![](https://assets.isu.pub/document-structure/210217073620-6af79ee887502d0215e9ce264a90ab70/v1/f3c71b9e351d2173785041e6f36ba01d.jpg?width=720&quality=85%2C50)
4 minute read
Il vaccino nel dibattito giuslavoristico
Le posizioni dei massimi esperti di diritto del lavoro sul tema della gestione dei lavoratori che ne rifiutino la somministrazione e delle eventuali conseguenze.
di ANDREA MARSONET, Area Lavoro di Confindustria Trento
UNO dei temi di maggiore ri- Alcuni sostengono che tale obbligo si possa desumere indirettalevanza, in questo momento, è mente dall’articolo 2087 del Codice civile sulla tutela delle conquello della vaccinazione anti Co- dizioni di lavoro, che prevede che il datore di lavoro sia tenuto vid-19: argomento di grande attua- a garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti. Ma un filone lità prima per la loro conquista, più rigoroso sostiene che tale dovere non si possa estendere fino poi per la distribuzione e infine a comprendere l’imposizione di un vaccino pur non escludendo per la somministrazione. che – come sostiene Attilio Pavone, noto giuslavorista - un rifiuto È proprio quest’ultimo aspetto a immotivato da parte del dipendente possa essere valutato dal sollevare svariate questioni di di- punto di vista disciplinare, stante la severità che da sempre caversa natura: sociale, morale, economica e giuridica. Questioni che pongono la tematica all’ordine del giorno, con i contributi e le opinioni di svariati esperti, su tutti i canali di informazione. In particolare, l’aspetto principale che sta prendendo piede in seguito all’avvio della campagna vaccinale, e al rifiuto di una parte di destinatari a ricevere il vaccino, è quello della possibilità di rendere obbligatorio il vaccino. Va anzitutto precisato che ad oggi non esiste alcuna disposizione che sancisca l’obbligatorietà della vaccinazione per i lavoratori, nemmeno per quelli appartenenti a determinate categorie classificate come “a rischio”. L’assenza di una norma istitutiva dell’obbligo di vaccinazione anti Covid è fondamentale, in quanto la stessa Costituzione, all’articolo 32, prevede che nessuno possa essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
ratterizza la giurisprudenza del lavoro in tema di salute e sicurezza. Ancora poi, c’è chi sostiene - come l’autorevole Pietro Ichino - che il suddetto obbligo possa avere fonte contrattuale. Il professore sostiene infatti che anche senza che venga emanata una legge ad hoc, opportuna ma non indispensabile, i rapporti contrattuali privatistici siano idonei a sostenere la diffusione della copertura vaccinale – laddove questa sia concretamente praticabile - in quanto misura di protezione, sulla base del rischio sussistente per la salute delle persone. A coloro che rifiutino di sottoporsi alla vaccinazione, secondo Ichino, potrà essere inibito di accedere a un ambiente di lavoro nel quale la loro presenza sia considerata fonte di un maggior rischio per la salute altrui, parallelamente a quanto potrebbero prevedere altri rapporti contrattuali, quali quello di trasporto, di albergo, o di ristorazione…dove la riserva di legge di cui all’articolo 32 della Costituzione non vieta affatto che venga richiesto un certificato di vaccinazione. Nel suddetto caso quindi il professore ritiene sconsigliabile sia il licenziamento disciplinare che quello per giustificato motivo oggettivo, caldeggiando la sospensione della prestazione ove non siano possibili misure alternative, quali ad esempio lo smart working esclusivo. A tal proposito, essendo diverse, recenti e in continua evoluzione le correnti di pensiero in merito al tema dell’obbligatorietà dei vaccini, altrettanto controversa e dibattuta è la tematica della possibilità di licenziare il dipendente che rifiuta di sottoporsi al vaccino. Tale opzione viene spesso trattata in temi semplicistici spostando pericolosamente sul datore di lavoro l’onere di imporre una vaccinazione la cui – eventuale – imposizione spetta solo al legislatore per espressa previsione contenuta nella citata norma costituzionale. In capo al datore di lavoro restano invece altre possibilità fondate su valutazioni legate alla tutela della salute e sicurezza della popolazione aziendale. In particolare, Giampiero Falasca, anch’egli noto giuslavorista, sostiene che il datore di lavoro che apprenda che un dipendente, pur avendone avuta la concreta possibilità, non ha accettato di vaccinarsi, debba valutare l’idoneità dello stesso allo svolgimento della mansione in relazione all’attività concretamente svolta dal dipendente. Qualora tale idoneità fosse compromessa dalla mancata vaccinazione, il datore dovrebbe – ove possibile – collocare in smart working il dipendente oppure cambiargli le mansioni. Se nessuna di queste opzioni fosse praticabile, il datore – stante la temporanea inidoneità al lavoro del dipendente – potrebbe collocare il lavoratore in aspettativa non retribuita. È indubbio che in questo momento le posizioni sul tema siano diverse e che la questione dei vaccini ai lavoratori, e le conseguenze di un eventuale diniego, seppur di grande attualità siano – purtroppo – non di immediata applicazione. Le dosi disponibili sono ancora poche e prima della popolazione attiva verranno, giustamente, vaccinate le categorie a rischio e quelle deboli. Quel che è certo è che il tempo che ci separa dalla fase di somministrazione di massa può giocare un ruolo fondamentale nell’efficacia della campagna vaccinale e nella responsabilizzazione – basata anche su una corretta e approfondita informazione – dei lavoratori. Questa è una delle grandi sfide che le aziende si trovano ad affrontare per uscire dalla pandemia ma c’è la grande consapevolezza da parte delle stesse - come affermato anche in una recente intervista dal presidente Fausto Manzana - del loro ruolo fondamentale in termini di responsabilità sociale; ruolo fortemente condiviso e percepito dai collaboratori.