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Il sapere rende pacifica una società pluralista
eventi “Il sapere rende pacifica una società pluralista”
Alberto Melloni, segretario della Fondazione per le scienze religiose, racconta l’esperienza di Ex Nihilo, la “Conferenza zero” della European Academy of Religion
Professore, a partire dal 2016 la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (FSCIRE) ha avviato la costruzio-
ne di un network e istituito la European Academy of Religion (EUARE), lanciata ufficialmente nel dicembre scorso a Bologna. Quali obiettivi si propone questo consorzio di ricerca e scambio?
Dal 1996 avevamo lavorato a creare delle reti di collaborazione fra grandi istituzioni di ricerca del settore storico religioso: eravamo e ci siamo sempre più convinti che la risorsa sapere sia essenziale a rendere pacifica una società pluralista. Ce ne siamo resi conto a partire da una esperienza di collaborazione molto vasta che era stata ed è da sempre una delle caratteristiche dell’attività di Fscire: in questa piccola ma operosa officina di san Vitale 114 sono state realizzati grandi partenariati per fare la storia del concilio Vaticano II, l’edizione dei concili delle grandi chiese, il dizionario del sapere storico religioso, la storia dell’ecumenismo, la storia della interpretazione, Lutero, Benedetto XV e non ultima la rivista fondata da Giuseppe Alberigo e attiva da 38 anni. Così, avendo a disposizione un capitale di credibilità non piccolo su scala internazionale abbiamo provato ad invitare le grandi società scientifiche, le reti progettuali, gli editori, i dipartimenti universitari di Europa, Mediterraneo, Medio Oriente, Caucaso, Balcani e Russia. Abbiamo avuto una risposta travolgente: 507 istituzioni hanno aderito come fondatori, e il commissario europeo alla ricerca Moedas, l’uomo nelle cui mani c’è la politica della innovazione europea, ha dato il suo sigillo ad una iniziativa che ha fatto valere il principio che il sapere deve trovare uno suo spazio in uno spazio nel quale il “mercato del dialogo” ha premiato la ostentazione di amicizie spesso sincere rispetto alla ricerca degli snodi dinamici delle comunità di fede.
Dal 18 al 22 giugno scorsi a Bologna si è svolta “Ex Nihilo - A Zero Conference on Research in the Religious Fields”: cinque giorni di seminari scientifici, lezioni e dibattiti su temi diversi legati all’esperienza religiosa in tutta la sua varietà. Che bilancio fa di questa prima esperienza?
Ci ha sorpreso il successo del kickoff, e non di meno le mille persone registrate alla “conferenza zero”, che ha votato uno statuto ed avviato una esperienza con una sua dimensione istituzionale autonoma. Tutti hanno convenuto che per qualche anno almeno la EUARE abbia sede a Bologna anche per il clima unico di questa città, che possiede e attrae da secoli la materia prima più pregiata che è l’intelligenza umana e che, a chi viene, appare accogliente e stimolante. Abbiamo avuto un numero di panels e di relatori già grande e ci aspettiamo che possa crescere: il che richiede a tutti di riflettere su come fare ad accogliere una “fiera del sapere” nel cuore della città.
Quali iniziative ha in serbo per il futuro la European Academy of Religion e in che modo la proposta di questa nuova piattaforma può integrare le attività con le istituzioni di ricerca che già operano in questo ambito?
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La fondazione della European Academy of Religion ha avuto immediati effetti positivi su più piani: ha smussato l’atavico sospetto che divide storici e teologi, ha creato occasioni di scambio e di progettazione. Ad esempio durante la conferenza zero si è molto discusso di un bando europeo su “religious diversity” al quale sono state presentate 148 proposte. Per parte nostra, come fondazione per le scienze religiose è stato il momento in cui abbiamo definito e valutato un progetto europeo di collaborazione con guida a Bologna (un Infraia) e abbiamo impostato una proposta per iscrivere nella roadmap delle infrastrutture di ricerca europee una infrastruttura europea delle scienze religiose che, grazie all’apporto anche finanziario del Miur e della Regione, vuole creare nuove vie del sapere. Da decenni noi vediamo proliferare interpretazioni farlocche del terrorismo islamico: una perversione del “vero” islam che è invece è buono? Il disvelamento della “vera” natura dell’islam? Senza renderci conto che la violenza religiosa è una malattia che hanno o hanno avuto tutte le fedi: che si cura non con la “moderazione”, ma con una riflessione più profonda, e faccia capire che una fede vissuta nella mitezza è più autentica e non più moderata di una violenta. Ma questo richiede una semina di sapere storico-critico che deve far circolare metodi, libri, idee, percorsi dottorati. È questa la prospettiva che vuole immaginare un futuro di pace innaffiata dalla pensosità, e impedire un futuro violento innaffiato dalla ignoranza.
Si è chiusa il 22 giugno la “Conferenza zero” della European Academy of Religion, una piattaforma che ha proposto alle grandi società scientifiche, ai centri di studio, alle riviste e alle biblioteche di convergere, per confrontarsi in uno spazio aperto e inclusivo, su quelle che sono le molte dimensioni del fatto religioso e dell’esperienza religiosa in tutta la sua varietà. Giuristi, storici, filosofi, filologi tra cui Heinz Schilling, Dina Porat, Franco Cardini, Olivier Roy e Pierre Gisel (solo per citarne alcuni) dal 18 al 22 giugno, a Bologna, si sono scambiati idee e hanno presentato il risultato dei loro lavori scientifici in un programma di appuntamenti molto denso, che ha dato risultati indubbiamente positivi, in termini di visibilità sui media, di partecipazione degli specialisti e di coinvolgimento della città. Circa mille partecipanti accreditati per oltre 600 interventi, sette sedi tra le più prestigiose del centro storico di Bologna, 133 panel e oltre 200 sessioni di lavoro, lezioni, seminari scientifici, dibattiti e dispute, per un evento unico in Europa. Durante i cinque giorni si è tenuta anche l’Assemblea generale della European Academy of Religion, il cui Board e gli iscritti hanno approvato lo Statuto, di fatto dando forma giuridica a questo nuovo soggetto scientifico, un vero e proprio network internazionale di ricerca e studi sul tema dei saperi sulle culture religiose. L’appuntamento è per la prossima edizione, che sarà nuovamente a Bologna, dal 5 all’8 marzo 2018, sotto la direzione scientifica dell’Università di Aberdeen.
Sopra: Romano Prodi e Alberto Melloni durante una lectio nell’ambito della Ex Nihilo Zero Conference 2017
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cultura Premio Estense 2017 Aquila d’oro a Giovanni Bianconi
di MS, interviste a cura di Andrea Mainardi È “L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone” il titolo del libro con cui Giovanni Bianconi si è aggiudicato la prestigiosa Aquila d’oro per la prima edizione del Premio Estense targata Confindustria Emilia Area Centro. A contendersi il podio con lui, gli altri volumi finalisti della 53^ edizione del riconoscimento nato dall’intento dell’allora presidente degli industriali ferraresi, Giorgio Piacentini, che dal 1965 celebra l’eccellenza del giornalismo italiano per raccolte di articoli che riflettano la realtà in cui viviamo: “Poteri forti (o quasi)” di Ferruccio de Bortoli, “Trita Carne” di Giulia Innocenzi e “Punto” di Paolo Pagliaro. A decretare il vincitore nel corso della cerimonia di premiazione al Teatro Comunale di Ferrara “Claudio Abbado”, lo scorso 23 settembre, l’analisi congiunta della giuria tecnica presieduta da Guido Gentili, direttore de Il Sole 24Ore, e composta da Andrea Cangini, Aldo Cazzullo, Alberto Faustini, Laura Lorenzi, Folco Quilici, Alessandra Sardoni, Marcello Sorgi e Luca Traini, e di quella popolare formata da 40 lettori ferraresi. Giovanni Bianconi raccoglie il testimone da Sabrina Pignedoli, che si è aggiudicata il Premio Estense nel 2016 con il suo “Operazione Aemilia”, un coraggioso reportage con cui la cronista de “Il Resto del Carlino” ha ricostruito le trame dell’infiltrazione della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. Nel corso della cerimonia è stato inoltre consegnato a Giovanni Floris il 33° “Riconoscimento Gianni Granzotto. Uno stile nell’informazione”, istituito nel 1985 in memoria di Gianni Granzotto, presidente delle Giurie dell’Estense per 20 anni. 100 fare
Il vincitore del Premio Estense 2017, Giovanni Bianconi, il direttore de “Il Sole 24Ore”, Guido Gentili, il presidente e il vicepresidente di Confindustria Emilia, Alberto Vacchi e Riccardo Maiarelli
La giornalista Cesara Buonamici, Riccardo Maiarelli, il vincitore del Riconoscimento Gianni Granzotto, Giovanni Floris, e Renzo Iorio, presidente del Gruppo Tecnico Cultura e Sviluppo di Confindustria
L’eredità del giudice Giovanni Falcone
“Le dita di Brusca spingono la levetta verso il basso. Un boato squarcia l’aria, il fumo nero che immediatamente si leva dalla strada non consente di vedere più nulla. Sono le ore 17.56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992”. A 25 anni dalla strage di Capaci, Giovanni Bianconi, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, fa un quadro che si discosta dalle celebrazioni seguite alla morte del giudice Giovanni Falcone: “Ho voluto raccontare una storia che avevo imparato attraverso il mio lavoro negli anni in cui Falcone è stato osteggiato. Aveva intrapreso il contrasto alla mafia come una missione, in questo però ha trovato molti ostacoli, sia da parte della politica, che della magistratura. Non è sempre stato considerato un eroe”.
Bianconi, quali sono stati gli ostacoli maggiori?
È stato considerato prima uno sceriffo, poi uno che serviva una o l’altra parte politica. All’interno della magistratura ha subito tante umiliazioni, dovute alle invidie dei colleghi e alla difficoltà a riconoscerne la leadership. Non è stato nominato ‘consigliere istruttore’, neppure ‘alto commissario antimafia’. Non è stato eletto al CSM e non sarebbe stato nominato ‘procuratore nazionale antimafia’. E poi c’erano i mafiosi che, dall’inizio del ‘Maxi Processo’, hanno cercato di ucciderlo.
Quali cambiamenti ha portato la strage di Capaci nella lotta alla mafia?
Il paradosso di questa storia è che solo dopo la morte di Falcone sono stati messi in campo quegli strumenti antimafia che lui avrebbe voluto: dalla super procura, alla legislazione speciale tuttora in vigore, dalla legge sui pentiti al carcere duro.
Questo in qualche modo attenua la tesi sugli stretti legami tra politica e mafia?
Lo Stato si è mosso perché costretto a reagire. Dopo la strage di Capaci fu scritto il decreto legge sul carcere duro e la legislazione sui pentiti, ma se non ci fosse stata la strage di via D’Amelio, probabilmente sarebbe scaduto o approvato in modo molto edulcorato. Quindi che la politica non fosse particolarmente entusiasta delle leggi antimafia è un dato di fatto.
Che cosa l’ha colpita di più della personalità di Giovanni Falcone?
Io l’ho conosciuto in particolare nel periodo romano, quando veniva accusato di essersi venduto alla politica e di avere abbandonato la frontiera della lotta alla mafia. Di questo soffriva molto, però aveva anche molta ironia. Resisteva a questi attacchi, aveva una grande determinazione che soltanto mezza tonnellata di tritolo è riuscita a spezzare.
Lei parla di tanta solitudine, di tanti nemici, però c’erano anche degli amici, oltre a Paolo Borsellino. Chi erano?
L’hanno sostenuto in tanti, anche all’interno della magistratura: Ilda Boccassini, il CSM, Gian Carlo Caselli, Pietro Grasso, Piero Vigna. Tra i politici, nell’ultimo periodo sicuramente Martelli. Sul piano personale, a Roma aveva sviluppato amicizie nuove anche nel mondo dello spettacolo e della cultura, per esempio con Renzo Arbore, e con lo scrittore e giornalista Mario Pirani.
Quanto ha inciso la reazione dell’opinione pubblica alla morte di Falcone?
Penso tanto. La mafia contava sulle opinioni contrastanti sul suo conto, che avrebbero limitato lo sdegno. Invece, nonostante maldicenze e isolamento, soprattutto dopo la strage di via D’Amelio, si è verificato un tale sdegno nell’opinione pubblica, al quale la politica non ha potuto non dare seguito.
Aveva ragione Falcone: “Per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese”?
È andata esattamente così. Solo dopo la sua morte è riuscito ad essere credibile e a far realizzare, almeno in parte, quello che predicava.
Giovanni Bianconi
L’ASSEDIO - TROPPI NEMICI PER GIOVANNI FALCONE
Einaudi
Nel 25° della strage di Capaci, il giornalista e scrittore Giovanni Bianconi ricostruisce l’ultimo periodo della vita di Giovanni Falcone, attraverso i documenti e i ricordi dei protagonisti. Un’indagine nella storia, che rivela la condizione di accerchiamento vissuta dal giudice palermitano, stretto tra mafiosi, avversari nel mondo della magistratura e della politica e individua coloro che lo contrastarono e tentarono di delegittimarlo e isolarlo. Rendendolo così un bersaglio perfetto per i corleonesi di Totò Riina.
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Ferruccio De Bortoli
POTERI FORTI (O QUASI)
La Nave di Teseo
Il diario, anche autocritico, dell’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. Oltre quarant’anni di storia del nostro Paese e del mondo vissuti da uno speciale punto di osservazione. Scena e retroscena del potere in Italia, dalla finanza alla politica e alle imprese, dai media alla magistratura, con i ritratti dei protagonisti, il ricordo di tanti colleghi, episodi inediti, fatti e misfatti, incontri, segreti, battaglie condotte sempre a testa alta e personalmente: per la prima volta Ferruccio de Bortoli, un punto di riferimento assoluto nel giornalismo internazionale, racconta e si racconta. Con molte sorprese. “I buoni giornalisti, preparati, esperti, non s’inventano su due piedi. Ci vogliono anni. Cronisti attenti che vadano a vedere i fatti con i loro occhi, non fidandosi dell’abbondanza di video, sms, tweet e post su Facebook. Giornalisti indipendenti, con la schiena dritta, che non cedano alla comoda tentazione del conformismo”.
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Quarant’anni di giornalismo da leggere d’un fiato, ritratti di grandi protagonisti di quei ‘poteri forti (o quasi)’, come titola l’ultimo libro di Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera dal 1997 al 2003 e dal 2009 al 2015. “Il dramma è che non esistono più, ne avremmo bisogno. I poteri forti del passato avevano molti difetti e diverse colpe. Ma esprimevano un senso di responsabilità nazionale”.
De Bortoli, perché rimpiangere quei ‘poteri forti (o quasi)’?
La forza e il prestigio di un Paese dipendono anche dai propri poteri forti. Non possiamo negare, per esempio, che la Volkswagen sia un potere forte tedesco, cosi come la Deutsche Bank. Un Paese che ha poteri forti che rispettano le regole e hanno un senso di responsabilità nazionale esprimono una certa leadership, e sono in grado di difendere al meglio i propri interessi.
Qual è l’intervista a cui è più legato affettivamente?
È difficile da dire, posso citare quella con Papa Francesco che ha fatto anche discutere, perché vi si individuavano le linee del pontificato. Ne ricordo una con Giovanni Agnelli, alla quale sono particolarmente legato.
Perché?
Con Agnelli ho avuto un rapporto sincero. Aveva aspetti, da un lato mitici, dall’altro un po’ scostanti. Però era interessante intervistarlo perché era fonte di definizioni che avrebbero fatto la storia del costume italiano. Era anche molto interessato a fare un certo effetto e aveva un senso estetico della parola e non soltanto dello stile. E poi rispondeva a tutte le domande, per educazione.
Parliamo del giornalismo in Italia. I social l’hanno rivoluzionato, lei però definisce ‘surfisti della realtà’ coloro che usufruiscono del web come unica fonte di notizie. Non c’è il rischio, per la stampa tradizionale, di combattere una battaglia di retroguardia?
Io sono grande frequentatore dei social, amo Twitter forse più di Facebook; sono su Instagram. Sono una grande occasione di libertà. Gli user-generated content sono una forma di giornalismo dal basso che, a volte, è più efficace di quella professionale. Arricchiscono il linguaggio, non lo impoveriscono. E penso che la diffusione della rete faccia emergere dei talenti che prima non eravamo in grado di scorgere. Soprattutto rappresenta una possibilità di certificare ed esercitare un controllo sulla certezza delle notizie. Detto questo, dobbiamo guardarci dai pensieri unici e dalle conseguenze indesiderabili di un conformismo che la rete tende a creare per la sua struttura algoritmica, mettendo insieme le persone che la pensano allo stesso modo e disabituandole a un esame critico della realtà. Per informarsi bisogna fare un po’ più di fatica, non si può essere dei soggetti passivi, se si è passivi si è più sudditi e meno cittadini.
Nel suo libro cita alcuni episodi della sua carriera, come il furto della fotografia sulla scena di un omicidio, per poter pubblicare l’articolo, e di alcuni piccoli o grandi rimorsi. Come l’hanno cambiata questi episodi?
Il giornalismo si accompagna ad un certo cinismo di fondo, a un’immagine vicina al detective della letteratura di genere, che ne ha viste di tutti i colori e non si emoziona davanti a nulla. Credo invece che un buon giornalista debba anche emozionarsi e partecipare ai drammi dell’umanità. Penso che un’etica professionale sia più importante dei ferri del mestiere, come una certa spregiudicatezza dell’agire.
Una delle più grandi giornaliste di cui lei è stato direttore è stata Oriana Fallaci. Come ricorda il vostro rapporto?
Oriana è stata una grande scrittrice. Aveva un carattere impossibile, ma aveva la forza d’animo, una lingua straordinariamente ricca e la capacità dei grandi intellettuali di vedere le linee che stanno sotto la superficie della realtà. E lei lo ha fatto, dividendo. Oriana era una persona che divideva, perché quando si hanno passioni forti si divide, non si unisce. E questa è una grande qualità.
Il Made in Italy alla prova del mattatoio
Un ricovero in ospedale per un’infezione al rene e la lettura di un libro che le cambia la vita: Se niente importa di Jonathan Safran Foer, che racconta le vite terribili degli animali negli allevamenti intensivi negli Usa. “Ho deciso di scoprire se anche in Italia è così e purtroppo ho scoperto di sì”. Parte da qui l’inchiesta di Giulia Innocenzi, giornalista e scrittrice che ha scoperchiato una realtà di “luoghi orribili in cui costringiamo gli animali a vivere in condizioni da incubo”. Purtroppo il Made in Italy di cui siamo tanto orgogliosi spesso nasce da qui.
Innocenzi, la situazione che descrive riguarda tutto il nostro Paese?
Oltre l’80% della carne e del formaggio Made in Italy, tra cui molti dei consorzi di eccellenza, vengono dagli allevamenti intensivi, dove alcuni animali sono ancora più sfortunati di altri, come il 99% dei conigli, che vive in gabbie e passano la vita con le zampette su un reticolato. E l’Italia è il secondo produttore al mondo di carne di coniglio. O come le povere scrofe, costrette a vivere in gabbie quasi più piccole di loro. I numeri sono impressionanti.
Da quando hai condotto questa inchiesta ha dovuto affrontare insulti, querele…
Ho avuto querele, insulti di allevatori, insulti sui social. Però ho avuto anche delle belle soddisfazioni, come le tantissime persone che, grazie al mio lavoro, hanno aperto gli occhi e hanno rivalutato le proprie scelte alimentari: chi riducendo la carne, chi addirittura diventando vegano. Un’altra soddisfazione è stata la collaborazione con il comandante dei NAS dell’epoca, Claudio Vincelli, grazie al quale quasi tutti gli allevamenti che ho mostrato sono stati sanzionati o sequestrati. Su altre questioni purtroppo ho l’amaro in bocca…
Quali?
Per esempio quella del macello di bufalini in provincia di Frosinone. Grazie alle telecamere nascoste abbiamo mostrato un’illegalità costante nella macellazione di questi cuccioli, con delle immagini letteralmente atroci. Purtroppo oggi quel macello è aperto e la Procura di Frosinone, nonostante sia stata presentata denuncia e portato il materiale delle immagini andate in onda, ha preferito mettere sotto inchiesta chi aveva messo le telecamere anziché i proprietari del macello. Finché non verrà aperta l’indagine nei confronti delle persone che torturavano gli animali e che forse ancora li torturano, davanti ai veterinari della Asl, io non avrò pace.
Suo padre è cacciatore, ha avuto dei conflitti in famiglia dopo il suo cambiamento, o hanno cambiato idea i suoi familiari?
I miei non sono assolutamente cambiati, a differenza delle mie amiche che hanno rivoluzionato la loro alimentazione, anche se nessuna è diventata vegetariana o vegana. Invece mio papà, mentre si mangia una fettina di prosciutto, mi dice che ho assolutamente ragione e che gli allevamenti intensivi andrebbero tutti chiusi. Però intanto la mangia… (sorride).
Un amante della carne che voglia tenere conto delle sue scoperte, senza però rinunciare a mangiarla, come può fare?
Sicuramente è meglio un allevamento estensivo di uno intensivo, dove almeno l’animale può vivere all’aria aperta. Purtroppo però, al momento, in Italia, non ha nessuna possibilità di sapere a livello certificato se il prosciutto o il salame che vuole mangiare viene da un allevamento intensivo o estensivo. Perché manca l’etichettatura trasparente dei metodi di allevamento, una misura a costo ‘0’ che però difficilmente verrà adottata, perché i produttori non hanno alcun interesse a far sapere la verità al consumatore.
Giulia Innocenzi
TRITACARNE
Rizzoli In un’inchiesta senza precedenti sull’industria italiana della carne e dei formaggi dell’eccellenza “Made in Italy”, Giulia Innocenzi affianca animalisti, veterinari e allevatori per svelare un mondo oscuro in cui gli animali sopravvivono a malapena in spazi microscopici, sporchi, senz’aria; costretti a vere e proprie torture, malati e imbottiti di antibiotici che finiscono sulle nostre tavole. Come possiamo mangiare tranquilli sapendo che tutto ciò ci si ritorce contro, con crisi sanitarie occultate di continuo? Qual è il costo dei nostri piatti? Possiamo scegliere di aprire gli occhi e cambiare le nostre abitudini alimentari. Perché, sostiene la giornalista riminese, mangiare con consapevolezza può salvare la nostra vita. E il nostro mondo.
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Paolo Pagliaro
PUNTO - FERMIAMO IL DECLINO DELL’INFORMAZIONE
il Mulino L’epidemia che ha investito l’intero sistema dei media sembra inarrestabile, ma invece può essere arginata e persino sconfitta. Fact-checking e verifica dei fatti vs bufale. Colonizzato dai social network, il terreno dell’informazione è minato da post-verità. Contano più le emozioni che i fatti. Più le suggestioni che i pensieri. Più lo storytelling che le storie. Più la propaganda che le notizie. E dunque più le bugie che il racconto veritiero dei fatti. È un virus che infetta la rete, l’informazione, la politica – ridotta a comunicazione – e l’etica pubblica. Ma arginare e sconfiggere questa deriva si può. Come? A partire dal sistema dell’editoria professionale, che deve conquistare il terreno dell’informazione digitale, a cominciare dagli smartphone dei più giovani.
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Post-verità, storytelling, fake news. Ci interessa ancora scoprire la verità? Secondo Paolo Pagliaro, giornalista, coautore di Otto e mezzo, nella comunicazione dei social network ormai contano più le emozioni dei fatti, la propaganda delle notizie.
Pagliaro, perché bisogna diffidare dai social?
Non contrappongo i social all’informazione tradizionale. Dico che c’è un problema generale che riguarda sia i new media che gli altri. Si tratta della crescente irrilevanza della verità, sostituita dalla post-verità e comunque dall’emozione; lo storytelling, il sensazionalismo, il bisogno di acchiappare l’attenzione di chi ci legge per poi monetizzare l’attenzione attraverso la pubblicità. È un meccanismo in cui i social e il web fanno da amplificatori. Contesto che la disintermediazione sia stata un passo avanti.
E come se ne esce?
Facendo sì che l’editoria professionale incominci a utilizzare la rete e la faccia propria. Il problema è che attraverso il web circolano contenuti molto inaffidabili semplicemente perché l’editoria professionale lascia sguarnito il campo. Già nel mondo ci sono esempi positivi in tal senso, come il Washington Post, l’esperienza tedesca del Gruppo Springer, che dimostrano che se l’editoria si declina attraverso i nuovi canali digitali, la qualità migliora. Il nostro problema è che sugli smartphone non arrivi solo porcheria, ma anche notizie strutturate, secondo i canoni del giornalismo.
Quindi secondo lei anche i nostri grandi quotidiani sono indietro in questo?
Sì, sono indietro perché non arrivano sul cellulare dei nostri ragazzi. Anche se questa assenza ora si sta un po’ riducendo. L’informazione non è un fatto spontaneo che può essere sostituito dallo smartphone.
Perché si è arrivati a questo disinteresse per la verità? È solo un problema di comodità?
Non solo. Internet è un mercato in realtà molto ben organizzato, per garantire il profitto di dieci, forse anche meno, grandi player industriali. Di tutto il resto non ci si preoccupa, come del fatto che sui social vengano veicolate quantità impressionanti non solo di fake news, ma anche di minacce e attività spesso al di là della legge. E nessuno ne risponde, questo è il problema. I nostri ragazzi sono totalmente indifesi di fronte a questo bombardamento, spesso di sciocchezze. Io chiedo solo che di questi nuovi canali faccia uso anche l’editoria professionale, che si declini anche al digitale, conquistando quegli spazi e non facendosene conquistare, come sta accadendo ora.
Come affronta questa sfida nel suo lavoro quotidiano di giornalista?
Per me la sfida principale è verificare se la realtà e la percezione che ne abbiamo sono la stessa cosa. Siccome questo non è frequente, occorre ridare contezza ai dati oggettivi, ai numeri e al lato nascosto, per mettere in discussione la percezione che è di tipo emotivo o comunque politicamente deviata della realtà. Bisogna cercare di capire se quello che diciamo è vero. Ci sono argomenti come il nostro rapporto con l’Europa, l’immigrazione, la sicurezza, sui quali si raccontano un sacco di balle. Ciò non vuol dire che non c’è un problema sicurezza, che non c’è un problema immigrazione: certo che ci sono, però non sono quelli che ci dicono. L’Italia non è sola di fronte al problema immigrazione. Nel libro cito alcuni dati: l’Ungheria, ad esempio, in rapporto alla popolazione ha quindici volte il numero di immigrati rispetto a noi. La Svezia, l’Austria, la Germania, l’Olanda il Lussemburgo, la Finlandia il Belgio… In Europa sono almeno una dozzina i Paesi che negli anni trascorsi hanno assorbito un numero di rifugiati, in proporzione alla popolazione, molto superiore a quello dell’Italia. Questo è un dato che nessuno sa.
Premio Gianni Granzotto 2017 Il giornalismo alla prova, tra velocità ed esattezza
A pochi giorni dal debutto della nuova stagione del talk show su La7, “Di Martedì”, Giovanni Floris racconta cosa significa e come si è trasformato in pochi anni il mestiere del giornalista. In un tempo in cui tutti vivono in diretta, non solo chi fa televisione.
Floris, che importanza ha per lei ricevere questo premio legato alla sua attività giornalistica?
Un premio così autorevole, consegnato da una giuria così autorevole, non può che darmi una grande soddisfazione.
Com’è cambiato il suo mestiere nell’era dei social media? Tornerebbe indietro o è meglio oggi di ieri?
Indietro non si torna mai. Ma il giornalista non cambia lavoro con l’avvento dei social network. Se vuole svolgere bene il suo compito diventa però più rigoroso.
Eppure è cambiato un mondo...
Il giornalista è stato tale con l’arrivo della radio, della tv, fa il suo lavoro anche con internet. Cambiano però alcuni metodi di lavoro, cambia la facilità di accesso alle fonti, si complica e diviene più delicato il lavoro di verifica. Oggi si comunica in maniera estremamente veloce e frammentata, il ciclo delle notizie e delle informazioni è attivo 24 ore su 24 e passa dai cellulari, dalle tv all news, da internet, ma il giornalista fa sempre (e se è bravo fa solo) il giornalista. Le notizie arrivano subito, e subito bisogna classificarle e selezionarle: è necessario essere sempre pronti, non puoi prenderti troppo tempo per ragionare. Tutti vivono in diretta, non solo chi fa tv.
Ci sono dei rischi per l’informazione?
La velocità della comunicazione e l’aumentare del numero delle fonti disponibili
tende a ridurre in tutti noi la soglia di attenzione. Il bravo giornalista la deve invece sollevare. Nel mondo della rete veloce e sempre aperta ci si rischia di distrarre, di selezionare poco, di credere a molto. La nostra pazienza si esaurisce, non si sta molto ad ascoltare. Non c’è più tempo, si chiedono risultati subito, ed è giusto che sia così. Non si può e non si deve scegliere tra velocità ed esattezza, tra modernità e credibilità. La sfida del giornalista è garantire tutto ciò, ma in fondo lo è sempre stata.
La ricerca della verità è ancora interessante per il pubblico? Oppure ci si accontenta di storie ‘verosimili’ e talvolta
di ‘bufale’? Cosa significa per lei cercare quotidianamente la verità? Cercare la verità vuol dire orientarsi in una giungla di possibili verità. Tenere la mente aperta, essere critici con se stessi e con gli altri. Praticare il dubbio, mettersi alla prova. Sono sicuro che la verità esiste, ma in realtà non possiamo mai essere totalmente sicuri che sia quella che stiamo raccontando noi. Dice la verità chi prende in considerazione la possibilità di poter essere smentito, prima o poi.
Ha recentemente criticato e definito immaturi i politici 40enni di oggi: perché è così difficile il passaggio generazionale? C’è qualche eccezione?
Le generalizzazioni sono sempre sbagliate. Io ho parlato del rischio che possa passare un’immagine di questo tipo. Che alcuni atteggiamenti della classe dirigente più in vista possano far pensare che i 40, 50enni siano poco preparati, approssimativi, sempre in cerca di una soluzione veloce e semplice a problemi complessi. Non credo siano tutti così, penso anzi che il tratto della generazione formatasi negli anni ‘80 sia diverso, con un pragmatismo attento e consapevole. fare 105
cultura
Revolutija Avanguardie russe in mostra al MAMbo
di MS
L’ arte delle avanguardie russe è uno dei capitoli più importanti e radicali del modernismo. Il periodo compreso tra il 1910 e il 1920 ha visto nascere, come in nessun altro momento della storia dell’arte e a un ritmo vertiginoso, scuole, associazioni e movimenti d’avanguardia diametralmente opposti l’uno all’altro. Raccoglierli in un unico grande contenitore e raccontarli è il prezioso obiettivo della mostra “Revolutija - da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky. Capolavori dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo” che il MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna ospiterà dal 12 dicembre 2017 al 13 maggio 2018. L’esposizione, prodotta e organizzata da CMS.Cultura in partnership con il Comune di Bologna e l’Istituzione Bologna Musei e realizzata in collaborazione esclusiva con il Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, sarà inoltre affiancata da alcune iniziative collaterali e manifestazioni cittadine legate al centenario della Rivoluzione di Ottobre, che avranno appunto nella mostra il proprio fulcro. “Il nostro proposito è mettere in luce quante e quali arti, così diverse tra loro, nacquero in Russia tra i primi del Novecento e la fine degli anni ’30 e anche riportare all’attenzione non tanto della critica o degli addetti ai lavori, quanto del pubblico, la produzione di artisti come Repin, Petrov-Vodkin o Kustodiev, rimasti nell’ombra a causa
Kazimir Malevich, Sportsmen, olio su tela, 1930-31 ©State Russian Museum, St. Petersburg
dell’enorme successo di altri quali Chagall, Malevich o Kandinsky, che pure sono presenti in mostra. Chagall e Kandinsky hanno lasciato la Russia nel 1922 e sono quindi stati i primi ad essere conosciuti in Europa, mentre Malevič ha acquisito notorietà perché le sue opere sono state prima portate in Europa e poi, nel 1955, esposte al Guggenheim di New York. Altri, rimasti in Russia, negli anni ’30 erano considerati formalisti e la loro produzione non veniva esibita neanche in patria. La prima mostra di Petrov-Vodkin, ad esempio, è stata allestita nel 1966 al Museo di Stato Russo a fare 107
Vassilij Kandinsky, Su bianco (I), olio su tela, 1920 ©State Russian Museum, St. Petersburg
Ilya Repin, 17 ottobre 1905, olio su tela, 1910 ©State Russian Museum, St. Petersburg
A sinistra: Marc Chagall, Promenade, olio su tela, 1917 ©State Russian Museum, St. Petersburg
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San Pietroburgo e, pronta da sei mesi, non ha potuto aprire al pubblico perché il potere centrale non era abituato a promuovere opere che non fossero sociorealiste, così come imposto dal regime dal ’32 in poi”, spiega Evgenia Petrova, vicedirettore del Museo di Stato Russo. Oltre 70 opere, capolavori assoluti provenienti da San Pietroburgo, racconteranno dunque gli stili e le dinamiche di sviluppo di artisti quali Nathan Altman, Natalia
Sopra: Natan Altman, Ritratto della poetessa Anna Akhmatova, olio su tela, 1915 ©State Russian Museum, St. Petersburg,
Goncharova, Kazimir Malevich, Wassily Kandinsky, Marc Chagall, Valentin Serov, Alexandr Rodchenko e molti altri, per dar conto della straordinaria modernità dei movimenti culturali della Russia d’inizio Novecento: dal primitivismo al cubo-futurismo fino al suprematismo costruendo, contestualmente, un parallelo cronologico tra l’espressionismo figurativo e il puro astrattismo. Ad affiancare l’esposizione, in tutta Bologna, un ricco programma collaterale a cui prenderanno parte, in primis, l’Università degli Studi di Bologna e le principali istituzioni culturali cittadine. “La mostra rappresenta l’occasione per accendere i riflettori su una città che si presenta per la prima volta come un grande laboratorio in grado di lavorare su un tema comune e affrontarlo da molteplici punti di vista. L’esposizione e i temi che implicitamente questa propone saranno sviluppati in tutta la città da istituzioni, associazioni, commercio e realtà produttive, per attivare e valorizzare il territorio medesimo. Un articolato progetto a cura del Dipartimento educativo MAMbo, in collaborazione con Senza Titolo e CMS. Cultura, è in fase di sviluppo per soddisfare il pubblico delle scuole, delle famiglie e dell’utenza libera in un rapporto di partnership pubblico/privato per la definizione di best practice”, commentano gli organizzatori di Revolutija.
UDRIVE® 4.0
FONDAZIONE ALDINI VALERIANI
La quarta rivoluzione industriale, così come promette capovolgimenti dell’organizzazione del lavoro e delle competenze per fi gure operative e specialistiche, avrà un impatto “disruptive” anche sui livelli dirigenziali. Si profi lano tempi duri per le posizioni di middle management che rischiano di essere superate dai nuovi modelli organizzativi che si andranno a delineare. Alcune caratteristiche di verticalità tipiche lasceranno spazio ad una orizzontalità complessa da gestire.
Stiamo (già) vivendo il passaggio da un’epoca dove prevalevano modelli di leadership basati su una struttura di potere di tipo gerarchico e/o di tipo tecnocratico ad un‘epoca che vedrà necessariamente prevalere una struttura di potere centrata sull’azione. Nelle imprese più innovative vediamo già affermarsi un modello di leadership dialogica, dove il livello di delega, autonomia e corresponsabilizzazione assicura una comunicazione fl uida, circolare, in veloce e continua alternanza fra i capi e i team, sempre più spesso virtuali e delocalizzati.
Diventare (non gestire) il cambiamento
In questo scenario i tradizionali modelli di competenza e di individuazione dei talenti non sono più praticabili perché sono fi gli di un’altra era industriale, e risultano poco adeguati per affrontare un mondo sempre più V.U.C.A. (terminologia tratta dagli studi strategici militari per descrivere lo scenario internazionale caratterizzato da Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity).
Sappiamo che in passato il compito del manager era pianifi care, organizzare, decidere e controllare, in sostanza gestire dati e risorse in un quadro di riferimento tendenzialmente stabile.
Il quantum leap cognitivo necessario per assestarsi a livello professionale e mantenere un ruolo da protagonista nell’era 4.0 non richiede di imparare a gestire il cambiamento bensì di “diventare il cambiamento”, modifi cando il punto vista.
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Siamo al passaggio dalla gestione effi ciente delle risorse assegnate alla creazione di nuove visioni, di concepire nuovi schemi di gioco, per rispondere proattivamente ad un mondo sempre più mutevole e incerto. Le persone, i capi in primis, saranno perciò sempre più chiamate ad interpretare e fronteggiare le situazioni integrando “in tempo reale” 3 prospettive:
1. soggettiva, che scaturisce dalle conoscenze in possesso e dalle esperienze rielaborate secondo i propri orientamenti valoriali, bisogni, interessi, motivazioni. 2. relazionale, che scaturisce dal dialogo e dall’interazione con gli altri. 3. sistemica, che scaturisce dalla lettura dai macro-fattori “ambientali” e defi nisce l’ampiezza della propria “visione” d’insieme.
STRATEGIC THINKING
Le capacità-chiave nella nuova era: Il modello UDrive® 4.0
Si tratta di una sfi da avvincente e Fondazione Aldini Valeriani, da anni all’avanguardia negli strumenti di Assessment delle competenze e delle potenzialità professionali, ha elaborato un nuovo modello di diagnosi e valutazione specifi co denominato UDrive® 4.0. Il modello è declinato sui comportamenti attesi dai capi e dai leader protagonisti di Industry 4.0, e nasce integrando il focus sulla qualità delle interazioni e sulla leadership dialogica con gli strumenti cognitivi necessari per trattare la complessità, tollerare le ambiguità, gestire problemi defi niti in modo incompleto ed, in questo quadro, identifi care INTRAPRENEURSHIP
AZIONE
AGILITY
soluzioni concrete ed effi caci. Un mix di capacità e attitudini che delineano il profi lo di riferimento composto da 4 macro fattori, come sintetizzato dalla fi gura seguente.
Un protagonista di Industry 4.0, che sia un project manager, il capo di una funzione aziendale o di un’area di business, dovrà misurarsi con la sua fl essibilità reattiva nel passare da una posizione all’altra. Saper fornire una visione strategica (Strategic Thinking) ma anche saper prendere decisioni agili in un quadro dinamico e ambiguo (Agility). Mostrare doti di intraprendenza e orientamento al rischio (Intrapreneurship) ma anche competenze di coaching e facilitazione del dialogo all’interno dei proprio gruppo di lavoro (Commitment). In sintesi, dovrà saper bilanciare al meglio la Visione e l’Azione.
COMMITMENT
VISIONE
UDrive®
4.0 è il viaggio verso la scoperta e lo sviluppo delle risorse fondamentali per dare linfa al proprio progetto professionale in uno scenario ricco di incognite e di opportunità inesplorate. Perché per arrivare al traguardo è importante correre con le scarpe giuste, che si tratti di velocità, mezzofondo o maratona. Ma quando la corsa si fa dura solo l’immaginazione ci consente di volare come un aquilone, ridando senso, scopo e dunque nuova energia alle nostre fatiche.
Informazioni:
Elisabetta Zanarini Responsabile Consulenza Fondazione Aldini Valeriani elisabetta.zanarini@fav.it
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Marianna Saguatti Marco Taddei
news emilia
CIAO JIMMY
Lo scorso 1° agosto ci ha lasciato Roberto Jimmy Kerkoc, già vicepresidente vicario di Unindustria Bologna e membro del Consiglio di Presidenza di Confindustria Emilia Area Centro.
Dall’unione dei Consorzi Energia, di cui era presidente, al supporto costante per la media impresa che ha presieduto dal 2007 fino al 2011 con un importante impegno personale; dal coinvolgimento nel territorio nazionale con Federlegno Arredo, alla partecipazione attiva in qualità di vicepresidente di BolognaFiere, Roberto, con un’incessante perseveranza, ha condiviso e finalizzato tutti gli obiettivi associativi, sempre attento alla crescita dei nostri territori.
L’Associazione vuole anche ricordare l’imprenditore vivace ed il socio impegnato, ma soprattutto lo spessore morale di una persona veramente buona di cui sentiremo tutti la mancanza.
INDUSTRIA 4.0 IN DIECI PUNTI
Il termine Industria 4.0 è oramai ampiamente diffuso, anche se non sempre è chiaro nel concreto quali tecnologie vi siano alla base e quale impatto esse avranno sulle imprese. Forse considerarla una rivoluzione industriale può sembrare eccessivo, ma il po-
tenziale cambiamento che si cela dietro questa espressione dovrebbe essere compreso da tutti, al fine di guidare la propria azienda attraverso questa trasformazione. Per questo motivo con la guida interattiva “Industria 4.0 in dieci punti” Confindustria Emilia Area Centro supporta le aziende associate nella comprensione di questo paradigma e le aiuta ad orientarsi in modo semplice e immediato. Per informazioni: Area Ricerca e innovazione Confindustria Emilia Area Centro Filippo Forni e Francesca Baccolini tel. 051 6317209.
LIMES: IL POSTO DELL’ITALIA TRA USA E GERMANIA
In collaborazione con Limes, rivista Italiana di geopolitica, lo scorso 22 giugno presso la sede bolognese dell’Associazione sono stati presentati due numeri della rivista: “A chi serve l’Italia” e “Usa-Germania: duello per l’Europa”. È stata infatti proposta una ricerca condotta da Limes sulla simbiosi economica dell’Italia del Nord con la Germania. Il Settentrione fa parte della sfera geoeconomica tedesca, incidendo così un limes germanico nella penisola italiana, separando un Nord integrato nell’Europa tedesca da un Centro-Sud che non ha valore agli occhi di Berlino. Inoltre, in ottica germanica, il triangolo industriale che conta non è Milano-Torino-Genova, ma Milano-Bolzano-Bologna. Proprio la nostra
Foto di Elisabetta Baracchi
città chiude un’area in cui si concentra il 60% dell’interscambio totale fra il nostro Paese e la Germania. Tanta dipendenza rischia però di avere forti conseguenze strategiche. Lo scontro, ormai palese, fra Trump e Merkel è solo la punta dell’iceberg di un duello fra Stati Uniti e Germania che va preparandosi da tempo. Berlino, preso atto del fallimento dell’UE, vuole tutelare la propria economia consolidando la sua sfera d’influenza. Washington è contraria all’emersione di un egemone in Europa e risponde rabbiosa. L’Italia si trova nel mezzo, strattonata e indecisa fra l’atlantismo e le convenienze economiche tedesche. Per discutere questo scenario Confindustria Emilia Area Centro ha messo attorno a un tavolo gli autori della ricerca di Limes, Dario Fabbri e Federico Petroni, con una rappresentante dell’economia bolognese, Sonia Bonfiglioli, presidente del Gruppo Bonfiglioli, un esponente della politica regionale, Ruben Sacerdoti, responsabile di Sprint-ER, che si occupa dell’internazionalizzazione delle imprese emiliano-romagnole, e Guido Caselli, dirigente di Unioncamere Emilia-Romagna. fare 113
Lo scorso 17 luglio Pietro Ferrari è stato eletto presidente di Confindustria Emilia-Romagna per il quadriennio 2017-2021. Il Consiglio di Presidenza di Confindustria regionale, composto dai presidenti delle organizzazioni territoriali Confindustria Emilia Area Centro, Confindustria Romagna, Confindustria ForlìCesena, Confindustria Piacenza, Unindustria Reggio Emilia e Unione Parmense degli Industriali, nonché dai Presidenti dell’Ance Emilia-Romagna, di Confindustria Ceramica, della Piccola Industria e dei Giovani Imprenditori lo ha eletto all’unanimità. Pietro Ferrari succede a Maurizio Marchesini, che è stato alla guida degli industriali dell’Emilia-Romagna dal giugno 2012. Nato a Modena nel 1955, laurea in Ingegneria civile edile all’Università di Bologna, Ferrari è presidente dell’azienda familiare Ing. Ferrari Spa, che festeggia in questi giorni i primi 100 anni di attività. Vicepresidente di Confindustria Emilia-Romagna dal 2002 al 2008 e presidente di Confindustria Modena dal 2008 al 2014, Ferrari è componente dal 2015 del Consiglio Generale di Confindustria e, dal 2016, del Gruppo tecnico credito e finanza di via dell’Astronomia.
L’EMILIA DEI MOTORI UNA FILIERA CHE GUARDA AL FUTURO
Lo scorso 7 giugno, nell’Aula Magna dell’Accademia Militare di Modena, Confindustria Emilia Area Centro - in collaborazione con la Fondazione Cassa di risparmio di Modena e la Fondazione Democenter - ha organizzato un convegno per analizzare le strategie di sviluppo della competitività della filiera automotive regionale, oggi molto frammentata, fortemente concentrata sulla meccanica e in grado di collaborare con gli OEM su produzioni di piccola serie. Si è trattato della seconda edizione dell’appuntamento sul distretto motoristico “Emilia dei motori” che quest’anno si è concentrato sull’importanza della filiera. Dopo i saluti istituzionali e l’apertura dell’amministratore delegato di Hpe Coxa, Andrea Bozzoli, esponenti del mondo industriale ed accademico si sono confrontati in due distinte tavole rotonde “L’importanza della filiera: crescere insieme per crescere tutti” e “Università: quale formazione per il capitale umano della filiera”, moderate da Ilaria Vesentini, giornalista de “Il Sole 24 Ore”, sui principali obiettivi di sviluppo della filiera. A chiudere i lavori Palma Costi, assessore alle Attività produttive della Regione Emilia-Romagna, che ha analizzato un progetto di sistema per il futuro dell’automotive.
ADDIO A BRUNO NIGELLI
È mancato lo scorso 22 giugno, all’età di 75 anni, Bruno Nigelli, imprenditore e collezionista di motociclette d’epoca. Fondatore della Nifo, azienda meccanica di Monte San Pietro, in provincia di Bologna, di cui aveva già lasciato le redini al figlio Roberto, Nigelli aveva unito alla vocazione per la produzione di componenti meccanici destinati a grandi case automobilistiche e motociclistiche la passione per i marchi più importanti della storia motociclistica bolognese, di cui raccoglieva i pezzi più gloriosi all’interno della sua officina-museo di San Martino in Casola, divenuta meta di visitatori ed appassionati del settore.
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Al via il 16 ottobre il piano di comunicazione, interna ed esterna, per la promozione della mission di Confindustria Emilia Area Centro e la diffusione del nuovo brand dell’Associazione. “Cuore manifatturiero d’Europa. Valori, Innovazione, Persone per accelerare la crescita”: questo il testo scelto per evidenziare la forza e le peculiarità di Confindustria Emilia Area Centro, una grande aggregazione di imprese che rappresenta uno dei principali distretti manifatturieri economici del Paese e un’eccellenza che vince anche sui mercati europei e internazionali. Valori, innovazione e persone sono caratteristiche che fanno parte del DNA del nostro territorio e il riferimento all’accelerazione della crescita vuole richiamare il senso di dinamicità dell’azione quotidiana svolta dall’Associazione. Nella pagina a fianco, l’immagine scelta per la campagna di comunicazione e il piano di affissioni su tutta l’area vasta.