Il lieto annuncio

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IL LIETO ANNUNCIO AI POVERI Breve itinerario sulla «Dottrina sociale» della Chiesa Canova, 17 novembre 2006

Alla sorgente: la «Rerum Novarum»: una primavera cui seguì l’inverno (don Marcello Farina)

A)

Introduzione: che cos’è la «Dottrina sociale» della Chiesa cattolica?

Un grande teologo tedesco vivente, Johan Baptist Metz (1928), nella sua opera Sulla teologia del mondo afferma che «la fede cristiana non vive accanto o al di sopra della storia; essa non è la fuga riuscita dal mondo, dai suoi rivolgimenti dolorosi, dai suoi slanci e dal suo destino, per rifugiarsi nella tranquillità di un al di là al di fuori della storia. Essa è piuttosto autentica fede storica, fondata su un evento storico unico e irrepetibile: sul sì e sull’amen definitivo di Dio all’uomo nel suo Figlio Gesù Cristo» (cit., pag. 55). Questa consapevolezza, non sempre esplicita e in qualche momento addirittura oscurata e sminuita, può essere considerata l’origine di quell’itinerario di riflessione che va dalla Rerum Novarum del 1891 fino alla Centesimus Annus del 1991 (e fino ai nostri giorni), che costituisce la Dottrina sociale della Chiesa (DSC), una Chiesa non estraniata dalla vita concreta delle donne e degli uomini degli ultimi due secoli, eredi, a loro volta, di due grandi rivoluzioni, quella francese e quella industriale, che avevano cambiato mentalità e modo di vivere soprattutto dei cittadini degli stati europei tra Ottocento e Novecento. Preparata, per così dire, da una variegata ricerca di molti laici e sacerdoti in tutta Europa a partire dagli anni immediatamente successivi al Congresso di Vienna (1815), osservatori attenti e preoccupati delle conseguenze delle due rivoluzioni sulla vita concreta delle masse operaie e contadine dell’Europa, la DSC è opera di vertice, nel senso che è il papa pro tempore a prendere l’iniziativa di riflettere sulla situazione storica, traducendo poi i suoi pensieri in quei documenti-encicliche che compongono appunto il «corpus» di tale dottrina. Da Leone XIII (1878-1903) a Giovanni Paolo II (1978-2005) sono in effetti i papi a tessere la trama dell’interesse cattolico per quella che già Papa Pecci (Leone XIII) chiamava la «questione sociale», cioè l’attenzione per la situazione sociale, economica, politica soprattutto degli operai e dei contadini a partire dall’Ottocento, e le proposte che, a partire dall’urgenza della giustizia e della «carità», sarebbero potute nascere all’interno del mondo cristiano durante quel periodo. È ovvio pensare che nei cento anni e più della DSC ci sia stata un’evoluzione, uno sviluppo nell’insegnamento dei papi, che potremmo descrivere in quattro tappe: – all’inizio ciò che più è stato sottolineato è stato il fatto che si è varcata la soglia dell’estraneità tra Chiesa e mondo, tra Chiesa e i problemi reali della gente. «Finalmente» anche i vertici della Chiesa si prendevano a cuore le sorti delle masse, la miseria e lo sfruttamento di tante persone… (Leone XIII); – c’è stato poi il momento (con Pio XI) in cui si è proposta l’organizzazione cristiana della società, come se la salvezza (anche materiale) potesse venire “solo” dalla Chiesa; – il Concilio Vaticano II, a sua volta, ha saputo sollecitare un atteggiamento dialogico con il mondo moderno, sottolineando (con Paolo VI) la positività degli sforzi comuni di credenti e “laici” per il progresso dei popoli;


– infine, si è evidenziato nell’ultimo trentennio l’urgenza di un messaggio etico-religioso come stimolo per una vita umana degna di essere vissuta dai singoli e dalle comunità (Giovanni Paolo II). Oggi, in effetti, la DSC viene proposta come parte della teologia morale, cioè come riflessione che, a partire dal Vangelo, possa diventare sollecitazione a vivere nella giustizia e nella solidarietà, così da costruire la pace. B)

Il lento risveglio dei cattolici di fronte al problema sociale

Vale la pena, innanzitutto, renderci conto di come il «mondo cattolico» (e cristiano in genere) abbia colto i mutamenti sociali, economici e politici, prima della «Rerum Novarum» del 1891. Quale fu il loro atteggiamento nei confronti delle «res novae» («cose nuove») del secolo XIX? Mentre i liberali si dimostravano difensori solleciti della «status quo» e i socialisti (comunisti) si organizzavano in vista di un completo rovesciamento delle strutture esistenti, i cattolici, tranne eccezioni più numerose di quanto si creda, solo con un certo ritardo presero coscienza della questione sociale e fra essi diedero vita a due tendenze, che persistettero l’una accanto all’altra per oltre un secolo: – la prima esortava alla pazienza, alla rassegnazione, all’accettazione della povertà, al riconoscimento del suo valore religioso, accompagnati da un’azione limitata strettamente al campo caritativo, che escludeva cioè ogni riconoscimento di un diritto a parte dell’operaio e rifiutava come sovversivo dell’ordine costituito ogni tentativo di modificare le strutture borghesicapitalistiche-liberali della società e dello Stato; – la seconda si presentava come un tentativo di dare inizio a un’azione propriamente sociale, dapprima su un piano ancora fortemente impregnato di paternalismo, con il riconoscimento dei diritti dell’operaio, con l’accettazione della difesa collettiva di quei diritti. Scrive in proposito Giacomo Martina, un insigne storico della Chiesa: «Per buona parte dell’Ottocento, molti cattolici riuscirono sì a rendersi conto delle effettive condizioni di vita delle diverse classi sociali, ma davanti alla miseria cronica e dura delle masse operaie, condivisero per lo più i sentimenti della borghesia e degli economisti più quotati, sull’ineluttabilità delle leggi economiche, sulla fatalità della miseria che accompagna l’umanità in tutta la sua storia (non aveva detto Gesù: “i poveri, li avrete sempre in mezzo a voi”?). Quanti sostenevano la possibilità di trasformare le strutture esistenti apparivano non dei precursori, spesso ingenui e semplicisti, eppure con intuizioni che si sarebbero chiarite e avrebbero mostrato la loro profonda validità, ma semplicemente degli utopisti privi di ogni senso della realtà. Diversi fattori confermavano questo stato d’animo: la mentalità fondamentalmente aristocratica e conservatrice di molti cattolici appartenenti alla nobiltà o alla borghesia intellettuale; il timore di limitare la libertà economica e di imporre un ritorno all’economia chiusa dell’ancien régime; la diffidenza verso la diffusione della cultura, che, se mal digerita e superficiale, provoca facilmente squilibri psicologici; l’assuefazione ad una società organizzata gerarchicamente, in cui le classi umili attendono dal ceto dirigente la soddisfazione delle loro esigenze. Non meno viva era, in quasi tutti gli ambienti cattolici, una profonda sfiducia nello Stato, sia per l’accettazione esplicita da parte dei cattolici liberali delle tesi che limitavano fortemente i compiti dello Stato, sia, all’opposto, negli intransigenti, per la diffidenza verso la classe politica al potere, quasi sempre lontana da un vero senso religioso» (in La Chiesa nell’età del totalitarismo, Morcelliana, 1979). Se poi si guardasse alla situazione italiana non si può non ricordare che a complicare il rapporto tra cattolici e società e stato c’era, vivissima e intrigante la«questione romana», cioè il ruolo dello Stato pontificio e la sua sorte di fronte al processo dell’unità nazionale. Non vanno taciute nemmeno, da un lato, la preoccupazione di non mescolare la Chiesa in questioni temporali, dove le soluzioni assumevano molte volte un carattere tecnico (pratico), che appariva estraneo all’alta competenza morale del magistero ecclesiastico, e, dall’altro, l’importanza che nel messaggio cristiano aveva la croce, l’accettazione delle sofferenze, l’attesa di una giustizia ultraterrena. La linea conservatrice si preoccupava in particolare di tre cose: – di difendere il diritto di proprietà ad oltranza; – di condannare in blocco e senza esame accurato delle opere e degli autori le tesi del socialismo e del comunismo; – di esortare i poveri alla pazienza e alla rassegnazione. 2


Ad esempio, la condanna del socialismo e del comunismo compare già nel 1864 nell’enciclica Quanta cura di Pio IX, che pure criticava, ma in forma molto più blanda l’amoralismo economico (l’economia senza scrupoli) e la negazione dei principi del diritto naturale (lo scarso interesse per la vita, la libertà e la dignità delle persone). Lo stesso Leone XIII nelle sue prime encicliche, Quod Apostolici Muneris del 1878 e Auspicato concessum del 1884, scrive: «La questione dei rapporti tra ricchi e poveri che preoccupa tutti gli economisti sarà perfettamente regolata se sarà ben fermo e accettato per vero che la povertà non manca di dignità; che il ricco deve essere misericordioso e generoso e il povero contento della propria sorte e del proprio lavoro; dato che né l’uno né l’altro è nato per questi beni perituri, il primo deve guadagnarsi il cielo con la pazienza, l’altro con la liberalità» (G. Martina, op. cit., pag. 31). Qualche anno prima, nel 1848, il francese Veuillot aveva scritto: «È necessario che ci siano degli uomini che lavorano molto e vivono miseramente. La miseria è una legge di una parte della società. È la legge di Dio cui bisogna sottomettersi». Per tutto il secolo molti cattolici che lavoravano all’emancipazione delle classi più povere erano accusati di sedizione, di odio di classe e di ribellione alla gerarchia. La linea sociale, dal canto suo, passa da un primo momento, in cui al di là di riflessioni ancora insufficienti (il problema operaio è un problema morale), si dà attuazione a un piano caritativoassistenziale, a un secondo, in cui si affrontano con più serietà i temi di fondo della situazione delle classi sottomesse e si ipotizzano vie d’uscita, certo ancora segnate da una patina di paternalismo ricorrente. Senza l’obbligo della completezza vale qui la pena di accennare alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, fondate a Parigi nel 1833 da Federico Ozanam; all’opera, in Germania, di Adolf Kolping per gli apprendisti (Gesellenverein) e soprattutto di Emmanuel von Ketteler, vescovo di Magonza, che seppe cogliere con lucidità i segni e le esigenze dei tempi, arrivando a riconoscere tutti i postulati degli operai (riduzione dell’orario di lavoro, aumento del salario, protezione del lavoro giovanile e femminile) e a ipotizzare la costruzione di cooperative di produzione, autogestite dalle stesse comunità cristiane. In Inghilterra fu lo stesso cardinal Manning a difendere gli operai irlandesi e a mediare lo sciopero degli scaricatori di porto; in America l’arcivescovo di Baltimora, il card. Gibbons, difese validamente i Cavalieri del Lavoro, mostrando la possibilità di un sindacalismo operaio cristiano. Importante fu anche l’opera della cosiddetta Unione di Friburgo, fondata verso il 1884 da mons. Mermillod, che nelle sue riunioni univa insieme in un salutare confronto studiosi francesi, italiani, tedeschi, austriaci, belgi. In Italia nella vasta fioritura di opere caritativo-assistenziali, diffuse soprattutto in Piemonte, Lombardia, Veneto, ricordiamo almeno le eroiche iniziative del Cottolengo; l’opera di don Giovanni Bosco e del Murialdo per i giovani. Poi, soprattutto dopo il 1874, la appena nata Opera dei Congressi seppe creare una rete impressionante di strutture per l’assistenza e la carità, sostenuta anche dalla sapiente azione di riflessione teorica di Giuseppe Toniolo, promotore, all’interno dell’Opera, dell’Unione cattolica degli studi sociali. La creazione di cooperative e di casse rurali, oltre che di patronati di categoria, per la difesa dei diritti dei lavoratori è stata straordinaria. C)

Leone XIII (1878-1903) e la «Rerum Novarum»

I fermenti, le aspettative, i sogni di tanti cattolici, pensati e realizzati nel corso dell’Ottocento parvero arrivare a compimento con l’enciclica di Leone XIII del 1891, cioè con la Rerum Novarum. Vale la pena qui di ricordare le parole che George Bernanos mette sulla bocca del vecchio parroco di Torcy, rivolte al suo giovane collega di Ambricourt nel suo famoso romanzo, il Diario di un curato di campagna: «Per esempio, la famosa enciclica di Leone XIII, la Rerum Novarum, voi la leggete tranquillamente, sull’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di Quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! Ero, in quel momento, curato di Norenfontes, in pieno paese di miniere. Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposto alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi? Per averla spiegata dal pulpito alla mia buona gente, son passato per un socialista e i contadini benpensanti

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m’hanno fatto mandare a Montreuil, in disgrazia. D’essere in disgrazia me ne infischiavo un bel po’, renditene conto. Ma sul momento…» (G. Bernanos, op. cit., Mi, pag. 66). Leone XIII, prima di essere eletto papa aveva fatto esperienza all’estero, avendo così l’occasione di rendersi conto direttamente dei problemi posti dallo sviluppo industriale (nunziatura in Belgio, 184346, allora in piena crisi sociale e un rapido passaggio a Londra) e anche durante il suo lunghissimo episcopato a Perugia (dal 1846 al 1878) aveva mantenuto larghi contatti con intellettuali di vari paesi e nelle sue lettere pastorali, soprattutto negli ultimi anni, aveva affrontato i grandi problemi del momento, con un’arte dell’ascolto molto sviluppata, raccogliendo le sollecitazioni dei suoi visitatori e lasciandole maturare a lungo, prima di sfruttarle per i propri documenti. Fatto papa, Gioacchino Pecci dovette subito affrontare i grandi problemi politici in cui era implicata la Chiesa: la questione romana, il Kulturkampf tedesco, la situazione francese di pesante anticlericalismo. Ma, nello stesso tempo, egli raccolse le indicazioni di autori e di eventi del mondo cattolico, che ormai urgevano perché anche la Chiesa prendesse posizione sulla «questione sociale». È in questo contesto che nasce appunto la sua più famosa enciclica, la Rerum Novarum, del 15 maggio 1891. «La Rerum Novarum era costruita intorno ad alcuni capisaldi dottrinali: 1) rinnovata condanna delle soluzioni socialiste e collettivistiche; 2) difesa e salvaguardia della proprietà privata, in nome del diritto naturale, ma indicazione degli obblighi morali connessi con la proprietà stessa; 3) denuncia degli aspetti inaccettabili per la coscienza cristiana presenti nel sistema economico-sociale vigente, come la determinazione dei salari secondo la legge della domanda e dell’offerta; 4) indicazione dei compiti dello Stato, sia nel senso della salvaguardia dei diritti di “chiunque ne abbia”, sia nel senso di una speciale tutela per le classi più deboli; 5) esortazione ai cattolici di proseguire e incrementare l’attività organizzativa, mediante associazioni “sia di soli operai, sia miste di operai e padroni”. L’affermazione dell’enciclica che il lavoro dell’uomo non può essere considerato una merce e l’incoraggiamento da essa fornito all’associazionismo popolare cattolico costituirono un fattore di impulso nell’azione sociale dei cattolici di vari paesi. Le tendenze più conservatrici del mondo cattolico si trovarono spiazzate dall’insegnamento papale. Inoltre era posto per la prima volta all’attenzione della Chiesa universale il problema di come ridar vigore, nella società capitalistica, ai valori e ai princìpi morali e religiosi, di cui la Chiesa si proclamava depositaria: di come, cioè, rendere attivi quei princìpi in una realtà che sembrava, per molti motivi, estraniarsene. Ne conseguì un rinnovamento di metodi e di obiettivi: la tradizionale azione caritativa incominciò a trasformarsi in un più incisivo impegno sociale. Tale impegno fece breccia solo parzialmente tra le masse operaie urbane, in maggioranza attratte dal socialismo, ma ottenne significativi risultati tra i contadini, gli artigiani, i piccoli produttori, il popolo minuto. Lo stesso sindacalismo cattolico, allora nascente, ne risultò incoraggiato e incrementato. D’altro canto non era possibile cercare di riaffermare una presenza cristiana tra le masse popolari senza che le aspirazioni di riscatto che le animava non si riflettessero sulla Chiesa stessa, come la grande sfida dell’epoca» (in F. Traniello, Corso di storia, vol. 3°, SEI, pag. 253). L’impegno sociale comportava una maggior valorizzazione del laicato, più a contatto con il “mondo” del lavoro, dell’economica, della cultura. Si può dire che, finalmente, molti cattolici si sentirono appoggiati ad aprire un nuovo varco alla loro libertà di iniziativa. Certo nell’enciclica leonina si ribadiscono aspetti “vecchi” e ingombranti, difficili da giustificare oggi, come: – la difesa ad oltranza della proprietà privata, come diritto individuale inalienabile (per natura), – le divisioni sociali (tra capi e sudditi, ricchi e poveri) come legge inviolabile di natura; – la giustificazione dello stato “organico”, corporativo, premoderno. Accanto, però, vanno sottolineati gli aspetti innovativi, soprattutto riferibili a: – la sottolineatura dei doveri dei padroni nei confronti degli operai; – il ruolo dello Stato come arbitro dei conflitti sociali. La parte più bella dell’enciclica è, infatti, quella che giustamente è commemorata di continuo e riguarda i doveri morali più evidenti che debbono regolare i rapporti «tra ricchi e proletari», sia secondo giustizia, sia secondo carità. 4


D)

Alla primavera seguì, però, l’inverno

Si diceva sopra, citando Bernanos, che l’entusiasmo scatenato dalla “Rerum Novarum” fu enorme in tutto il mondo, cattolico e non, e certamente pose le basi per un diverso atteggiamento dei cattolici nei confronti della «questione sociale», anche se non mancarono anche in questa occasione coloro, da una parte, che interpretarono in senso restrittivo, moralistico e paternalistico, l’enciclica, e coloro che, all’opposto, ne colsero l’invito a fare un passo successivo, cioè a coniugare insieme il sociale con il politico, cioè a costruire una autentica «democrazia cristiana», cioè una società e uno Stato che potessero attingere dal Vangelo l’ispirazione per il rinnovamento delle strutture sociali e politiche in Europa. Lo stesso Leone XIII, prima di morire, vecchissimo, nel 1903, era dovuto intervenire, con l’enciclica Graves de communi re del 1901, per chiarire autorevolmente quale fosse il significato autentico di «democrazia cristiana», affermando che la «democrazia cristiana» non doveva «coprire un fine politico di portare al potere il popolo»; che non si poteva in alcun modo mettere in discussione «l’integrità del diritto di acquisto e di possesso»; che la «democrazia cristiana» «non doveva intendersi che nel senso di una benefica azione cristiana a favore del popolo»; che l’obbedienza alla autorità era fuori discussione; che era necessario mantenere «tra i cattolici unità di intenti e concordia e volontà d’azione»; e che per mantenere tale unità, il movimento sociale e politico dei cattolici doveva essere ubbidiente alla autorità dei vescovi e al magistero ecclesiastico. Il monito, di per sé, era riferito a tutti i cattolici europei, ma esso teneva d’occhio in particolare il movimento di don Romolo Murri, la «democrazia cristiana» appunto, nata nel 1899, dall’entusiasmo di quel prete marchigiano con l’appoggio di molti confratelli e laici convinti. La lotta s’accese asprissima tra le diverse sensibilità del mondo cattolico italiano, stretto tra il conservatorismo gretto del gruppo dirigente dell’Opera dei Congressi (del Paganuzzi che la guidava), le aperture liberali moderate del milanese Filippo Meda e, appunto, quelle, combattive e alternative della «democrazia cristiana» di Romolo Murri, propensa anche al dialogo con i socialisti. È Pio X (1903-1914) l’uomo che, prendendo posizione netta contro ogni apertura al nuovo, avrebbe da subito ricondotto il pensiero e l’azione dei cattolici, soprattutto italiani, nell’alveo della conservazione e dell’ubbidienza assoluta alla gerarchia. L’inverno era alle porte. Appena papa, Giuseppe Sarto, nel Motu proprio «Fin dalla prima nostra enciclica» del 18 dicembre 1903, elenca 19 proposizioni, le quali rappresentano l’interpretazione autentica della dottrina sociale cattolica, così da sbaragliare ogni equivoco e sbugiardare tutti coloro che, con pervicace temerità, abbiano osato addurre la condiscendenza di Leone XIII per giustificare iniziative progressiste. Ecco il «compendio» proposto da Pio X: 1. La Società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti eguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima Società. 2. La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò che tutti gli uomini traggono origine da Dio Creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo, e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati o puniti. 3. Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano principi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo d’amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale. 4. L’uomo ha sui beni della terra non solo il semplice uso, come i bruti; ma sì ancora il diritto di proprietà stabile; né soltanto di proprietà di quelle cose, che si consumano usandole: ma eziandio di quelle cui l’uso non consuma. 5. È diritto ineccepibile di natura la proprietà privata, frutto di lavoro o d’industria, ovvero di altrui cessione o donazione; e ciascuno può ragionevolmente disporne come a lui pare. 5


6. Per comporre il dissidio fra i ricchi ed i proletari fa mestieri distinguere la giustizia dalla carità. Non si ha diritto a rivendicazione, se non quando sia lesa la giustizia. 7. Obblighi di giustizia, quanto al proletario ed all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamenti. 8. Obblighi di giustizia, quanto ai capitalisti ed ai padroni, sono questi: rendere la giusta mercede agli operai; non danneggiare i loro giusti risparmi né con violenze, né con frodi, né con usure manifeste o palliate; dar loro libertà per compiere i doveri religiosi, non esporli a seduzioni corrompitrici ed a pericoli di scandali; non alienarli dallo spirito di famiglia e dall’amor del risparmio; non imporre loro lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti coll’età e col sesso. 9. Obbligo di carità de’ ricchi e de’ possidenti è quello di sovvenire ai poveri ed agl’indigenti, secondo il precetto Evangelico. Il qual precetto obbliga sì gravemente, che nel dì del giudizio, dell’adempimento di questo in modo speciale si chiederà conto, secondo disse Cristo medesimo (Matth. XXV). 10. I poveri non devono arrossire della loro indigenza né sdegnare la carità de’ ricchi, sopra tutto avendo in vista Gesù Redentore, che, potendo nascere fra le ricchezze, si fece povero per nobilitare la indigenza ed arricchirla di meriti incomparabili pel Cielo. 11. Allo scioglimento della questione operaia possono contribuir molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni, ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi, ed avvicinare ed unire le due classi fra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private; i patronati per i fanciulli, e sopra tutto le corporazioni di arti e mestieri. A questi 11 punti più importanti si aggiungono poi gli altri 8, che attengono proprio all’ala sociale dei cattolici, cioè alla «democrazia cristiana», invitata a «non immischiarsi mai con la politica…; a dipendere dall’autorità ecclesiastica…; a guardarsi dall’adoperare un linguaggio che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori della società e non parli di rivendicazioni e di giustizia, allorché trattasi di mera carità, come dianzi già spiegato». Pio X riteneva che fosse suo inderogabile dovere di custode del depositum fidei usare qualsiasi strumento concessogli per allontanare il calice tormentoso della prova e risparmiarle sofferenze e sconfitte. «La dottrina del divin Redentore è, per Pio X, dottrina di umiltà, di sottomissione, di filiale rispetto alla gerarchia» (in Il fermo proposito, dell’11 giugno 1905). Ma è nell’enciclica Pascendi Dominici gregis del 3 luglio 1907 che papa Sarto manifesta ai vescovi il suo pensiero più autentico: «Osservate qui di passaggio, o venerabili fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso…». La DSC è solo nelle mani della gerarchia, arbitra e padrona assoluta della dottrina e della prassi per il mondo cattolico. L’insabbiamento delle aperture della Rerum Novarum non poteva essere più totale, realizzato da Pio X con l’abolizione dell’Opera dei Congressi nel 1904 e con il parallelo sostegno a Filippo Meda perché desse l’avvio alle intese clerico-moderate con Giovanni Giolitti, in funzione chiaramente antisocialista. Il suo disegno grandioso di «instaurare omnia in Christo» doveva realizzarsi in una società totalmente cristiana, come al tempo di un immaginario medioevo, capace di difendersi dagli assalti dell’odio e del disprezzo da parte del mondo nella certezza che «le porte dell’inferno non prevarranno».

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IL LIETO ANNUNCIO AI POVERI Breve itinerario sulla «Dottrina sociale» della Chiesa Canova, 19 gennaio 2007

La dottrina sociale da Pio XI a Pio XII (don Marcello Farina)

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L’eredità precedente

Vale la pena, all’inizio di questo secondo momento di riflessione sulla DSC (Dottrina Sociale Cattolica) di ripercorrere il cammino percorso dalla promulgazione della Rerum Novarum del 1891 fino ai prodromi della prima guerra mondiale (1914-18), segnato, come si è visto, da un iniziale enorme entusiasmo per l’azione di Leone XIII (1878-1903) e poi ridimensionato e perfino «sconfessato» dall’opera restauratrice e centralizzatrice di Pio X (1903-1914). Chi leggesse oggi la Rerum Novarum può provare un’impressione di disagio per il tono solenne e in parte paternalistico, per l’eco del passato che appare in vari tratti (lo Stato premoderno), per l’imprecisione in cui restano alcuni punti importanti, per la timidezza con cui si traggono le conclusioni dei princìpi pur altamente affermati, per la sottolineatura più del fine morale che non di quello sociale ed economico nelle associazioni professionali (padroni e operai), per una sorta di «sociologia della rassegnazione», che invitava a sopportare la povertà e la sofferenza come costitutive dell’ordine politico. Ma può anche accorgersi che nell’enciclica del 1891 Leone XIII raccoglie i frutti di almeno un cinquantennio di elaborazione cristiana in materia (dalla Scuola di Liegi alla Unione di Friburgo, da Ketteler a Toniolo, si potrebbe dire), quali l’aspetto umano del salario, il diritto all’associazionismo operaio e alla stessa organizzazione sindacale, l’intervento dello Stato in economia. I cinque princìpi della Rerum Novarum, ricordati più tardi da Giovanni XXIII nella Mater et Magistra (1961) – cioè a) la solidarietà umana e cristiana, b) la libertà di associazione, c) la funzione sociale della proprietà privata, d) la concezione del lavoro non come merce, soggetta all’arbitrio della legge della domanda e dell’offerta, ma come mezzo per l’uomo di sviluppare la sua personalità, e) il diritto dello Stato di intervenire in materia economica, – sono delle affermazioni che superano chiaramente lo stadio paternalistico e moralistico. Non solo sottomissione e pazienza quindi, ma anche rivendicazione di diritti e di nuove regole di convivenza sociale e politica. Si spiega così, come sullo slancio provocato dal documento pontificio del 1891, in molti Paesi europei sia sorto, verso la fine del secolo XIX, un movimento molto complesso d’indole economica, sociale, politica e talvolta religiosa, che, nella sua ricerca di andare verso il popolo, includeva esigenze di vario tipo, comprese quelle di un rinnovamento della società ecclesiastica accanto all’accettazione senza


riserve delle istituzioni e del metodo democratico. Tale movimento fu chiamato «democrazia cristiana», perché si assunse il compito di fare della giustizia e della carità cristiana la base per un’ampia legislazione sociale e per un impegno personale nella vita quotidiana dei credenti. Sull’onda emotiva suscitata dall’iniziativa di papa Leone «la democrazia cristiana» si diffuse soprattutto in Francia, in Belgio e, con caratteristiche specifiche, in Italia. Si è già ricordata l’opera di don Romolo Murri (1870-1944), fondatore del movimento politico, che assunse quel nome nel 1899, uomo entusiasta che riuscì a coagulare intorno al proprio ideale molti giovani e molti preti, che chiedevano da tempo una maggior giustizia sociale e coltivavano l’idea di una democrazia sollecitata dai valori evangelici. Così si è anche ricordato, il fatto che il mondo cattolico italiano (e non solo italiano) era profondamente diviso al suo interno, tra i seguaci del vecchio regime conservatore («nihil innovetur nisi quod traditum est»), che avevano la maggioranza all’interno dell’Opera dei Congressi e i cosiddetti «novatori», guardati con sospetto e spesso addirittura accusati di essere sovversivi e simpatizzanti socialisti. Tra costoro evidentemente c’erano anche i seguaci di don Murri. Il dibattito fu durissimo, sia teorico che pratico, con personalismi e reciproche scomuniche, tanto che Leone XIII si sentì in dovere di intervenire nel 1901 con l’enciclica Graves de communi re, per chiarire il significato di «democrazia cristiana», così da consacrarne, per così dire, il nome, ma escludendo da essa ogni interpretazione «politica», anzi definendola «benefica azione cristiana a favore del popolo», che non doveva in nessun modo ricopiare strutture organizzative e concetti che potessero far riferimento alla lotta di classe. Un documento di compromesso, quindi, paradossalmente letto da entrambi gli schieramenti cattolici come un sostegno alla loro posizione: i conservatori vi lessero la condanna della «democrazia cristiana», i murriani si sentirono sostenuti nella loro azione di promozione sociale e politica, anche se furono obbligati a ritornare all’interno dell’Opera dei Congressi e ad accogliere un assistente ecclesiastico nominato dal vescovo locale. Con Pio X (1903-1914), il nuovo Papa, che coltivava già di per sé una grande diffidenza per le idee democratiche, il destino della «democrazia cristiana» era segnato. Come si è già visto nel primo nostro incontro, con il Motu proprio «Fin dalla prima nostra enciclica» del 18 dicembre 1903, egli sconfessò il movimento di Romolo Murri, perché accentuava troppo l’aspetto politico e l’indipendenza dalla gerarchia e poi, l’anno dopo, 1904, sciolse l’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia, intendendo con quella decisione dare un significato più religioso all’azione dei cattolici e mantenerla unita e dipendente dalla gerarchia. (È in questo momento e in questo clima che, di fatto, si compie la nascita dell’Azione cattolica, intesa come attività laicale in una direzione religiosa in stretta dipendenza dai vescovi). È in questa direzione che si muove tutta l’azione «politica e sociale» di Pio X, che già nel 1904 toglie di fatto il non-expedit e promuove l’avvicinamento del mondo cattolico ai liberali, consentendo l’esperimento dei «cattolici deputati» nelle liste liberali, che avrebbe portato nel 1913 al cosiddetto Patto Gentiloni. Della DSC di Leone XIII non rimaneva che un pallido ricordo. 2)

Pio XI e la Quadragesimo Anno (1931)

Il successore di Pio X, Benedetto XV (1914-1922) fu, come si sa, il Papa della prima guerra mondiale e del periodo travagliato delle trattative di pace, acuito dal sorgere di nuovi e gravi conflitti sociali. «Ognuno invoca lo stesso Dio per distruggere gli uomini della stessa fede. Tranne la grande e inascoltata parola del papa Benedetto XV, nobile e incompreso pontefice, nessuna parola, nessun sentimento di religione, abbreviarono di un’ora sola gli orrori della guerra»: così scriveva Francesco Saverio Nitti in quegli anni spaventosi di Benedetto XV. Il quale, però, a differenza di Pio X, manifestò attenzione e simpatia nei confronti dei cattolici che avessero voluto assumersi diretta responsabilità all’interno della vita politica italiana, così che nel 1919 essi dettero vita al Partito popolare italiano con don Luigi Sturzo e Alcide Degasperi. Ma, poi, la morte del Papa e, soprattutto, l’avvento del fascismo posero rapidamente fine anche a questo esperimento storico. 2


Così il 6 febbraio 1922 veniva eletto Papa il milanese Achille Ratti con il nome di Pio XI (1922-1939). «A leggere i documenti del suo pontificato e a valutarne globalmente gli atti si potrebbe dire che il suo programma partiva da una scarsa considerazione degli sforzi puramente umani, unita logicamente a un pessimismo verso il mondo e la società moderna – ritenuti ancora frutto della rottura protestante e del laicismo –, e da una conseguente necessità di penetrazione delle idee cristiane, e della Chiesa che le incarnava, nelle strutture sociali per la stessa salvezza della umanità. Gli strumenti poi sui quali contava, e con la massima duttilità in ragione delle circostanze, proprio per il raggiungimento di quei fini (tanto che qualcuno ha potuto parlare di un certo machiavellismo di Pio XI e in modo particolare del suo primo segretario di Stato, card. Gasparri), erano i rapporti concordatari con gli Stati e l’organizzazione laicale dell’Azione cattolica. Entrambi avrebbero dovuto servire ad un rafforzamento interno ed esterno della Chiesa, attorno alla Gerarchia e di fronte alle nazioni» (S. Tramontin, Un secolo di storia della Chiesa, ed. Studium, vol. 1°, pag. 151). Artefici precipui di questa restaurazione cristiana avrebbero dovuto essere, con opera congiunta, attiva e instancabile, clero e laici, sotto la guida dei vescovi, per instaurare la Pax Christi in regno Christi, che era il suo motto pontificale. Questo era anche il contenuto delle sue prime encicliche, l’Ubi arcano Dei, che conteneva il suo programma di governo (1922), e la Quas primas della fine del 1925, destinata a suggellare il successo dell’Anno santo e a istituire la festa di Cristo Re. E a coinvolgere anche gli Stati nella promozione del regno di Dio Pio XI lo tentò attraverso la politica concordataria (10 concordati, quattro convenzioni e due modus vivendi), per assicurare almeno il libero e pubblico esercizio della religione cattolica, unita al riconoscimento della natura pubblica della Chiesa. In Italia, poi, il Concordato del 1929 portò a soluzione anche l’annosa «questione romana» attraverso i «Patti Lateranensi» tra Santa Sede e regime fascista, con tutte le conseguenze che qui non è il caso di esaminare. L’enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, che commemora i quarant’anni dalla Rerum Novarum, rappresenta il punto di arrivo del pensiero «sociale» di Papa Ratti, che certamente affronta un’analisi più matura della realtà politica e sociale, di quanto non abbia fatto Leone XIII a suo tempo, accompagnata anche da un temperato ottimismo nei confronti degli sforzi compiuti dagli uomini e dalle donne nell’ambito sociale ed etico, superando così la solita denuncia impaurita e lacrimosa del pervertimento morale, tipica dei documenti ecclesiastici a partire addirittura da Pio IX. Il documento pontificio è attraversato, per così dire, da due «concetti» di particolare importanza: quello di «giustizia sociale», che il Papa introduce definitivamente nel vocabolario della morale cattolica (in riferimento al «bene comune») e quello di «corporativismo mitigato», come qualche studioso chiamerà il tentativo del Papa di indicare un progetto politico, che superasse i due «estremi» dello Stato liberale e dello Stato socialista, entrambi giudicati inadatti a promuovere il bene comune. Si trattava, per questo secondo «concetto», di favorire la costruzione di uno Stato corporativo, cioè costituito da liberi raggruppamenti (le corporazioni), i quali, evitando sia gli estremi individualistici che quelli statalistici, avrebbero potuto, da un lato, procurare ai loro membri vantaggi professionali e, dall’altro, mantenere viva la preoccupazione per il bene comune, collaborando con l’istituzione statuale politica (una sorta di «terza via» tra liberalismo e socialismo!). Rispetto allo Stato corporativo fascista, che era allora fiorente in Italia (e a cui Pio XI riservava una «benevola considerazione»), il disegno della Quadragesimo Anno esprimeva alcune caratteristiche proprie: ad es., l’ammissione di classi sociali differenziate, la difesa della persona, la libertà sindacale, il diritto di sciopero, l’autonomia dal potere politico (il principio di «sussidiarietà», come si vedrà più avanti). L’enciclica, inoltre, segnava un notevole progresso anche per quanto riguardava la dottrina del salario, proclamando l’esigenza del salario familiare e invitando a superare la situazione del proletariato «temperando il contratto d’opera con quello di società», introducendo cioè varie forme di cooperazione e compartecipazione. Né si deve trascurare il severo giudizio sull’economia di allora e sulle cause che avevano portato all’accumularsi di un potere economico enorme in mano a pochi. Scrive Papa Ratti: «Alla libertà di mercato è sottentrata l’egemonia economica; alla bramosia di lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; tutta l’economia è così diventata orribilmente dura, inesorabile, crudele».

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In sintesi quattro possono essere riconosciuti i passaggi dottrinali più importanti della Quadragesimo Anno: a) il diritto e l’uso della proprietà privata; b) la relazione tra capitale e lavoro; c) il principio di sussidiarietà e, come si è già visto, d) lo Stato corporativo. Brevemente: a) Il diritto e l’uso di proprietà privata. Papa Ratti attenua in questo contesto la dottrina della Rerum Novarum circa l’assolutezza del diritto di proprietà privata come «ineccepibile diritto di natura», distinguendo tra «diritto» e «uso» della proprietà. Il «diritto» resta stabilito a priori nella sua universalità e necessità; l’«uso», invece, diventa strumento per l’ulteriore elevazione dell’uomo, «entro le necessità della convivenza sociale» (è la «giustizia sociale», di cui si parlava sopra). b) La relazione tra capitale e lavoro porta con sé l’affermazione che, se la ricchezza deriva dall’opera compiuta congiuntamente dal «capitale» e dal «lavoro», allora è giusto che essa sia ridistribuita parimenti tra padroni e lavoratori. Ma al principio, così innovativo per la DSC, non fa seguito un approfondimento concreto, perché Pio XI vuole rimanere equidistante tra liberalismo e socialismo! c) Il principio di «sussidiarietà» è, a sua volta, il passo più noto di tutta l’enciclica, che afferma: «Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle» (n. 80, QA). Secondo la Quadragesimo Anno, come si può vedere, si richiede e si auspica, per il mantenimento di un ordine sociale degno dell’uomo, che il coordinamento delle attività degli individui e dei gruppi, nell’organizzazione politica della società, sia regolato dal principio di «sussidiarietà», secondo il quale le società superiori (come lo Stato e le Comunità internazionali), per il raggiungimento del loro scopo, devono rispettare l’attività relativamente autonoma dei gruppi intermedi, valorizzarli per il bene comune a cui essi mirano, prestare loro l’aiuto e la protezione di cui hanno bisogno. Secondo Pio XI è proprio il principio di sussidiarietà che garantisce e protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori, avendo anche il compito di sollecitare lo Stato ad aiutare i singoli individui o i corpi intermedi a sviluppare le loro attitudini e capacità. «Sul piano più strettamente giuridico, poi, il principio di sussidiarietà ha una duplice valenza: esso indica un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato, formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali (sussidiarietà verticale). In quest’ultima accezione esso ripropone la dimensione federale propria dello Stato, secondo la quale la ripartizione del potere tra diversi livelli territoriali è essenziale per realizzare quella vicinanza dei governanti ai governati, valore primario della democrazia. Al principio federale tradizionale il principio di sussidiarietà verticale aggiunge un elemento importante costituito dalla necessità di giustificare l’esercizio da parte del livello di governo superiore delle competenze attribuite per costituzione sulla base di accertate inadeguatezze del livello inferiore» (E. Malnati, La dottrina sociale della Chiesa. Un’introduzione, Eupress, pag. 75). d) Lo «stato corporativo» è già stato delineato nelle pagine precedenti. Qui si può sottolineare l’entusiasmo con cui Pio XI lo propone come unico vero rimedio ai guasti prodotti tra le classi sociali. «La guarigione perfetta – afferma il Papa al n. 83 – si potrà ottenere allora soltanto, quando, tolta di mezzo tale lotta, le membra del corpo sociale si trovino bene assestate e costituiscano le varie professioni, a cui ciascuno aderisca non secondo l’ufficio che ha nel mercato del lavoro, ma secondo le diverse parti sociali che i singoli esercitano. Avviene infatti per impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per vicinanza di luogo si uniscono 4


a formare municipi, così quelli che si applicano ad un’arte medesima, formino collegi o corpi sociali; di modo che queste corporazioni, con diritto loro proprio, da molti si sogliono dire se non essenziali alla società civile, almeno naturali». Con la Quadragesimo Anno Papa Ratti ha, quindi, delineato una «dottrina sociale» compiuta, una sorta di «sistema della giustizia» sia individuale che collettiva, che avrebbe dovuto superare le difficoltà dello Stato liberale e dello Stato socialista. Ma il suo pensiero va completato con altri due interventi, soprattutto di natura politica, seguiti alla Quadragesimo Anno, entrambi del marzo del 1937: la Mit brennender Sorge («Con viva preoccupazione») sulla situazione della Chiesa cattolica nella Germania di Hitler e la Divini Redemptoris promissio, contro il comunismo bolscevico. Si potrebbe pensare che i due documenti contengano una chiara condanna dei contrapposti sistemi totalitari, ma, in realtà, le cose stanno diversamente. Nella Mit brennender Sorge (MBS) sorprende la totale assenza di un riferimento esplicito al Nazismo e ai suoi aberranti princìpi politici e sociali. Ciò che sconcerta il Pontefice è piuttosto l’esaltazione quasi religiosa della propaganda nazista che presentava Hitler come nuovo redentore e rivelatore di una nuova società. «La rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo – protesta appunto Papa Ratti – è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di rivelazioni arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza […] Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato (1 Cor. 3, 11). Colui quindi che […] osasse porre accanto a Cristo e ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere». La denuncia e l’accusa si mantengono a questo alto livello teologico-religioso, anche quando vertono sulle gravi violazioni del Concordato tra il Reich e la Santa Sede del 1933. Anzi, sembra quasi che le responsabilità non siano del capo, di Hitler, ma dei suoi adulatori, che ne esaltano oltremisura la persona. Scrive ancora Pio XI: «Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico perverte e falsifica l’ordine da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita a essa conforme». Sincerità impone, purtroppo, di rilevare un ulteriore aspetto che infosca il magistero di Pio XI e, indirettamente, getta ombra sul lamentato silenzio, intorno alla questione ebraica, del suo successore Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato, e certamente non estraneo alla confezione finale dell’enciclica: sebbene già da due anni fossero in vigore le leggi razziali di Norimberga che avevano conferito legalità e cogenza all’antisemitismo, neppure un fugace richiamo a favore degli ebrei già perseguitati è presente nella Mit brennender Sorge. L’ansia del Pontefice sorgeva semmai alla larga, per il pericolo che nascesse una «chiesa nazionale tedesca» affrancata dal disturbo della radice ebraica del cristianesimo e industriosa nel cercare altre radici «ariane», ad esempio fra i «misteri» e i culti dell’antico paganesimo. Altrettanto mediocre può apparire l’enciclica dirimpettaia contro il Comunismo, la Divini Redemptoris promissio, che sorprende, invece, per la smisurata esuberanza di una condanna sviscerata, perentoria, a tutto campo senza eccezione o remissione, atterrita e terrificante. Sin dall’inizio l’evento del «comunismo bolscevico e ateo» è collocato nella prospettiva dell’intera storia umana come il pericolo supremo, come la decisiva avversità al disegno di Dio. Scrive Papa Ratti: «Il comunismo di oggi […] nasconde in sé un’idea di falsa redenzione. Uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina e tutta la sua attività di un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse, comunica uno slancio e un entusiasmo

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contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta». E conclude: «Ecco, venerabili fratelli, il nuovo presunto vangelo, che il comunismo bolscevico e ateo annunzia all’umanità, quasi messaggio salutare e redentore! Un sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell’ordine sociale, […] misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà». Quanto questa visione sia passata, poi, nella storia successiva della Chiesa, fino a lambire anche i pontificati di Pio XII, di Giovanni XXIII e dello stesso Paolo VI, è sotto gli occhi di tutti. 3)

Il pensiero «sociale» di Pio XII (1939-1958)

Un’ultima tappa diventa significativa nel nostro itinerario di ricerca dedicato alla Dottrina sociale della Chiesa: la riflessione di Eugenio Pacelli, Papa Pio XII. A prima vista sembra di dover riconoscere un certo disinteresse da parte sua per lo sviluppo teorico e per la promozione della dottrina sociale, un po’ come era accaduto ai tempi di Pio X. Il fatto stesso che egli si sia astenuto dallo scrivere una speciale enciclica su quel tema, limitandosi ad accennarvi brevemente in documenti di oggetto diverso, potrebbe convincere che così sia effettivamente avvenuto. Ma ci sono almeno due testi che ci permettono di cogliere due importanti mutamenti di percorso inerenti la DSC. Il primo è nella enciclica che inaugura il suo pontificato, la Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939, quando già gravava sull’Europa l’incubo di una guerra totale, iniziata poco tempo prima. In essa il Papa mette in evidenza quella che secondo lui è la causa del presente abisso: «l’ineguaglianza tra gli uomini, in base alla razza, alla nazione, alla cultura»; da qui viene ogni altro errore, tra cui, preminente, la subordinazione dell’individuo nei suoi diritti nativi e previi alla società e allo Stato. L’ordine della creazione (richiamato in Genesi 1, 26-27: «Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza») sta a fondamento, invece, della uguale dignità di ogni persona. È questa la «meravigliosa visione» che dà unità al genere umano e quindi genera uguaglianza e fratellanza fra tutti gli uomini. Il secondo testo, sempre del 1939, è l’enciclica Sertum laetitiae (Corona di gioia), che egli scrisse per l’episcopato americano, dove il pensiero di Papa Pacelli è esposto con singolare chiarezza ed efficacia, ben più che nel radiomessaggio del 1941, solitamente riportato nelle raccolte di documenti pontifici in campo sociale. Scrive Pio XII: «Punto fondamentale della questione sociale è questo, che i beni creati da Dio per tutti gli uomini equamente affluiscano a tutti, secondo i princìpi della giustizia e della carità. Le memorie di ogni età testimoniano che vi sono sempre stati ricchi e poveri; e l’inflessibile condizione delle cose umane fa prevedere che così sempre sarà. Degni di onore sono i poveri che temono Dio, perché di loro è il regno dei cieli e perché facilmente abbondano di grazie spirituali. I ricchi poi, se sono retti e probi, assolvono l’ufficio di dispensatori e procuratori dei doni terrestri di Dio; essi in qualità di ministri della Provvidenza aiutano gli indigenti, a mezzo dei quali spesso ricevono i doni che riguardano lo spirito e la cui mano – così possono sperare – li condurrà negli eterni tabernacoli». Per lui il punto fondamentale dell’intera dottrina sociale è la destinazione dei beni creati. Anche il diritto di proprietà privata dovrà essere ricollocato in questa ottica generale, come il Papa ribadirà nei radiomessaggi del 1941 e del 1944. Non basta la generosità o l’elemosina, o la beneficenza, ma un mutamento strutturale dei rapporti sociali. Finisce l’epoca di Pio X, per il quale valeva «per i ricchi il dovere di sovvenire; per i poveri il dovere di rassegnarsi». Anzi, nell’orizzonte della verità e della creazione i poveri sono realmente, qui e ora, i prìncipi, i veri nobili, gli eredi del regno che li attende: i ricchi retti e probi, invece, appartengono, per così dire, a una «classe inferiore», quasi servile, come dispensieri e procuratori di beni terreni effimeri. Forse questa è la pagina più alta di tutta la dottrina sociale della Chiesa!

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IL LIETO ANNUNCIO AI POVERI Breve itinerario sulla «Dottrina sociale» della Chiesa Canova, 16 febbraio 2007

clima del Concilio  Ildalla «Mater et Magistra» alla «Centesimus Annus» (don Marcello Farina)

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Introduzione: un «nuovo» clima culturale nella società e nella Chiesa

La seconda metà del ventesimo secolo (che è la parte della storia che tutti noi abbiamo vissuto intensamente) ha portato con sé, fin dal suo inizio, molte tumultuose metamorfosi in tutti i campi dell’esperienza umana, alcune delle quali non hanno ancora finito di incidere profondamente nella vita concreta delle donne e degli uomini (ad es., la rivoluzione tecnologica, i mutamenti della politica mondiale, il crollo delle «ideologie», la «morte» e la «risurrezione» della religione, ecc. ecc.), mentre altre possono essere colte dai frutti più o meno rigogliosi da loro prodotte nella storia di questo «secolo breve», come viene ormai definito il secolo appena trascorso (ad es.: la dichiarazione dei diritti dell’uomo, lo spirito «democratico», il pluralismo religioso, il primato della coscienza, ecc. ecc.). Dopo la seconda guerra mondiale si è andati cogliendo, soprattutto in Europa, i sedimenti «ultimi» del grande processo di secolarizzazione iniziato in piena epoca moderna, con i suoi risultati più eclatanti, come la laicizzazione dell’esperienza diffusa e la riconosciuta autonomia delle «realtà terrene», così come sono andati esaurendosi alcuni grandi concetti della modernità (il soggettivismo, la razionalità, ecc. ecc.) per lasciare il posto a quella che viene chiamata ormai comunemente «la condizione postmoderna». Non ci è permesso, ovviamente, in questo contesto di dedicarci ad un’analisi approfondita di tutti questi fenomeni, decisivi per la comprensione del nostro tempo, ma vale la pena, invece, di soffermarci un attimo sulle «tumultuose metamorfosi», per riprendere l’immagine iniziale, che hanno interessato più da vicino le Chiese (e quella Cattolica, in particolare) a partire dagli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Il mutamento riguarda sia la teoria (la teologia) che la prassi (i comportamenti delle comunità cristiane). Proprio queste «metamorfosi» sono importanti per comprendere i cospicui mutamenti anche della «Dottrina sociale della Chiesa» (DSC). In breve, necessariamente, si possono ricordare i seguenti passaggi: – la «svolta antropologica», anche in teologia. L’uomo, la sua vita, la sua storia, diventano il punto di partenza e di arrivo di tutta la ricerca teologica (Karl Rahner è il teologo che dà l’avvio a questa straordinaria stagione di ricerca!). Si potrebbe recuperare l’immagine dell’enciclica Redemptor Hominis (1979) di Giovanni Paolo II: «L’uomo è la via della Chiesa». È


l’Incarnazione, l’incontrarsi dell’uomo e di Dio in Gesù di Nazareth, il mistero che interpreta l’essenza dell’annuncio cristiano. – Il primato della storia sulla metafisica. Ciò significa che la fede e le verità che essa ricerca hanno una dimensione sempre «in divenire», inserite come sono nel cammino storico dell’umanità. La stessa ricerca religiosa viene colta sempre di più come esperienza, come vita, come «conversione» ad una persona, piuttosto che come deposito indefettibile di «essenze» lontane e astratte. – Nasce un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo, di attenzione e di reciproco rispetto: non più una Chiesa «fuori» del mondo, estranea e giudice ad un tempo, e nemmeno una Chiesa «dentro» il mondo, legata in un rapporto privilegiato di alleanza tra trono e altare, deleterio per entrambi. In qualche modo si può dire, addirittura, che questa è stata la vera, grande questione, che stava sullo sfondo anche della DSC: la riforma della Chiesa e la sua missione nel mondo. Ancora sulla Chiesa del secondo dopoguerra aleggiava (ma è proprio scomparso?) il pensiero di Pio IX, che rivendicava, in un Breve del 1873 indirizzato ai giovani cattolici milanesi, il ruolo assoluto e preminente della gerarchia e del Papa in particolare. Egli scriveva: «In vero, chiunque consideri l’indole della guerra contro la Chiesa, facilmente comprenderà che tutti gli artifizi dei nemici tendono allo scopo di distruggere la sua costruzione e di spezzare i vincoli che tengono uniti i popoli ai vescovi, al vicario di Cristo […]. Sebbene i figli del secolo sieno più astuti dei figli della luce, le loro frodi e la loro violenza riuscirebbero meno nocive se molti, che diconsi cattolici di nome, non stendessero loro amica la mano […] per mezzo di dottrine che dicono cattolico-liberali, basate su perniciosissimi princìpi, come se non fosse scritto “niuno può servire a due padroni” […]. Ricordate che anche al romano pontefice, che sulla terra tiene le veci di Dio, spetta, per ciò che riguarda la fede, il costume, il regime della Chiesa, quanto Cristo disse di se stesso: “Qui mecum non colligit, spargit”». (“Chi non raccoglie con me, disperde”!). Ma, forse, è ancora più impressionante prestare un attimo di attenzione al «vuoto» culturale, nell’ambito teologico, che accompagnava la riflessione dentro la Chiesa, nonostante i tentativi compiuti dai Papi, a partire da Leone XIII, di dare consistenza alla DSC. Il padre Yves Congar, uno dei grandi esperti del Concilio Vaticano II, in una interessantissima relazione su «La situazione ecclesiologica al tempo dell’Ecclesiam suam» (1964), fa un’analisi del Dictionaire de theologie catholique, un’opera immensa di 41.338 colonne (15 volumi), pubblicata tra il 1903 e il 1950, in cui compaiono, o non compaiono, le seguenti voci che si riferiscono all’attività temporale (mondana) dell’uomo: «professione: c’è solo la voce Professione di fede; mestiere: non risulta; lavoro: non risulta; maternità: non risulta; donna: non risulta; amore: un terzo di colonna diviso in: amor di Dio, amore del prossimo, amor proprio, amore puro, ma su ciò che noi intendiamo come amore umano nulla; amicizia: non risulta;… corpo: un brano sui “corpi gloriosi”; sesso: niente; piacere: niente; gioia: niente; male: 25 colonne (!); economia: non risulta; politica: non risulta (!!!); potere: 103 colonne tutte dedicate al potere del Papa nell’ordine temporale (!!); tecnica: non risulta; scienza: un lungo articolo diviso in queste parti: scienza sacra, scienza di Dio, scienza degli angeli e delle anime separate dal corpo, scienza di Cristo, ma niente a proposito di ciò che noi oggi intendiamo per scienza; storia: non risulta (!!); mondo: niente; laico e laicato: niente, salvo un brano sul laicismo stigmatizzato come un’eresia». Secondo Congar, appunto, attraverso il Concilio si prende coscienza che «il cristianesimo diventa avvenimento dinamico solo ricongiungendosi con questo mondo e con questa storia» nella consapevolezza che «non si tratta di subordinare il temporale alla Chiesa, ma di riferirlo all’escatologia, che è la promessa del suo pieno compimento». Ciò che stupisce è il fatto che la comunità cristiana, la Chiesa cattolica, abbia potuto camminare per decenni, senza che nascesse una sorta di dialogo costruttivo tra il Dizionario di teologia e la DSC, ciascuna delle due realtà, invece, destinata a vivere, per così dire, una vita parallela. L’evento del Concilio Vaticano II (1962-1965), il più importante, certamente, per la Chiesa cattolica di tutto il ventesimo secolo, pose definitivamente fine a questa estraneità, prima di tutto 2


dando una «nuova» visione di Chiesa (nella Lumen gentium) e, poi, sviluppando positivamente il tema del rapporto Chiesa-mondo (nella Gaudium ed Spes), in un vero e proprio «aggiornamento» dottrinale e pastorale. 2)

La «dottrina sociale» da Giovanni XXIII (1958-1963) a Giovanni Paolo II (1978-2005)

L’eredità di Pio XII, per quel che riguardava la dottrina sociale, era stata affidata, come si è visto, ad un’enciclica quasi sconosciuta, la Sertum laetitiae (1939), indirizzata ai vescovi americani e, poi, a due radiomessaggi successivi, del 1941 e del 1944. Il primo, per il 50° della «Rerum Novarum», ribadisce la dottrina della Chiesa sull’origine e l’uso dei beni creati e sulla funzione dello Stato rispetto alla persona umana, al lavoro e alla famiglia, alla quale bisogna assicurare uno «spazio vitale» da concretarsi in una «proprietà», base e garanzia di «stabilità economica». In fondo si ribadiscono i concetti-chiave dell’enciclica di Leone XIII. Quanto al Radiomessaggio del 1° settembre 1944, rivolto ancora a stabilire il primato della persona umana e i suoi inalienabili diritti, esso apre uno spiraglio nuovo nell’ambito della DSC: quello sulla «democrazia». Pio XII presenta lì dentro la visione di una democrazia intesa come regime di pace, di lavoro, di moralità, di giustizia oltre che di libertà. Nel messaggio papale cittadini e autorità vengono messi di fronte alla realtà di rapporti che permettano la coesistenza di libertà e autorità, di obbedienza e di collaborazione. L’uomo deve restare al centro con i suoi diritti e i suoi doveri e non ci si può accontentare di instaurare la democrazia come una cosa data una volta per tutte, ma si deve viverla e costruirla continuamente con la giustizia e la pace. Il suo successore, Giovanni XXIII (1958-1963), colui che inaugura una «nuova» stagione nella vita della Chiesa cattolica con l’indizione del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959) e, poi, con la celebrazione del primo periodo (dall’11 ottobre 1962…), è, dal canto suo, il Papa della Mater et Magistra (15 maggio 1961, per il 70° della RN) e della Pacem in terris (11 aprile 1963). La Mater et Magistra (MM) suscitò subito grandi entusiasmi, a causa probabilmente del momento storico (gli anni della «nuova frontiera») e delle attese di rinnovamento ecclesiale che il cambio di guardia al vertice della Chiesa aveva portato con sé. Il concetto-chiave intorno a cui tutto ruota nell’enciclica giovannea è quello di «socializzazione» dei beni provenienti dal lavoro, che determina la nascita dello «stato sociale» (Welfare State), cioè il crescente intervento dei poteri pubblici in settori delicati della vita pubblica, come l’assistenza, la sanità, l’istruzione ecc. ecc. Quello che Pio XII temeva come un cedimento all’ideologia socialista viene riconosciuto da Giovanni XXIII come prodotto «degli uomini, esseri consapevoli, liberi e portati per natura a operare in attitudine di responsabilità» (n. 67 della MM). Contemporaneamente Papa Giovanni riflette su altri due capisaldi della DSC dei suoi predecessori, quali il principio di sussidiarietà (Pio XI) e il diritto di proprietà privata (presente in tutti). Del primo egli mette in evidenza la fragilità in un contesto sociale ed economico complesso come quello del rinnovato slancio produttivo degli Anni Sessanta. Se quel principio stabiliva il ripartirsi delle responsabilità a cerchi concentrici, a partire dal più piccolo (l’individuo, la famiglia, le associazioni ecc. ecc.), a quale cerchio appartenevano le multinazionali della produzione e della comunicazione? Fatta salva la tutela dell’«iniziativa personale dei singoli», per il resto si dovrà anche accettare una strategia «multiforme, più vasta, più organica» (n. 61). Quanto al diritto di proprietà privata la MM porta con sé due sottolineature: che il mero possesso del bene materiale conta ben poco rispetto ad altre forme di acquisizione di esso (ricchezza da lavoro più che da capitale) e che la proprietà va diffusa a tutte le classi sociali, abolendo così la divisione tra padroni e proletari tipica del sistema capitalistico costituitosi nel tempo. 3


La Pacem in terris (PT) rappresenta, dal canto suo, un punto di svolta dell’insegnamento sociale e dello stile dell’annuncio della Chiesa cattolica. Due anche qui sono gli elementi-chiave del documento: a) l’espressione evangelica «i segni dei tempi» (Matteo 16, 1-4) e b) la distinzione tra «errore» ed «errante» nell’esercizio delle attività cui ciascuno è chiamato. a) Quanto al primo elemento, l’invito a riconsiderare la realtà mondana, politica, sociale, culturale, con lo spirito di chi cerca in essa i «segni» premonitori del Regno di Dio, affidati da lui al tempo attuale, muta profondamente la prospettiva della stessa DSC. Si apre la via ad un insegnamento fiducioso e incoraggiante che finalmente solleciti gli uomini a guardarsi attorno con speranza e a elevare lo sguardo per avvertire il senso segreto delle cose e degli eventi che li interessano, della storia cui appartengono. «In questa nuova ottica la PT presenta un quadro molto suggestivo della realtà contemporanea. La promozione sociale ed economica del proletariato, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la progressiva conquista di un’indipendenza politica da parte di tutti i popoli, il riconoscimento a tutti gli uomini di una pari dignità, l’affermazione di una carta universale dei diritti umani, la crescita del convincimento che le controversie tra i popoli debbano essere risolte con la mediazione e non con la guerra, l’introduzione di organismi internazionali per la rimozione dei più gravi squilibri economici e culturali, il fenomeno della socializzazione a tutti i livelli: ecco i “segni dei tempi” che il credente deve saper leggere alla luce della sua fede. Quella positività delle cose e delle opere umane che il magistero dei pontefici precedenti cercava di riconoscere per lo più in astratto, quale agognato frutto dell’obbedienza alla legge naturale e ai precetti divini, diviene così realtà storica, traccia del disegno di Dio, preannunzio terreno del Regno che verrà. All’argomento deduttivo che si appellava ai princìpi della metafisica e dell’etica per conformare il criterio di giudizio, subentrano invece l’ascolto, la prudenza del discernimento e la speranza che danno vita alla relazione semantica tra il segno e il suo significato ancor latente, ma già operante in modo misterioso». Ma c’è di più. I «segni» di cui parla la PT ineriscono a fenomeni generali, non contrassegnati da una scelta religiosa, come a dire che non sono appannaggio della «civiltà cristiana», ma appartengono a tutti gli uomini di buona volontà, credenti o meno. b) La distinzione, poi, tra «errore» e «errante» porta con sé un’autentica novità rispetto al magistero politico-sociale della Chiesa precedente (da Pio IX fino a Pio XII!). Se l’errore va respinto, è ancor più doveroso che l’errante sia rispettato nella sua dignità dinanzi agli uomini e a Dio, stimato e amato. Sarà la virtù della «prudenza», afferma papa Giovanni, ad indicare di volta in volta i gradi di collaborazione possibile con coloro che sono legati ad altre visioni del mondo. Certo è che queste prese di posizione del Papa con l’enciclica PT mettevano a repentaglio il carattere di «dottrina» a tutto il deposito fino a quel momento realizzato dal vertice istituzionale della Chiesa cattolica. E, in effetti, ciò è ancora più visibile nella prima enciclica di argomento politico e sociale di Paolo VI (1963-1978), la Populorum progressio del 23 marzo 1967. Era appena finito il Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965), che aveva apportato decisive modifiche agli impianti della teologia «romana», come si è già avuto modo di accennare nell’introduzione. L’oggetto di annuncio del pontefice diventa «il progresso dei popoli» su scala planetaria. «È il mondo intero nella sua dinamica storica che l’ora presente testimonia, nelle speranze operose di tutti gli uomini per un futuro migliore, ciò che richiede dalla Chiesa la prova di una cura assidua, di un assillo speculativo e pratico dominante: non per impartir ordini e capeggiare il progresso, ma per seguir di lato con amorosa trepidazione e benedire gli sforzi umani». Alle spalle dell’enciclica c’è anche un’iniziativa del presidente americano J.F. Kennedy, il quale aveva fondato nel 1961 un’«Alleanza per il Progresso» che impegnava gli Stati Uniti a offrire nel giro di dieci anni venti milioni di dollari agli Stati latino-americani per il loro svi4


luppo sociale ed economico. Contestualmente all’iniziativa kennediana, era sorto un nutrito movimento teologico che voleva dimostrare, Bibbia alla mano, la necessità di un impegno per il progresso quale condizione previa e imprescindibile della missione cristiana. (Era nata così una «teologia dello sviluppo», con Alvez, Segundo, Comblin, Gutierrez, da cui sarebbe sorta poi la «teologia della liberazione»). Ci sono poi alcuni spunti di novità nell’enciclica che vanno sottolineati, a) come quando papa Montini accentua vieppiù la subordinazione del diritto di proprietà all’utilità comune e alla potestà dello Stato di piegarla alle esigenze sociali (n. 23: bella in proposito, è una citazione da s. Ambrogio: «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Perché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti»). b) Nuova è la quasi completa revoca del principio di sussidiarietà, con il riconoscimento che «spetta ai pubblici poteri di scegliere, o anche di imporre, gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi» mediante una politica coordinata che coinvolga anche «le iniziative private e i corpi intermedi» (n. 33). c) Nuovo infine è lo spirito di fondo che pervade l’enciclica e che Chenu riassume osservando che: «[per Paolo VI] non basta una conversione degli individui; sono le strutture che bisogna investire e trasformare persino nella redistribuzione dei poteri. È vero che a più riprese [la Populorum progressio] fa appello alla buona volontà dei potenti, alla generosità dei popoli ricchi, al loro senso sociale per un’„assistenza” alla depressione dei popoli poveri. Queste vestigia di moralismo provengono dal fatto che il punto di partenza del discorso è il mondo occidentale capitalista, piuttosto che la contestazione dei popoli sottosviluppati; e resta l’illusione, generale a quel tempo, di una distribuzione omogenea dello sviluppo, mentre è lo sviluppo stesso dell’occidente che genera il sottosviluppo del Terzo Mondo, mediante il saccheggio delle sue risorse». Con la Lettera apostolica (non perciò un’enciclica, quasi a significare il “declassamento” della DSC) Octogesima Adveniens del 1971, papa Montini compie l’opera iniziata da Giovanni XXIII, sottolineando che sono le situazioni storiche umane a diventare il «luogo teologico» di un discernimento guidato dalla lettura evangelica dei segni dei tempi e non più da princìpi astratti legati alla legge naturale e alla morale cattolica. Scrive Paolo VI: «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione dall’insegnamento sociale della Chiesa, qual è stato elaborato nel corso della storia, e particolarmente in questa èra industriale, a partire dalla data storica del messaggio di Leone XIII “sulla condizione degli operai”, di cui abbiamo l’onore e la gioia di celebrare oggi l’anniversario […]». Alla Chiesa compete di «accompagnare» gli uomini nella loro ricerca. In questo modo il concetto di «dottrina sociale» è reciso alla radice e il suo carattere «immutato e immutabile», cui avevano alluso i Pontefici precedenti è respinto addirittura come il peggiore dei difetti. Lasciare o prendere, allora? 3)

La DSC di Giovanni Paolo II: alcuni accenni

La risposta di Papa Wojtyła alla domanda appena sopra formulata non porta con sé equivoci o tentennamenti; per lui occorre «prendere» di nuovo in considerazione la DSC e, addirittura, renderla 5


parte della morale cattolica in campo sociale ed economico. Nella Sollicitudo rei socialis del 1987 egli scrive che la Chiesa in tutto il suo insegnamento sociale ha cercato e cerca tuttora «di guidare gli uomini perché essi rispondano, appoggiandosi alla riflessione razionale e sull’apporto delle scienze umane, alla loro vocazione di battezzati che sono responsabili della società terrena». È chiaro che è ancora la gerarchia e in particolare il romano pontefice a dettare la riflessione ai laici battezzati, cui viene riconosciuta la personale responsabilità all’interno della vita sociale, economica e politica. (A ben vedere si tratta di un passo indietro rispetto allo stesso Concilio Vaticano II e alla sua visione di Chiesa intesa come «popolo di Dio» in cammino). Per Giovanni Paolo II la DSC «ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale essa annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del “proletariato”, della famiglia e dell’educazione, dei doveri dello Stato, dell’ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica e della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte» (Centesimus Annus, n. 54). «L’interventismo sociale» di Papa Wojtyła, che è riscontrabile in tutti i suoi documenti, anche in quelli non direttamente dedicati alla DSC, è da lui interpretato come quella «nuova evangelizzazione» di cui il mondo contemporaneo ha bisogno, tenendo conto che «non c’è vera soluzione della “questione sociale” fuori del Vangelo» (CA, n. 5). Ciò che fa da trama, poi, al suo pensiero e, in certo modo, da guida ai suoi interventi ripetuti è «la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico» (CA., 11). Qui troviamo il punto-chiave di tutta la dottrina sociale di Giovanni Paolo II: è la visione antropologica cristiana (il personalismo cristiano) che fa da sfondo alle sue tre encicliche sociali: la Laborem exercens del 14 settembre 1981 (90° della Rerum Novarum); la Sollicitudo rei socialis del 30 dicembre 1987 (20° della Populorum progressio) e la Centesimus Annus del 1° maggio 1991 (100° della Rerum Novarum). Sarebbe qui sciocco e impertinente il tentativo di render conto della ricca e approfondita tematica sociale offerta da Papa Wojtiła nel suo lungo servizio pastorale. Mi pare importante, invece, fermare l’attenzione su due questioni: cioè sul a) «metodo» usato dal Pontefice nel trattare la DSC e, poi, b) su tre caratteristiche tematiche ricorrenti negli scritti papali. a) Sul metodo, per così dire. L’argomentazione dottrinale viene svolta a mo’ di «sillogismo», con una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione. La premessa maggiore è sempre positiva ed è formulata a partire dal pensiero biblico o ecclesiastico sulle questioni proposte: ad es., nella LE (Laborem exercens) il tema è il lavoro, così come è voluto da Dio, vissuto da Cristo, e quindi capace di portare a perfezione «l’amore» (cioè il dono di sé della persona); nella SRS (Sollicitudo rei socialis) il tema è lo sviluppo, che porta con sé l’apertura al bene comune del genere umano, alla famiglia umana, costruito «anche» dal profitto (giudicato positivamente!), soprattutto se accompagnato dal rispetto per la natura e dallo spirito democratico; nella CA (Centesimus Annus) è la stessa dottrina della Chiesa che propone ed esalta il primato della persona e, di conseguenza, si prende cura dei poveri, per una promozione umana collettiva e condivisa. La premessa minore, invece, prende atto della situazione storica concreta e denuncia, in tutti tre i documenti pontifici, la condizione disumana di tante donne e di tanti uomini del nostro tempo. I mali sono noti: disoccupazione, emigrazione, questioni salariali, discriminazioni di minoranze (nella LE in particolare); il terzo mondo sfruttato, oppresso, discriminato, povero ecc. ecc. (nella SRS in particolare); gli errori «antropologici» del totalitarismo, del socialismo e del disastro ecologico (nella CA soprattutto). La conclusione è, poi, consona ai tre temi trattati: il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro (LE); la solidarietà è la virtù morale che permette uno sviluppo equilibrato (SRS); la Chiesa (e in particolare la DSC) sarà fedele nel fare propria la via dell’uomo (CA). 6


b) In particolare, infine, si può fermare l’attenzione su tre caratteristiche tematiche che attraversano tutto il pensiero di Giovanni Paolo II in materia «sociale». Ad esse è sotteso un «pregiudizio» fondamentale: che la riforma sociale richiede una conversione morale a tutti i livelli della società. I temi, comunque, sono: la democrazia, l’opzione preferenziale per i poveri e il lavoro. – La democrazia: negli scritti di Giovanni Paolo II emerge un concetto differente di democrazia. Essa è intesa come l’assunzione della responsabilità della propria esistenza sociale e quindi riguarda qualsiasi forma di partecipazione alla vita collettiva. Se nella teoria liberale l’ideale democratico era quello di massimizzare nella società la libertà individuale, la teoria cattolica propone un concetto di democrazia che mira a massimizzare la partecipazione personale (anche con la riattivazione del principio di sussidiarietà). (Peccato che questo non valga per l’organizzazione della Chiesa cattolica!). – L’opzione preferenziale per i poveri: sollecitato anche dalle teologie contemporanee (della liberazione, della speranza, dalla teologia politica) il Papa invita con insistenza a considerare la società dal punto di vista dei poveri, dei deboli e degli emarginati e a fornire un sostegno pubblico alla lotta unita che ha come scopo la loro emancipazione. Questo «popolo» è chiamato a svolgere il ruolo di agente di cambiamento sociale! – Infine il lavoro come cultura: secondo papa Wojtyła «il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale» (LE, 3). «Attraverso il lavoro le persone costruiscono il loro mondo e agendo così ogni individuo realizza simultaneamente se stesso. Perciò, ciò che forma la mentalità della gente non sono le idee proposte dagli insegnanti, dai predicatori o dai leaders politici; ciò che forma la loro mentalità sono le condizioni del lavoro quotidiano. L’organizzazione del lavoro in industrie, imprese, uffici e altre società decide largamente se la gente sarà nell’insieme cooperativa o competitiva; se diventerà intelligente sviluppando continuamente la mente o se diventerà irriflessiva e ottusa; se sarà creativa, aperta alle nuove idee o se rimarrà attaccata alla routine e sarà spaventata dalle nuove esperienze. Il lavoro, nella Laborem exercens, è parte della cultura, in effetti ne è la parte principale. Noi siamo costruiti o distrutti dal lavoro che svolgiamo». 3)

Brevissima conclusione

Forse siamo rimasti frastornati dalla vastità e dalla complessità dei dati e dei temi che accompagnano lo sviluppo della DSC nel tempo del Dopoconcilio. Luci e ombre si accumulano e si intersecano in questo gigantesco castello, costruito dai Pontefici negli ultimi cinquant’anni con esiti diversi. Si può parlare, perfino, di morte e risurrezione della DSC, se si pensa al travaglio che l’accompagna da Giovanni XXIII a Paolo VI e, di seguito, all’enfasi che le viene riservata nell’opera pastorale di Giovanni Paolo II. Per papa Giovanni e, soprattutto per Paolo VI era «il mondo» a mettere davanti alla Chiesa i grandi problemi dell’umanità, cui la comunità cristiana partecipava, «accompagnando» (è il verbo di Paolo VI!) lo sforzo comune anche con la speranza cristiana e con la fede di un mondo «già» redento, anche se «non ancora» salvato in pienezza; per papa Wojtyła è la Chiesa che è chiamata a guidare (è il verbo di Giovanni Paolo II) la comunità umana verso la sua emancipazione, perché è il germe del Vangelo che ha la forza di trasformare i suoi sforzi quotidiani. Sullo sfondo c’è una diversa interpretazione del rapporto Chiesa-mondo, come si è già visto e, di conseguenza, un diverso modo di concepire la laicità, la secolarizzazione e, in fondo, il senso profondo dell’essere cristiani e dell’autonomia della coscienza e delle «realtà terrene». Non è facile dare una risposta unica; è già tanto rifletterci sopra e non accettare «luoghi comuni» e acritiche obbedienze! 7


IL LIETO ANNUNCIO AI POVERI Breve itinerario sulla «Dottrina sociale» della Chiesa Canova, 16 marzo 2007

 Un annuncio socialmente sovversivo e politicamente pericoloso? (don Marcello Farina) 1)

Introduzione

Il quarto degli incontri dedicati alla conoscenza della Dottrina sociale della Chiesa (DSC) ci permette, da una parte, di mettere in evidenza «l’eredità» che essa ha affidato alla comunità cristiana all’inizio del terzo millennio e, dall’altra, di cogliere anche «i limiti» storici, nel suo mostrarsi ora profetica, ora appiattita su mentalità correnti e prassi non sempre fedeli alla radicalità evangelica. A guardare, oggi, con «distacco» (con oggettività) e «serietà» quel complesso di riflessioni elaborato in più di cent’anni, dalla Rerum Novarum fino ai nostri giorni, si può riconoscere che gli «elementi costitutivi» della DSC possono essere riconosciuti: a) nell’affermazione del primato della persona umana, definita come « primo principio e, si può dire, il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale della Chiesa» e, successivamente, nel mettere in evidenza alcuni «concetti», divenuti ormai, almeno in teoria, patrimonio della ricerca morale: b) il bene comune del genere umano (fine specifico della comunità politica), c) la destinazione universale dei beni (e l’opzione preferenziale dei poveri che tale finalità comporta), d) il principio di sussidiarietà (che protegge persone e gruppi dagli abusi delle istanze superiori e sollecita i più forti ad aiutare i deboli: a non distruggere, cioè, i «corpi intermedi»), e) la partecipazione e la solidarietà (intese nel loro significato più pregnante di condivisione, di riconoscimento dell’alterità e della reciprocità). Certo, come si diceva sopra, la DSC è anche figlia del suo tempo, di questi cento e più anni che sono stati, come tutti noi sappiamo cogliere, straordinari per i mutamenti e le novità da essi determinate e, insieme carichi di insidie, di violenze immani, di contraddizioni e di ambiguità spaventose. La storia della DSC è «anche» la storia di queste vicende, che spesso sono diventate addirittura come «il motore» e lo stimolo per la sua rielaborazione tra «punti fermi» e le costanti e le svolte che non sono mancate. Si può perfino dire che non mancano in essa delle «posizioni ideologiche» legate all’assunzione di visioni del mondo precostituite e solo successivamente ci si è lasciati guidare dalla Parola evangelica, come autentica radice della interpretazione cristiana della vita e della storia. Ci si potrebbe a questo punto chiedere, retoricamente, «che cos’è vivo e che cos’è morto» della DSC. Ma, forse, può premerci di più il cercare di indagare quale sia stata in questi ultimi anni la «nuova» comprensione dell’etica economica, cui la stessa DSC appartiene, nella sistemazione dottrinale voluta da papa Giovanni Paolo II. Da essa possiamo ricavare tre grandi domande: a) qual è il senso «aggiornato» del comandamento «Non rubare»?; b) qual è il rapporto tra uomo e ricchezza nella Parola di Dio?; c) che cosa significa, infine, che «i poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)?


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«Non rubare»: qual è il contenuto del comandamento?

È qui interessante fare un piccolo passo indietro e prendere in esame i testi di morale cattolica prima del Concilio Vaticano II. Lì il furto è definito come un «prendere il suo di altri contro la loro volontà». Il «suo» è la proprietà privata, che a partire dal sec. XIV e poi con John Locke, viene riconosciuta come un diritto sacro e inviolabile, con la conseguenza, in termini di morale, di sganciare la giustizia dalla carità. Lo Stato, a sua volta, deve tutelare il diritto di proprietà e la legge non può imporre il dovere di carità. Le tasse sono nate «solo» come pagamento delle spese della macchina dello Stato (amministrative e militari) e le tariffe sono il costo dei servizi goduti effettivamente dal privato cittadino. Scrive Enrico Chiavacci: “La teologia morale cattolica, in tutti i testi e i manuali degli ultimi quattro secoli, ha sempre sostenuto il diritto naturale, e perciò inviolabile, di proprietà privata. Nessuno può togliere a un altro ciò che è stato legittimamente acquisito. Per questo motivo si elencano i vari modi di legittima acquisizione di beni terreni: compravendita, eredità, donazione, occupatio rei nullius (occupazione delle cose di nessuno), ecc. L’ultimo citato ha una sua importanza concettuale: nelle imprese coloniali. I popoli colonizzati erano considerati selvaggi, senza ordinamento interno, e perciò si potevano tranquillamente occupare terre, beni, miniere e altro. Dato che in molte aree culturali non esisteva la proprietà privata, ma quella della comunità (clan, tribù, area territoriale), e di una comunità non concepita come Stato sovrano nel nostro senso occidentale, praticamente tutto era da considerarsi res nullius. Questa fu in particolare la logica della conquista dell’America, logica benedetta con apposita bolla pontificia, ma lo fu anche per le altre aree colonizzate. Così miniere, pozzi di petrolio, ma anche aree campestri o boschive furono incamerati. Non potendo le famiglie o le tribù presentare titoli giuridici di proprietà se non il possesso tradizionale, esse sono state – e sono tutt’oggi in alcune zone – legittimamente acquisite da Enti occidentali e oggi da multinazionali o da signorotti locali da queste finanziati o sostenuti. Questo concetto di proprietà privata, sacra e inviolabile, è di fatto l’unico contenuto del «non rubare» in tutti i testi di morale cristiana e nei documenti pontifici fino agli anni ’50 del XX secolo. L’unica eccezione è la «estrema necessità», dove estrema, in pratica, indica che chi ti sta davanti stia per defungere. Se infatti, dicono i manuali correnti, il povero ha ancora tempo e fiato per elemosinare, allora la necessità non è estrema. Alcuni autori parlano di necessità «quasi-estrema»: è da apprezzare la loro moderazione, ma non si sa che cosa voglia dire. In ogni caso, deve essere ben chiaro che si tratta di un dovere generico di carità, non di giustizia. Questo è anche il pensiero di Leone XIII, che nella Rerum Novarum parla del dovere di dare al povero come un dovere di carità, non di giustizia: cita Tommaso, ma erroneamente. Per Tommaso il dovere di dare al povero è dovere di giustizia. E l’idea di Leone XIII è anche l’idea di Pio XII: alla richiesta diffusa di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda, risponde che non si tratta di un diritto, perché la proprietà dell’azienda (edifici, macchinari e altro) è proprietà privata dei padroni, e quindi intangibile. È però da rilevare un’importante eccezione vista da Pio XI nella Quadragesimo anno (1931): è l’epoca delle conseguenze della grande depressione americana, e Pio XI afferma che, qualora la ricchezza privata accumulata sia tale da compromettere il bene comune, allora lo Stato può espropriarla. È da rilevare anche che alla nascita della Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), negli anni ’50, fu introdotta una qualche forma di partecipazione dei dipendenti alla gestione dell’azienda. Ma i buoni padroni tedeschi si affrettarono a introdurre anche la produzione di prodotti lavorati, così da sfuggire alla norma” (su Rivista teologia morale, n. 153, 2007, pp. 19-20). Ma né i Padri della Chiesa, né S. Tommaso, né tanto meno i Profeti e il Vangelo, avevano questa concezione del «suo» (della proprietà privata). Non si conosce neppure da parte loro l’idea di un diritto di proprietà naturale, e perciò sacro e inviolabile. L’unico vero signore dei beni terreni è Dio (‘la terra è di Dio’), che li ha creati per il bene di tutti. Così afferma S. Tommaso, il quale ricorda che è bene che la comunità garantisca a ciascuno un legittimo possesso, ma solo allo scopo del bene comune (della pace sociale). Per lui il diritto non è mai naturale, ma è frutto di statuti umani e nasce dal consenso degli uomini, sempre però con la clausola del dovere di dare «de facili» (con semplicità) a chi è nel bisogno. Tutto questo per giustizia e non per benevolenza occasionale. (Anche Ambrogio aveva affermato che prima del dovere di «non-rubare» veniva quello di «dover dare» secondo le proprie possibilità!). È stato faticoso per la Chiesa ritrovare la dottrina e lo spirito del Vangelo, dei Padri e dello stesso S. Tommaso. La vera svolta si è avuta soltanto con la Gaudium et Spes (GS), la grande costituzione conciliare del 1965, preceduta dall’enciclica Pacem in terris del 1963, con l’ampia e quasi puntigliosa elencazione, nella prima parte, dei diritti dell’uomo. 2


La Gaudium et Spes sottolinea alcuni punti significativi dal punto di vista teorico: – Ad esempio, che il lavoro è sempre espressione della persona; ma i lavoratori sono troppo spesso asserviti alla propria attività. Di qui nasce l’invito ai cristiani di non accettare passivamente le cosiddette leggi dell’economia (del mercato); anzi va promossa «la partecipazione di tutti» alla gestione dell’impresa (n. 67 e 68 della GS). La Laborem exercens di papa Woytjła ripete questi stessi concetti, affermando che il lavoratore deve mantenere la propria dignità e la responsabilità umana. Ma ci si può chiedere: perché questi nobili e appassionati discorsi sono svuotati di valore da ciò che accade nella realtà? Oggi il lavoro non è per principio a servizio dell’uomo, ma il lavoratore è al servizio della massimizzazione degli utili a qualunque costo umano. Non si continua così a «rubare»? – Ancora, la Gaudium et Spes sottolinea la destinazione universale dei beni della terra per tutti gli esseri umani. Ma anche qui, chi è che non vede le miserabili condizioni di vita della maggior parte della famiglia umana e le enormi ricchezze di pochi? Non è questo un vero «furto» del necessario ai miseri? Chi aveva profeticamente visto l’attuale logica della globalizzazione è stato Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (1967). Le seguenti encicliche di Giovanni Paolo II richiamano in vari modi il problema incombente, ma non ne sottolineano la drammaticità, né denunciano apertamente e severamente le cause profonde (n. 69 della GS). – Infine, la Gaudium et Spes sponsorizza, se così si può dire, una forma di proprietà privata come condizione indispensabile per l’esercizio di un minimo di libertà nell’esistenza del singolo e della famiglia. Ma non è detto che dove c’è più proprietà privata ci sia anche il massimo rispetto per la vita delle persone! Comunque un dato risulta certo: se rubare significa per la Bibbia «rubare la persona dell’altro», nel nostro tempo si continua a rubare senza vergogna. Non solo, ma l’egoismo di singoli e di gruppi, l’individualismo oggi imperante, distruggono ogni anno milioni di esseri umani e riducono in condizioni di miseria la grande maggioranza della famiglia umana, togliendo forzosamente il «suo» dell’altro, cioè ai popoli della terra. “Oggi, poi, nel tempo della progressiva globalizzazione, il dovere di «non rubare» al povero, cioè il dargli ciò che per volere divino è già suo, va oltre le limitate unità politiche e commerciali cui un San Tommaso poteva pensare, e va oltre anche all’interesse o vantaggio economico di un singolo Stato per sovrano e potente che sia. Le grandi Corporations e le Finanziarie, le vere centrali operative che controllano il flusso dei capitali ovunque sulla terra, sono transnazionali: non dipendono dai poteri politici di singoli Stati, ma generano o condizionano o ricattano o corrompono tutti i poteri politici. Le grandi imprese, che sono nate e si sono sviluppate in un paese, oggi hanno bisogno di sempre maggiori capitali richiesti dal rapido sviluppo tecnologico e dai nuovi flussi del mercato mondiale. Così nessuno, o ben pochi, sa chi realmente detenga il controllo azionario delle grandi imprese e, soprattutto, delle grandi finanziarie. La nazionalizzazione, o il controllo azionario dello Stato tramite la golden share, può essere necessaria per i Paesi poveri o per i servizi essenziali di un qualsiasi Paese, ma spesso uno Stato è costretto in vari modi a vendere o a cedere a poco prezzo il proprio prodotto alle condizioni imposte dall’esterno o da poteri transnazionali che controllano l’operato dello Stato. In questo quadro, per il cristiano l’obbedienza al comandamento «non rubare» diviene dovere di impegno sociali e politico a livello sopranazionale” (op. cit., p. 25). Scrive Paolo Ricca, pastore valdese: “Il comandamento del «non rubare» è il più rivoluzionario di tutti i comandamenti», ricordandoci che «quelli che rubano di più non sono i ladri di professione. Se accadesse un giorno, per miracolo, che coloro che rubano occultamente non rubassero più, la faccia della società cambierebbe profondamente. Si vedrebbe allora che molti ricchi sono solo dei ladri, e quindi diventerebbero poveri, e molti poveri sono solo dei derubati, e quindi diventerebbero ricchi. Sarebbe una vera rivoluzione!”. Anche le forme di furto si sono, a suo parere, moltiplicate e hanno assunto forme del tutto nuove. Egli scrive ancora: “È impossibile naturalmente fare un elenco completo di tutte le forme di furto oggi. Possiamo solo azzardare qualche esempio: intanto, partendo da una abitudine molto comune, alzando arbitrariamente i prezzi delle merci, si ruba. Si ruba anche sottopagando le materie prime dei Paesi che le producono: questo è un furto che noi, Primo Mondo, abbiamo praticato e continuiamo a praticare. Poi si può rubare sul lavoro. Frodare il fisco, che è quasi un’arte nel nostro Paese. Tassare selvaggiamente i cittadini, per cui anche 3


lo Stato può diventare un grande ladrone. Pagare meno del dovuto chi lavora. Negare il lavoro a qualcuno. Oppure, qualche volta, esercitare due lavori. Insomma, è vero che si può rubare a partire da qualunque posizione, dall’alto e dal basso” (in Le dieci parole, pag. 168). Per concludere, si possono ricordare i due «grandi» princìpi generali per l’etica economica, che secondo Enrico Chiavacci hanno carattere normativo e non di puro consiglio di perfezione: – –

non cercare di arricchirti; se hai, hai per dare.

Scrive il noto moralista: “Riteniamo che questi due precetti generali rispondano bene all’idea che cercare o mantenere gelosamente ricchezze è idolatria: i due precetti si contrappongono rispettivamente ad «avidità» il primo, e ad «avarizia» il secondo. Più in generale crediamo che in questi due precetti trovi la sua espressione più esatta l’idea di «sobrietà» (povertà) e giustizia come virtù: la disponibilità ad appartenere al Regno di Dio diventa attitudine costante nei confronti dei beni terreni”. 3)

La Bibbia e l’uso dei beni: alcune osservazioni

C’è un’immagine immediata, facile da cogliere, che ci introduce in questo ambito immenso di riflessione: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire Dio e il denaro” (Matteo 6, 24; Luca 16, 13). Questo forte avvertimento non è un avvertimento isolato: è il punto di arrivo di un discorso più volte ribadito, che ha radici nell’Antico Testamento e che il Nuovo Testamento riprende e precisa. Va subito detto che il punto di partenza biblico è sempre di natura religiosa: l’uso dei beni ha a che fare con una certa visione di Dio e del prossimo, in una triplice direzione: in rapporto a Dio la ricchezza diventa sempre idolatria; in rapporto all’uomo con se stesso che si affanna ad accumularla, la tentazione della ricchezza diventa «vanità» (cioè assurdità, stupidità, inutilità e delusione); in rapporto agli altri uomini la tentazione della ricchezza diventa ingiustizia e oppressione. Ma c’è di più. La Bibbia (i profeti e il vangelo in particolare) mette in evidenza che la passione dell’accumulo (con i suoi risvolti di idolatria, vanità e ingiustizia) può benissimo convivere anche con la religiosità, con la puntigliosa osservanza delle pratiche religiose, persino con la ricerca della gloria di Dio. Si legge nel vangelo di Marco (12, 38-40): “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere i saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti: divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere”. E in Luca (16, 14), proprio a commento delle parole programmatiche di Gesù «non potete servire Dio e il denaro»: “i farisei, che erano attaccati al denaro ascoltavano queste cose e si facevano beffe di Lui”. Nella tipologia evangelica lo scriba e il fariseo non è l’incredulo, non è l’uomo mondano, ma l’uomo religioso e praticante. Nell’Antico Testamento ci sono almeno tre linee di riflessione: – quella sapienziale, secondo la quale l’ideale dell’uomo è la ricchezza, non la povertà. Nello stesso tempo anche la ricchezza ha dei limiti: non si trova la felicità nella sola ricchezza, ma in una ricchezza accompagnata dall’amore di Dio, dalla giustizia e dalla concordia; – quella degli uomini pii («i poveri di Jahwè) che riconoscono che la vera ricchezza è in Dio: solo in lui trova rifugio la precarietà e la povertà dell’uomo (un atteggiamento spirituale); – quella dei profeti, unanimi nel condannare ogni pratica religiosa che trascuri la giustizia. Nel popolo, secondo loro, non c’è posto per una divisione tra ricchi e poveri. Per questo i profeti sperano in un tempo messianico in cui i poveri avranno finalmente giustizia e gli emarginati un posto. Si ricordino le invettive di Amos, di Isaia, di altri grandi profeti. Per l’Antico Testamento c’è una ricchezza da cercare, nel contempo benedizione di Dio e frutto della solidarietà tra gli uomini, e qui per ricchezza si intende benessere, libertà, giustizia e sicurezza; contemporaneamente c’è, anche, una ricchezza da fuggire, come l’accumulo che spesso nasce dall’ingiustizia e dall’oppressione, dalla insensibilità morale e dal fraintendimento del rapporto con Dio. 4


Nel Nuovo Testamento tutto si incentra sulla persona di Gesù di Nazareth. Sulla scorta di quanto scrive don Bruno Maggioni, vale la pena qui di mettere in evidenza quattro rilievi significativi: a) A un tale che gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada», Gesù rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9, 58-58; Mt 8, 19-20). La vita di Gesù fu povera e nomade. Non c’è dubbio che le ragioni di questa scelta vadano cercate in un atteggiamento di incondizionata fiducia nel Padre (che nutre i fiori e i passeri) e nella volontà di possedere la maggior libertà possibile per dedicarsi completamente alla propria missione (volontà di cui troviamo le tracce nelle parole rivolte ai discepoli: «non procuratevi né oro né argento, né bisaccia da viaggio, né bastone»: Mt 10, 9-19). b) Nello svolgimento della sua opera messianica Gesù ha costantemente rifiutato tutte le sollecitazioni che gli suggerivano di servirsi del prestigio, della potenza e del dominio. Fu una tentazione che lo accompagnò tutta la vita, proveniente da Satana (Mt 4, 1-11), dalle folle (Gv 6, 15), dagli scribi e dai farisei (Mc 8, 11; 15, 31-32), e persino dagli stessi discepoli (Mc 8, 32-33). Gesù oppose a questa tentazione almeno due ragioni. Anzitutto, la ferma fiducia nella Parola di Dio che apparentemente sembra debole (al punto che gli uomini sono sempre stati tentati di rafforzarla), ma che in realtà è forte. Gesù non è caduto nell’equivoco di introdurre nella debolezza di Dio la forza della potenza degli uomini. E poi la lucida percezione che denaro, potenza e dominio non si lasciano ridurre a strumenti: ben presto si trasformano in padroni, ed esigono adorazione. Così dice, e giustamente, Satana nel deserto: «tutto questo ti darò, se mi adorerai». Una conseguenza a cui non si sfugge. c) Gesù ha frequentato i poveri di ogni genere (gente del popolo e contadini, ammalati, stranieri e peccatori) e a loro ha annunciato il Regno. In un certo senso li ha privilegiati. È questo uno dei tratti più storicamente sicuri del suo ministero. Gesù sa che Dio non fa differenze di persone, non segue le valutazioni e le emarginazioni che invece gli uomini – anche a nome suo – si ostinano a costruire: al contrario, Dio è dalla parte del povero e dell’escluso, per difenderlo. Ecco perché Gesù privilegia costoro, per rivelare il vero volto di Dio e del suo Regno. Gesù ha certamente frequentato anche uomini ricchi, uomini detentori della cultura e dell’autorità, e anche a costoro ha annunciato il Regno. Ha accettato l’invito a pranzo di Simone il fariseo (Lc 7, 36ss) e di un altro capo dei farisei (Lc 14, 1), ha guardato con simpatia il giovane ricco (Lc 18, 18ss), è entrato nella casa di Zaccheo «capo dei pubblicani e ricco» (Lc 19, 1). Gesù ha dunque accolto anche i ricchi, ma sempre per aprire loro il cuore e le mani. Ed è chiaro che li ha incontrati in quanto uomini, e come tali amati da Dio e invitati al Regno. In nessun modo Gesù ha considerato la loro posizione un luogo privilegiato per l’annuncio del Regno: come se, una volta convertiti, essi fossero, appunto per la loro posizione e per la loro capacità di influenza, la via più rapida per la diffusione della Parola. Gesù non ha mai considerato il denaro, né coloro che lo possiedono, né le molte cose che con il denaro si possono fare come una via favorevole alla instaurazione del Regno. d) Denunciando il rischio dell’idolatria che la ricchezza porta con sé, Gesù conduce l’analisi a quel profondo livello di coinvolgimento che possiamo indicare come «il cuore dell’esistenza». Gesù sa benissimo che il problema è di riorientare il cuore dell’uomo. È di qui che scaturisce l’attaccamento al denaro e tutte le sue sopravvalutazioni: dal cuore scaturiscono le «cupidigie» (pleonexia: avidità, passione dell’accumulo), come si legge in Marco 7, 22. Un duplice riorientamento: da una ricerca di sicurezza fondata su se stessi e sull’accumulo a una sicurezza fondata sulla fiducia nel Padre; da un’esistenza concepita e gestita come conservazione a un’esistenza concepita come dono, condivisione e servizio. Come dice Bonhöffer: «Gesù, uomo per gli altri». E la Chiesa degli Atti degli Apostoli, così come viene descritta dall’evangelista Luca, abituata a convivere in un mondo di ricchi e di poveri, di lusso e di miseria, è continuamente sollecitata (anche da Paolo, da Giacomo…) a guardare alla vita buona, bella e beata di Gesù di Nazareth per testimoniarlo nella storia delle donne e degli uomini di ogni tempo. 4)

«I poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)

Alla fine del nostro itinerario sulla DSC trovo provocante questa frase di Gesù di Nazareth pronunciata in casa di Simone, il lebbroso guarito, durante la cena a cui è invitato anche lo stesso Gesù. A partire, però, dalla constatazione che i nostri non sono tempi favorevoli per i poveri. È vero che, da un lato, c’è un forte apprezzamento per il servizio al povero, delle forme di aiuto da prestare, delle figure di volontariato e di dedizione, del compito anche dei cristiani in questo campo, ma, dall’altro, c’è una cultura 5


dell’identità che rifiuta il diverso, che lo sente come una minaccia, che lo marginalizza dai circuiti della vita quotidiana; e, soprattutto, c’è una cultura del benessere che non vuole mettere in discussione i criteri e i comportamenti di una società dell’accumulo, della crescita, del progresso, dell’ottimizzazione… E se vuol raccomandare l’attenzione al povero (si pensi solo a chi viene da fuori) deve far risultare che è una «risorsa», che senza di lui non potremo svolgere alcuni lavori… È lo stesso atteggiamento che abbiamo nei confronti della sofferenza e della malattia; trattiamo solo quella di cui riusciamo a venirne a capo, che pensiamo di superare e guarire. Prima di «far del bene» ai poveri, occorre riconoscere che essi sono anzitutto un «appello» a noi, al nostro stile di vita, ai criteri del nostro vivere sociale. Essi sono un invito ai credenti e ai cercatori di Dio a cercare quell’unico bene che sazia il desiderio dell’uomo e a condividere gli altri beni, affinché nessuno resti fuori dalla sala del convito. E dunque indicano anche il «compito» di vivere la esperienza cristiana come uno spazio che sente i poveri, i piccoli, e tutte le altre forme di emarginazione nel grembo della propria casa, al centro della comunità. Stando con i poveri, condividendo la loro esistenza, le loro fatiche e le loro lotte, anche lo stesso Vangelo acquisterebbe autenticità e rilevanza. Una cura dei bisogni intesa in modo solo materiale, senza leggere in essi una domanda più radicale, senza ascoltare l’appello a un bene più grande, di cui a sua volta il credente è solo testimone e non proprietario, non apre né il singolo, né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare! Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. I poveri sono il libro dove io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione. I poveri sono un frammento dell’evangelo, che rimanda all’evangelo in pienezza; essi ci chiedono di accoglierlo nella sua integralità, di introdurli nella casa della libertà fraterna, nello spazio della comunione, ci chiedono di fare la Chiesa come comunità fraterna. Un tempo l’elenco dei poveri della comunità era conservato gelosamente sull’altare, accanto all’Eucaristia e ai libri della preghiera: da queste tre realtà nasceva ogni giorno la comunità cristiana. Forse si potrebbe ricostruire quella quotidiana «trinità», per cooperare con tutte le donne e gli uomini, interessati a costruire insieme l’accoglienza e la condivisione, un mondo di giustizia, di libertà, di pace.

ALLEGATO

La Chiesa è veramente di tutti se è veramente Chiesa dei poveri. Restituire la Parola di Dio ai poveri secondo il Vangelo sarà per la Chiesa e i credenti la possibilità di rileggerla nella fatica e nella responsabilità di restituire la parola «umana» a tutti gli uomini defraudati di intelligenza, di coscienza, di libertà. E la Parola di Dio sarà per loro anche l’immenso, sorprendente dono di riscoprirla sempre come sorgente, verifica, compimento di tutte le parole umane. Alla resa finale dei conti, secondo Bernanos, Dio interpellerà i credenti: «Restituitemi la mia Parola». Per giungere meno indegni a quell’appuntamento ultimo non ci resta che restituirla ai poveri ad ogni appuntamento della nostra storia. È bene allora che «adesso» ascoltiamo insieme questo appello che ci giunge da una terra maledetta dagli uomini e benedetta da Dio. Dalla lettera inviata dagli indios boliviani a Giovanni Paolo II in visita nel Perù, Venezuela, Ecuador: “Noi indiani d’America e delle Ande abbiamo deciso di servirci della visita del Papa per restituirgli la sua Bibbia, visto che in cinque secoli non ci ha portato né amore né pace né giustizia. In cambio della colonizzazione abbiamo ricevuto la Bibbia che è stata un’arma ideologica di attacco; la spada spagnola, usata di giorno per attaccare e uccidere gli indios, di notte diveniva una croce per attaccare l’anima degli indios. La preghiamo di riprendersi la sua Bibbia e regalarla ai nostri oppressori, i cuori e le menti dei quali hanno più bisogno dei nostri del suo insegnamento morale” (6 febbraio 1985). Se noi, vecchie Chiese e vecchi popoli di civiltà cristiana, sapremo restituire la Parola di Dio ai poveri del mondo, essi ci restituiranno una Parola di Dio “risuscitata a nuova vita”.

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