazione tra i genitori nella educazione dei figli. La presenza attiva del padre giova moltissimo alla loro formazione; ma deve pure essere salvaguardata la presenza e la cura della madre nella casa, di cui abbisognano specialmente, i figli più piccoli. I figli poi, mediante la educazione, devono venire formati in modo che, giunti alla loro maturità, possano seguire con pieno senso di responsabilità la vocazione loro, compresa quella sacra; e se sceglieranno lo stato di vita coniugale, possano formare una propria famiglia nelle condizioni morali, sociali ed economiche per loro veramente favorevoli. È compito poi dei genitori o dei tutori guidare i più giovani nella formazione di una nuova famiglia con il consiglio prudente, presentato in modo che questi lo ascoltino volentieri; dovranno soprattutto evitare di obbligarli, con forme di pressione diretta o indiretta, ad un determinato stato di vita o alla scelta di una determinata persona come coniuge. In questo modo la famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa ed a comporre convenientemente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fondamento della società». 4


b)

La promozione del progresso della cultura (nn. 53-62)

Scrive il Concilio: «Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» (GS 53). L’attenzione viene rivolta ai nuovi stili di vita delle donne e degli uomini del nostro tempo; ai «nuovi» modi di pensare, di agire, di impiegare il tempo libero; allo sviluppo dei rapporti tra le varie stirpi e le classi sociali, così da far intravedere una forma più universale di cultura umana, che tanto più promuove l’unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture. Il Concilio si rende conto della straordinaria forza di cambiamento che la cultura porta con sé e nello stesso tempo non se ne nasconde le difficoltà e i compiti: «In qual modo promuovere il dinamismo e l’espansione della nuova cultura senza che si perda la viva fedeltà verso il patrimonio della tradizione? Ciò è di particolare urgenza là dove la cultura che nasce dal grande sviluppo scientifico e tecnico si deve armonizzare con la cultura che, secondo le varie tradizioni, viene alimentata dagli studi classici. In qual maniera armonizzare una così rapida e crescente dispersione delle scienze particolari, con la necessità di farne la sintesi, e di mantenere nell’uomo le facoltà della contemplazione e dell’ammirazione che conducono alla sapienza? Che cosa fare affinché gli uomini di tutto il mondo siano resi partecipi dei beni della cultura, proprio quando la cultura degli specialisti diviene sempre più profonda e complessa? Come infine si deve fare per riconoscere come legittima l’autonomia che la cultura rivendica a se stessa senza cadere in un umanesimo puramente terrestre, anzi avverso alla religione? Nonostante queste antinomie, la cultura umana oggi si deve sviluppare in modo da perfezionare, con giusto ordine, la persona umana nella sua integrità e da aiutare gli uomini nell’esplicazione di quei compiti, al cui adempimento tutti, ma specialmente i cristiani, fraternamente uniti in una sola famiglia umana, sono chiamati» (GS 56).

c)

La vita economico-sociale (nn. 63-72)

Scrive il Concilio: «Anche nella vita economico-sociale sono da tenere in massimo rilievo e da promuovere la dignità ed integrale vocazione della persona umana come pure il bene dell’intera società. L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale» (GS 63). Ciò che è interessante sottolineare è il fatto che l’attività economica diventa oggetto di riflessione teologica ed etica: il cristiano è chiamato urgentemente a capire che cosa sia oggi «economia» su un doppio versante: quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica si svolge (produzione, distribuzione, finanza) e quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate e mantenute dalle dette strutture. Ci si rende conto, infatti, che nessuna forma di vita economica può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio che di Stato sovrano e, nello stesso tempo, che oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana, la globalizzazione, che per il suo aspetto positivo, porta con sé l’idea che la famiglia umana va considerata come un unico cor5


po sociale. La stessa idea tradizionale di «bene comune» deve intendersi come «bene comune del genere umano». Nel contesto dell’economia una grande attenzione viene riservata al lavoro, alle condizioni in cui esso si svolge (n. 67), ai conflitti di lavoro (n. 68) e alla partecipazione dell’individuo alla vita dell’impresa (ivi). Un paragrafo importante ricorda, poi, la destinazione dei beni della terra a tutti gli uomini: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità. Pertanto, quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della Chiesa quando hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. Considerando il fatto del numero assai elevato di coloro che sono oppressi dalla fame, il Sacro Concilio richiama urgentemente tutti, sia singoli che autorità pubbliche, affinché – memori della sentenza dei Padri: “Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non lo avrai nutrito, lo avrai ucciso” –, realmente mettano a disposizione ed impieghino utilmente i propri beni, ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi» (GS 69).

d)

La vita della comunità politica (nn. 72-76)

Scrive il Concilio che «da una coscienza più viva della dignità umana sorge, in diverse regioni del mondo, lo sforzo di instaurare un ordine politico-giuridico, nel quale siano meglio tutelati nella vita pubblica i diritti della persona, quali il diritto di liberamente riunirsi, associarsi, esprimere le proprie opinioni e professare la religione privatamente e pubblicamente» (n. 73). «La comunità politica esiste in funzione del bene comune nel quale essa trova significato e piena giustificazione e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio» (n. 74). Tutti i cittadini sono perciò chiamati a collaborare alla costruzione della comunità politica. Scrive il Concilio: «La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità. Affinché la responsabile collaborazione dei cittadini, congiunta con la coscienza del dovere, possa ottenere felici risultati nella vita politica quotidiana, si richiede un ordinamento giuridico positivo, che si organizzi una opportuna ripartizione delle funzioni e degli organi del potere, insieme ad una protezione efficace e indipendente dei diritti. I diritti delle persone, delle famiglie e dei gruppi e il loro esercizio devono essere riconosciuti, rispettati e promossi, non meno dei doveri ai quali ogni cittadino è tenuto. Tra questi ultimi non sarà inutile ricordare il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, materiali e personali, richieste dal bene comune. Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire. 6


Si guardino i cittadini dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente ad essa eccessivi vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie e dei gruppi sociali» (GS 75).

e)

La promozione della pace e della comunità dei popoli (nn. 77-93)

È l’ultimo capitolo della Gaudium et Spes ed è quello che dà l’intonazione, se così si può dire, anche ai precedenti argomenti già considerati. La costruzione del Regno di Dio (non solo della Chiesa) si può realizzare pienamente soltanto attraverso una pace vera e duratura. Non ci sono più guerre giuste, per il Concilio Vaticano II: «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città e di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato» (n. 80). Pur in mezzo a titubanze, malumori, sottili sarcasmi il Concilio scrive una delle pagine più significative (insieme a quelle di donne e uomini straordinari come Gandhi, La Pira, ecc. ecc.) sul «dovere» della pace: «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia. È il frutto dell’ordine impresso nell’umana società dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta. Poiché infatti il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma è soggetto, con il progresso del tempo, per quanto concerne le sue concrete esigenze, a continue variazioni, la pace non è stata mai qualcosa di stabilmente raggiunto, ma è un edificio da costruirsi continuamente. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita per di più dal peccato, l’acquisto della pace esige il costante dominio delle passioni di ognuno e la vigilanza della legittima autorità. Tuttavia questo non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può assicurare la semplice giustizia. La pace terrena tuttavia, che nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana dal Padre. Il Figlio incarnato infatti, principe della pace, per mezzo della sua Croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio e, ristabilendo l’unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha ucciso nella sua carne l’odio e, nella gloria della sua Risurrezione, ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini» (n. 78). Resta comunque vero che anche oggi la pace, anche nella Chiesa stessa (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica) è sempre di difficile, lenta, sofferta digestione.

3.

Alcuni pensieri conclusivi

Abbiamo percorso insieme un itinerario denso di spunti e di provocazioni salutari, come è senz’altro quello della Gaudium et Spes, attraverso la quale il Concilio Vaticano II si è fatto speranza per il mondo, sia attraverso lo scrutare «i segni dei tempi», sia ponendo davanti al mondo i grandi temi della «dignità umana» e della «costruzione della pace» come compito di credenti e donne e uomini di «buona volontà». Non tutto è stato detto e non tutto è stato detto con «parresìa» (franchezza) e «verità». Il post-Concilio, per esempio, ha visto emergere nuovi problemi e nuove questioni, che non 7


hanno trovato adeguata attenzione nemmeno nella Gaudium et Spes: la questione femminile, i problemi dell’ecologia, la relazione Nord-Sud del mondo, il significato della sofferenza umana e del dolore nel mondo... Ma il Concilio ci invita a continuare a cercare, come scrive la Gaudium et Spes al n. 91: «Ma volutamente, dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella Chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, la esposizione della dottrina dovrà essere continuata e ampliata» (n. 91). Ci sono d’altra parte alcuni «passaggi», che non possono essere cancellati o andare perduti. Ad esempio Raniero La Valle in un bel capitolo del libro Chiesa del Concilio dove sei? (AA.VV., Ed. Cittadella, 2009), dal lungo titolo Chiesa del Concilio dove sei? Dove vai? Quanto ancora da realizzare? E quanto oltre da cercare?, scrive che il Concilio non ha più ripetuto vecchie dottrine: «1) Il Concilio non ha più detto che extra Ecclesiam nulla salus, che la Chiesa visibile, la Chiesa romana, è l’unica e obbligata via di salvezza. Non aver detto questo ha legittimato l’ecumenismo, ha portato al riconoscimento delle altre Chiese, ha aperto le vie della comunione con l’Islam, con gli ebrei, con gli indù, i buddisti, gli animisti, i confuciani, i non credenti e tutte le culture del mondo. Come abbiamo visto, il Concilio non ha ribadito, come era stato richiesto di fare, che i morti senza battesimo non si possono salvare: i bambini, ma anche gli adulti. 2) Il Concilio non ha ripetuto, per negare la libertà religiosa, la formula che era molto in voga fino al Concilio secondo cui l’errore non ha diritti, ma solo la verità li ha, perciò si possono tranquillamente togliere agli uomini i diritti di libertà di coscienza, di parola, di religione perché non hanno la verità. Anche la verità è debole, ed essa non si impone che in virtù della stessa verità (Dignitatis humanae, n. 1). 3) Non ha ribadito la pura e semplice identificazione tra la Chiesa visibile e il Cristo, secondo la dottrina giunta fino alla Mystici Corporis, ma sia pure a fatica, timidamente, il Concilio si è astenuto dal dire che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, e ha detto invece che essa sussiste nella Chiesa cattolica, senza perciò esaurirsi in essa. Ciò introduce uno snodo tra Chiesa e Cristo, che evita alla Chiesa il delirio del potere che ha avuto per tutto il secondo millennio e apre lo spazio della laicità. 4) Non ha ripetuto la condanna del mondo, né ha fatto tutto l’elenco degli errori moderni, dal nudismo alla psicanalisi, all’amore non procreativo, tacciato dal cardinale Ruffini come “fetido onanismo coniugale”. Un elenco degli errori che era stato richiesto di fare dai vescovi che avevano espresso i loro desideri nei vota, cioè nelle lettere, mandate a Roma prima del Concilio. 5) Non ha spiccato la condanna contro il comunismo che dopo pochi decenni si sarebbe rivelata superflua e avrebbe messo la Chiesa in mezzo a un conflitto politico tutto umano, riducendola senza residui a Chiesa d’Occidente. Tutto questo, e molte altre cose, non ha detto e non ha fatto il Concilio e questo è forse altrettanto importante di quello che ha fatto e detto, perché ha lasciato cadere una rappresentazione della fede incomportabile per l’uomo, un’immagine di Dio foriera di angoscia, di paura e non di forza e di consolazione, e una concezione della Chiesa arcigna, esclusivista, teocratica e clerocentrica» (Ivi, pp. 85-86). Vale allora la pena di raccogliere l’invito di un grande personaggio della teologia morale italiana, Enrico Chiavacci, attento indagatore del nostro tempo. Egli scrive: «Vorrei concludere con un invito al coraggio. Il coraggio di sapere sempre andare oltre, di non prendere mai per 8


stabile e intoccabile il sistema di convivenza della famiglia umana. Il coraggio di sapere rimettere continuamente in questione i nostri modelli culturali, filosofici e anche teologici, i nostri modelli di “vita buona”. Dio Creatore e Salvatore opera nel continuo evolversi dell’universo, e opera nella storia della famiglia umana anche attraverso le nostre scelte. Il traguardo è l’ultimo giorno, e sarà il dono finale di Dio: la perfezione della convivenza nella carità. La storia è un cammino verso tale traguardo, “nell’attesa della beata speranza”: e perciò non possiamo mai fermarci sull’oggi, con il pretesto della stabilità delle istituzioni. Tutto ciò che è istituzione, fosse pure ecclesiastica, è morte se è presa come fine a se stessa. Il cristiano sa che la compiutezza del Regno – il vero bene comune dell’umanità – è sempre al di là dell’esistente. La critica dell’esistente è essenziale per ogni cristiano e per la Chiesa. È la possibilità di leggere la storia come cammino: come realizzazione, sempre insufficiente ma non per questo meno doverosa, del progetto di Dio per la famiglia umana» (in Rivista di teologia morale, n. 137, p. 35).

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